Le Agenzie fiscali e l’elusione della sentenza della Consulta
SALVATORE GIACCHETTI, Agenzie fiscali: concorsi dirigenziali: il governo supera il suo precedente record di mancanza del comune senso del pudore normativo.
SALVATORE GIACCHETTI
(Presidente aggiunto onorario
del Consiglio di Stato)
Agenzie fiscali: concorsi dirigenziali: il governo supera il suo precedente record
di mancanza del comune senso del pudore normativo
SOMMARIO: 1- L’elusione in via amministrativa della sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015. 2- La progettata elusione in via normativa della sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015. 3- L’intra omnes previsto dal decreto interministeriale del 6 giugno scorso in favore dei dipendenti concorrenti che avevano riportato una condanna penale. 4- Un paio di evidenti interrogativi. 5- L’esigenza di tener presente il ricordo dello “scandalo petroli”.
1- L’Agenzia delle Entrate e quella delle Dogane, sorte nel 2000, hanno fondato l’attuale indubbio potere delle rispettive governance su una schiera di incaricati dirigenziali, in origine nominati discrezionalmente per un triennio e poi fidelizzati con il semplice ma ingegnoso sistema pratico di corrispondere una retribuzione annua fissa per un circa un terzo e discrezionale per il resto, costituito essenzialmente da un premio annuale di risultato; il che comportava che gli incaricati, una volta presa l’abitudine al premio, avrebbero poi fatto di tutto pur di accontentare qualsiasi ordine impartito dai superiori.
L’iniziale termine triennale venne poi ripetutamente prorogato con varie disposizioni legislative di comodo, per asserite urgenti e indifferibili esigenze di funzionamento delle Agenzie, ma in realtà per testare quella che le loro governance chiamano “affidabilità” (alias obbedienza incondizionata) e per evitare l’alea di un concorso dirigenziale pubblico che avrebbe consentito il temuto ingresso – dall’esterno o dall’interno – di soggetti privi di un’accertata “affidabilità”. Nel 2011 venivano finalmente banditi i prescritti concorsi pubblici.
A questo punto un minuscolo sassolino (alcuni dipendenti che avevano impugnato dinanzi al TAR i bandi perché il punteggio attribuito al titolo di incaricato dirigenziale era tale da non essere superabile neppure da un premio Nobel) ha bloccato la manovra delle Agenzie. Infatti il TAR ha sollevato questione di legittimità costituzionale delle leggine di proroga; e la Corte Costituzionale con la sentenza 25 marzo 2015 n. 37:
– ha stabilito che il protrarsi delle suddette proroghe di comodo “ha contribuito all’indefinito protrarsi nel tempo di un’assegnazione asseritamente temporanea di mansioni superiori, senza provvedere alla copertura dei posti dirigenziali vacanti da parte dei vincitori di una procedura concorsuale aperta e pubblica”;
– ha negato che l’attribuzione di tali incarichi rispondesse effettivamente ad urgenti ed indifferibili esigenze di funzionamento;
– ha annullato tutte le suindicate disposizioni di comodo, rendendo di conseguenza nulli e quindi non più valutabili tutti gli incarichi attribuiti in base ad esse;
– ha indicato la strada obbligata di futuri concorsi realmente pubblici e non a risultato predeterminato.
Ma il ministro Padoàn, che già aveva lamentato pubblicamente che la Corte non avesse “facilitato il lavoro delle Agenzie”, dimenticando nella stupefazione del momento che la cosiddetta “facilitazione” avrebbe comportato il mettersi sotto i piedi la Costituzione, si è fatto convincere a seguire una via diversa.
Di conseguenza le Agenzie, d’accordo con Padoàn, hanno attribuito agli ex incaricati la qualità di POS-Posizioni Organizzative Speciali: et voilà, con un prodigio da resurrezione di Lazzaro, gli (ex) incaricati dirigenziali hanno ripreso di colpo le stesse funzioni con la nuova etichetta di POS. Il che in uno Stato normale avrebbe dovuto essere qualificato un artificio e un raggiro per eludere il dictum della Corte con il puerile escamotage di ridenominare in modo diverso (mantenendone invariato il contenuto) gli stessi incarichi dirigenziali in precedenza dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale.
Ne è conseguito che quei dipendenti che avevano presentato ricorso giurisdizionale al TAR avverso gli incarichi dirigenziali già dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale, per tentare di ottenere giustizia in concreto hanno dovuto ripartire da capo con un nuovo ricorso contro dette POS, dal momento che esse si presentavano come situazioni soggettive formalmente diverse dagli incarichi in origine impugnati, pur se ne avevano lo stesso contenuto sostanziale; si sono trovati in una sorta di maligno gioco dell’oca in cui, giunti ad un passo dal traguardo, si ha sempre la sfortuna di finire nella casella “Tornare alla posizione di partenza”. E hanno dovuto ripartire da capo con l’amara consapevolezza che avrebbe potuto anche ripetersi quel gioco perverso, predisposto da un’Amministrazione che non paga in proprio, che sa benissimo che il tempo gioca in suo favore e che pertanto mira allo sfinimento nervoso ed economico dei ricorrenti, determinato dal susseguirsi di decisioni giurisdizionali sempre favorevoli ma mai realmente satisfattive dei diritti e degli interessi azionati perché bloccate da contromisure elusive adottate dall’Amministrazione. E la ulteriore ripetizione c’è stata: perché in corso di impugnazione delle POS tali posizioni sono state sostituite dalle POT-Posizioni Organizzative Transitorie.
E quindi, ulteriore ricorso; e ulteriori spese per gli iniziali ricorrenti; mentre i vertici dell’Agenzia non pagano mai di persona. Per loro paga sempre Pantalone. Invece per i concorrenti defraudati delle loro legittime aspettative finora non ha pagato nessuno; si tengono il danno e la beffa. Ma violare scientemente e premeditatamente le sentenze costituzionali non è soltanto irrisione alla giustizia: è anche eversione dell’ordine costituzionale. Ma pare che al governo tutto ciò importi poco.
2- A questo punto governo ed Agenzie, considerata l’imprevista tenacia dei ricorrenti, hanno deciso di cambiare strada e di battere la via legislativa, anche perché approfondendo gli atti oggetto del ricorso amministrativo avverso il concorso erano risultati gravi comportamenti di rilievo penale che avevano provocato l’intervento della Procura della Repubblica di Roma, che avrebbe rilevato all’interno dell’Agenzia l’esistenza di una vera e propria organizzazione truffaldina finalizzata a far vincere il concorso per dirigente ai soli ex incaricati.
Di conseguenza gli attuali disegni di legge delega sulle Agenzie – a quanto sinora risulta – hanno previsto in sostanza il mantenimento ed anzi l’accrescimento di tutti i privilegi di cui esse attualmente godono; ed in particolare che esse possano con tutta tranquillità continuare a scegliersi discrezionalmente i dirigenti previa “selezione” – preclusa agli esterni – effettuata sulla base dei rispettivi “titoli” (che altro non potrebbero essere che proprio quegli incarichi dirigenziali – POS, POT, ecc. – dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale).
Infatti pende dinanzi al Senato la proposta di legge di “Riorganizzazione delle Agenzie fiscali”, che introduce misure:
a) che concordano con “un giudizio storico positivo” sulla pregressa esperienza delle Agenzie fiscali espresso nei rapporti “commissionati all’OCSE ed al FMI” (a pagamento?); giudizio che sarebbe interessante poter controllare, dato che gli stessi organismi pongono l’Italia al non invidiabile vertice dell’evasione fiscale europea;
b) “si rendono necessarie per fornire maggiore autonomia alle agenzie fiscali in materia finanziaria, organizzativa e di personale ed allo stesso tempo rafforzare la supervisione del Ministero e dell’economia e delle finanze”; finalità peraltro tra loro incompatibili: è come se si volesse aumentare il buio ed allo stesso tempo rafforzare la luce;
c) che rivendicano per le Agenzie l’autonomia finanziaria con esenzione dalla spending rewiew, l’autonomia di gestione del personale, l’autonomia dell’organizzazione interna e la riduzione degli specifici obiettivi previsti dalle attuali convenzioni tra Stato e Agenzie a “pochi obiettivi di carattere generale e strategico” (tradotto in volgare: riduzione ad obiettivi generici e fumosi, il cui mancato perseguimento sarebbe poi – com’è ovvio – difficilmente contestabile) con abbandono dell’attuale “pluralità eccessiva di micro-obiettivi” (tradotto in volgare: abbandono dell’attuale sistema agganciato ai minimi di risultati favorevoli nel contenzioso tributario, che essendo numeri sono difficilmente contestabili);
d) prevedono “un’opera legislativa di abrogazione di norme che contrastano con il regime della riforma”, dando così valore subcostituzionale alle norme della riforma.
In sostanza la proposta di legge riconosce alle Agenzie lo status eccezionale di soggetti che con i soldi pubblici (e cioè nostri) possono fare liberamente tutto quello che vogliono, senza nessun controllo, e che per di più con l’asserita corona d’alloro posto sulle loro testa dall’OCSE e dal FMI sarebbero talmente superiori a tutte le altre pubbliche amministrazioni da poter rivendicare il diritto non solo di essere esentata dalla quella revisione della spesa a cui si è assoggettata persino la Presidenza della Repubblica ma addirittura di pretendere un aumento delle proprie disponibilità finanziarie.
Il vero scopo della proposta di legge si ricava però da alcuni emendamenti abilmente dissimulati con etichette improprie e distribuiti tra vari articoli (e quindi non immediatamente identificabili). Tali emendamenti prevedono che gli attuali ex incaricati dirigenziali (e cioè i titolari degli incarichi già dichiarati illegittimi dalla Corte Costituzionale, incarichi che vengono ora illegalmente utilizzati come titoli valutabili e quindi legittimi) vengano inseriti nel ruolo dei dirigenti previo superamento di un generico corso di formazione (che per rafforzarne il peso che non ha viene definito “intensivo”) da concludere con una prova, beninteso orale (la governance delle Agenzie evidentemente non vuole correre ulteriori rischi), prova che non è espressamente previsto che debba essere necessariamente positiva.
Che l’attuale concorso dirigenziale a 69 posti nell’Agenzia delle dogane, se legalmente svolto, potrebbe aver avuto l’esito di non promuovere nessuno di tali incaricati e di premiare l’eventuale maggiore meritevolezza di altri concorrenti, non interessa evidentemente nessuno. Il governo ha altro a cui pensare.
L’opinione pubblica non è sufficientemente informata. E le Agenzie dal canto loro non hanno la generica necessità di ulteriori formali dirigenti, tanto è vero che da 16 anni funzionano tranquillamente senza di essi; hanno invece la specifica necessità di nominare dirigenti soltanto quei dipendenti già fidelizzati (anche se ritenuti capaci solo del copia e incolla) che costituiscono lo sgabello del loro potere. Di conseguenza ora stanno facendo di tutto (un tempo si diceva: stanno facendo carte false) pur di non acquisire dirigenti per i quali l’obbedienza alla Costituzione e alle leggi dello Stato potrebbe venire prima dell’obbedienza assoluta alla governance, e che quindi potrebbero far venire meno quello sgabello sotto di essa. Ma tutto questo significa che le Agenzie stanno lavorando solo per se stesse, ignorando del tutto l’imperativo costituzionale di servizio alla Nazione.
Su questa base era ragionevole pensare che il governo avesse stabilito il record storico di mancanza del pudore normativo.
3- Ma il governo, consapevole dei numerosi più che probabili rinvii a giudizio con cui dovrebbe a breve concludersi l’inchiesta della Procura della Repubblica di Roma e sollecitato – a quanto affermano talune parti politiche – dalla federazione D’Alema-Bersani-Visco boys, ha voluto stupirci e fare un passo avanti; e con decreto interministeriale Padoan-Madia del 6 giugno scorso ha collocato tra i “requisiti di accesso e modalità selettive” per il reclutamento dei dirigenti delle Agenzie fiscali il seguente art. 6:
“L’Agenzia che bandisce il concorso può procedere, in ogni momento della procedura, con atto motivato, all’esclusione dei candidati che abbiano riportato sentenze penali di condanna ancorché non passate in giudicato o di patteggiamento, diverse da quelle per le quali è ammesso il beneficio della sospensione condizionale della pena ai sensi dell’art. 167 c.p., tenuto conto dei requisiti di condotta e di moralità necessari per svolgere le funzioni di dirigente, nonché del tipo e della gravità dei reati commessi”.
Queste disposizioni mostrano di risalire a mani abili nel confezionare norme che implicano conseguenze, non apparenti a prima vista e che quindi sfuggono all’occhio inesperto, predisposte ad una illecita tutela di un interesse reale non indicato (in questo caso: l’interesse alla salvezza ad ogni costo del preesistente corpo di ex incaricati dirigenziali delle Agenzie fiscali).
3.1- In via preliminare va ricordato che gli (ex) incaricati dirigenziali sono ufficiali di polizia tributaria ed alcuni anche ufficiali di polizia giudiziaria. Ora requisito generale per l’ammissione agli organi di polizia è il non avere riportato condanne detentive per reati non colposi. L’art. 6 citato invece non fa nessuna distinzione fra reati colposi e non colposi; sicché le Agenzie fiscali si presenterebbero già in partenza con l’inquietante caratteristica di istituzioni che svolgono anche funzioni di polizia ma con personale a ridotta affidabilità penale.
Ad ogni modo – al limite; ma proprio al limite, e ovviamente previo conforme giudizio sul piano disciplinare – potrebbe essere accettabile ammettere alle procedure concorsuali chi sia stato condannato con la condizionale. Si tratta infatti di un soggetto che un giudice ha ritenuto colpevole di quello che comunemente si definisce “un errore di percorso una tantum” e che quindi dia affidamento di non commetterne ulteriori; sicché potrebbe essere comprensibile concedergli una possibilità di redenzione. Ma il citato art. 6, sia pure con una espressione alquanto contorta, fa riferimento a tutte le sentenze per le quali è – in astratto – ammesso il beneficio della condizionale (e l’art. 163 c.p. ammette il beneficio per tutte le sentenze di condanna o di patteggiamento ad una pena non superiore a due anni) e non alle sole sentenze che hanno – in concreto – concesso tale beneficio, che sono soltanto una frazione delle prime.
Ne consegue che vengono automaticamente ammessi anche quei condannati per i quali il giudice ha ritenuto che non ci fossero i presupposti per concedere la sospensione condizionale perché l’imputato non dava alcuna garanzia di emendarsi per il futuro e quindi doveva essere sottoposto a misure restrittive. In questo modo tutti i dipendenti condannati con pena sino a due anni, anche se implicitamente ritenuti da un giudice suscettibili di delinquere ulteriormente, anche se – al limite – già ospiti delle patrie galere, sono automaticamente e indiscriminatamente riconosciuti in possesso dei indicati “requisiti di condotta e di moralità necessari per svolgere le funzioni di dirigente” richiesti dal decreto interministeriale in questione; e quindi, con una logica da “legione straniera”, altrettanto automaticamente e indiscriminatamente sono riciclati come persone idonee a svolgere compiti dirigenziali con “disciplina ed onore” (art. 54 Cost.). Ne deriverebbe tra l’altro che costoro, se reclusi, avrebbero titolo a chiedere e ad ottenere un permesso “premio” per partecipare alla procedura concorsuale.
3.2- In secondo luogo viene capovolto il principio secondo cui se nel corso della procedura il candidato perde i requisiti penali per l’ammissione l’Amministrazione ha il dovere di escluderlo; atto dovuto meramente ricognitivo, che pertanto non richiede alcuna ulteriore motivazione. Si afferma invece che l’Agenzia non ha alcun dovere del genere; e che pertanto il condannato a qualsiasi pena non perde il diritto a partecipare al concorso, salva la facoltà dell’Agenzia di escluderlo successivamente “con decreto motivato”. Ne consegue che se l’Agenzia resta silente e non adotta alcun provvedimento di esclusione (come ovviamente farebbe per i propri fedelissimi, che sono essenziali per l’esercizio del libero potere delle Agenzie e che quindi esse sono disposte a difendere con le unghie e con i denti), il diritto del condannato si consolida rendendo di fatto immacolata la sua posizione. Si ha così un singolare ed illegittimo caso di silenzio “lustrale”, che consente al condannato che avrebbe dovuto essere escluso di restare a vita al suo posto per il solo fatto che l’Agenzia a suo tempo non ha fatto il suo dovere di buttarlo fuori.
Per i condannati ad una pena superiore ai due anni sarebbe poi attribuito alle Agenzie una sorta di potere di grazia per qualsiasi reato. Un potere assoluto e insindacabile. Vero è che dovrebbe essere adottato “con atto motivato”. Ma qualcuno ha mai visto la motivazione – pur prescritta – delle assunzioni massicce effettuate dalle Agenzie nel 2000, dell’affidamento degli incarichi dirigenziali, delle mediazioni tributarie, ecc. ?
3.3- In terzo luogo va considerato che il regolamento di disciplina delle Agenzia sancisce che il dipendente che ha ricevuto una sanzione disciplinare anche minima (ad esempio un rimprovero orale, perché un giorno è arrivato in ritardo in ufficio) o è comunque semplicemente sottoposto ad un procedimento disciplinare (che potrebbe anche concludersi con l’archiviazione) non può partecipare per un biennio a procedimenti concorsuali interni o pubblici. E’ quindi assurdo prevedere che il dipendente indagato disciplinarmente per mezzora di ritardo sia a priori escluso da un concorso o una selezione mentre il dipendente indagato penalmente per corruzione o addirittura condannato possa tranquillamente parteciparvi e per di più – per i condannati sino a due anni – senza alcuna (sia pur teorica) facoltà di esclusione da parte dell’Agenzia: si passa da un eccesso di rigore in caso di valutazione disciplinare ad un eccesso di lassismo in caso di valutazione degli effetti penali della condanna, quando – semmai – dovrebbe accadere il contrario, attesa la maggiore gravità di questi ultimi. Il rilevato eccesso di rigore fa ritenere che il potere disciplinare serva in tali casi ad un altro fine: quello di stoppare in partenza l’eventuale partecipazione di soggetti non graditi. In ogni caso la previsione dell’art. 6 è un distillato di irrazionalità e di incostituzionalità, con uno spiccato retrogusto di arroganza.
Che tutto questo dipenda dalla circostanza che i fedelissimi non incorrano mai in sanzioni disciplinari, applicate soltanto al resto del personale e che le condanne penali riguardino quasi sempre i dirigenti, effettivi e incaricati?
3.4- Va infine segnalata una situazione singolare, che già si presumeva esistere ma senza verne le prove, e che solo di recente è stata ufficialmente resa nota. Il 9 ottobre scorso, nel corso della trasmissione TV Striscia la notizia, l’onorevole Enrico Zanetti, non più vice ministro del MEF, si è sentito libero di riconoscere che gli accertatori delle Agenzie fiscali hanno il dovere – stabilito da un circolare riservata, “nero su bianco”, ha attestato Zanetti – di accertare sempre un quid pluris rispetto alla dichiarazione del contribuente.
Questa prassi corrisponde sia all’interesse dell’accertatore (che, per ciascuno di siffatti accertamenti ed indipendentemente sia dal loro importo sia dalla circostanza che il maggior accertamento venga effettivamente incassato, consegue un punto utile per il conseguimento del premio annuo di risultato) sia all’interesse delle Agenzie, che ogni anno possono far figurare trionfalmente il maggior importo accertato, che peraltro può consistere in una bolla di sapone dato che – di fatto – solo una minima parte dei maggiori accertamenti dà poi effettivamente luogo ad un maggior introito. Il sistema conta sul fatto che per le piccole somme il contribuente neanche reclama, dato che il fastidio non varrebbe la candela, e per le somme significative se reclama o ricorre avrà sicuramente ragione, come talvolta è lo stesso accertatore ad informarlo (tanto per lui la cosa è indifferente, dal momento che il punteggio del caso non gli sarà detratto).
Si viene però a creare un’evidente truffa sistematica pluriaggravata in cui tutti hanno qualcosa da perdere: il contribuente perde denaro e tempo; lo Stato subisce sia il danno di doversi fondare su dati fiscali taroccati sia la spesa di dover corrispondere premi di produttività ingiustificati; e l’accertatore viene a trovarsi tra l’incudine e il martello: perché se se non obbedisce all’ordine ricevuto rischia un procedimento disciplinare che può gravemente compromettere il suo ormai ordinario e consolidato ménage familiare, e se accerta (dolosamente) un quid pluris inesistente rischia di essere incriminato per truffa senza potersi trincerare dietro l’ordine ricevuto, dal momento che (art. 17 del T.U del 1957 sul pubblico impiego) il dipendente ha il dovere di non eseguire un ordine contrario alla legge penale. Ed è umanamente comprensibile che l’accertatore, trovandosi tra il rischio di un danno certo e immediato, qual è la sanzione disciplinare, e il rischio di un danno eventuale e futuro, qual è la sanzione penale, scelga la seconda opzione.
Le conseguenza di tutto questo è però una progressiva deriva verso l’assuefazione e la normalità dell’illegalità, che può far smarrire al personale la percezione del senso del limite tra il lecito e l’illecito, e addirittura avrebbe fatto sì che un intero concorso per dirigenti dell’Agenzia delle dogane venisse pesantemente truccato (come dovrebbe desumersi dalle recenti iniziative della Procura della Repubblica di Roma) per far vincere esclusivamente gli ex incaricati dirigenziali. Come segnalato dall’onorevole Riccardo Fraccaro ben 340 dipendenti delle Agenzie fiscali sono attualmente indagati. E’ con questo personale e sulle basi di questi metodi “educativi” che ora le Agenzie ritengono di poter pretendere il convinto appoggio e addirittura l’elogio delle istituzioni; e le istituzioni sono pronte ad accontentarle in tutto e per tutto.
4- A questo punto non si può fare a meno di farsi qualche domanda.
Le Agenzie fiscali quanti e quanto grandi scheletri hanno già archiviato nei loro armadi per avvertire l’assoluta necessità delle eccezionali e incredibili tutele dei propri condannati garantite dal citato art. 6, tutele che non hanno alcun riscontro non solo presso le altre amministrazioni ma addirittura presso le Agenzie stesse per quanto riguarda gli altri concorsi di ammissione?
Può un governo serio tollerare tutto ciò? Possono la Corte dei conti, le Procure della Repubblica e l’ANAC tollerare tutto ciò?
5- Per rispondere con conoscenza di causa alla prima domanda occorre attendere le conclusioni, che ci si augura prossime, della Procura della Repubblica di Roma.
Per quanto riguarda la seconda domanda si possono fare alcune considerazioni.
In una recente pubblicazione (La corruzione spuzza, Mondadori, 2017, pagg. 164-170) R. CANTONE e F. CARINGELLA hanno rilevato che la corruzione in Italia sta facendo un salto di qualità: “Dalla corruzione dei politici funzionale all’arricchimento personale e agli interessi della politica (e quindi, dei partiti) si è passati ad una corruzione che rischia di diventare il meccanismo di selezione di una classe dirigente funzionale agli scopi di vere e proprie organizzazioni criminali che accomunano mondo imprenditoriale, faccendieri e, in qualche caso, soggetti legati a gruppi malavitosi”, creando così un vero e proprio contropotere.
In questo caso parlare di “corruzione” è palesemente riduttivo: perché si tratta di un ben più vasto disegno eversivo o meglio sovversivo di cui la corruzione costituisce un semplice strumento, e ogni discorso di carattere giuridico perde di significato: la forza del diritto cede al diritto della forza.
Gli Autori appena citati non precisano in quali specifici ambienti si verifichi il fenomeno da essi rilevato; ma dall’analisi del testo sembra dover desumere che si tratti di un fenomeno ubiquitario. In questa situazione l’attenzione deve essere rivolta alle situazioni teoricamente più a rischio, sulla base della passata esperienza.
Ritorna pertanto alla mente il cosiddetto scandalo petroli che, proprio nell’area fiscale, negli anni settanta e ottanta ha visto un gigantesco traffico clandestino di prodotti petroliferi (si parla di evasione di migliaia di miliardi delle vecchie lire e cioè di miliardi di euro) che si protrasse dal 1973 al 1979, che venne messo in luce da Mario Vaudano, allora giudice istruttore a Torino, e da Felice Napolitano, allora giudice istruttore a Treviso, e che è stato oggetto del libro “Scandalo petroli. Corruzione elevata a sistema con poteri criminali ed occulti” scritto da Domenico Labbozzetta, allora sostituto procuratore della Repubblica a Torino, ed edito nel 2011 dall’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso. Ricorda l’Autore che l’inchiesta allora mise in luce l’esistenza di una “organizzazione monolitica… in cui ogni elemento perturbatore era prontamente isolato con severe normalizzazioni su chi – operatore economico o personale subalterno – costituiva un pericolo…La potenza dell’organizzazione criminale si manifestò con la forza e la consapevolezza di un contropotere in grado di resistere ad ogni contraccolpo e di condizionare gli stessi magistrati inquirenti….con la comprovata copertura che allo stesso venne fornita da alcuni apparati istituzionali dello Stato: partiti politici (percettori di rilevanti sovvenzioni) uomini di governo, dirigenti ministeriali, quasi tutti cementati da una comune adesione a quell’organizzazione eversiva che faceva capo alla loggia massonica P2, il ministro della giustizia svizzero, la mafia turca, cosa nostra, ecc.”.
Era inimmaginabile che tutto ciò potesse accadere. Ma è accaduto: e recenti casi giudiziari fanno ritenere che potrebbe accadere di nuovo.
Occorre quindi richiamare con fermezza il governo e il parlamento ad assumersi le loro responsabilità. Ne va della tenuta della democrazia.
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Documenti correlati:
SALVATORE GIACCHETTI, La difficile convivenza tra Agenzie fiscali, equità fiscale e buon andamento della pubblica amministrazione, in LexItalia.it, n. 7/2015, pag. http://www.lexitalia.it/a/2015/57857
SALVATORE GIACCHETTI, La chimera di una pubblica amministrazione “al servizio del cittadino” e la crescente trasparenza del “lato oscuro” delle Agenzie fiscali, in LexItalia.it, n. 4/2016, pag. http://www.lexitalia.it/a/2016/75054
SALVATORE GIACCHETTI, Agenzia delle Dogane, penultimo atto: la Procura della Repubblica individua una banda extralarga di “furboni del concorsone, in LexItalia.it, n. 9/2016, pag. http://www.lexitalia.it/a/2016/81914
SALVATORE GIACCHETTI, La tutela del whistleblower e la crescente divaricazione tra legge dello Stato e legge dell’Agenzia delle Dogane, in LexItalia.it, n. 3/2017, pag. http://www.lexitalia.it/a/2017/89181