FREE – Le Agenzie fiscali tra incarichi illegittimi, concorsi domestici e premi per accertamenti
SALVATORE GIACCHETTI, La difficile convivenza tra Agenzie fiscali, equità fiscale e buon andamento della pubblica amministrazione*.
SALVATORE GIACCHETTI
(Presidente aggiunto onorario
del Consiglio di Stato)
La difficile convivenza tra Agenzie fiscali, equità fiscale
e buon andamento della pubblica amministrazione
SOMMARIO: 1- La sentenza della Corte Costituzionale n. 37/2015. 2- La confederazione della pubblica amministrazione sorta a seguito dell’istituzione delle Agenzie fiscali. 3- La non edificante istoria degli incarichi dirigenziali presso talune Agenzie fiscali. 4- Istituzioni e rispetto della Costituzione. Il ruolo dell’Avvocatura dello Stato. 5- La non edificante istoria di un concorso “pubblico” a dirigente dell’Agenzia delle Dogane e Monopoli di Stato. 6- L’assurdo sistema degli accertamenti fiscali operati dall’Agenzia delle Entrate. 7- La società civile potrà riappropriarsi del suo futuro solo quando lo Stato si sarà riappropriato del suo passato.
1- La Corte Costituzionale, con sentenza n. 37/2015:
1) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme con cui, da dieci anni a questa parte, era stato istituito un sistema che consentiva ai vertici delle Agenzie fiscali di affidare – in via del tutto discrezionale e insindacabile, senza alcuna dimostrata valutazione di ordine meritocratico – incarichi dirigenziali asseritamente provvisori ma in realtà a tempo indeterminato, con conseguente congruo aumento retributivo degli incaricati;
2) ha riconosciuto che la motivazione addotta dalle Agenzie a sostegno del loro operato, e cioè la necessità e l’urgenza di dover coprire posti dirigenziali vacanti, era insussistente, dal momento che l’Amministrazione ben avrebbe potuto provvedere a ciò – e senza oneri per l’erario – mediante l’istituto della reggenza temporanea.
In buona sostanza la Corte Costituzionale, così come aveva a suo tempo sanzionato l’illegittimità del Porcellum, ha ora sanzionato l’illegittimità dell’attuale Dirigentellum, il nuovo mostro dell’ordinamento giuridico nazionale.
Il ministro Padoàn, appena conosciuta tale sentenza, ha dichiarato, con mestizia e sincero stupore, che la Corte Costituzionale “non ha facilitato il lavoro dell’Agenzia”.
Questa singolare dichiarazione crea in noi comuni cittadini una mestizia e uno stupore molto maggiori, che sul piano giuridico possono esprimersi con alcuni interrogativi:
1) può un membro – e di primario rilievo – delle Istituzioni dolersi ufficialmente di una sentenza della Corte Costituzionale?
2) aveva la Corte Costituzionale il “dovere” di facilitare il “lavoro” dell’Agenzia?
3) da quale livello deve cominciare l’ardua opera di prevenzione e contrasto della corruzione avviata dall’attuale Governo?
4) quali speranze può avere la società civile per il suo presente e per il suo futuro?
Per rendersi bene conto della questione è opportuno premettere una breve ricostruzione storica delle Agenzie fiscali ed una breve esposizione dei criteri da esse adottati nella scelta del proprio personale dirigente, criteri oggetto della citata sentenza della Corte Costituzionale che tanto ha meravigliato il ministro Padoàn.
2- Per ben comprendere la ragione per cui sono sorte le attuali Agenzie fiscali occorre tornare alla mentalità dominante negli ultimi decenni del secolo scorso.
In tale periodo l’indubbio progresso del tenore di vita sotto il profilo economico, e l’indubbia incapacità del settore pubblico di stare al passo con i tempi e di realizzare un analogo progresso organizzativo e operativo, avevano innestato nel pensiero economico scientifico dominante – e, di rimbalzo, nelle Istituzioni – una sorta di isteria collettiva fondata sullo svilimento del “pubblico” e sull’esaltazione del “privato”, secondo cui la migliore politica di uno stato moderno che volesse vittoriosamente competere con gli altri era quella di privatizzare tutto il privatizzabile e di sollecitare ciò che restava di pubblico ad agire secondo moduli privatistici di tipo contrattuale. Di conseguenza si attribuì alla privatizzazione il merito di promuovere uno sviluppo economico illimitato certificato da un parallelo continuo aumento del PIL.
Si tralasciò però di considerare che uno sviluppo economico illimitato è un evento tecnicamente possibile soltanto in un sistema fornito di risorse illimitate, quale non è il nostro pianeta, e che un continuo aumento del PIL non significa un identico proporzionale aumento del potere d’acquisto di ciascun cittadino, dal momento che può concentrarsi nel primo centile della popolazione (come avviene oggi) e può addirittura comportare una contemporanea regressione del potere d’acquisto dei centili inferiori (come pure sembra avvenire oggi: il cardinale Bagnasco ha attestato che l’attuale ripresa economica “ancora non si vede nelle parrocchie”).
Le manifestazioni più significative di questa isteria sono state il decreto legislativo n. 30 luglio 1999 n. 300 e la legge n. 11 febbraio 2005 n. 15. Il decreto n. 300/1999, sul piano strutturale, ha avviato una profonda trasformazione delle Pubbliche Amministrazioni, istituendo – tra l’altro – le Agenzie fiscali, concepite come enti pubblici economici e quindi abilitate a servirsi anche dei comuni poteri contrattuali di diritto privato. La legge n. 15/2005, sul piano procedurale, ha introdotto nell’art. 1 della legge 241 /1990 il principio innovatore del comma 1-bis: “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”.
Quest’ultima riforma meramente procedurale ha fatto sorgere un’infinità di problemi teorici e pratici, sui quali si può tranquillamente sorvolare dato che la norma non ha poi avuto significativa applicazione, perché i pubblici impiegati per lo più non se la sono sentita di abbandonare la tradizionale e collaudata via pubblicistica, che li esentava da particolari responsabilità, per avviarsi verso una nuova via privatistica in cui l’acquisizione della pur limitata libertà contrattuale concessa dalla legge presentava il risvolto negativo dell’assunzione di una responsabilità personale che, dati i tempi, poteva anche essere interpretata in chiave penalistica, sull’onda lunga di “mani pulite”.
La vera rivoluzione si è avuta con la creazione della Agenzie fiscali, dotate di propria personalità giuridica, alle quali sono stati ripartiti i settori operativi fino ad allora esercitati direttamente dal MEF, mediante una “convenzione” (in sostanza, un appalto di servizi) con cui:
– il Ministero stabiliva la programmazione strategica e nominava per un triennio (prorogabile) il Direttore dell’Agenzia e, su proposta del Direttore dell’Agenzia, nominava gli altri componenti del Comitato di gestione;
– il Comitato di gestione deliberava il piano di programmazione operativa, che una volta approvato a sua volta dal Ministero, veniva posto in attuazione;
– il Ministero non manteneva alcun diretto potere di vigilanza o di controllo sull’Agenzia (salvo il potere eccezionale di sostituire il Direttore con un proprio commissario);
– all’Agenzia era attribuita la possibilità di creare o di partecipare a consorzi e a società commerciali, con conseguente ragionevole previsione di poter disporre di numerosi posti di sottogoverno;
– l’unico controllo interno era affidato ad un apposito Audit interno, da scegliere però con il metodo Incalza, e cioè individuandolo non tra il personale del MEF (committente del servizio) ma tra il personale dell’Agenzia (appaltatore del servizio), e che quindi sarebbe necessariamente risultato un controllore dell’Agenzia a sua volta controllato dal Comitato di gestione dell’Agenzia stessa.
L’introduzione di questa innovazione, all’epoca, è stato reso possibile dalla convergenza di varie forze:
1) l’influsso dei poteri forti economico finanziari che avevano abilmente condizionato anche la dottrina economica (vedasi il Nobel per l’economia assegnato nel 1974 a Von Hayeck) creando il mito della libertà di concorrenza come bene e valore assoluto, e che – per essere più precisi – contando sulla loro forza volevano servirsi della libertà per soffocare la concorrenza; sicché avevano tutto l’interesse ad avere a che fare con un interlocutore necessario più “libero” e cioè più lontano da occhi indiscreti, e quindi ritenuto più malleabile;
2) l’interesse dei segretari dei partiti politici, che (salvo chi era già ricco di suo) tendevano ad assicurarsi il futuro creandosi, con i contributi statali ai rispettivi partiti, le rispettive fondazioni personali con eventuali vigneti di alto pregio; ed avevano quindi l’esigenza di tacitare amici e sostenitori con incarichi ad hoc, reperibili o nell’area delle Agenzie stesse o nell’area delle società ad esse collegate;
3) l’aspirazione della dirigenza pubblica a competere, sul piano retributivo, con la ben più remunerata dirigenza privata;
4) il miraggio della restante parte della burocrazia, che costituiva un ampio bacino di voti, di poter transitare, col tempo ed avendone i meriti e i necessari titoli professionali, ai vertici dell’istituzione, così come accadeva nel sistema disciplinato dal testo unico n. 3/1957;
5) la presenza di un sistema amministrativo antiquato e pieno di “lacci e laccioli”.
Insomma allora si pensò, in buona fede, che la privatizzazione avrebbe potuto costituire una panacea utile a tutto e a tutti. E qualcuno forse tenne presente anche il “metodo UE”, come candidamente confessato nel 1999 da Jean-Claude Juncker, allora presidente dell’Eurogruppo: “Noi prendiamo una decisione, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo un po’ per vedere cosa succede. Se non provoca proteste né rivolte, perché la maggior parte della gente non capisce niente di cosa è stato deciso, andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno”.
Le persone in buona fede avevano però omesso di considerare che, per quanto riguardava le neonate Agenzie fiscali:
sub 1) il ricorso a strumenti di diritto privato è utile solo a soggetti industriali o commerciali destinati ad operare in un mercato concorrenziale: sicché, in tutto il pur variegato panorama di soggetti di pubblico interesse, le Agenzie fiscali erano i soggetti meno adatti ad assumere i connotati di enti pubblici economici, sia perché non operanti in un mercato concorrenziale sia perché la disciplina delle loro attività continuava ad essere minutamente ed inderogabilmente regolata dalle leggi e dai regolamenti del settore, lasciando agli operatori margini di “libertà” contrattuale scarsissimi e comunque identici a quelli esistenti nel precedente regime ministeriale; sicché tutta l’operazione si risolveva in una mascheratura posta sullo stesso volto, dato che non modificava in nulla l’attività istituzionale, ed incideva soltanto su eventuali attività collaterali di tipo societario o commerciale di entità modesta se rapportata a quella istituzionale. Lo Stato si spogliava così di attribuzioni tipicamente sovrane, come se avesse dato in appalto le Forze Armate o la Giurisdizione.
In ogni caso, anche le Agenzie fiscali avrebbero dovuto continuare ad ispirarsi alla Costituzione, il cui valore primario non è la libera concorrenza, che altro non è che la riedizione incivilita (ma altrettanto letale) della legge della selezione naturale in favore del più forte (la legge della jungla), ma la dignità della persona umana, come oggi riconosce anche l’UE. nell’art. 1 dei suoi Diritti Fondamentali; il che presuppone non la selezione ma la mutua cooperazione nel segno dell’ “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.);
sub 3) non si vedeva perché nelle Agenzie la dirigenza, cambiando casacca ma continuando a fare lo stesso lavoro, avrebbe dovuto essere pagata il doppio o – spesso – di più;
sub 4) il miraggio di poter transitare, col tempo e per meriti di servizio, nei ruoli della dirigenza poteva rivelarsi – come di fatto è avvenuto – una mera utopia, dal momento che la mancanza di un serio controllo governativo avrebbe potuto indurre i vertici delle Agenzie a gestire discrezionalmente il dipendente personale dando valore prevalente a “meriti” di fedeltà personale al capo; sicché l’ambita dirigenza nelle Agenzie avrebbe potuto rivelarsi una casta chiusa, impenetrabile sia dall’esterno (in tempi recenti nessun candidato esterno ha potuto vincere i concorsi alla dirigenza) sia dall’interno (nel caso di elementi non fidelizzati);
sub 5) il ripetuto, stolido e ingeneroso richiamo ai “lacci e laccioli”, spesso proveniente da chi tra i lacci e i laccioli considera anche le manette, non teneva conto che il sistema amministrativo non lo fa la burocrazia pubblica, dato che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge” (art. 97 Cost.); e quindi non si possono logicamente imputare alla burocrazia pubblica farraginosità che sono state imposte dal legislatore. La scelta del decreto legislativo n. 300/1999 di cambiare la forma apparente del sistema anziché di modificare – aggiornandola e semplificandola – la sostanza delle leggi regolatrici dell’attività delle Agenzie fiscali lascia molto perplessi: ed allora costituì, in pratica, una ingenua dichiarazione di impotenza e/o di incapacità.
A ben vedere, quindi, appariva valida soltanto la ragione sub 2), e cioè l’interesse personale dei segretari dei partiti. Ma non sembra proprio che meritasse il plauso dei cittadini.
Si veniva così a realizzare un sistema in cui lo Stato, di fatto, cedeva in appalto a soggetti terzi, posti in posizione di parità dallo strumento convenzionale adottato per tale cessione, l’esercizio di fondamentali attività statali tipiche della sovranità, creando, di fatto, un sistema di tipo prefederale, in cui nell’ambito della programmazione strategica dello Stato, titolare formale del potere esecutivo, le Agenzie acquistavano un’ampia potestà organizzativa, limitata soltanto da eventuali interventi repressivi in sede giurisdizionale.
Un sistema di tipo prefederale articolato non su base territoriale ma su base funzionale; sistema che quindi nulla aveva a che vedere con le ideologie risalenti a Cattaneo e a Gioberti, oggi spesso richiamate in sede politica e che hanno costituito la base per il ribaltamento della piramide degli enti pubblici territoriali operata nel 2001 dall’attuale art.114 della Costituzione: ideologie ispirate all’esigenza di avvicinare le istituzioni ai cittadini, a quel “popolo” teorico detentore della sovranità, e che traggono la loro legittimazione costituzionale anche dalla considerazione di essere fondate sul suffragio del popolo, al quale sono soggette a rispondere quanto meno politicamente. Le Agenzie fiscali si presentano invece come soggetti contrattualmente equiordinati allo Stato e che – salvo macroscopici eccessi, che le competenti magistrature possono reprimere- sul piano organizzativo ed operativo rispondono solo a se stesse, all’insegna del “libera Agenzia in libero Stato”; il che non sembra affatto in linea con l’ordinamento costituzionale.
Da quell’errore di partenza era prevedibile che potessero conseguire i problemi organizzativi del personale ed operativi che poi di fatto si sono realizzati, e che hanno richiesto l’intervento correttivo della Corte Costituzionale.
3- Infatti, – la nomina politica (e quindi non per normale progressione di carriera ma – di regola – tra gli esterni) dei vertici delle Agenzie poteva creare la conseguente necessità, specie per i nominati esterni, di crearsi uno staff di loro piena fiducia.
Ciò in concreto è avvenuto mediante l’affidamento di incarichi dirigenziali assegnati sulla base di una selezione non ufficialmente ed esternamente motivata e soprattutto conclusa con un affidamento in via temporanea e revocabile: il che consentiva ai vertici di valutare nel tempo la “affidabilità” (intesa nel senso di “sicura obbedienza al capo”) di tali soggetti, e di scartare quelli che, non dando altrettante garanzie, fossero da considerare “inaffidabili”.
Una volta accertata l’affidabilità sorgeva però la conseguente necessità di stabilizzare nel tempo tutti gli “affidabili”, malgrado le norme che limitavano nel tempo gli incarichi dirigenziali. A ciò si provvide con l’ausilio di compiacenti leggine a catena, che aderendo alla prospettazione di alcune Agenzie secondo cui esigenze straordinarie e inderogabili rendevano necessario prorogare tali incarichi nell’interesse della funzionalità delle stesse (esigenze straordinarie e inderogabili che la Corte Costituzionale ha dichiarato insussistenti) hanno ripetutamente prorogato il termine di scadenza degli incarichi in questione, ed i relativi poteri dell’apparato dirigenziale sul personale dipendente.
In tempi recenti, poi, la situazione di potere dell’apparato dirigenziale sul personale dipendente si è ancora più accentuata perché un provvidenziale parere dell’Avvocatura Generale dello Stato (questa volta Padoàn non può dire di non essere stato aiutato) ha ritenuto di poter desumere dal testo unico n. 3/1957 e dal decreto legislativo n. 165/2001(senza però indicare l’iter logico seguito) che su tutti i dipendenti della pubblica amministrazione gravi il dovere di denunciare eventuali illeciti disciplinari da loro incidentalmente rilevati. Da ciò, secondo l’Avvocatura, conseguirebbe che anche i dipendenti dell’Agenzia delegati dall’Autorità Giudiziaria a svolgere indagini, e che sono quindi tenuti al rispetto del relativo segreto investigativo ai sensi degli artt. 379 bis c.p. e 329 c.p.p., siano comunque tenuti a comunicare agli organi disciplinari dell’Agenzia eventuali illeciti disciplinari emersi nel corso dell’indagine (e cioè, in pratica, ad avvisare i colleghi che l’Autorità Giudiziaria sta indagando su di loro) perché nei loro confronti opererebbe la scriminante dell’art. 51 c.p. (adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica).
Ma in primo luogo un dovere penalmente rilevante di una gravità del genere, e che non ha alcun riscontro nel settore dell’impiego privato non soltanto in Italia ma anche – a quanto risulta – nell’Unione Europea, avrebbe richiesto una esplicita “norma giuridica”, e non potrebbe essere semplicemente desunto (o meglio, presunto), dal momento che – in pratica – impone a tutti i pubblici dipendenti il dovere di spionaggio, trasformandoli in una sorta di polizia segreta della propria Amministrazione, che vede così sensibilmente rafforzato il suo controllo sul personale dipendente. Ma questa situazione, propria di passati regimi totalitari e palesemente contraria all’attuale assetto costituzionale, oggi non può essere accettata da nessuno stato democratico.
In secondo luogo, nessuno degli articoli invocati dall’Avvocatura fa desumere (o meglio presumere) alcunché al riguardo; semmai la presunzione è in senso contrario, dal momento che, se un dovere del genere esistesse davvero, il nuovo istituto del whisleblowing (art. 54 bis del decreto legislativo n. 165/2001, incautamente citato dall’Avvocatura), che presuppone la facoltà e non l’obbligo di denuncia dell’illecito, sarebbe privo di senso, perché non avrebbe alcun senso introdurre una facoltà di comportamento dove già esiste un obbligo di quel comportamento; ad anzi, paradossalmente, esporrebbe ad un procedimento disciplinare il dipendente che indirizzi la propria denuncia all’ANAC o alla Corte dei conti anziché alla propria amministrazione.
Infine, non è mai stato messo in discussione l’art. 17, comma 3, del t.u. n. 3/1957, che pone il divieto al pubblico impiegato di violare la legge penale anche se ciò gli viene formalmente ordinato.
Pertanto, parlando a titolo personale, se fossi un pubblico dipendente che esercita mansioni investigative di polizia giudiziaria su delega dell’Autorità Giudiziaria, se intendessi violare il segreto investigativo in favore della mia Amministrazione non conterei poi molto sulla possibilità di avvalermi legittimamente della scriminante dell’adempimento di un dovere.
4- Se quindi la Corte Costituzionale non fosse tempestivamente intervenuta, a circa 150 incaricati dirigenziali dell’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli di inossidabile affidabilità, che– previo un concorso al quale accennerò dopo – si intendeva trasformare in dirigenti pleno iure, sarebbe stato così affidato il compito di dirigere alcune decine di migliaia di non dirigenti di non nota affidabilità; cristallizzando così una sfera di potere suscettibile di operare al di fuori di un controllo diretto continuo dello Stato.
La Corte Costituzionale è quindi intervenuta un attimo prima che fosse superato quello che lo spensierato Juncker aveva definito “punto di non ritorno”. Nessuno ovviamente dubita della serietà e delle buone intenzioni degli attuali vertici delle Agenzie, che indubbiamente hanno operato – sia pure con strumenti dichiarati illegittimi – nell’interesse del buon andamento della propria Amministrazione e non per il proprio tornaconto personale. Ma, come tutte le situazioni fondate sul fatto, questo non può far dimenticare che la situazione oggettiva che si sarebbe creata sarebbe stata potenzialmente eversiva dell’ordinamento democratico e, in altre mani, avrebbe potuto avere pesanti ricadute negative. E stato quindi un bene che un arco di tempo di azione amministrativa sia stato trasformato in un passato prossimo illegittimo, tutto da dimenticare.
Ma questo passato prossimo, che ormai si credeva trapassato, è inaspettatamente riapparso dalle parole di un autorevole membro del Governo, che ha ritenuto di poter fondatamente dolersi della circostanza che la citata sentenza della Corte Costituzionale “non ha facilitato il lavoro dell’Agenzia”, omettendo di rilevare che – come peraltro ben sapeva dalla sentenza – il lavoro in questione era stato un lavoro illegittimo e quindi “facilitarlo” avrebbe costituito un’ulteriore e ben più grave illegittimità, inescusabile in quanto proveniente dalla Corte Costituzionale. Nessuno pensa di disconoscere l’indubbia professionalità di economista di questo membro, al quale si può al limite riconoscere l’attenuante di non essere un giurista; ma nessun componente delle Istituzioni, come ha rilevato recentemente il Presidente Renzi, può gettare discredito su altre Istituzioni, e soprattutto non può invocare un aiuto alla Corte Costituzionale per cristallizzare una situazione non solo illegittima ma anche potenzialmente eversiva.
Ci sono stati ministri indotti a dimettersi per molto meno, magari per un orologio o per un vestito sartoriale, che nella logica corrente a quel livello possono anche passare – con un po’ di buona volontà – anche per normali regali d’uso. Ma qui è in gioco molto di più: è in gioco l’esistenza stessa di una pubblica amministrazione al servizio della Nazione (art. 97 Cost.) e quindi del cittadino (art. 1 del decreto legislativo n. 33/2013), e quindi funzionale allo schema di stato democratico tracciato dalla Costituzione.
Ed è a dir poco molto singolare che il suddetto membro del Governo, invitato a dare chiarimenti, in sede di risposta ad una interrogazione parlamentare relativa al comportamento dell’Agenzia, lo abbia fatto…limitandosi a leggere la memoria difensiva che l’Avvocatura dello Stato aveva presentato in sede di dibattito dinanzi la Corte Costituzionale. Per questo membro, insomma, bisognava continuare ad operare all’insegna del “non vedo, non sento, non ascolto”, come se la decisione della Corte non esistesse affatto; il che fa comprendere che aria continui a tirare nelle alte sfere ministeriali, che a quanto risulta starebbero ipotizzando di riconoscere, ai titolari di incarichi dirigenziali illegittimamente conferiti, una sorta di usucapione dell’incarico, previa leggina in tal senso. Mostro su mostro.
5- Può essere illuminante ripercorrere la svolgimento del citato concorso dirigenziale, il terzo mostro.
L’agenzia delle Dogane bandisce un concorso dirigenziale pubblico per esami, previa selezione per quiz, per coprire i posti affidati in via provvisoria ad un ampio numero di incaricati dirigenziali.
A questo punto un componente della commissione esaminatrice, dirigente generale dell’Agenzia, organizza un corso di formazione previo inviti ad personam; corso al quale partecipa un folto gruppo di incaricati dirigenziali. Il corso resta così sconosciuto non solo ai concorrenti esterni (pur trattandosi di concorso pubblico) ma anche ai concorrenti interni ed al restante personale non dirigenziale (circa il 99% del totale). Nel corso viene esaminato in particolare l’argomento della restitutio in integrum in sede disciplinare.
Nello stesso periodo lo stesso dirigente di vertice membro della Commissione d’esame dirama una circolare sul bunkeraggio (termine per me prima sconosciuto, che significa rifornimento di combustibile delle navi), indirizzata soltanto ai dirigenti ed agli incaricati dirigenziali, di cui quindi la stragrande maggioranza del personale resta all’oscuro; circolare ultraspecialistica contenente istruzioni operative, che non viene nemmeno pubblicata nel sito dell’Agenzia (ma solo sul sito regionale), e di cui nessun concorrente interno e nessun concorrente esterno può quindi venire a conoscenza, dal momento che si trattava di istruzioni pratiche che non si trovano in alcun libro di testo.
Si parte quindi con la prova preselettiva.
I quiz, molto specialistici, vengono superati da tutti gli incaricati dirigenziali, che riescono tutti a dare percentuali elevatissime di risposte esatte a tutte le domande – evento che, a mia memoria, prima di allora non si era mai verificato in alcun concorso bandito dalla Pubblica Amministrazione – anche a quelle relative a settori di cui essi non avevano professionalmente alcuna esperienza. Quando si dice la fortuna.
Dopo di che si prosegue con gli esami scritti.
In sede di esame scritto a Roma (prova pratica e prova teorica) non vengono ammessi i testi dei contratti collettivi (testi pur pacificamente ammessi in tutti i pubblici concorsi, e che trattano anche la restituito in integrum), e i temi estratti, beninteso a sorte, risultano essere proprio la restitutio in integrum (prova teorica) e il bunkeraggio (prova pratica); il che ovviamente mette fuori combattimento non solo tutti gli esterni ma anche tutti gli interni non partecipanti al corso di formazione (quando si dice la sfortuna) e fa inserire nella graduatoria dei vincenti tutti i partecipanti al corso di formazione, che erano stati tutti destinatari della provvidenziale circolare interna a diffusione limitata (quando si dice la fortuna, anzi la doppia fortuna).
Il risultato finale sarebbe quindi stato che tutti gli incaricati dirigenziali e solo alcuni addetti agli Uffici di vertice dell’Agenzia avrebbero il superato il concorso (quando si dice la fortuna); e che nessun esterno e nessun interno non corsista ce l’avrebbe fatta (quando si dice la sfortuna).
Questo risultato finale sarebbe stato evidentemente ritenuto del tutto normale sia dai vertici dell’Agenzia sia dal citato membro del Governo, che tanto si è risentito per la sentenza della Corte Costituzionale e tanto si è poi adoperato per tentare di ripristinare lo status quo.
Se questa fosse stata davvero la normalità, non sarebbe restato che inginocchiarsi, chiudere gli occhi e invocare l’intervento divino.
Ma fortunatamente non sono stati necessari interventi extra ordinem a quel livello. La graduatoria viene impugnata dinanzi al TAR; ed in quella sede viene dedotta la violazione del principio della collegialità della correzione; ciò in particolare perche il dirigente generale organizzatore del corso avrebbe corretto da solo gli elaborati, aprendoli, esaminandoli, espungendo d’autorità tutti quelli da lui ritenuti insufficienti (circa il 90%), e sottoponendo all’esame del plenum solo gli elaborati da lui ritenute meritevoli, ai quali avrebbe attribuito un punteggio provvisorio che poi (quando si dice la disinvoltura) avrebbe sottoposto alla ratifica del plenum, che a quel punto, nulla sapendo di bunkeraggio, non avrebbe potuto che ratificare la proposta. Viene anche impugnato dinanzi al Tribunale civile di Roma, con querela di falso in atto pubblico, un verbale della commissione esaminatrice che, forse cominciando a rendersi conto di avere un po’ ecceduto in disinvoltura, aveva tentato di sanare ex post alcune delle irregolarità in cui era incorsa.
Il Tar del Lazio, Sez. II, con sentenza n. 6095/2015 (pubblicata in questa Rivista), ha annullato gli atti impugnati per palese violazione del principio della collegialità dell’operato della commissione esaminatrice, rilevando che non c’era necessità di attendere l’esito della querela di falso dal momento che la fondatezza di tale querela era da ritenere evidente, e concludendo con un giudizio di “inaffidabilità” operativa di detta commissione, tanto da richiedere – non mi risultano analoghe decisioni di tale severità – la sua sostituzione con una commissione nuova.
Per un collegio in cui era presente l’élite dirigenziale dell’Agenzia non c’è male, tenuto conto che espletare un regolare concorso dirigenziale è estremamente semplice sotto il profilo tecnico, tanto da essere alla portata di qualsiasi piccolo comune di buona volontà. In questo caso però sembra che ai commissari sia mancata proprio la buona volontà, dato che essi, pur non essendo dei novellini ma persone di indubbia esperienza della pubblica amministrazione, si sarebbero comportati con la nonchalance di chi è consapevole di adempiere ad un compito formale necessario ma inutile, con conseguente irrilevanza pratica di eventuali violazioni delle norme – peraltro tassative – che disciplinano i pubblici concorsi.
La procedura concorsuale, di conseguenza, si sarebbe svolta in un quadro generale di inescusabili superficialità che oltre tutto avrebbero provocato non solo notevoli danni economici ai concorrenti e all’amministrazione ma anche avrebbero significativamente appannato l’immagine dell’Agenzia, tanto da far ritenere ai lettori della sentenza che i competenti organi disciplinari dell’Agenzia, notoriamente molto severi nel perseguire comportamenti ritenuti lesivi del decoro dell’Amministrazione, non avrebbero tardato a prendere atto di quanto emerso in sede giurisdizionale e a trarne le necessarie doverose conseguenze.
L’Agenzia, che forse non aveva letto con attenzione la sentenza, appella; ed Consiglio di Stato, Sez. IV, nella camera di consiglio del 2 luglio 2015, con le ordinanze nn. 2975/2015 e 4459/2015, respinge le domande di sospensione della sentenza impugnata, condividendone espressamente l’impianto motivazionale.
A questo punto è auspicabile che l’Agenzia, anche per non appesantire ulteriormente l’onere delle spese di giudizio che dovrà sostenere e dei danni civili ed erariali di cui potrà essere chiamata a rispondere, rinunzi all’appello, dato che è ormai da escludere che l’attuale commissione possa portare a conclusione il concorso dirigenziale in esame.
6- Ma la situazione più imbarazzante per il Governo è quella originata dal comportamento dell’Agenzia delle Entrate, quale denunciato l’1 luglio 2015, in sede di interrogazione parlamentare da oltre 200 deputati di tutti i maggiori partiti di governo e di opposizione, unanimemente schieratisi adifesa del pubblico interesse (vedi http://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0451&tipo=atti_indirizzo_controllo&pag=allegatob#si.4-09629); evento molto raro, che attesta l’esistenza di una compatta consapevolezza politica e civile dell’esigenza di risolvere il problema denunciato.
In tale interrogazione si premette che nel contratto di servizio a suo tempo stipulato tra lo Stato e l’Agenzia era previsto:
a) che l’Agenzia, nel caso di ricorsi alla giustizia tributaria avverso l’esercizio della sua potestà impositiva, dovesse assicurare almeno il 59% di sentenze favorevoli: ciò evidentemente per dimostrare al Governo e ai cittadini di avere esercitato con correttezza la propria potestà;
b) che se tale minimo di sentenze favorevoli non fosse stato raggiunto l’Agenzia non avrebbe potuto corrispondere il premio annuale di risultato, che per i dirigenti generali è di 100.000 euro e per i dirigenti di seconda fascia è di 30.000 euro;
c) che, ai fini dei singoli premi, dovesse tenersi conto della quantità dei maggiori accertamenti effettuati e non della loro qualità e del loro importo.
Ma tali previsioni non sarebbero state rispettate, dal momento che:
– quanto meno nel 2013 e 2014, l’Agenzia ha bensì dichiarato al Governo esiti favorevoli in numero tale da superare il prescritto minimo del 59% e da potercorrispondere i premi al personale; ma confrontando i dati forniti dall’Agenzia con quelli ufficiali pubblicati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in tema di contenzioso tributario è risultato che in realtà tali esiti erano rimasti largamente al di sotto del 59%;
– la circostanza che dovesse tenersi conto del numero e non dell’importo ha fatto sì che il 90% degli accertamenti si sia concentrato sulle fasce più deboli (e cioè sul reddito fisso), per le quali l’accertamento è più semplice e più scarsa la capacità di opposizione, mentre sulle fasce più forti (banche, Trust, Holding internazionali ecc.) gli accertamenti siano stati solo l’1%;
– un sottosegretario del Ministero dell’Economia e Finanze aveva in precedenza già chiesto chiarimenti al riguardo all’Agenzia, ottenendone dati che il richiedente ha definito di mero marketing, e cioè di mera e non condivisibile autopubblicità.
Alle considerazioni formulate dagli onorevoli interroganti potrebbe aggiungersi che il sistema a suo tempo concordato tra Stato e Agenzia è risultato essere un inconsapevole ma palese esempio di diseducazione fiscale e di mancata tutela dell’interesse erariale. Infatti, collegando i premi di risultato ad un numero fisso minimo di accertamenti effettuati e non all’importo complessivo degli stessi, e cioè creando una logica premiale in cui due accertamenti di un euro ciascuno valgono più – ai fini del conseguimento del premio di risultato – di un accertamento di un milione di euro, sia il Ministero che l’Agenzia (parti contraenti dell’accordo di servizio a suo tempo stipulato) non hanno evidentemente tenuto conto:
– che è presumibile che l’accertatore capace e di buona volontà, una volta raggiunto il minimo fisso, possa rallentare il ritmo, e possa addirittura essere indotto, in caso di superamento del limite (per lui inutile, ai fini del premio), ad accreditarsi il surplus l’anno successivo;
– che è presumibile che l’accertatore meno capace e di minor buona volontà, che sia arrivato vicino al limite, in mancanza di meglio possa fare qualche accertamento pretestuoso, per lo più di minima o di addirittura irrisoria entità, contando sul fatto che:
a) per somme di scarsa entità nessun contribuente– salvo chi, avendo tempo e denaro da perdere, tiene a fare la questione di principio – si sobbarcherebbe l’onere di un ricorso che sarebbe palesemente antieconomico, pur con l’amara consapevolezza di un comportamento impositivo preordinato a mettere – di fatto – il contribuente in condizione di non poter far valere i propri diritti;
b) in caso di annullamento dell’accertamento in sede giurisdizionale o in sede di autotutela, gli accertamenti dichiarati infondati né vengono scomputati ex post dal monte utile per ottenere il premio (che resta comunque un diritto acquisito) né sono oggetto di eventuale responsabilità disciplinare;
– che la mancanza dei un limite minimo di accertamento favorevole all’erario ha determinato la notifica di cartelle esattoriali di un centesimo, e di fermo auto (per di più senza informare l’interessato) per meno di venti centesimi (vedi www.equitalia.uncentesimo);
– che se tutti gli accertamenti infondati e non impugnati venissero invece impugnati e quindi accolti la media dei ricorsi definiti favorevolmente per l’Agenzia subirebbe una significativa riduzione;
– che è presumibile che l’accertatore, dovendo lavorare sul numero, tenda a dedicarsi prevalentemente a casi semplici e di rapida soluzione (che però, di norma, sono i meno fruttuosi per l’erario);
– che è presumibile che l’accertatore, trovato il primo sia pur minimo recupero, abbia un calo di attenzione nell’esaminare il resto dell’operazione da verificare, dal momento che per lui sempre un punto di merito vale;
– che è presumibile che un evasore previdente possa inserire ad arte un piccolo errore subito rilevabile, contando sul fatto che a quel punto possa verificarsi un calo di attenzione del verificatore.
In un quadro generale di questo genere è pienamente comprensibile che si sia verificata –secondo dati ufficiali della Banca d’Italia – una evasione fiscale superiore ai duecento miliardi di euro annui, importo enorme che oltre tutto prende in gran parte la via dell’estero e dei paradisi fiscali, con conseguente progressivo impoverimento occulto del Paese (che potrebbe venirsi a trovare senza sufficiente liquidità senza sapere il perché, come di fatto è già accaduto), e che ha stretti legami di sangue con la corruzione; sicché nel “sistema” in esame potrebbero addirittura ravvisarsi gli estremi dell’alto tradimento economico e dell’attentato alla Costituzione sotto il profilo sia dell’equità dell’imposizione fiscale sia del buon andamento della pubblica amministrazione. E pensare che un congruo parziale recupero dell’attuale evasione fiscale potrebbe consentire l’abolizione di tutte le imposte sulla casa e sui servizi comunali e un mese di vacanze pagate in albergo a tutti gli italiani, con evidente rilancio dell’economia: meriterebbe un Nobel per l’economia e la coesione sociale!
Sono considerazioni di semplice buonsenso, che ben avrebbero potuto essere fatte al momento della stipula dell’affidamento del servizio all’Agenzia, e che rispecchiano la realtà concreta; e la realpolitik, la politica del fare, la politica per risultati, non possono fondarsi su accordi scollegati con la realtà concreta, accordi che oggi sarebbe irresponsabile spingere oltre quel “punto di non ritorno” lucidamente teorizzato da Juncker. Non sarebbe quindi il caso che il Presidente del Consiglio e il Ministro dell’economia e delle finanze, destinatari della suindicata interrogazione parlamentare, prendessero la denuncia in attenta considerazione?
7- L’unica via d’uscita che oggi si presenta sembra essere il ritorno dello Stato ad essere realmente Stato e non un semplice esangue participio passato del verbo essere, schiacciato dall’alto dall’UE, di fronte dai soggetti “convenzionati”, alle spalle dagli intrighi di palazzo, e dal basso dalle Regioni. Occorre quindi una forte volontà di riprendere in mano la situazione.
A questo punto, oggi, il buon senso dovrebbe fare scattare la consapevolezza e la percezione del rischio, insito in una situazione del genere, di consolidare situazioni dirigenziali che la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime e “accordi di servizio” con le Agenzie fiscali che si sono dimostrati non rispondenti ai principi costituzionali in materia di imposizione fiscale e di buon andamento della pubblica amministrazione.
L’attuale art. 7, f), del d.d.l. di cui all’Atto Senato n. 1577 prevede “il rafforzamento del ruolo di vigilanza” della Presidenza del Consiglio dei Ministri sulle Agenzie fiscali. In realtà oggi non si tratta di “rafforzare” il ruolo” ma di “istituire ex novo” tale ruolo: perché nell’attuale sistema di assoluta separazione tra MEF e Agenzie il MEF è del tutto privo di poteri e di organi di vigilanza e controllo (sostitutivo o semplicemente repressivo) sulle Agenzie. E si tratta soprattutto di ripensare il rapporto Stato-Agenzie fiscali, per realizzare una più concreta e produttiva politica antievasione e quindi anticorruzione.
Questa, da parte dell’attuale Governo, è forse destinata ad essere la prova più significativa di reale soluzione di continuità con un passato pieno di ombre e tutto da dimenticare. Solo quando lo Stato si sarà riappropriato del proprio passato, rinunciando a delegarlo a scatola chiusa a terzi, la società civile potrà riappropriarsi del suo futuro, uscendo da un presente quanto mai problematico.
Facciamoci un’altra risata sul tema:
Come noto un concorso a 403 posti per dirigente alle Entrate è stato “bloccato” da un signore che riteneva dovesse prima espletarsi la mobilità tra PP.AA. ai sensi dell’art. 30 del D.Lgs. 165/2001 (cfr C. d. S., sez.IV, ord.n. 1979/2015).
Così nel Paese degli astuti si fa una norma apposita che consente di prescindere dall’art. 30 de D.gs. n. 165/2001 (cfr. art.4-bis del D.L. 78/2015 aggiunto in sede di conversione, con la L.n. 125/2015.
Il motivo della deroga, dichiarato espressamente nella legge, sta nella “peculiare professionalità” che i dirigenti delle Agenzie fiscali devono possedere.
Domandina innocente: e adesso che se ne fa l’Agenzia delle Dogane delle decine di dirigenti che si è dovuta prendere dalla S.N.A. (la vecchia S.S.P.A.)? E, soprattutto, come si giustifica il fatto che molti di questi dirigenti (che chiaramente nulla sanno di dazi e accise) li ha mandati a dirigere gli uffici operativi ?
Condivido pienamente le considerazioni del Presidente Giacchetti, soprattutto per quanto riguarda la sconcertante vicenda degli incarichi dirigenziali presso le Agenzie fiscali. Tuttavia, vorrei evidenziare un particolare relativo al concorso per dirigenti di seconda fascia presso l’Agenzia delle Dogane di cui si fa cenno nell’articolo, affermando che gli esterni non avrebbero avuto alcuna possibilità superarlo. Lo scrivente, esterno all’Agenzia, ha partecipato al detto concorso, superando con sacrificio le preselezioni, le prove scritte e la prova orale e risultando, quindi, idoneo. Il Tar, purtroppo, ha annullato le prove scritte per irregolarità commesse dalla commissione in sede di verbalizzazione. Ho preso atto, con rammarico, della decisione del giudice amministrativo (peraltro, lo dico contro il mio interesse, adeguatamente motivata) ma non posso esimermi dal sottolineare di aver preso parte al concorso (ribadisco, come esterno) senza ricevere alcun aiuto.
condivido quanto detto dal Sig.Presidente dott.Giacchetti,che saluto con grande affetto.