FREE – Sinteticità degli atti difensivi

FRANCESCO VOLPE, Sui limiti all’estensione degli atti di difesa nel processo amministrativo (note a margine del decreto del Presidente del Consiglio di Stato 25 maggio 2015 n. 40, sulla sinteticità degli atti defensionali)



FRANCESCO VOLPE
(Ordinario di diritto amministrativo
nell’Università di Padova)

 Sui limiti all’estensione degli atti di difesa nel processo amministrativo

(note a margine del decreto del Presidente del Consiglio di Stato
25 maggio 2015 n. 40, sulla sinteticità degli atti defensionali)



I . – Il Presidente del Consiglio di Stato ha adottato il decreto che, in attuazione di quanto previsto dal nuovo art. 120 c.p.a., fissa i limiti entro i quali debbono essere contenuti gli atti defensionali nelle controversie in materia di appalti pubblici.

Non è mia intenzione scendere nel dettaglio del provvedimento, che ognuno potrà leggere da sé.

Il suo contenuto, tuttavia, pone in evidenza alcune questioni che suscitano perplessità.

In merito, non insisterò sulla misura in sé, che offende in modo palese l’art. 24 della Costituzione. E che, cosa forse ancor più grave, sembra impingere non poco nel ridicolo, là dove essa si sofferma a descrivere il tipo dei caratteri ammessi (alcuni dei quali citati, forse, coperti da proprietà intellettuale), il loro corpo, l’ampiezza dei margini e cose simili. Quasi che fare l’Avvocato e il Giudice dipenda dal conoscere le tecniche della dattilografia.

Allo stesso modo, non è il caso di soffermarsi su una certa genericità del provvedimento. In effetti, anziché fissare un limite di “pagine” riferito alla memoria nel suo complesso, si sarebbe forse potuto applicarlo alla sola esposizione dei motivi di diritto. Invero, l’argomento di diritto – almeno secondo l’esperienza di chi scrive – non richiede spesso che ci si dilunghi troppo, una volta che siano stati chiariti gli aspetti in fatto della questione. Di contro, sono le prospettazioni di fatto che, nei complessi fenomeni dell’attuale procedimentalizzazione, richiedono una lunga esposizione. E, tuttavia, questa esposizione non può mancare, a pena di non dare una compiuta rappresentazione della fattispecie. Di talché non sarebbe stato inadeguato esonerare la narrazione in fatto da tali limiti, ancor più irragionevoli ove si consideri che quanto contestato vale come provato (art. 64, comma 2, c.p.a.). E questo esonero, oggi, sarebbe ancor più facile, dopo la riforma che ha stabilito l’inammissibilità dei motivi occulti di impugnazione, sì che l’assenza di limiti, nella narrativa in fatto, non potrebbe essere utilizzata allo scopo di eludere i limiti dell’esposizione di diritto.

Analogamente si sarebbe forse potuto prevedere la possibilità che l’atto rechi suoi allegati, riservati ai riferimenti giurisprudenziali citati nella memoria. Il richiamo giurisprudenziale, nella tecnica di redazione di un atto giudiziario, è, invero, affare delicato e ancor più rilevante dopo il potenziamento di quella sorta di funzione nomofilattica che l’art. 99, comma 3, c.p.a. riconosce alla Plenaria. E, tuttavia, limitarsi a richiamare il precedente comporta il rischio che il giudice non sia sempre diligente nel reperirlo e consultarlo. Di contro, citare testualmente il contenuto del precedente significa aumentare il volume dell’atto e consumare “preziose” pagine, quando pure ciò è compiuto allo scopo di alleggerire il lavoro del giudice (dispensandolo da una autonoma ricerca) e non allo scopo di aggravarlo.

II. – Ritengo utile, invece, richiamare l’attenzione su quanto prescrive il “numero 11” del decreto.

Ivi è prevista una procedura che consente di derogare ai rigidi limiti dimensionali dell’atto.

Spetta al ricorrente (o a chi presenta l’appello) l’onere di essere autorizzato in tal senso, formulando l’istanza a calce del ricorso o dell’appello. Sull’istanza provvederà il Presidente della Sezione a cui è affidato il giudizio. Quest’ultimo ha un termine di tre giorni per pronunciarsi; all’omessa o alla tardiva pronuncia segue il silenzio-assenso. In caso di deroga, esplicita o tacita, si dovrà quindi notificare il ricorso con allegata l’autorizzazione rilasciata dal Presidente di Sezione oppure una autocertificazione del difensore sull’infruttuosa decorrenza del termine.

La norma si presta ad una duplice interpretazione, giacché non è chiaro se tale autorizzazione debba essere chiesta dopo la notificazione e il deposito del ricorso o dell’appello, oppure prima di tale attività.

Entrambe le soluzioni si prestano a gravi conseguenze.

Se si ipotizza che l’istanza segua la notificazione e il deposito del ricorso, mi pare di ravvisare, infatti, i seguenti aspetti incerti:

1) Quanto al dies a quo, è poco chiaro se il termine di tre giorni decorra da quando l’atto introduttivo sia stato depositato oppure da quando esso sia stato assegnato alla Sezione chiamata a deciderlo. Con la conseguenza che, se valesse la seconda ipotesi, il silenzio-assenso si formerebbe ben dopo la presentazione del ricorso o dell’appello.

2) Quanto al regime dell’atto con cui il Presidente della Sezione provvede, esso è parimenti incerto. È incerto, in particolare, se esso sia soggetto ad una qualche forma di contestazione (eventualmente nelle forme del reclamo o della opposizione al Collegio).

3) Altrettanto incerte sono le conseguenze del diniego della deroga. In modo particolare, non è chiaro in che modo debba qualificarsi il ricorso o l’appello, nel frattempo così introdotti e se debba ravvisarsi, nel caso di specie, una ipotesi (atipica) di improcedibilità dell’atto oppure se, in applicazione dell’art. 120 c.p.a., il giudice possa non considerare quanto dedotto oltre i limiti dimensionali ordinari.

4) Sempre con riferimento alle conseguenze del diniego, è incerto se da esso discenda, per il giudizio di primo e di secondo grado, una remissione in termini, ai fini della notificazione di un nuovo libello introduttivo, per il caso in cui detti termini, nel frattempo, fossero scaduti o fossero prossimi alla scadenza. Per quanto attiene, specificamente, all’appello e, per il caso in cui si propendesse per l’improcedibilità dell’appello eccedentario, oltre alla questione della remissione in termini, andrebbero considerati anche gli aspetti relativi all’applicabilità, nel giudizio amministrativo, di quanto previsto dall’art. 348 c.p.c.

5) Ammesso che sia consentito ripresentare il ricorso o l’appello, con forme più sintetiche, è incerto se, in tal caso, si sia tenuti al versamento di un secondo contributo unificato.

6) Per il caso in cui si ritenesse che il ricorso o l’appello eccedentari non siano improcedibili, ma soggetti semplicemente alla sanzione dell’assenza, in capo al giudice, del dovere di esaminare quanto sostenuto oltre il limite “delle pagine”, si costituirebbe sul giudice un ulteriore, surretizio, potere d’ufficio in capo al giudice. L’art. 120 c.p.a., infatti, non stabilisce che il giudice non possa esaminare quanto dedotto oltre il limite, ma si limita ad indicare che il giudice “non è tenuto” a farlo. Il che, pare di intendere, significa che il giudice, se lo ritiene, può affrontare anche gli argomenti dedotti extra moenia. Ma ciò significa consentire al giudice di delimitare il thema decidendum; consente a lui di invocare una sorta di nuovo assorbimento dei motivi e delle eccezioni eccedentari, privo di qualsiasi conseguenza, ove lo ritenga; ma, parimenti ove lo ritenga, di esaminare detti motivi ed eccezioni.

7) Sempre per il caso in cui si ritenesse che il ricorso o l’appello eccedentari si limitino a esonerare il giudice dal dovere di esaminare gli argomenti trattati oltre il limite delle pagine, senza riconoscere la possibilità di reintrodurre il giudizio o l’appello con un atto più sintetico, si costituirebbe sulla parte l’onere di una valutazione assai grave per le conseguenze che ne possono derivare. Essa, infatti, al momento della redazione dell’atto, dovrebbe decidere se stendere una memoria ampia, utile a trattare tutti gli argomenti necessari (correndo, tuttavia, il rischio di non vederseli esaminati, per il caso in cui fosse negata l’autorizzazione in deroga), oppure, in alternativa, se redigere fin dall’inizio una memoria sintetica, ma non sufficientemente argomentata.

III. – Passando ad esaminare la seconda ipotesi – vale a dire quella secondo la quale l’istanza dovrebbe essere presentata prima della notificazione e del deposito del ricorso introduttivo o dell’appello – va detto che essa sembra trovare maggiore conforto, sul piano letterale, giacché il fatto che l’autorizzazione in deroga debba essere notificata “unitamente al ricorso”, la avvalora.

Tuttavia, anch’essa non si dimostra esente da profili critici.

Innanzi tutto, sulla stessa ipotesi si riflettono i punti 1), 2) e 6), già considerati, non riproponendosi solo quelli relativi alla eventuale remissione in termini, alla improcedibilità dell’atto e alla necessità di decidere preventivamente per una memoria agile ma non argomentata, o per una memoria argomentata ma suscettibile di non essere presa in esame.

Vi sono, però, anche degli inconvenienti propri di questa ipotesi.

Infatti, per il caso in cui l’autorizzazione debba essere chiesta preventivamente alla notificazione del ricorso o dell’appello, pare di intendere che la parte che voglia eccedere il numero consentito delle pagine – verosimilmente per la complessità della materia – sarà soggetta a termini di impugnazione sostanzialmente più brevi. Infatti, essa dovrà provvedere, nel complessivo termine dei trenta giorni, a redigere il ricorso (o l’appello) curando di avere quel margine di tempo necessario a depositarlo preventivamente, per ottenere l’autorizzazione in deroga e per poi redigere una nuova versione della memoria, più sintetica, per il caso in cui l’autorizzazione non sia data. Il che pare irragionevole, dal momento che sarebbero proprio i ricorsi più complessi a dover essere stesi in minor tempo e con minore attenzione di quelli semplici (che non richiedono di superare il limite delle trenta pagine).

Né si deve trascurare che il procedimento, anche secondo un profilo di efficienza dell’apparato giudiziario, sia davvero utile. Infatti, il Presidente della Sezione, per decidere se concedere o no la deroga, dovrà comunque – così si presume – leggere e studiare la bozza di ricorso o di appello a lui sottoposta. Dovrà, cioè, comunque compiere l’attività che a lui sarebbe richiesta se il ricorso eccedentario fosse stato comunque introdotto. Con l’aggravio, per il funzionamento del sistema, che, nell’ipotesi in cui la deroga non sia data, il Collegio dovrà esaminare anche la successiva versione sintetica dell’atto.

IV. – Mi pare di concludere che il decreto meriti una sostanziale riforma, nei limiti, beninteso, in cui essa sia possibile.

Giacché si nutre il timore che ogni forma di regolamentazione della brevità degli atti sia in sé destinata a fallire, perché erroneo è il suo presupposto. Vale a dire che si possa contingentare l’esposizione degli argomenti di difesa.

Spero, così, di essere stato breve.

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