Tangenti per appalti EXPO 2015

TAR LOMBARDIA – MILANO – sentenza 20 aprile 2015* (sulla decorrenza del termine di 120 giorni ex art. 30 c.p.a. per l’azione risarcitoria, sul valore dei protocolli di legalità, sulla responsabilità della società EXPO 2015 per l’aggiudicazione di un appalto all’ATI Maltauro-Cefla e sulla riconoscibilità alle imprese coinvolte del danno curriculare del 3%), con 4 documenti correlati.


TAR LOMBARDIA – MILANO, SEZ. I – sentenza 20 aprile 2015 n. 974 – Pres. Mariuzzo, Est. Fanizza – Costruzioni Perregrini s.r.l. ed altri (Avv.ti Colombo e Poscio) c. Expo 2015 S.p.A. (Avv.ti Greco e Muscardini), Sala (n.c.) ed Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro S.p.A. (Avv. Cerami) – (accoglie la domanda di risarcimento, nei sensi e nei termini espressi in motivazione).

1. Giustizia amministrativa – Risarcimento dei danni – Per lesione di interessi legittimi – Domanda – Termine di 120 giorni – Ex art. 30 c.p.a. – Decorrenza – Nel caso di gara di appalto – Individuazione.

2. Contratti della P.A. – Gara – Protocolli di legalità – Funzione – Individuazione.

3-4. Contrati della P.A. – Gara – Per l’affidamento di lavori relativi all’Expo 2015 – Dovere per la società Expo 2015 di vigilare sulla legalità e la correttezza della procedura di gara – In base al Protocollo di legalità – Sussisteva – Violazione di tale obbligo – Responsabilità della suddetta società – Sussiste.

5. Contrati della P.A. – Gara – Per l’affidamento di lavori relativi all’Expo 2015 – Mancata aggiudicazione dell’appalto alla ditta che ne aveva titolo – Risarcimento per danno emergente – In mancanza di prova del diritto a conseguire l’appalto – Non può essere riconosciuto – Danno curriculare – Può essere riconosciuto.

6. Giustizia amministrativa – Risarcimento dei danni – Per lesione di interessi legittimi – Danno curriculare – Prova specifica – Non occorre – Liquidazione – Suddivisione dell’importo del risarcimento per il numero dei concorrenti – Non occorre – Ragioni.

7. Giustizia amministrativa – Risarcimento dei danni – Per lesione di interessi legittimi – Danno curriculare – Quantificazione – Criteri – Individuazione – Interessi e rivalutazione monetaria – Sono dovuti.

1. Il termine di decadenza di 120 giorni previsto dall’art. 30 del codice del processo amministrativo (secondo cui “la domanda di risarcimento per la lesione di interessi legittimi deve essere proposta entro il termine di centoventi giorni dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”), non può – nel caso di gara di appalto -, analogamente a quanto previsto dall’art. 79 del D.lgs. n. 163/2006, decorrere dalla comunicazione dell’aggiudicazione definitiva di cui all’art. 79 del D.lgs. n. 163 del 2006, indipendentemente dal momento in cui le illegittimità sono state conosciute; deve piuttosto ritenersi, conformemente alla giurisprudenza della Corte di giustizia U.E. (1), che detto termine cominci decorrere solo dalla data in cui l’interessato è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione delle disposizioni che regolano la gara. Nel caso di illegittimità emerse dopo l’aggiudicazione definitiva della gara, pertanto, è solo dalla data in cui sono emerse le illegittimità che va proposta l’azione risarcitoria entro il suddetto termine di decadenza.

2. La funzione dei protocolli di legalità, quali diretta emanazione della legislazione speciale in tema di grandi opere pubbliche, non può essere limitata alla predisposizione di efficaci clausole di gara, vincolanti per i soli concorrenti. All’opposto, tali accordi riflettono l’esigenza di porre al centro dell’azione amministrativa il principio di legalità, di cui la legittimità amministrativa è un essenziale, ma non esaustivo, complemento. La previsione di cui al comma 17 dell’art. 1 della legge 190/2012 (secondo cui “le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara”) va intesa alla stregua di una misura integrata nella disciplina finalizzata a realizzare l’obiettivo perseguito dal legislatore, cioè “assicurare azione coordinata, attività di controllo, di prevenzione e di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” (comma 1 della medesima norma).

3. A seguito della predisposizione ed approvazione dei Protocolli di legalità, nei confronti della società Expo 2015 sussisteva l’obbligo giuridico di impedire con azioni di contrasto concrete (non potendo più qualificarsi i predetti Protocolli come meri atti di indirizzo politico dopo l’entrata in vigore della legge 190/2012) la permeabilità del malaffare nelle procedure di affidamento di “opere essenziali”, come sono state qualificate dal DPCM 22 ottobre 2008 (art. 1, comma 3) quelle oggetto dell’Evento universale.

4. Sussiste la responsabilità della società EXPO 2015 per la sua incapacità di assicurare la legalità nella procedura di gara relativa all’aggiudicazione dell’appalto alla Ati Maltauro-Cefla  e, una volta emerse le condotte di malaffare, di porvi immediato rimedio (2).

5. Nel caso di mancata attribuzione di un appalto a seguito di atti corruttivi, mentre non può essere accolta la domanda di risarcimento del danno da mancata aggiudicazione, ove non sia stato provato che le ditte ricorrenti avrebbero conseguito l’appalto, va accolta la domanda di risarcimento del danno curriculare, atteso che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante), può essere comunque fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti (3). La liquidazione di tale tipologia di danno prescinde, infatti, dalla prova della certezza della vittoria nella procedura di gara (4).

6. Nel caso di danno curriculare, sul danneggiato non incombe alcun particolare onere probatorio, in quanto l’esistenza di tale componente di danno può essere pragmaticamente ritenuta “in re ipsa”, in una certa contenuta misura, in quanto insita nel fatto stesso dell’impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall’esecuzione dell’appalto in controversia nell’ambito di futuri procedimenti simili cui la stessa ricorrente potrebbe partecipare (5). Nè può ritenersi che, anche nella liquidazione del danno curriculare, si debba dividere l’importo del risarcimento per il numero dei concorrenti, atteso che tale modalità attiene alla diversa fattispecie relativa alla “perdita di chance”, di cui il danno curriculare costituisce una specificazione (6), ma non un duplicato.

7. Il danno curriculare può essere determinato in via equitativa nella misura del 3% dell’importo a b.a. al netto di ribasso; tale importo, però, dev’essere ridotto nel caso di omessa prova di assenza dell’aliunde perceptum (nella specie tale riduzione è stata stimata congrua dal Collegio nel 30%); sulla complessiva somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, inoltre, trattandosi di debito di valore, va applicata la rivalutazione anno per anno secondo gli indici ISTAT, e ciò con decorrenza che nella specie pare congruo imputare a partire dalla conoscenza delle condotte delittuose; su tale somma devono, inoltre, computarsi gli interessi legali sulla somma annualmente rivalutata secondo il cosiddetto criterio “a scalare” enucleato dalla Suprema Corte con la sentenza a Sezioni Unite del 17 febbraio 1995, n. 1712 (7).

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(1) Cfr. Corte di Giustizia U.E., sent. 28 gennaio 2010, n. C-406/08 (c.d. “Uniplex”), in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/10/cgiustce_2010-01-28-1.htm, con cui è stato ribadito:

a) che “il termine per proporre un ricorso diretto a far accertare la violazione della normativa in materia di aggiudicazione di appalti pubblici ovvero ad ottenere un risarcimento dei danni per la violazione di detta normativa decorra dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della violazione stessa” (cfr. punto 25);

b) che “le modalità procedurali di ricorso in giudizio destinate ad assicurare la salvaguardia dei diritti conferiti dal diritto comunitario ai candidati ed agli offerenti lesi da decisioni delle autorità aggiudicatrici non devono mettere in pericolo l’effetto utile della direttiva 89/665” (cfr. punto 27);

c) che “l’obiettivo di celerità perseguito dalla direttiva 89/665 non consente agli Stati membri di prescindere dal principio di effettività, in base al quale le modalità di applicazione dei termini di decadenza nazionali non devono rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti spettanti agli interessati in forza del diritto comunitario, principio che è alla base dell’obiettivo riguardante l’efficacia del ricorso, esplicitato nell’art. 1, n. 1, di detta direttiva” (cfr. punto 40).

Secondo la sentenza in rassegna, le statuizioni sopra richiamate pongono in evidenza che la perentorietà del termine per l’impugnazione non costituisca l’unico ed esclusivo presidio della certezza del diritto.

Tale principio, all’opposto, è da ritenersi compatibile con una verifica in concreto volta a stabilire se il ricorrente che sia stato destinatario dell’attività informativa circa la disposta aggiudicazione (cfr. art. 49 della Direttiva 2004/17/CE, richiamato dall’art. 2 bis della Direttiva 92/13: disciplina analoga a quella di cui all’art. 79, comma 5 del D.lgs. 163/2006) abbia avuto conoscenza (o avrebbe potuto avere conoscenza, mediante l’ordinaria diligenza) dell’esistenza di violazioni suscettibili di giustificare la proposizione del ricorso.

Per definire un criterio risolutore, la giurisprudenza ha, perciò, chiarito che occorre determinare se il ricorrente abbia avuto conoscenza (o conoscibilità) del vizio inficiante la procedura di gara prima dell’aggiudicazione, oppure se tale conoscenza – come appunto nel caso che ci occupa – sia sopravvenuta (a tal riguardo, la Corte ha, infatti, soggiunto al punto 46 che “per converso”, cioè letteralmente “al contrario” dell’ipotesi di cui al punto 45, “un offerente è legittimato a proporre un ricorso per risarcimento danni entro il termine generale di prescrizione previsto a tal fine dal diritto nazionale”).

Non si tratta, perciò, di stabilire se la conoscenza di un vizio sia di entità tale da consentire la proposizione di un ricorso, quanto, piuttosto, se il ricorrente, con l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto ricavare dal provvedimento suscettibile di impugnazione la pur minima consapevolezza della sua lesività.

In applicazione del principio nella specie è stato ritenuto che non era fondatamente sostenibile che, al momento della comunicazione ex art. 79 del D.lgs. 163/2006 (22.11.2013), le società ricorrenti fossero al corrente, o potessero anche astrattamente percepire, le dannose conseguenze dell’operato illecito (allora ignoto) posto in essere dagli appartenenti al sodalizio criminale, essendosi tali conseguenze palesatesi “solo nel maggio 2014”, vale a dire quando i citati soggetti sono stati arrestati (8.5.2014).

Soltanto dopo aver percepito il carattere delittuoso delle condotte in questione, e, in diretta dipendenza, la rilevanza eziologica di tali comportamenti in ordine alla consumata turbativa della procedura di gara, il RTI ricorrente ha, senza indugio, notificato il ricorso introduttivo (11.6.2014), depositato il giorno successivo (12.6.2014).

(2) Ha osservato in particolare la sentenza in rassegna che, nonostante l’esistenza di plurime funzioni connesse alla gestione delle procedure di gara e di un notevole sistema di controlli, interno ed esterno, la società Expo non è, infatti, riuscita a evitare che venissero nominati nella funzione di componenti del seggio di gara dei “commissari “amici” che immediatamente hanno garantito un precostituito giudizio di favore circa l’offerta di Maltauro” e che a ciò seguisse – con altrettanta, disarmante, semplicità – l’illecito coinvolgimento del Paris, che rivestiva le funzioni di presidente della commissione giudicatrice, per determinare con assoluta certezza l’aggiudicazione in favore dell’impresa Maltauro.

Se la stazione appaltante avesse davvero vigilato sulla legalità del procedimento di gara, con controlli penetranti e, soprattutto, con nomine appropriate (presidente e componenti della commissione giudicatrice), è ragionevole ritenere che l’attività di “avvicinamento” da parte del sodalizio criminoso non avrebbe sortito effetto. Inoltre, se, una volta emersa la grave realtà dei fatti (8.5.2014), la stazione appaltante avesse annullato la disposta aggiudicazione (21.11.2013), piuttosto che attendere (nel mentre tutto l’Evento universale subiva una notevole caduta di credibilità) i benefici di una provvidenziale soluzione da parte del legislatore, essa avrebbe certamente riparato alle dannose conseguenze derivanti dalla violazione del principio di legalità e di libera concorrenza.

(3) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/81/cds6_2008-06-09.htm; nei medesimi termini id., 1 febbraio 2013, n. 633, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/a/2013/5126

(4) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/71/cds6_2007-04-03.htm

(5) Cfr. Cons. Stato, sez. V, 19 novembre 2012, n. 5846, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/a/2012/4251

(6) Cfr. Cons. Stato, sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1681.

(7) Ha ricordato la sentenza in rassegna che, per la liquidazione del danno curriculare, la giurisprudenza ha inizialmente osservato che il danno curriculare “non può essere quantificato, come pretende l’appellante in misura corrispondente al 3% dell’importo dell’appalto, risultando più corretto calcolare come percentuale della somma già liquidata a titolo di lucro cessante, secondo una percentuale destinata a variare in considerazione dell’importanza dell’appalto in questione” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 21 giugno 2009, n. 3144, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/91/cds6_2009-05-21-5.htm, richiamato dalla società resistente).

La stessa VI Sezione ha, peraltro, successivamente modificato il suo orientamento, rapportando la liquidazione “a valori percentuali compresi – secondo una stima già ritenuta equa (Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/81/cds6_2008-06-09.htm) – fra l’1% e il 5% dell’importo globale del servizio da aggiudicare” (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 27 aprile 2010, n. 2384, ivi, pag. http://www.lexitalia.it/p/10/cds6_2010-04-27-3.htm).

Ad analoga conclusione è, altresì, pervenuta la IV Sezione, secondo cui “tale voce va equitativamente determinata nella misura del 3% del valore dell’appalto, come definibile dalla misura dell’offerta oggetto dell’aggiudicazione definitiva” (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 7 febbraio 2012, n. 662, in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/a/2012/1231).

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Documenti correlati:

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV – sentenza 20 gennaio 2015, pag. http://www.lexitalia.it/a/2015/44316 (ribaltando la sentenza del TAR Lombardia relativa alle tangenti per l’appalto Expo 2015 alla r.t.i. Maltauro, da un lato dichiara irricevibile il ricorso di primo grado e, dall’altro, afferma una serie di principi, come quello secondo cui eventuali condotte illecite non comportano necessariamente l’illegittimità dell’appalto).

TAR LOMBARDIA – MILANO, SEZ. I – sentenza 9 luglio 2014, pag. http://www.lexitalia.it/a/2014/11848 (massimata; v. anche il testo .pdf*) – Pres. Mariuzzo, Est. Fanizza (annulla l’aggiudicazione definitiva in favore della r.t.i. Maltauro S.p.A. – Cefla, dell’appalto integrato di progettazione ed esecuzione dei lavori di realizzazione delle architetture di servizio del sito Expo 2015 e dichiara la risoluzione del contratto, prevista dal cd. “Protocollo di legalità”).

AUTORITA’ NAZIONALE ANTICORRUZIONE – nota 10 luglio 2014, pag. http://www.lexitalia.it/p/14/autanticorruzione.pdf – Oggetto: richiesta di straordinaria e temporanea gestione della società Maltauro S.p.A.

CONSIGLIO DI STATO, SEZ. IV – ordinanza 16 settembre 2014, pag. http://www.lexitalia.it/a/2014/17209 (sospende l’efficacia della sentenza del TAR Lombardia – Milano, Sez. I, 9 luglio 2014*, che aveva annullato l’aggiudicazione dell’appalto integrato delle architetture di servizio del sito Expo 2015 e dichiarato la risoluzione del contratto, facendo riferimento alle norme previste dal cd. “Protocollo di Legalità” ed alle indagini per tangenti in corso).

 


FATTO

Con ricorso ritualmente proposto le società Costruzioni Perregrini s.r.l. (in proprio e in qualità di mandataria del costituendo RTI) e le imprese mandanti Panzeri S.p.A. e Milani Giovanni & C. s.r.l. hanno impugnato, chiedendone l’annullamento, l’aggiudicazione definitiva dell’appalto integrato di progettazione ed esecuzione dei lavori di realizzazione delle architetture di servizio del sito Expo 2015, con ulteriore domanda volta a ottenere la dichiarazione di inefficacia e la caducazione del contratto di appalto stipulato in data 4 febbraio 2014 tra la stazione appaltante e il RTI composto dall’Impresa di Costruzioni Giuseppe Maltauro S.p.A. (capogruppo mandataria) e la società cooperativa Cefla (mandante), oltre al risarcimento dei danni derivanti dagli atti impugnati.

Con sentenza non definitiva n. 1802 del 9 luglio 2014 la Sezione ha accolto la domanda di annullamento dell’impugnata aggiudicazione, rinviando per la trattazione della domanda risarcitoria all’udienza pubblica del 17 dicembre 2014, riservata restando a tale fase la statuizione sulle spese processuali.

Con distinti ricorsi, successivamente riuniti, la società Expo 2015 S.p.A. e l’amministrazione per la straordinaria e temporanea gestione dell’impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro S.p.A. (disposta, successivamente alla pubblicazione della sopra citata sentenza, con decreto del Prefetto di Milano del 16 luglio 2014) hanno proposto appello innanzi al Consiglio di Stato, che in accoglimento della proposta domanda cautelare ha sospeso gli effetti della pronuncia di primo grado con ordinanza del 16 settembre 2014, n. 4089.

Nella pendenza del giudizio relativo alla domanda risarcitoria, per il quale era stata in origine fissata l’udienza pubblica del 17.12.2014, la società Expo 2015 S.p.A. ha depositato (1.12.2014) una memoria con cui ha chiesto un rinvio della discussione, rappresentando che “il giudizio del Consiglio di Stato in ordine al merito della asserita antigiuridicità è pregiudiziale (ai sensi dell’art. 295 c.p.c.) rispetto all’attuale giudizio sul risarcimento dei danni” (cfr. pag. 3), a ciò soggiungendo che il disposto commissariamento dell’impresa Maltauro “ha escluso in radice la possibilità di subentro del ricorrente, ma nel contempo ha superato e sostituito ogni potere decisionale di Expo, privando la stessa di qualsiasi responsabilità in ordine alle eventuali ragioni della ricorrente di poter subentrare o ottenere il risarcimento del danno”; dal che ha sostenuto che parte ricorrente “non è titolare e nemmeno legittimata passiva della posizione giuridica sostanziale da cui potrebbe in ipotesi discendere la responsabilità ex art. 2043 c.c.” (cfr. pag. 4).

L’udienza del 17.12.2014 è stata per tali ragioni rinviata all’11.3.2015 a seguito di richiesta congiunta delle parti; nelle more, con sentenza n. 143 del 20 gennaio 2015 la IV Sezione del Consiglio di Stato ha accolto i proposti appelli, dichiarando irricevibile il ricorso di primo grado, con conseguente ripristino dell’impugnato provvedimento di aggiudicazione definitiva in favore dell’impresa Maltauro.

In vista dell’udienza di discussione, le parti hanno depositato le rispettive memorie e repliche.

In particolare:

– nella memoria del 23.2.2015 le ricorrenti hanno rimarcato che “il giorno successivo al deposito della sentenza (10 luglio 2014) il Presidente dell’A.N.A.C. ha presentato al Prefetto di Milano istanza per la straordinaria gestione dell’appalto da parte di Maltauro e suo commissariamento (art. 32, comma 1, lett. b) d.l. 90/2014), motivando che “può affermarsi che l’appalto in questione è stato vinto grazie ad una attività illecita” (cfr. pag. 3) e che l’accertamento di “un fatto doloso e un comportamento illegittimo svoltisi all’interno della stazione appaltante, che hanno influito sul procedimento di gara qui in esame rendendolo palesemente illegittimo, aggiudicazione compresa” fonderebbe il diritto al risarcimento, quantificato in €. 5.152.692,00 (mancato utile), oltre €. 1.650.000,00 (danno curriculare) ed €. 200.000,00 (spese di gara);

– nella memoria del 23.2.2015 la società Expo 2015 S.p.A. ha richiamato ampi stralci della motivazione della sentenza d’appello, opponendo che nella specie sarebbe venuto meno “un basilare requisito giuridico (…), vale a dire una valutazione di illegittimità dell’attività della stazione appaltante. Attività che non solo durante la gara si è dimostrata tutt’altro che illegittima – e come si è visto tale considerazione sarebbe di per sé bastevole – , ma che è rimasta improntata alla massima correttezza e al pieno rispetto delle normative vigenti” (cfr. pag. 5);

– nella replica del 27.2.2015 le ricorrenti hanno dedotto che la correttezza della procedura, opposta dalla stazione appaltante, sarebbe smentita dalla “conclamata e provata affermazione del reato di turbativa d’asta” (cfr. pag. 1);

– nella replica del 28.2.2015 la società Expo 2015 S.p.A. ha eccepito l’irricevibilità della domanda risarcitoria sull’assunto che questa è stata proposta “unitamente alla domanda di annullamento del provvedimento di aggiudicazione, con ricorso notificato solo in data 11 giugno 2014 e, dunque, quasi tre mesi oltre la scadenza del predetto termine perentorio”, ossia il 22.11.2013, data in cui è stata trasmessa alle ricorrenti la comunicazione dell’aggiudicazione definitiva ai sensi dell’art. 79 del D.lgs. 163/2006 (cfr. pag. 4) e che tale eccezione troverebbe fondamento nella giurisprudenza comunitaria (Corte di Giustizia, 8 maggio 2014, n. C-161/13); che, comunque, “l’accertata tardività è conseguente non solo al principio (…) della perentorietà del termine di impugnazione rispetto a vizi preesistenti all’aggiudicazione (ancorché conosciuti successivamente), ma anche e soprattutto perché il Consiglio di Stato ha escluso che possano costituire vizi dell’aggiudicazione quelli che non si ricavano dai provvedimenti impugnati o dall’iter che li ha preceduti” (cfr. pag. 5); che, inoltre, il Giudice di seconde cure avrebbe escluso che “il danno lamentato possa essere ritenuto ingiusto, ma ha anche accertato che la condotta di Expo 2015 S.p.A. non può essere considerata causa dei danni ex adverso lamentati” (cfr. pag. 7); in via del tutto subordinata ha eccepito l’infondatezza della domanda risarcitoria, tenuto conto che non vi sarebbe prova che “le conseguenze di dette illecite condotte si siano ripercosse chirurgicamente sulla sola assegnazione del punteggio tecnico riguardante l’ATI Maltauro prima classificata, salva tutta la restante attività valutativa (…) della commissione con riferimento a tutti gli altri concorrenti” (cfr. pag. 13); che “nella specie, a tutto voler concedere (e ove fosse stata formulata adeguata domanda), verrebbe in rilievo una mera chance di aggiudicazione”, ma che la domanda risarcitoria sarebbe, comunque, inammissibile in quanto “formulata con esclusivo riferimento al (lamentato) pregiudizio riveniente dalla (sola) aggiudicazione della gara” (cfr. pag. 14); che, infine, la quantificazione del risarcimento sarebbe infondata, non potendo prendersi in esame il criterio del 10% del prezzo a base d’asta, trattandosi di parametro ritenuto infondato dalla giurisprudenza, a ciò soggiungendo che “l’utile che le ricorrenti avrebbero potuto ottenere dall’esecuzione dell’appalto in questione deve in ogni caso essere decurtato del 50%. E ciò in applicazione del principio dell’aliunde perceptum vel percipiendum” (cfr. pag. 20), e che, dal momento che il raggruppamento secondo classificato comprendeva altri soggetti, che invece non hanno proposto ricorso, la proposta domanda potrebbe mirare a ottenere “al più il solo 78,31% del risarcimento da perdita di chance a cui poteva anelare l’intero raggruppamento se avesse unitariamente agito in giudizio” (cfr. pag. 22).

All’udienza dell’11 marzo 2015 la causa è stata trattenuta per la decisione.

DIRITTO

Occorre, preliminarmente, esaminare l’eccezione di irricevibilità della domanda risarcitoria, opposta dalla società resistente sull’assunto che la decorrenza del “termine di decadenza di centoventigiorni”, previsto dall’art. 30 del codice del processo amministrativo, sarebbe da individuare, analogamente a quanto previsto dall’art. 79 del D.lgs. 163/2006, nella “comunicazione dell’aggiudicazione definitiva di cui all’art. 79 del D.lgs. n. 163 del 2006 (…). Il tutto conformemente – è appena il caso di sottolinearlo – alla recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, che ha ribadito la perentorietà di detto termine per le asserite illegittimità verificatesi “prima della decisione di aggiudicazione dell’appalto” (Corte Giust., sez. V, causa C-161/13, sentenza in data 8 maggio 2014, punto 45), indipendentemente dal momento in cui dette illegittimità sono state conosciute” (cfr. pagg. 3 – 4 della memoria del 28.2.2015).

Ad avviso del Collegio tale eccezione è infondata, come conferma un più completo esame della giurisprudenza comunitaria richiamata dalla resistente.

Nella sentenza sopra citata si è, anzitutto, rilevato che “conformemente alla giurisprudenza della Corte, ricorsi efficaci contro le violazioni delle disposizioni applicabili in materia di aggiudicazione di appalti pubblici possono essere garantiti soltanto se i termini imposti per proporre tali ricorsi comincino a decorrere solo dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione di dette disposizioni” (cfr. punto 37).

Il fondamento giuridico di tale statuizione è stato ricondotto alla precedente sentenza del 28 gennaio 2010, n. C-406/08 (c.d. “Uniplex”), in cui è stato ribadito:

a) che “il termine per proporre un ricorso diretto a far accertare la violazione della normativa in materia di aggiudicazione di appalti pubblici ovvero ad ottenere un risarcimento dei danni per la violazione di detta normativa decorra dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della violazione stessa” (cfr. punto 25);

b) che “le modalità procedurali di ricorso in giudizio destinate ad assicurare la salvaguardia dei diritti conferiti dal diritto comunitario ai candidati ed agli offerenti lesi da decisioni delle autorità aggiudicatrici non devono mettere in pericolo l’effetto utile della direttiva 89/665” (cfr. punto 27);

c) che “l’obiettivo di celerità perseguito dalla direttiva 89/665 non consente agli Stati membri di prescindere dal principio di effettività, in base al quale le modalità di applicazione dei termini di decadenza nazionali non devono rendere impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti spettanti agli interessati in forza del diritto comunitario, principio che è alla base dell’obiettivo riguardante l’efficacia del ricorso, esplicitato nell’art. 1, n. 1, di detta direttiva” (cfr. punto 40).

Si tratta di statuizioni che riflettono l’esigenza di realizzare nell’ordinamento l’effettività della tutela giurisdizionale, principio che la pronuncia del 2010 ha ribadito osservando che “la direttiva 89/665, come modificata dalla direttiva 92/50, impone al giudice nazionale di prorogare il termine di ricorso, esercitando il proprio potere discrezionale, in maniera tale da garantire al ricorrente un termine pari a quello del quale avrebbe usufruito se il termine previsto dalla normativa nazionale applicabile fosse decorso dalla data in cui egli era venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della violazione della normativa in materia di aggiudicazione di appalti pubblici. Qualora le disposizioni nazionali relative ai termini di ricorso non si dovessero prestare ad un’interpretazione conforme alla direttiva 89/665, come modificata dalla direttiva 92/50, il giudice nazionale sarebbe tenuto a disapplicarle, al fine di applicare integralmente il diritto comunitario e di proteggere i diritti che questo attribuisce ai singoli”.

Dell’orientamento espresso nella sentenza Uniplex la Corte ha, dunque, fatto coerente applicazione nella sentenza dell’8 maggio 2014, n. C- 161/13, in cui è stato precisato:

a) che “una possibilità, come quella prevista dall’articolo 43 del decreto legislativo n. 104/2010, di sollevare “motivi aggiunti” nell’ambito di un ricorso iniziale proposto nei termini contro la decisione di aggiudicazione dell’appalto non costituisce sempre un’alternativa valida di tutela giurisdizionale effettiva. Infatti, in una situazione come quella di cui al procedimento principale, gli offerenti sarebbero costretti a impugnare in abstracto la decisione di aggiudicazione dell’appalto, senza conoscere, in quel momento, i motivi che giustificano tale ricorso” (cfr. punto 40);

b) che “l’offerente, sulla base delle informazioni che gli sono state comunicate ai sensi dell’articolo 2 bis della direttiva 92/13 e dell’articolo 49 della direttiva 2004/17 e in base a quelle che avrebbe potuto ottenere dando prova di un’ordinaria diligenza, era in grado di proporre un ricorso contro le violazioni eventuali del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici e che, di conseguenza, non è necessario riaprire il termine di ricorso previsto dalla normativa nazionale” (cfr. punto 43).

Ad avviso del Collegio, le statuizioni sopra richiamate pongono in evidenza che la perentorietà del termine per l’impugnazione non costituisca l’unico ed esclusivo presidio della certezza del diritto.

Tale principio, all’opposto, è da ritenersi compatibile con una verifica in concreto volta a stabilire se il ricorrente che sia stato destinatario dell’attività informativa circa la disposta aggiudicazione (cfr. art. 49 della Direttiva 2004/17/CE, richiamato dall’art. 2 bis della Direttiva 92/13: disciplina analoga a quella di cui all’art. 79, comma 5 del D.lgs. 163/2006) abbia avuto conoscenza (o avrebbe potuto avere conoscenza, mediante l’ordinaria diligenza) dell’esistenza di violazioni suscettibili di giustificare la proposizione del ricorso.

Nessun’altra interpretazione può, infatti, attribuirsi all’espressa precisazione della Corte di Giustizia secondo cui, nell’ipotesi che la conoscenza della violazione sia provata o fondatamente presumibile (nei termini di cui più sopra si è detto), “non è necessario riaprire il termine di ricorso previsto dalla normativa nazionale” (cfr. punto 43).

L’apprezzamento circa la necessità di una riapertura del termine per ricorrere sembra, perciò, costituire il profilo dirimente della disciplina sulla decorrenza del termine, come si è, inoltre, meglio chiarito in ulteriori passaggi della motivazione.

Più in dettaglio, è stata, dapprima, esaminata l’ipotesi di emissione di un nuovo provvedimento di aggiudicazione conseguente all’annullamento della “decisione di aggiudicazione dell’appalto al raggruppamento primo classificato”, riguardo alla quale è stata ritenuta legittima la riapertura del termine per ricorrere (cfr. punto 44): una fattispecie, questa, che peraltro esula dalla materia del contendere.

Al punto 45 (cioè la parte della pronuncia richiamata dalla società resistente nei propri scritti), il Giudice comunitario ha, invece, statuito che “in applicazione del principio di certezza del diritto, in caso di irregolarità asseritamente commesse prima della decisione di aggiudicazione dell’appalto, un offerente è legittimato a proporre un ricorso di annullamento contro la decisione di aggiudicazione soltanto entro il termine specifico previsto a tal fine dal diritto nazionale, salvo espressa disposizione del diritto nazionale a garanzia di tale diritto di ricorso, conformemente al diritto dell’Unione”.

Tale statuizione, soltanto in apparenza esaustiva, non è, tuttavia, riferibile all’ipotesi oggetto della fattispecie all’esame, ossia alla conoscenza sopravvenuta dei vizi dell’aggiudicazione.

Per definire un criterio risolutore, la giurisprudenza ha, perciò, chiarito che occorre determinare se il ricorrente abbia avuto conoscenza (o conoscibilità) del vizio inficiante la procedura di gara prima dell’aggiudicazione, oppure se tale conoscenza – come appunto nel caso che ci occupa – sia sopravvenuta (a tal riguardo, la Corte ha, infatti, soggiunto al punto 46 che “per converso”, cioè letteralmente “al contrario” dell’ipotesi di cui al punto 45, “un offerente è legittimato a proporre un ricorso per risarcimento danni entro il termine generale di prescrizione previsto a tal fine dal diritto nazionale”).

Non si tratta, perciò, di stabilire se la conoscenza di un vizio sia di entità tale da consentire la proposizione di un ricorso, quanto, piuttosto, se il ricorrente, con l’ordinaria diligenza, avrebbe potuto ricavare dal provvedimento suscettibile di impugnazione la pur minima consapevolezza della sua lesività.

La diversità delle illustrate fattispecie ha condotto la Corte di Giustizia a ritenere che il principio di certezza del diritto non imponga “necessariamente” la riapertura del termine per proporre il ricorso: un’affermazione, questa, che collide con quanto eccepito dalla società Expo 2015 S.p.A., secondo la quale la decorrenza del termine dovrebbe immutabilmente coincidere con la “ricezione della comunicazione di cui all’art. 79 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163”.

L’evoluzione della giurisprudenza comunitaria è stata, inoltre, rimarcata da una recente pronuncia della III Sezione del Consiglio di Stato, in cui si è rilevato che “avendo (…) la Corte di Giustizia affermato (…) che ricorsi efficaci contro le violazioni delle disposizioni applicabili in materia di aggiudicazione possono essere garantiti soltanto se i termini imposti per proporre tali ricorsi comincino a decorrere solo dalla data in cui il ricorrente è venuto a conoscenza o avrebbe dovuto essere a conoscenza della pretesa violazione di dette disposizioni e che, per le irregolarità asseritamente commesse prima della decisione di aggiudicazione dell’appalto, un offerente è legittimato a proporre un ricorso di annullamento contro la decisione di aggiudicazione soltanto entro il termine specifico previsto a tal fine dal diritto nazionale, si deve necessariamente fornire una interpretazione delle disposizioni del diritto nazionale (che si sono prima richiamate), riguardanti il termine di impugnazione di una aggiudicazione di un appalto pubblico, che sia coerente con i principi affermati dalla Corte di Giustizia in tale decisione (ed anche in altre precedenti decisioni: cfr. Corte di Giustizia CE, III Sezione, 28 gennaio 2010 in causa C-406/08)” (cfr. sentenza, sez. III, 28 agosto 2014, n. 4432).

Invero, la tesi su cui è incentrata l’eccezione opposta dalla società resistente finisce per evidenziare un erroneo presupposto logico.

Non è, infatti, fondatamente sostenibile che, al momento della comunicazione ex art. 79 del D.lgs. 163/2006 (22.11.2013), le società ricorrenti fossero al corrente, o potessero anche astrattamente percepire, le dannose conseguenze dell’operato illecito (allora ignoto) posto in essere dagli appartenenti al sodalizio criminale, essendosi tali conseguenze palesatesi “solo nel maggio 2014” (cfr. pag. 3 del ricorso), vale a dire quando i citati soggetti sono stati arrestati (8.5.2014).

Soltanto dopo aver percepito il carattere delittuoso delle condotte in questione, e, in diretta dipendenza, la rilevanza eziologica di tali comportamenti in ordine alla consumata turbativa della procedura di gara, il RTI ricorrente ha, senza indugio, notificato il ricorso introduttivo (11.6.2014), depositato il giorno successivo (12.6.2014).

Quanto, in ultimo, alla disciplina di cui all’art. 30, comma 3 del codice del processo amministrativo (secondo cui “la domanda di risarcimento per la lesione di interessi legittimi debba essere proposta entro il termine di centoventi giorni dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento se il danno deriva direttamente da questo”), occorre rilevare che la prima parte della norma presenta una formulazione identica a quella di cui all’art. 2947 del codice civile, mentre la seconda parte collega la decorrenza del termine decadenziale alla conoscenza del provvedimento nei casi in cui il danno sia a questo direttamente ascrivile.

A prescindere dal rischio di confondere la disciplina sulla prescrizione con quella sulla decadenza, non pare in ogni caso dubbio che la citata disposizione rifletta l’influenza dei principi giuscivilistici.

A tal proposito, la Suprema Corte (cfr. sez. III, 6 dicembre 2011, n. 26188) ha affermato:

– che “il testo dell’art. 2947 c.c. dev’essere letto e interpretato congiuntamente al disposto dell’art. 2935 c.c.”, nel senso che “per poter esercitare il diritto al risarcimento del danno è cioè indispensabile che il titolare sia adeguatamente informato non solo dell’esistenza del danno, ma anche della sua ingiustizia, non potendo altrimenti riscontrarsi nel suo comportamento l’inerzia che è alla base della prescrizione”;

– che il termine per proporre la domanda di risarcimento non dev’essere, pertanto, fatto decorrere “dal momento in cui l’agente compie l’illecito o da quello in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, bensì dal momento in cui l’illecito e il conseguente danno si manifestano all’esterno, divenendo oggettivamente percepibili e riconoscibili”.

Per rafforzare tale principio è pertinente esaminare un’altra pronuncia (cfr. Corte di Cassazione, sez. III, 21 giugno 2011, n. 13616), di poco anteriore, in cui il fatto illecito dedotto come causativo del danno era stata “la violazione posta in essere da un medico nel trattamento di dati sensibili, quali quelli attinenti alla salute psicofisica della persona, attuata mediante la trasmissione del certificato, contenente la richiesta di sottoposizione di un soggetto a TSO, a destinatari diversi da quelli prescritti nella legge; ai Carabinieri, che a loro volta lo trasmettevano alla locale Procura della Repubblica oltre che al Sindaco, invece che direttamente al Sindaco”.

Nella motivazione di tale sentenza, la Cassazione ha evidenziato, sul piano generale, che “il progressivo allontanamento dalla lettera dell’art. 2947 c.c., comma 1, specificativo dell’art. 2935 cod. civ. per la responsabilità aquiliana, ma vivente nell’esperienza giurisprudenziale e scientifica rispetto a tutte le azioni risarcitorie, è stato realizzato attraverso due passaggi fondamentali. Il primo, risalente agli anni settanta del secolo scorso, ha spostato il dies a quo dal giorno in cui il fatto si è verificato, secondo la formulazione letterale dell’art. 2947, cit., all’esteriorizzazione del danno, sostituendosi allo schema del codice. Decorrendo dal momento della manifestazione del danno, l’orizzonte della prescrizione può dilatarsi, e il limite ancorato dal legislatore al fatto causativo dei danno diventa mobile. Il secondo, collocabile nei primi anni di questo secolo, ha ulteriormente contribuito allo spostamento del dies a quo, attribuendo rilievo, oltre alla manifestazione-conoscibilità del danno, alla rapportabilità causale del danno al comportamento posto in essere da un soggetto determinato. Contemporaneamente, ha provveduto ad ancorare la conoscibilità soggettiva del danneggiato a due parametri obiettivi, l’uno interno e l’altro esterno al soggetto, verificabili dal giudice senza scivolare in indagini di tipo psicologico. Da un lato, al parametro dell’ordinaria diligenza; dall’altro al livello di conoscenze scientifiche dell’epoca”.

Essa ha, quindi, osservato che “il momento, rilevante per la rapportabilità causale del danno lamentato a un comportamento posto in essere da un soggetto determinato e della conseguente decorrenza della prescrizione, coincide con quello in cui il preteso danneggiato ha avuto legalmente la possibilità di attivarsi per conoscere quei documenti”, e che, pertanto, “la prescrizione non può iniziare a decorrere sino a che non è legalmente conoscibile la causa del preteso danno, poiché la mera esistenza empirica del fatto assunto come causativo del danno (trasmissione illegittima di documento contenente dati sensibili), non ancora attribuibile a soggetto determinato, non è idonea in sé a concretizzare il fatto che l’art. 2947 c.c., comma 1, individua quale esordio della prescrizione”.

La Suprema Corte ha, pertanto, espresso il principio secondo cui “la prescrizione decorre dal momento in cui il danneggiato, con l’uso dell’ordinaria diligenza, sia in grado di avere conoscenza dell’illecito, del danno e della derivazione causale dell’uno dall’altro”.

Le pronunce sopra indicate, che hanno puntualmente analizzato la disciplina processuale sulla decorrenza del termine, decisivamente contribuiscono a chiarire l’interpretazione da attribuire alla formulazione dell’art. 30 del codice del processo amministrativo.

Sulla scorta di tale autorevole lettura, ma prima ancora del buon senso, non può, dunque, che concludersi che la ricezione della comunicazione ex art. 79 del D.lgs. 163/2006 non avrebbe mai potuto di per sé sola consentire alle società ricorrenti d’ipotizzare che il corso della procedura di aggiudicazione sarebbe stato piegato all’esigenza di affidare il contratto all’impresa Maltauro.

Sarebbe stato, perciò, ontologicamente impossibile – neppure con la più qualificata diligenza – proporre una domanda risarcitoria.

Il Collegio è, pertanto, dell’avviso che non si possa prescindere dall’esatta percezione delle conseguenze dannose scaturite dall’illiceità della procedura di gara oggetto del contendere: ne deriva che, nel caso di specie, è provato che le ripercussioni degli illeciti siano divenute conoscibili alle ricorrenti soltanto dopo l’eclatante scoperta del patto delittuoso volto a turbare la selezione pubblica, la cui rilevanza nelle vicende in questione è stata pienamente confermata dalle richieste di patteggiamento accolte dal GIP del Tribunale di Milano.

Oltre che ricevibile, il ricorso è fondato e va, pertanto, accolto, nei termini che seguono.

A fondamento delle proposte domande le ricorrenti hanno dedotto:

– che “Expo 2015 S.p.A., malgrado abbia ricevuto il sollecito (…) alla risoluzione del contratto e al (…) subentro nell’esecuzione (…), nulla ha risposto, né ha convocato l’incontro per approfondimenti richiesti e non risulta aver posto in essere alcuna attività volta a ripristinare la legalità palesemente violata” (cfr. pag. 8 del ricorso);

– che “la forza attribuita dalla legge 190/2012 ai protocolli di legalità è tale, per la materia trattata e per il preciso riferimento ivi previsto ai trattati internazionali, da conferire loro carattere imperativo a tutela dell’ordine pubblico; altrimenti la violazione delle condotte che i Protocolli intendono prevenire sarebbe priva di efficacia e del tutto vano averli valorizzati da parte del Legislatore ed averli diligentemente posti in essere dalle stazioni appaltanti e dalle Prefetture” (cfr. pag. 11);

– che “i Protocolli di Legalità traggono inizialmente origine nell’ordinamento proprio dalle speciali disposizioni in materia di grandi infrastrutture, allorquando l’art. 176, comma 3 lett. e) del cod. contratti pubblici prescrive che i soggetti aggiudicatori stipulino accordi con gli organi competenti in materia di prevenzione e repressione della criminalità, finalizzati alla verifica preventiva del programma di esecuzione dei lavori in vista del successivo monitoraggio di tutte le fasi esecutive” (cfr. pag. 13);

– che “in assenza di caducazione del contratto e subentro dell’ATI Perregrini, l’ATI Maltauro porterebbe a fine il lavoro, lucrando quanto previsto, mentre al ricorrente che ha subìto la lesione del suo bene della vita consistente nella continuazione dell’attività imprenditoriale attraverso l’acquisizione di nuovo appalto, rimarrebbe un risarcimento danni; ma questo risarcimento sarebbe a carico dell’Erario, con doppio danno per la spesa di denaro pubblico (aver dato l’appalto in situazione di concorrenza lesa – anzi, cancellata – e pagato danni al secondo in graduatoria)” (cfr. pag. 14).

Il Collegio ritiene che tali deduzioni correttamente individuino la funzione e l’utilità dei protocolli di legalità quali diretta emanazione della legislazione speciale in tema di grandi opere pubbliche.

L’art. 3 quinquies del D.L. 135/2009 (convertito nella legge 166/2009, espressamente richiamata nel protocollo Expo) ha, infatti, previsto che “il Prefetto della Provincia di Milano, quale prefetto del capoluogo della Regione Lombardia, assicura il coordinamento e l’unità di indirizzo di tutte le attività finalizzate alla prevenzione delle infiltrazioni della criminalità organizzata nell’affidamento e esecuzione di contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi e forniture, nonché nelle erogazioni e concessioni di provvidenze pubbliche connessi alla realizzazione del grande evento Expo Milano 2015” (comma 1).

Il sistema dei controlli riguardanti l’affidamento e l’esecuzione dei contratti pubblici è, pertanto, preordinato a garantire l’interesse, pubblico e generale, alla legalità delle procedure di gara.

Nel Protocollo sottoscritto in data 13.2.2012 si è, pertanto, solennemente stabilito che “è volontà dei firmatari (…) assicurare la realizzazione del preminente interesse pubblico alla legalità ed alla trasparenza in relazione alla realizzazione dell’evento “Expo Milano 2015”, ai sensi dell’art. 3 quinquies del D.L. 25 settembre 2009, n. 135, convertito dalla L. 20 novembre 2009, n. 166, esercitando appieno i poteri di monitoraggio e vigilanza attribuiti dalla legge, anche ai fini di prevenzione, controllo e contrasto dei tentativi di infiltrazione mafiosa e di verifica della sicurezza e della regolarità dei cantieri di lavoro”.

È, quindi, evidente che la strategia di difesa delle stazioni appaltanti contro possibili fenomeni di corruzione e malaffare, trasfusa nel protocollo, non sia stata (e non potesse essere) limitata alla predisposizione di efficaci clausole di gara, vincolanti per i soli concorrenti.

All’opposto, tali accordi hanno riflesso l’esigenza di porre al centro dell’azione amministrativa il principio di legalità, di cui la legittimità amministrativa è un essenziale, ma non esaustivo, complemento, in linea, del resto, con quanto previsto dal “considerando n. 39” della Direttiva 2004/18/CE (“la verifica dell’idoneità degli offerenti, nelle procedure aperte, e dei candidati, nelle procedure ristrette e negoziate con pubblicazione di un bando di gara nonché nel dialogo competitivo, e la loro selezione dovrebbero avvenire in condizioni di trasparenza”), richiamato nella sentenza n. 1802/2014.

La previsione di cui al comma 17 dell’art. 1 della legge 190/2012 (“le stazioni appaltanti possono prevedere negli avvisi, bandi di gara o lettere di invito che il mancato rispetto delle clausole contenute nei protocolli di legalità o nei patti di integrità costituisce causa di esclusione dalla gara”) va, dunque, intesa alla stregua di una misura integrata nella disciplina finalizzata a realizzare l’obiettivo perseguito dal legislatore, cioè “assicurare azione coordinata, attività di controllo, di prevenzione e di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione” (comma 1 della medesima norma).

A riprova di ciò è sufficiente considerare che nel protocollo di legalità è stato previsto, all’art. 4 (dal titolo “prevenzione interferenze illecite ed oneri a carico di Expo”) che “in occasione di ciascuna delle gare indette per la realizzazione delle opere, Expo si impegna (…) ii) a predisporre la documentazione di gara nel rispetto dei principi ispiratori del presente protocollo e, nello specifico, a prevedere una disciplina quanto più possibile volta a garantire la tutela della legalità e la trasparenza”: una dichiarazione espressiva dell’assunzione di un tassativo obbligo di fronteggiare e reprimere la corruzione e il malaffare, al quale, però, non è stato dato adempimento alcuno.

In ogni caso, sull’efficacia e multiforme funzione dei protocolli di legalità, il Collegio è dell’avviso che utili profili di ricostruzione siano stati sollevati nell’ordinanza del 12 settembre 2014, n. 534 (successiva alla sentenza non definitiva della Sezione, ma anteriore a quella del Giudice di seconde cure), con cui il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia ha deferito alla Corte di Giustizia le seguenti questioni:

1) “se il diritto dell’Unione europea e, in particolare, l’art. 45 della direttiva 2004/18/CE osti a una disposizione, come l’art. 1, comma 17, della L. n. 190/2012, che consenta alle stazioni appaltanti di prevedere come legittima causa di esclusione delle imprese partecipanti a una gara indetta per l’affidamento di un contratto pubblico di appalto, la mancata accettazione, o la mancata prova documentale dell’avvenuta accettazione, da parte delle suddette imprese, degli impegni contenuti nei c.d. “protocolli di legalità” e, più in generale, in accordi, tra le stazioni appaltanti e le imprese partecipanti, volti a contrastare le infiltrazioni della criminalità organizzata nel settore degli affidamenti di contratti pubblici”;

2) “se, ai sensi dell’art. 45 della direttiva 2004/45/CE, l’eventuale previsione da parte dell’ordinamento di uno Stato membro della potestà di esclusione, descritta nel precedente quesito, possa essere considerata una deroga al principio della tassatività delle cause di esclusione giustificata dall’esigenza imperativa di contrastare il fenomeno dei tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata nelle procedure di affidamento di contratti pubblici”.

Nella motivazione dell’ordinanza di rinvio, in particolare, il Consiglio ha fatto presente di avere in precedenza statuito, nella sentenza del 2 settembre 2014, n. 490, che “l’art. 1, comma 17, della L. n. 190/2012 implica che le amministrazioni aggiudicatrici abbiano il potere di pretendere l’accettazione, a pena di esclusione, di tali protocolli, non ostando a siffatta esegesi il tenore letterale della previsione che apparentemente si riferisce soltanto al mancato “rispetto” e non anche alla mancata accettazione dei protocolli in questione; difatti, diversamente opinando, risulterebbe vanificata la finalità degli impegni che le imprese concorrenti assumono, mediante l’accettazione dei ridetti protocolli, onde prevenire e contrastare il fenomeno di eventuali tentativi di infiltrazione della criminalità organizzata nel settore degli appalti”.

Impregiudicata restando la futura pronuncia del Giudice comunitario sulle rimesse questioni, nella citata ordinanza di rinvio è stato, tuttavia, manifestato l’avviso secondo cui “l’art. 1, comma 17, della L. n. 190/2012 non confligga con l’art. 45, paragrafo 1, comma 3, della direttiva 2004/18/CE, atteso che l’art. 1 sunnominato, sebbene comportante un adempimento a carico delle imprese che partecipino a una procedura di affidamento di contratti pubblici, risponde tuttavia a una dichiarata logica di contrasto in via anticipata del fenomeno della criminalità organizzata, la cui alta diffusività costituisce un serio pericolo per la genuinità e l’effettiva concorrenzialità delle gare”.

Il Consiglio ha, poi, soggiunto che “si tratta pertanto di disposizione che attiene direttamente all’ordine pubblico e alla prevenzione del crimine (seppur indirettamente, come osservato sopra, rafforzi pure l’effettiva concorrenzialità delle procedure, preservandole da interferenze illecite) e che corrisponde, dunque, a esigenze imperative di interesse generale, in relazione al quale gli Stati membri, proprio in virtù del succitato comma 3 del paragrafo 1 dell’art. 45 della direttiva 2004/18/CE, possono derogare al principio di tassatività delle cause di esclusione. Nondimeno, potendo sussistere dubbi riguardo all’ortodossia eurounitaria di siffatta esegesi, questo Consiglio, in quanto sezione staccata del Consiglio di Stato (giusta l’art. 1, comma 2, del D.lgs. n. 373/2003) e, quindi, nella qualità di giudice di ultima istanza in relazione alla presente controversia (giacché avverso le decisioni di merito di questo Consiglio non è possibile proporre un ricorso giurisdizionale di diritto interno), reputa doveroso sottoporre comunque la questione al vaglio della Corte di Giustizia”.

Il richiamo all’ordine pubblico, in effetti, integra nella specie un profilo di decisiva rilevanza, che le ricorrenti hanno posto in evidenza nell’atto introduttivo del giudizio, rimarcando che già “l’A.V.C.P. aveva ravvisato in tali protocolli dei “mezzi posti a tutela di interessi di rango sovraordinato e gli obblighi in tal modo assunti discendono dall’applicazione di norme imperative di ordine pubblico” (punto 3, determinazione n. 4 del 10 ottobre 2012)” (cfr. pag. 6 del ricorso).

Pertanto, sul fondato assunto secondo cui l’art. 1, comma 17 della legge 190/2012 debba essere considerata una disposizione “che attiene direttamente all’ordine pubblico e alla prevenzione del crimine”, deve concludersi che all’applicazione della relativa disciplina – improntata all’obiettivo di cui al citato art. 1, comma 1 della legge 190/2012 – non si sarebbe potuta sottrarre, per prima, la stazione appaltante, sulla quale incombeva l’obbligo di garantire non soltanto sul piano formale, ma su quello dell’effettività, il rispetto del principio di legalità.

Il Consiglio di Giustizia ha, conclusivamente, considerato:

– che “i protocolli in discorso sono, dunque, strumenti convenzionali, consistenti in accordi tra amministrazioni aggiudicatrici e imprese, che rinvengono la loro base legislativa di carattere generale nell’art. 15 della L. n. 241/1990, nonché in norme speciali in materia di contratti pubblici, come il succitato art. 1, comma 17, della L. n. 190/2012 o come l’art. 176, comma 3, lett. e), del D.lgs. n. 163/2006”;

– che essi “assolvono insomma a una duplice funzione: essi, come accennato, sono strumentali alla lotta ai fenomeni di devianza criminale e, in forza di tale azione di contrasto, risultano altresì funzionali alla tutela dei fondamentali principi di concorrenza e di trasparenza che presidiano la disciplina europea e italiana dei pubblici appalti”.

Se, dunque, la società Expo 2015 ha approvato il protocollo di legalità, disponendo che le previsioni in esso contenute fossero inserite nei bandi e recepite negli stipulandi contratti di appalto, e che, pertanto, tutti i concorrenti si impegnassero a rispettarle (art. 4, comma 1, lett. iii e comma 2) deve ritenersi che la precettività di tali obblighi non potesse che compendiare un preventivo ed effettivo impegno della stessa stazione appaltante ad assicurare, nel contesto di tali procedure, un confronto concorrenziale scevro da qualsiasi condizionamento.

Di conseguenza, nei confronti della società Expo sussisteva l’obbligo giuridico di impedire con azioni di contrasto concrete (non potendo più qualificarsi i citati protocolli come meri atti di indirizzo politico dopo l’entrata in vigore della legge 190/2012) la permeabilità del malaffare nelle procedure di affidamento di “opere essenziali”, come sono state qualificate dal DPCM 22 ottobre 2008 (art. 1, comma 3) quelle oggetto dell’Evento universale.

Le vicende che hanno interessato l’appalto controverso hanno, però, evidenziato l’assenza di una sollecita azione amministrativa della società che ha gestito la manifestazione dal “preminente interesse pubblico alla legalità”.

L’impegno espressamente assunto all’art. 4, comma 1, lett. ii) del Protocollo è stato, perciò, disatteso, e ciò in contrasto con la precipua finalità cui devono tendere le procedure di gara, ben inquadrata dalla giurisprudenza quale criterio di soluzione dei conflitti fra più soggetti che concorrano nell’ambito di una medesima procedura di gara.

Nell’Adunanza plenaria del 25 febbraio 2014, n. 9 (riguardante il complesso rapporto processuale tra ricorso principale e ricorso incidentale) è stato, in particolare, richiamato “il recente arresto delle Sezioni unite della Corte di Cassazione (sentenza del 21 giugno 2012 n. 10294) che in un obiter dictum (…) ha affermato che il principio di diritto enunciato dalla sentenza della Adunanza plenaria n. 4 del 2011 suscita “indubbiamente delle perplessità che lasciano ancor più insoddisfatti ove si aggiunga che l’aggiudicazione può dare vita ad una posizione preferenziale soltanto se acquisita in modo legittimo e che la realizzazione dell’opera non rappresenta in ogni caso l’aspirazione dell’ordinamento (v. artt 121/123 cod. proc. amm.), che in questa materia richiede un’attenzione e un controllo ancora più pregnanti al fine di evitare distorsioni della concorrenza e del mercato”.

Per giungere a tale conclusione la Suprema Corte ha posto in rilievo, nella sentenza richiamata dall’Adunanza plenaria, il rischio di un’incipiente “crisi del sistema che, al contrario, proclama di assicurare a tutti la possibilità di ricorrere al giudice per fargli rimediare a quello che (male) ha fatto o non ha fatto l’Amministrazione. Secondo il sistema, cioè, ciascun interessato ha facoltà di provocare l’intervento del giudice per ripristinare la legalità e dare alla vicenda un assetto conforme a quello voluto dalla normativa di riferimento”.

Traducendo tali principi nella fattispecie controversa, è palese l’insufficienza di una cognizione che sia fondata sull’illustrazione di fatti e di vicende giuridiche ascrivibili a una visione di parte (quella, appunto, della stazione appaltante), espressione di un modello processuale ancorato al “giudizio sull’atto”: questa è stata la prospettiva che ha condotto la società resistente a sostenere la “legittimità dell’intera procedura e dell’aggiudicazione in ordine a tutti i profili di illegittimità dedotti in giudizio dalla ricorrente e comunque posti a fondamento della decisione di primo grado” (cfr. pag. 8 della memoria del 28.2.2015 di Expo 2015 S.p.A.).

Tale concezione, tuttavia, non è condivisa dal Collegio, posto che essa derubrica infondatamente l’accertata illiceità della procedura di gara e, in misura non meno sensibile, le ragioni che hanno determinato il commissariamento dell’appalto.

All’opposto, si deve ritenere che nella specie debba trovare riscontro l’evoluta qualificazione del processo amministrativo come “giudizio sul rapporto”, stabilmente affermatasi nell’esperienza giuridica “poiché il codice del processo amministrativo abilita all’utilizzo di mezzi di accertamento relativi all’esistenza dei presupposti della pretesa e non alle mere modalità di esercizio dell’azione amministrativa, consegue che sempre di più l’azione davanti al giudice amministrativo sia qualificabile come avente ad oggetto direttamente il fatto, senza doversi limitare all’esame tramite il prisma dell’atto (cfr., in questo senso, C.d.S., adunanza plenaria, 23 marzo 2011, n. 3)” (cfr. Adunanza plenaria, 15 gennaio 2013, n. 2).

Assumendo tale impostazione, la responsabilità della società Expo, alla luce della sua incapacità di assicurare la legalità della procedura di gara e, una volta emerse le sopra citate condotte di malaffare, di porvi immediato rimedio, trova piena conferma ove si raffrontino le condotte illecite dei soggetti (prima indagati e poi) condannati e gli atti e i provvedimenti assunti dalla stazione appaltante nell’ambito del procedimento di gara.

L’esame della documentazione prodotta, unitamente all’analisi del contenuto dell’ordinanza del GIP presso il Tribunale di Milano del 6.5.2014, rivelano, infatti: che successivamente alla ricezione, entro il 3 aprile 2013, delle domande di partecipazione alla procedura di gara, pervenute nel numero di 24, “sin dal mese di maggio 2013 il sodalizio (…) prepara le condotte di turbativa inerenti le procedure di evidenza pubblica relative all’EXPO S.p.A., con particolare riferimento anche a quella innanzi specificata” e che, in particolare, “Maltauro e Greganti Primo (…) si attivano nei confronti di commissari “amici” che immediatamente garantiscono un precostituito giudizio di favore circa l’offerta di Maltauro” (cfr. pag. 246); che in data 26 giugno 2013 è stata trasmessa la lettera d’invito a 23 concorrenti; che il 29 luglio 2013 sono pervenute 12 offerte e, in pari data, è stata nominata la commissione giudicatrice nelle persone dei commissari precedentemente subornati, con esito positivo, dai sopra citati esponenti del sodalizio criminoso; che le sedute pubbliche si sono tenute in data 30 luglio 2013 e in data 17 ottobre 2013, inframmezzate da alcune sedute riservate; che poco prima della seconda seduta pubblica, cioè in data 17 settembre 2013, vi è stato un “incontro riservato” tra Rognoni e Frigerio, in esito al quale il primo “assume l’incarico conferitogli (…) di “parlare” con Paris. L’intervento richiesto ha ad oggetto la turbativa della gara assicurando la “neutralità” del pubblico ufficiale Paris rispetto all’atteggiamento di favore già precostituito dei commissari avvicinati da Maltauro e Greganti ed è effettivamente attuato il successivo 20 settembre 2013, giorno in cui Cattozzo conferma a Frigerio l’esito positivo della programmata azione di avvicinamento a Paris” (cfr. pag. 248); che il 17 ottobre 2013 è stata disposta l’aggiudicazione provvisoria in favore dell’impresa Maltauro; che il 22 ottobre 2013 la stazione appaltante ha richiesto, sia all’impresa Maltauro che alla seconda classificata (l’ATI Perregrini), la documentazione propedeutica al controllo sul possesso dei requisiti di cui all’art. 48, comma 2 del D.lgs. 163/2006; che a partire dal 25 ottobre 2013 – vale a dire in un momento precedente la conclusione dei suddetti controlli e l’emissione del provvedimento di aggiudicazione definitiva – “Frigerio, anche in ragione della condotta tenuta da Paris in ordine all’appalto delle “architetture di servizio” (…) intraprende una paziente e strategia opera di avvicinamento del detto pubblico ufficiale”, culminata in una riunione svoltasi il 29 ottobre 2013 “all’interno degli uffici della onlus Centro culturale Tommaso Moro”, a seguito della quale, come ha rilevato il GIP, “tra i due nasce immediatamente una intesa illecita addirittura definita da Frigerio “strepitosa”, al punto che il direttore generale chiede al sodale, prendendone nota, i nominativi di imprese “sponsorizzate” dall’associazione [criminosa] e da favorire con riferimento alle successive gare Expo” (cfr. pag. 249); che, poco meno di un mese più tardi, è seguita l’emissione del provvedimento di aggiudicazione definitiva (21 novembre 2013) e il 4 febbraio 2014 è stato stipulato il contratto d’appalto.

In data 7 maggio 2014 sono stati consegnati i lavori, ma già il giorno successivo (8 maggio 2014) gli appartenenti al sodalizio sono stati arrestati, il che ha reso di pubblico dominio le loro illecite condotte; le ricorrenti hanno formulato alla società di gestione dell’Expo, in data 20 maggio 2014, una richiesta di risoluzione del contratto di appalto, e quest’ultima ha avviato un’istruttoria interna “tesa a verificare la sussistenza di elementi atti a sostenere l’eventuale esercizio del diritto di risoluzione del vincolo contrattuale o l’adozione di altri atti in via di autotutela”, conclusasi con la determinazione del 4 giugno 2014 del vice-direttore “construction & dismantling division”, con cui è stato preso atto “dell’insussistenza (…) di elementi in fatto e diritto sufficienti per risolvere il vincolo contrattuale in via di autotutela” (sulla cui inattendibilità la Sezione si è espressa nella sentenza n. 1802/2014).

Infine, dopo la pubblicazione della sentenza non definitiva di primo grado (9 luglio 2014), che ha annullato la disposta aggiudicazione definitiva, con lettera del 10 luglio 2014 il Presidente dell’ANAC ha chiesto al Prefetto di Milano di assumere la gestione straordinaria e temporanea della società Maltauro nell’appalto oggetto del contendere, e ciò ai sensi dell’art. 32, comma 1, lett. b) del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, espressamente chiarendo, senza giri di parole, che “può affermarsi con assoluta certezza che l’appalto in questione è stato vinto grazie ad un’attività illecita” .

Il commissariamento è stato disposto con decreto del Prefetto del 16 luglio 2014, nella cui motivazione è stato rappresentato che “la società Expo 2015 S.p.A. ha adottato, con determinazione assunta lo scorso 4 giugno u.s. “in considerazione della grave compromissione del rapporto fiduciario conseguente al provvedimento di custodia cautelare nei confronti del legale rappresentante dell’impresa” apposito atto di avvio di una fase d’istruttoria e verifica e di monitoraggio”, propedeutica all’eventuale esercizio dei poteri di autotutela: occorre, tuttavia, precisare che non di avvio si è trattato, ma di un provvedimento di diretta comunicazione della reiezione della richiesta di risoluzione del rapporto contrattuale.

Il Prefetto ha, inoltre, rilevato, a fondamento dell’assunta gestione commissariale, che “persiste (…) la possibilità di condizionamento nell’esecuzione dell’appalto in questione e la necessità di salvaguardia degli interessi pubblici tutelati dalla nuova normativa, finalizzati a garantire che la prosecuzione di un appalto affidato illecitamente avvenga al riparo da ulteriori tentativi di condizionamento criminale e senza che l’impresa ne tragga un ingiustificato profitto, in quanto derivante da una condotta illecita”.

È, quindi, adeguatamente provato:

a) che “con assoluta certezza l’appalto in questione è stato vinto grazie ad un’attività illecita”;

b) che alla data del commissariamento (16 luglio 2014) persistesse il rischio di un condizionamento criminale, “scongiurato” dall’applicazione di una normativa sopravvenuta (24 giugno 2014) al provvedimento di reiezione della domanda di risoluzione (4 giugno 2014) che le ricorrenti avevano proposto (20 maggio 2014) all’indomani dell’emersione delle condotte di cui agli artt. 353 e 353 bis del codice penale (8 maggio 2014);

c) che, come prova la cronologia sopra illustrata, la turbativa della gara si è articolata mediante più condotte illecite poste in essere prima e nel corso della procedura di valutazione delle offerte (prima dell’aggiudicazione e, quindi, durante la fase pubblicistica).

L’esame obiettivo dei fatti pone, dunque, in evidenza un profondo solco tra la presunta “legittimità dell’intera procedura”, eccepita dalla società Expo 2015 per opporsi alla domanda risarcitoria e la manifesta illiceità della gara, accertata dal Tribunale penale di Milano, che, con sentenza del 27 novembre 2014, n. 14/3725, ha condannato (per i delitti previsti dagli artt. 81, cpv; 110; 353, commi 1 e 2; 353 bis del codice penale) il legale rappresentante dell’impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro S.p.A. (sig. Enrico Maltauro), il responsabile del procedimento di gara e presidente della commissione giudicatrice (sig. Angelo Paris), oltre che gli altri soggetti facenti parte del sodalizio criminoso (sigg.ri Gianstefano Frigerio, Sergio Cattozzo, Primo Greganti, Antonio Rognoni), i quali si sono tutti avvalsi degli effetti premiali del procedimento di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, il che ha determinato l’emissione di condanne a pene comprese tra i due anni e sei mesi e i tre anni e quattro mesi di reclusione.

È, pertanto, nell’illiceità della gara che il Collegio ravvisa la prova dell’incapacità della stazione appaltante di porre in essere un’efficace azione “di prevenzione e di contrasto della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione”, fine previsto dall’art. 1 della legge 190/2012.

Nonostante l’esistenza di plurime funzioni connesse alla gestione delle procedure di gara e di un notevole sistema di controlli, interno ed esterno, la società Expo non è, infatti, riuscita a evitare che venissero nominati nella funzione di componenti del seggio di gara dei “commissari “amici” che immediatamente garantiscono un precostituito giudizio di favore circa l’offerta di Maltauro” e che a ciò seguisse – con altrettanta, disarmante, semplicità – l’illecito coinvolgimento del Paris, che rivestiva le funzioni di presidente della commissione giudicatrice, per determinare con assoluta certezza l’aggiudicazione in favore dell’impresa Maltauro.

Tale profilo è stato oggetto di una recentissima pronuncia della Corte di Giustizia (12 marzo 2015, n. C-538/13), riguardante una procedura di gara nell’ambito della quale, molto tempo dopo la stipulazione del contratto di appalto (8 marzo 2011), la ricorrente pretermessa dall’aggiudicazione aveva in data 10 aprile 2012 “ulteriormente integrato il primo ricorso e addotto fatti nuovi, concernenti la parzialità degli esperti che hanno valutato le offerte, idonei a dimostrare la sussistenza di relazioni professionali fra questi ultimi e taluni specialisti indicati nell’offerta dei terzi”, cioè dell’impresa aggiudicataria.

La Lietuvos AukšĿiausiasis Teismas (corrispondente alla Corte di Cassazione della Lituania) ha, tra l’altro, sottoposto alla Corte di Giustizia la questione se alcune disposizioni della Direttiva 2004/18/CE (artt. 2; 44, paragrafo 1; 53, paragrafo 1, lettera a) debbano essere interpretate nel senso che “nell’ipotesi in cui un offerente sia venuto a conoscenza di un eventuale legame significativo di un altro offerente con esperti nominati dall’amministrazione aggiudicatrice che abbiano valutato le offerte e (o) dell’eventuale situazione particolare di tale altro offerente stanti i lavori preparatori svolti in precedenza collegati alla gara in discussione, e l’amministrazione aggiudicatrice non abbia intrapreso alcuna azione alla luce di siffatte circostanze, tali informazioni sono di per sé sufficienti a fondare una domanda all’autorità di vigilanza volta a ottenere il riconoscimento dell’illegittimità delle azioni poste in essere dall’amministrazione aggiudicatrice senza che quest’ultima si accertasse della trasparenza e dell’oggettività delle procedure, senza che sia richiesto al ricorrente di dimostrare concretamente la parzialità del comportamento degli esperti”.

Con la citata sentenza il Giudice comunitario ha rilevato:

– che “il principio di parità di trattamento tra gli offerenti, che ha lo scopo di favorire lo sviluppo di una concorrenza sana ed efficace tra le imprese che partecipano ad un appalto pubblico, impone che tutti gli offerenti dispongano delle stesse possibilità nella formulazione dei termini delle loro offerte e implica quindi che queste siano soggette alle medesime condizioni per tutti i concorrenti (v., in tal senso, sentenze Commissione/CAS Succhi di Frutta, C 496/99 P, EU:C:2004:236, punto 110, e Cartiera dell’Adda, C 42/13, EU:C:2014:2345, punto 44)” (cfr. punto 33);

– che “l’obbligo di trasparenza, che ne rappresenta il corollario, ha fondamentalmente lo scopo di eliminare i rischi di favoritismo e arbitrarietà da parte dell’autorità aggiudicatrice nei confronti di taluni offerenti o di talune offerte (v., in tal senso, sentenze Commissione/CAS Succhi di Frutta, EU:C:2004:236, punto 111, e Cartiera dell’Adda, EU:C:2014:2345, punto 44)” (cfr. punto 34);

– che “le amministrazione aggiudicatrici devono trattare gli operatori economici su un piano di parità, in modo non discriminatorio e agire con trasparenza” (punto 42)e che “poiché tale dovere corrisponde all’essenza stessa delle direttive relative alle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici (v. sentenza Michaniki, C 213/07, EU:C:2008:731, punto 45), ne risulta che l’amministrazione aggiudicatrice è, in ogni caso, tenuta a verificare la sussistenza di eventuali conflitti di interessi e ad adottare le misure adeguate al fine di prevenire, di individuare i conflitti di interesse e di porvi rimedio” (punto 43).

Le vicende sopra illustrate delineano, quindi, una responsabilità della stazione appaltante per culpa in vigilando e in eligendo, ravvisabile in ciò che si prospetta come un inescusabile fallimento del sistema dei controlli e della scelta dei funzionari da preporre a garanzia della trasparenza di una pubblica gara di tanto rilievo.

Nel caso dell’ing. Angelo Paris, poi, tali lacune sono evidenziate dal fatto che, con deliberazione del consiglio di amministrazione di Expo dell’1.3.2013, ratificata il 7.3.2013, tale funzionario era stato nominato quale responsabile del procedimento in sostituzione dell’ing. Mario Chiesa (cfr. pag. 246 dell’ordinanza del GIP presso il Tribunale di Milano del 6.5.2014): una non meditata designazione, che denota un giudizio di colpevole affidamento riposto in un professionista che, pochi mesi dopo essere stato designato, si è posto a totale disposizione del sodalizio criminoso.

La responsabilità della resistente non può essere, pertanto, assorbita dalla responsabilità personale definitivamente accertata nei confronti dei soggetti condannati, le cui condotte – poste in essere, quanto all’ing. Paris, nell’esercizio delle pubbliche funzioni cui lo stesso era stato destinato – hanno eziologicamente determinato l’aggiudicazione della commessa all’impresa Maltauro.

Invero, dalle risultanze degli atti d’indagine è possibile avvedersi che la Procura della Repubblica di Milano ha seguito in tempo reale le fasi di consumazione delle condotte delittuose, attendendo che si realizzasse il risultato del disegno criminoso, cioè l’aggiudicazione dell’appalto, e, immediatamente dopo la consegna dei lavori (7 maggio 2014), ha proceduto ad arrestare gli autori dei reati (8 maggio 2014).

Se non fosse stata esperita tale attività d’indagine, è probabile ritenere che la stazione appaltante non sarebbe mai pervenuta alla conoscenza dei commessi illeciti, e, ancor più probabilmente, gli stessi organi interni della società Expo avrebbero continuato a svolgere le medesime funzioni con potenziale turbativa della regolarità di ulteriori procedure di gara.

Le tesi difensive della società Expo sono, dunque, fondate su un’illustrazione di fatti connotata da una legittimità soltanto apparente, prospettata per esonerarsi da ogni responsabilità, ma in un contesto che fa emergere una realtà completamente diversa.

Né vale richiamare, in contrario, quanto il Giudice di seconde cure ha espresso al solo scopo di “orientare le successive determinazioni giudiziali”, e non certo di vincolare la pronuncia della Sezione, avendo dato atto che “risulta tuttora pendente dinanzi al T.A.R. della Lombardia il giudizio relativo alla domanda risarcitoria formulata dalle originarie ricorrenti in una alle domande già esaminate con la sentenza qui impugnata, e tenuto conto della proponibilità della domanda risarcitoria anche in via autonoma e indipendente dalle altre (art. 30, comma 1, cod. proc. amm.)”.

Nella sentenza n. 143/2015, che ha deciso i proposti appelli con una pronuncia in rito, sono state svolte delle considerazioni aggiuntive sull’inapplicabilità delle previsioni del protocollo di legalità all’impresa Maltauro, ma nulla è stato, invece, osservato circa l’accertamento della responsabilità della stazione appaltante ai fini risarcitori.

È, quindi, infondata l’eccezione della società resistente con riguardo al fatto che le ricorrenti non avrebbero “mai allegato e provato” che “i fatti penalmente rilevanti hanno influito sul procedimento di gara qui in esame rendendolo palesemente illegittimo” e che inoltre la legittimità dell’aggiudicazione, confermata dal Consiglio di Stato, precluderebbe il riconoscimento della tutela risarcitoria (cfr. pagg. da 5 a 7 della memoria del 28.2.2015).

Dovendosi, anzitutto, considerare che la relazione eziologica tra condotte illecite e risultato illecito sia congruamente integrata dalle valutazioni istruttorie che hanno condotto al commissariamento, di cui più sopra si è detto, sembra opportuno al Collegio richiamare l’orientamento della Suprema Corte, ad avviso della quale “sotto il profilo morfologico (…), va considerato, da un canto, come il baricentro della disciplina penale con riferimento al profilo causale del fatto sia sempre e comunque rivolto verso l’autore del reato/soggetto responsabile, orbitando, viceversa, l’illecito civile (quantomeno a far data dagli anni ‘60) intorno alla figura del danneggiato; dall’altro, come, alla peculiare tipicità del fatto reato, faccia da speculare contralto il sistema aperto ed atipico dell’illecito civile” (cfr. Corte di Cassazione, sez. III, 16 ottobre 2007, n. 21619).

Ne deriva che la cognizione sulla domanda risarcitoria debba prendere le mosse dal pregiudizio patito dalle ricorrenti a causa di condotte illecite che la società Expo avrebbe dovuto prevenire o le cui conseguenze avrebbe dovuto posteriormente reprimere: il che non è avvenuto, né può essere sanato dal disposto commissariamento.

Se le condotte delittuose non fossero mai state poste in essere, sarebbe stata notevolmente più alta per tutti i partecipanti la possibilità di ottenere l’aggiudicazione di un appalto che era già destinato all’impresa Maltauro.

Se la stazione appaltante avesse davvero vigilato sulla legalità del procedimento di gara, con controlli penetranti e, soprattutto, con nomine appropriate (presidente e componenti della commissione giudicatrice), è ragionevole ritenere che l’attività di “avvicinamento” da parte del sodalizio criminoso non avrebbe sortito effetto.

Se, una volta emersa la grave realtà dei fatti (8.5.2014), la stazione appaltante avesse annullato la disposta aggiudicazione (21.11.2013), piuttosto che attendere (nel mentre tutto l’Evento universale subiva una notevole caduta di credibilità) i benefici di una provvidenziale soluzione da parte del legislatore, essa avrebbe certamente riparato alle dannose conseguenze derivanti dalla violazione del principio di legalità e di libera concorrenza.

Tali elementi, letti nell’atipicità dell’illecito civile, al Collegio non paiono confutabili.

Pertanto, l’autonomia della domanda di risarcimento da quella finalizzata a ottenere l’annullamento dell’aggiudicazione (inoppugnabile), prevista dall’art. 30 del codice del processo amministrativo, da un lato, e la fuorviata prospettiva di una cognizione sulla legittimità della procedura di gara che la resistente ha reputato come totalmente estranea ai fatti illeciti – concreti e provati – che hanno condotto all’affidamento dell’appalto, dall’altro, non possono affatto determinare la “sopravvenuta cessazione della materia del contendere” (cfr. pag. 6 della memoria del 23.2.2015 della società Expo 2015 S.p.A.).

Invero, la contraddizione – emergente nel quadro difensivo della società Expo – tra l’illiceità delle condotte delittuose oggetto di definitiva condanna e la legittimità dell’aggiudicazione, ripristinata a seguito della pronuncia del Consiglio di Stato, non elimina l’ingiusto pregiudizio patito dalle ricorrenti e, soprattutto, le responsabilità che ne costituiscono il presupposto.

Il Tribunale penale di Milano nella sentenza del 27 novembre 2014 ha, infatti, puntualmente rilevato “come le condotte addebitate ai prevenuti ineriscano, quando interferenti sull’attività contrattuale della pubblica Amministrazione, non già ad ipotesi di “reati-contratti”, bensì a quella, ben differente, di reati “in contratto”; in particolare, “il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in sé, ma incide unicamente sulla sfera di formazione della volontà contrattuale o su quella di esecuzione della volontà negoziale”; pertanto, “non si intende certo escludere che un danno da reato sia stato determinato: la libertà di scelta del contraente da parte della P.A. è stata pregiudicata, altri soggetti privati aspiranti alla stipula di contratti con il soggetto pubblico sono stati svantaggiati”.

Non è dunque, soltanto, all’atto terminale del procedimento di gara che si deve prestare attenzione ai fini del decidere, quanto, piuttosto, a ciò che è accaduto nel corso della procedura di gara, sulla cui illiceità non vi è dubbio alcuno.

Come, infatti, ha statuito il Consiglio di Stato (sez. V, 8 novembre 2012, n. 5686, richiamata in id., 27 marzo 2013, n. 1833):

– “la disciplina comunitaria della concorrenza è rivolta, infatti, essenzialmente alla tutela delle posizioni soggettive delle imprese, cui dovrebbe corrispondere in capo alla pubblica Amministrazione l’obbligo di tenere un corretto comportamento verso i concorrenti alle gare pubbliche”;

– “l’ordinamento comunitario dimostra che ciò che rileva é l’ingiustizia del danno e non l’elemento della colpevolezza; ciò determina ipso facto la creazione di un diritto amministrativo comune a tutti gli Stati membri nel quale i principi che si elaborano a livello comunitario, in applicazione dei Trattati, trovano humus negli ordinamenti interni, e costituiscono una sorta di sussunzione unificante di regole riscontrabili in tali ordinamenti. In questo processo di astrazione è inevitabile che i principi di diritto interno vengano sostituiti da principi caratterizzati da più larga acquisizione, poiché il ravvicinamento e l’armonizzazione normativa premia il principio maggiormente condiviso, come è quello della responsabilità piena della P.A. senza aree di franchigia”.

Neppure dirimente è l’assunto secondo cui le ricorrenti avrebbero potuto ottenere un ristoro economico mediante la costituzione di parte civile nel giudizio penale, considerato che nessun obbligo su queste incombeva nell’ambito del procedimento di applicazione della pena su richiesta.

Sul punto, occorre, infatti, considerare:

a) che la persona offesa dal reato – a prescindere se si sia costituita o meno come parte civile – non può intervenire in alcun modo sulla scelta di patteggiare, trovandosi costretta ad agire separatamente, in sede civile, per la richiesta di risarcimento dei danni;

b) che nell’ambito della proponenda causa civile, la sentenza di patteggiamento non produce gli stessi effetti di un provvedimento di condanna emesso a seguito di dibattimento o di giudizio abbreviato, costituendo, tale condanna, “soltanto” un elemento probatorio e, soprattutto, “non implicando un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile” (cfr. Corte di Cassazione, sez. III, 29 agosto 2013, n. 19871);

c) che, dunque, nella specie la prospettata tutela risarcitoria in sede civile non potrebbe contare sul principio generale di cui all’art. 651 del codice di procedura penale, ai sensi del quale “la sentenza penale irrevocabile di condanna pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all’affermazione che l’imputato lo ha commesso, nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni e il risarcimento del danno promosso nei confronti del condannato e del responsabile civile che sia stato citato ovvero sia intervenuto nel processo penale”.

Non trova, conseguentemente, idonea giustificazione una limitazione dell’effettività della tutela risarcitoria, di contro pienamente ottenibile innanzi al Giudice Amministrativo.

In realtà, la traslazione della spettanza del diritto al risarcimento in sede penale, mediante l’isolamento delle condotte poste in essere dal direttore generale Paris e dagli altri commissari di gara, altro non rappresenta che il tentativo di minimizzare o perfino neutralizzare la responsabilità della società Expo.

La tesi della stazione appaltante, quindi, si fonda sull’indimostrato presupposto che vi sarebbe stata un’interruzione del rapporto di immedesimazione organica dei suoi dipendenti.

Anche su tale aspetto, tuttavia, la Suprema Corte ha da tempo enunciato il principio secondo cui “affinché ricorra la responsabilità della P.A. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente – responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica – deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto. Tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione – o addirittura contrario ai fini che essa persegue – ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la P.A.” (cfr. Corte di Cassazione, sez. III, 8 ottobre 2007, n. 20986, che richiama id., 21 novembre 2006, n. 24744 e id. 12 agosto 2000, n. 10803).

Si configura, pertanto, una responsabilità connessa al fatto che il presidente della commissione di gara, così come gli altri due commissari, fruendo di funzioni pubbliche ad essi espressamente attribuite, e in esclusiva ragione di tale attribuzione (che quindi ha costituito l’occasione necessaria e strutturale del contatto con gli appartenenti al sodalizio criminoso), abbiano cagionato un grave danno alle ricorrenti nell’ambito del procedimento di gara indetto dalla società Expo 2015 S.p.A., alla quale il rischio di infiltrazioni della criminalità negli appalti della manifestazione era ben noto e ampiamente prevedibile (palese risulta, perciò, l’omesso esercizio dell’indelegabile funzione di vigilanza e controllo sulla commissione giudicatrice).

Parimenti incontestato ai sensi dell’art. 64, comma 4 del codice del processo amministrativo è, poi, che la stazione appaltante, dopo aver preso atto della grave turbativa inferta alla procedura di gara e del plateale sovvertimento del principio di legalità che ne avrebbe dovuto costituire il prodromo, ne abbia ratificato gli esiti, avendo comunicato alle ricorrenti, mediante la citata determinazione del 4 giugno 2014 (a firma di un dirigente completamente estraneo alle indagini della Procura), che “non sono stati rilevati vizi estrinseci nella procedura di scelta del contraente”, e che, dunque, non sarebbero sussistiti elementi “in fatto”, e, per quel che più conta, “di diritto” che potessero ritenersi “sufficienti per risolvere il vincolo contrattuale in autotutela”.

A seguire il ragionamento proposto dalla resistente, si perverrebbe dunque alla conclusione che la legittimità dell’attività amministrativa possa prescindere dall’accertata illiceità della procedura di gara e dall’elementare rispetto del principio di legalità, la cui violazione è provata dalla definizione non soltanto dalle sopra citate vicende giudiziarie, ma, anche, e non secondariamente, dalle motivate ragioni che hanno condotto al commissariamento dell’aggiudicataria.

La speciale disciplina di cui all’art. 32 del D.L. 90/2014 (convertito nella legge 114/2014), applicata in una fase (16.7.2014) in cui l’aggiudicazione in favore della controinteressata era stata annullata per effetto della sentenza parziale della Sezione (9.7.2014), e ben prima che tale sentenza fosse sospesa dal Consiglio di Stato (16.9.2014), non avrebbe, infatti, alcun senso se non fossero stati congruamente ponderati i presupposti reati (comma 1), oltre a essere stata “valutata la particolare gravità dei fatti oggetto dell’indagine” (comma 2).

Un paradosso che le ricorrenti hanno evidenziato nell’atto introduttivo del giudizio per sostenere l’illiceità del procedimento di gara, da cui sarebbe, in effetti, conseguita “una situazione premiale per la corruzione in quanto il soggetto che ha ottenuto illegalmente l’appalto godrebbe pienamente del frutto del reato commesso” (cfr. pag. 13 del ricorso).

Sostenere la legittimità della procedura di gara – come ha più volte ribadito la società resistente (cfr. pagg. 8 e 10 della memoria del 28.2.2015) – significherebbe, perciò, negare in modo irragionevole l’esistenza dei presupposti di illiceità all’origine del disposto commissariamento.

Di contro, il Collegio ritiene che la ratio di tale istituto sia stata puntualmente espressa nella proposta del Presidente dell’ANAC del 10.7.2014, il quale ha ben illustrato che tale misura è preordinata a “evitare che le doverose indagini della magistratura penale su fatti illeciti connessi alla gestione di appalti possa impedire e/o ritardare la conclusione di opere pubbliche, soprattutto quando esse abbiano importanza strategica per il Paese” (cfr. pag. 2); il che ha reso ineludibile la “emissione della più grave misura” prevista dall’art. art. 32, comma 1, lett. b) del D.L. 90/2014.

Nella specie non è stata, dunque, smentita, anzi è stata fortemente riaffermata, l’irrecuperabile compromissione del principio che era stato posto come cardine dell’approvato protocollo; né, tantomeno, è sostenibile che il disposto commissariamento da parte del Prefetto possa costituire una sanatoria postuma del carattere delittuoso delle condotte sanzionate con la condanna pronunciata dal Tribunale penale di Milano.

La stazione appaltante, in realtà, non ha mai avvertito su di sé l’obbligo di porre in essere un deciso intervento per il ripristino della legalità violata, avendo concluso, sulla scorta di inattendibili valutazioni (peraltro al solo fine di riscontrare l’istanza di provvedere in autotutela che le ricorrenti avevano presentato all’indomani delle vicende penali), che non sarebbero sussistiti i necessari presupposti per risolvere il rapporto contrattuale con l’impresa Maltauro.

Una reale e non formalistica messa in discussione del sistema di gestione di tutta la procedura di gara avrebbe, invece, dovuto sfociare in una decisione essenziale e coraggiosa, espressione del più autentico nucleo del potere di autotutela: non averlo fatto (forse perché in data 4.2.2014 era stato stipulato il contratto), fidando sull’errato assunto che la fase pubblicistica della procedura si fosse conclusa, ha costituito una giustificazione del tutto inidonea a eludere le responsabilità per il pregiudizio che tutti i concorrenti hanno subìto dall’illiceità della procedura.

Resta, quindi, incontestabile che – una volta emersa, già dalla fase delle indagini preliminari, la rilevanza probatoria dei reati commessi – la possibilità che i lavori potessero proseguire è diventata concreta non già per la capacità di recupero della stazione appaltante, ma solo ed esclusivamente per effetto dell’entrata in vigore del D.L. 90/2014: una normativa sopravvenuta agli accertati illeciti, alla disposta aggiudicazione e alla proposizione del ricorso.

L’illiceità della procedura di gara, pertanto, depone per la violazione del protocollo di legalità sottoscritto in data 13.2.2012, essendo state disattese le finalità generali cui tali strumenti istituzionalmente tendono (come più sopra si è detto con riguardo alle normative speciali che ne costituiscono il fondamento), e, in concreto, risultando violata la previsione di cui all’art. 4, relativa a uno specifico impegno che la società Expo 2015 S.p.A. aveva contratto non soltanto nei confronti degli altri firmatari del protocollo, ma soprattutto verso i futuri concorrenti delle indette procedure di evidenza pubblica.

L’impegno teso a “prevedere una disciplina quanto più possibile volta a garantire la tutela della legalità e la trasparenza”, che ha costituito per le concorrenti il principale stimolo a partecipare a questa gara (non potendo tali imprese dubitare che un contesto di teorica impermeabilità al malaffare, quale autorevolmente si prospettava quello dell’Evento universale, avrebbe potuto subire così gravi ferite), è stato manifestamente violato.

Il che equivale alla vanificazione, ab origine, della partecipazione a tale selezione da parte di tutti i concorrenti, essendo dimostrato che il patto che ha condotto alla consumazione, con più condotte tutte idonee, della turbativa dell’incanto sia stato concepito già prima che avesse luogo il confronto concorrenziale tra le offerte.

Tale comportamento è stato puntualmente illustrato dal GIP del Tribunale di Milano, che nell’ordinanza del 6.5.2014 si è soffermato sull’analisi del fatto materiale tipico, dell’elemento soggettivo e dei beni giuridici nella specie violati, specificando:

a) che “i beni giuridici tutelati dalla fattispecie di cui all’articolo 353 c.p. sono la libertà di partecipazione alle gare e la regolarità formale e sostanziale dello svolgimento delle stesse. Il detto articolo tutela, quindi, non solo la libertà di partecipazione alla gara ma anche la libertà del partecipante di influenzarne l’esito secondo la libera concorrenza ed attraverso il gioco delle maggiorazioni delle offerte; libertà la cui tutela è inscindibilmente connessa al rispetto delle regolarità della procedura”;

b) che “la fattispecie in oggetto è delitto non di mera condotta ma di evento naturalistico di pericolo concreto che si realizza, indipendentemente dal risultato della gara, quando, con la condotta descritta dall’art. 353 c.p., il soggetto attivo allontana gli offerenti dalla gara o ne impedisce, anche se non contemporaneamente, lo svolgersi oppure la turba influenzandone o alterandone il risultato che, senza l’intervento perturbatore, sarebbe potuto essere diverso, senza che occorra necessariamente né la produzione di un danno né il conseguimento di un profitto” (cfr. pag. 14);

c) che “il legislatore, per contrastare il deprecabile fenomeno della turbativa d’asta che nelle sue multiformi manifestazioni può investire ed in concreto sovente investe anche il procedimento formativo del bando di gara condizionandone il contenuto in modo tale che un determinato soggetto possa essere favorito nell’aggiudicazione ancor prima dell’apertura della gara, mettendo in pericolo, da un lato, il buon andamento della pubblica Amministrazione e, dall’altro, la libera concorrenza tra i partecipanti alla gara, (…) ha introdotto con la legge n. 136 del 13 agosto 2010 la nuova figura di reato prevista dall’articolo 353 bis c.p. che, affiancando l’art. 353 c.p., reprime le condotte di turbativa posta in essere antecedentemente alla pubblicazione del bando”; tale innovativa fattispecie “punisce, quindi, al pari dell’articolo 353 c.p., anche lo stesso pubblico ufficiale che opera per la pubblica Amministrazione di riferimento”.

Non vi è, dunque, alcun elemento che possa condurre a una prova liberatoria della responsabilità della stazione appaltante.

La gravità della situazione emersa a seguito delle indagini, e poi a seguito delle condanne, è stata pertanto sottovalutata dalla società resistente, la quale sia nell’esercizio del potere di autotutela amministrativa indotto dall’istanza delle ricorrenti (cfr. determinazione dirigenziale del 4.6.2014), sia in giudizio, ha insistentemente affermato che la procedura si sarebbe svolta in modo legittimo.

Ad avviso del Collegio pare, all’opposto, evidente l’incapacità della società Expo di dare giusto rilievo alla sopravvenienza costituita dall’eccezionalità delle vicende delittuose che hanno totalmente compromesso la fondamentale finalità della procedura di gara (“l’aggiudicazione può dare vita ad una posizione preferenziale soltanto se acquisita in modo legittimo”, cfr. Corte di Cassazione, sezioni unite, 21 giugno 2012, n. 10294).

Del resto, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 14 del 20 giugno 2014, coeva ai fatti di causa, ha posto in evidenza che, finanche nell’ipotesi in cui la fase pubblicistica concernente l’aggiudicazione si sia conclusa, e il contratto d’appalto sia stato stipulato, è comunque salvaguardata la “speciale previsione in ordine al recesso della stazione appaltante quando si verifichino i presupposti previsti dalla normativa antimafia che la giurisprudenza (Cass. n. 391 del 2011) ha riferito alla nozione dell’autotutela decisoria”.

Si tratta indubbiamente di un’ipotesi in tutto simile a quanto si è verificato nella procedura oggetto di controversia, ove, cioè, si registra un sovvertimento della legalità che, ad avviso dell’Adunanza plenaria, impone che “le stazioni appaltanti (…) devono comunque valutare l’esistenza delle eccezionali condizioni non comportanti l’altrimenti vincolato esercizio del diritto di recesso”.

La responsabilità della resistente risulta, perciò, ulteriormente pregiudicata dall’elusione del dovere di riesaminare il procedimento di gara al fine di ripristinare la legalità manifestamente violata.

Pur sussistendo gli istituti normativi e contrattuali, la società Expo ha serbato una condotta inerte verso la possibilità di disporre l’annullamento dell’aggiudicazione o la decadenza dell’impresa Maltauro dall’aggiudicazione già intervenuta, tale atteggiamento protraendosi fino a che, con il decreto del Prefetto del 16.7.2014, un’Autorità diversa ha definito l’intera vicenda, adottando il commissariamento dell’appalto.

Al di là delle ricostruzioni difensive sviluppate nel corso del giudizio, risulta, quindi, accertato:

1) che, come ha sintetizzato il Presidente dell’ANAC, “può affermarsi con assoluta certezza che l’appalto in questione è stato vinto grazie ad un’attività illecita”: circostanza definitivamente avvalorata dalla sentenza del Tribunale penale di Milano;

2) che per effetto della sentenza con cui il Giudice di seconde cure ha dichiarato l’irricevibilità del ricorso di primo grado, si è inoppugnabilmente consolidata l’aggiudicazione in favore della società controinteressata.

Essendo, pertanto, precluso il risarcimento in forma specifica, né potendosi riconoscere un danno da mancata risoluzione del contratto, la domanda delle ricorrenti deve, quindi, trovare accoglimento nel risarcimento per equivalente monetario.

Sotto tale aspetto, non si ravvisano i presupposti per risarcire il mancato utile, quantificato in €. 5.152.692,00.

L’illiceità della procedura di gara, sebbene pacificamente accertata, ha comportato un’irreversibile inattendibilità delle valutazioni operate dalla commissione giudicatrice, composta da un presidente condannato a due anni, sei mesi e venti giorni di reclusione e da due commissari subornati dagli appartenenti al sodalizio criminoso.

Difetta, pertanto, piena prova che l’ATI ricorrente, in esito al legittimo espletamento del confronto concorrenziale tra le offerte, avrebbe ottenuto l’aggiudicazione.

È, invece, fondata la domanda di risarcimento del danno curriculare.

In linea generale, la giurisprudenza (cfr., tra le prime pronunce, Consiglio di Stato, sez. VI, 9 giugno 2008, n. 2751; nei medesimi termini id., 1 febbraio 2013, n. 633) ha osservato:

– che “non è seriamente dubitabile, invero, che il fatto stesso di eseguire un appalto pubblico (anche a prescindere dal lucro che l’impresa ne ricava grazie al corrispettivo pagato dalla stazione appaltante), possa essere comunque fonte per l’impresa di un vantaggio economicamente valutabile, perché accresce la capacità di competere sul mercato e quindi la chance di aggiudicarsi ulteriori e futuri appalti”;

– che “l’interesse alla vittoria di un appalto, nella vita di un’impresa, va, invero, ben oltre l’interesse all’esecuzione dell’opera in sé, e al relativo incasso. Alla mancata esecuzione di un’opera appaltata si ricollegano, infatti, indiretti nocumenti all’immagine della società ed al suo radicamento nel mercato, per non dire del potenziamento di imprese concorrenti che operino su medesimo target di mercato, in modo illegittimo dichiarate aggiudicatarie della gara”;

– che “deve ammettersi che l’impresa illegittimamente privata dell’esecuzione di un appalto possa rivendicare a titolo di lucro cessante anche la perdita della possibilità di arricchire il proprio curriculum professionale”.

La liquidazione di tale tipologia di danno prescinde, quindi, dalla prova della certezza della vittoria nella procedura di gara (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514).

Ciò in quanto “la perdita della possibilità di ottenere la commessa (…) si riverbera, infatti, anche nella direzione dello specifico pregiudizio del mancato sviluppo del curriculum professionale del concorrente leso, conseguenza negativa la cui risarcibilità non avrebbe ragione di essere subordinata alla condizione di una dimostrata spettanza “certa” dell’aggiudicazione al danneggiato. Di conseguenza, l’apprezzamento equitativo del danno curricolare può trovare spazio – naturalmente, per quanto di ragione – anche nell’ambito di una riparazione a titolo di perdita di (semplici) chances di aggiudicazione, quantificata con la tecnica della determinazione dell’utile conseguibile in caso di vittoria, scontato percentualmente in base al numero dei partecipanti alla gara (in tal senso v. ad es. C.d.S., V, 19 novembre 2012, 5846; 12 giugno 2009, n. 3785; 18 gennaio 2006, n. 126; VI, 15 giugno 2009, n. 3829)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 15 aprile 2013, n. 2038).

Con riguardo alla controversa procedura di gara, l’importo del contratto di appalto ammonta a €. 55.679.612,97, di cui €. 492.049,26 per importo spese per la progettazione esecutiva dell’intervento; €. 53.512.092,13 per importo complessivo dei lavori ed €. 1.675.471,58 per oneri di sicurezza (non soggetti a ribasso).

Sul punto, la società resistente ha, tuttavia, persuasivamente eccepito che “il ricorso introduttivo del presente giudizio (…) è stato presentato solamente da tre componenti del predetto raggruppamento” (cfr. pag. 22 della memoria del 28.2.2015), da ciò discendendo che l’utile in astratto ipotizzabile (e, quindi, anche il risarcimento del danno per equivalente monetario) dovrebbe, comunque, essere limitato al 78,31% dell’importo al netto del ribasso offerto.

Quanto alla liquidazione di tale danno, la giurisprudenza ha inizialmente osservato che il danno curriculare “non può essere quantificato, come pretende l’appellante in misura corrispondente al 3% dell’importo dell’appalto, risultando più corretto calcolare come percentuale della somma già liquidata a titolo di lucro cessante, secondo una percentuale destinata a variare in considerazione dell’importanza dell’appalto in questione” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 21 giugno 2009, n. 3144, richiamato dalla società resistente a pag. 24 della memoria del 28.2.2015).

La stessa VI Sezione ha, peraltro, successivamente modificato il suo orientamento, rapportando la liquidazione “a valori percentuali compresi – secondo una stima già ritenuta equa (Cons. St., sez. VI, 9.6.2008, n. 2751) – fra l’1% e il 5% dell’importo globale del servizio da aggiudicare” (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 27 aprile 2010, n. 2384).

Ad analoga conclusione è, altresì, pervenuta la IV Sezione, secondo cui “tale voce va equitativamente determinata nella misura del 3% del valore dell’appalto, come definibile dalla misura dell’offerta oggetto dell’aggiudicazione definitiva” (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 7 febbraio 2012, n. 662).

Deve, di contro, affermarsi che sul danneggiato non incomba alcun particolare onere probatorio in quanto “l’esistenza di tale componente di danno può essere pragmaticamente ritenuta in re ipsa, in una certa contenuta misura, in quanto insita nel fatto stesso dell’impossibilità di utilizzare le referenze derivanti dall’esecuzione dell’appalto in controversia nell’ambito di futuri procedimenti simili cui la stessa ricorrente potrebbe partecipare” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 19 novembre 2012, n. 5846).

Non può essere, infine, condiviso l’assunto della società Expo secondo cui anche nella liquidazione del danno curriculare si debba dividere l’importo del risarcimento per il numero dei concorrenti, tale modalità attenendo alla diversa fattispecie relativa alla perdita di chance, di cui il danno curriculare costituisce una specificazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 18 marzo 2011, n. 1681), ma non un duplicato.

Nella specie, il Collegio è dell’avviso che il danno da perdita di chance sarebbe stato da correlare all’impossibilità di poter partecipare a una rinnovata procedura di gara (cfr., su tale profilo, Corte di Cassazione, sez. I, 17 luglio 2007, n. 15947); ma tale situazione avrebbe richiesto, da parte della stazione appaltante, l’annullamento della precedente selezione: il che, però, non è avvenuto, trovando, di conseguenza, spiegazione che le società ricorrenti non abbiano proposto tale specifica domanda di risarcimento.

Al contrario, il danno curriculare – oggetto di puntuale domanda sin dal ricorso introduttivo – è finalizzato a risarcire il pregiudizio subìto dal concorrente al quale sia stato precluso di conseguire l’aggiudicazione: ciò che l’illiceità della turbata procedura di gara ha impedito che avvenisse, come più sopra si è diffusamente rilevato.

Ciò premesso, occorre considerare:

– che dall’esame del corrispettivo previsto dal contratto di appalto stipulato dall’impresa Maltauro (€. 55.679.612,97) emerge che il ribasso offerto dall’aggiudicataria si sia attestato intorno al 17% (16,995%);

– che ricalcolando tale somma sulla scorta della fondata eccezione della società resistente, e, pertanto, calcolandone il 78,31%, si perviene a €. 43.602.704,91;

– che, dunque, ritenendosi congrua la stima equitativa nella misura del 3% della somma sopra indicata, il danno curriculare da risarcire va fissato in €. 1.308.081,14;

– che tale importo, però, dev’essere ridotto in ragione dell’insufficienza della prova di assenza dell’aliunde perceptum, dal momento che le ricorrenti hanno allegato in atti soltanto un elenco di procedure coeve a quella oggetto del contendere;

– che la misura di tale riduzione è stimata congrua dal Collegio nel 30%, tenuto conto:

a) che “l’offerta delle ricorrenti differiva, dal punto di vista dello sconto offerto, di solo lo 0,40%” (cfr. pag. 16 del ricorso), da ciò potendosi evincere che le offerte della prima e seconda classificata fossero economicamente omogenee (la percentuale di ribasso offerta dall’ATI Perregrini dovrebbe, infatti, risultare di poco superiore al 17%);

b) che il contesto valutativo della prova di assenza dell’aliunde perceptum è da individuare nell’organizzazione delle risorse e dei mezzi dell’impresa;

c) che, nella specie, le ricorrenti hanno provato che avrebbero potuto contare sul fatto che nella stessa area Expo disponevano di un proprio cantiere in esecuzione di un altro contratto di appalto (progettazione e realizzazione di manufatti cosiddetti “cluster” riso e cacao);

d) che tale situazione avrebbe generato la possibilità di poter utilizzare i mezzi già presenti nei cantieri Expo, determinando economie di spesa incidenti sull’entità del profitto conseguibile nell’appalto oggetto del contendere, qualora affidato;

e) che i benefici effetti di cui al punto precedente sono, tuttavia, venuti meno a causa del mancato subentro nel rapporto contrattuale (al cui fine, peraltro, le ricorrenti avevano manifestato in giudizio la disponibilità a dare continuità ai rapporti con le imprese subappaltatrici già impegnate nei cantieri, ben sapendo che ciò avrebbe inciso sulla misura dei profitti);

– che, conseguentemente, il risarcimento è da fissare in €. 915.656,79.

Non sono, invece, riconoscibili nel richiesto risarcimento le spese di partecipazione alla gara, che oltre a non essere state provate nel loro ammontare, evidenziano, quale tratto prevalente, la riconducibilità a un rischio imprenditoriale connaturato alla partecipazione alle gare.

È, infine, inammissibile l’estensione della condanna al Commissario unico del Governo per Expo 2015 (cfr. pag. 9 della memoria del 23.2.2015), tale domanda non essendo stata notificata alle parti costituite, né, tantomeno, potendosi ravvisare un rapporto di litisconsorzio con la società Expo 2015 S.p.A.

Va, inoltre, disposto che sulla complessiva somma dovuta a titolo di risarcimento del danno dalla società Expo 2015 S.p.A., trattandosi di debito di valore, sia applicata la rivalutazione anno per anno secondo gli indici ISTAT, e ciò con decorrenza che pare congruo imputare a partire dalla conoscenza delle condotte delittuose (8 maggio 2014); su tale somma devono, inoltre, computarsi gli interessi legali sulla somma annualmente rivalutata secondo il cosiddetto criterio “a scalare” enucleato dalla Suprema Corte con la sentenza a Sezioni Unite del 17 febbraio 1995, n. 1712.

Le spese processuali seguono la soccombenza e vengono quantificate – facendo applicazione dei parametri previsti dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55 – in €. 75.000,00, oltre accessori, che la società Expo 2015 S.p.A. (€. 60.000,00) e l’impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro S.p.A. (€. 15.000,00), nelle misure indicate, dovranno, in solido tra loro, corrispondere alle ricorrenti.

In ragione delle dannose conseguenze derivanti dalla condotta della stazione appaltante, nei termini sopra illustrati, la presente sentenza va inviata per l’esame di competenza alla Procura della Corte dei Conti di Milano.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia (Sezione I)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, accoglie la domanda di risarcimento, nei sensi e nei termini espressi in motivazione.

Liquida le spese processuali in complessivi €. 75.000,00, oltre accessori, in favore delle società ricorrenti, e condanna, in solido fra loro, la società Expo 2015 S.p.A. al pagamento di €. 60.000,00 e l’impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro S.p.A. al pagamento di €. 15.000,00 in favore delle società ricorrenti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Manda alla Segreteria della Sezione di trasmettere copia della presente sentenza alla Procura della Corte dei Conti – sede di Milano.

Così deciso in Milano nella camera di consiglio del giorno 11 marzo 2015 con l’intervento dei magistrati:

Francesco Mariuzzo, Presidente

Roberto Lombardi, Referendario

Angelo Fanizza, Referendario, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 20/04/2015.

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