Parere dell’Ad. Gen. sullo schema di ddl della commissione Nigro
CONSIGLIO DI STATO, ADUNANZA GENERALE – parere 19 febbraio 1987 n. 7.
Premesso:
La presidenza del consiglio dei ministri ha predisposto uno schema di disegno di legge recante norme sul procedimento amministrativo avvalendosi dei risultati ai quali è pervenuta un’apposita commissione di studio (presieduta dal prof. Mario Nigro) insediata presso la stessa presidenza.
Lo schema (che si propone di contribuire alla «semplificazione» e «democratizzazione» del procedimento) risulta organizzato su sei titoli.
Nel titolo I si enunciano taluni principî generali ai quali deve ispirarsi l’attività della p.a.: semplicità, economicità, sollecitudine e pubblicità dell’azione amministrativa; obbligo di conclusione dei procedimenti; obbligo di motivazione.
Il titolo II prevede la creazione di apposite strutture organizzative per la gestione delle singole fasi della procedura (e la nomina di funzionari «responsabili» di ogni fase del procedimento).
Il titolo III è rivolto a far conseguire la più ampia partecipazione alle procedure. Si impone, a tali effetti, all’amministrazione di dare comunicazione dell’avvio del procedimento accordandosiagli interessati un’ampia possibilità di intervento; si configurano come figure generali l’accordo procedimentale determinativo del contenuto dell’atto e quello sostitutivo del provvedimento; si introducono nuove garanzie relativamente ai provvedimenti che concedono sovvenzioni, contributi ed altre utilità.
Il titolo IV detta norme rivolte alla semplificazione dell’azione amministrativa privilegiando, soprattutto, soluzioni concordate tra le pubbliche amministrazioni (istituzione di conferenze di servizi e previsione di accordi per la gestione di servizi di interesse comune). Assumono, in questo quadro, particolare rilievo, da un lato, la fissazione di termini per la espressione di pareri e la esecuzione di accertamenti tecnici e, dall’altro, la previsione di ipotesi nelle quali attività, soggette, allo stato, a provvedimenti autorizzatori, potranno essere espletate sulla base del c.d. silenzio- assenso o in virtù di una semplice denuncia dell’interessato decorso un certo termine dalla presentazione dell’istanza.
Il titolo V accorda, poi, ai cittadini la generale facoltà di accedere ai documenti amministrativi pur se con talune limitazioni ispirate, soprattutto, alla salvaguardia della segretezza.
L’ultimo titolo (il VI) disciplina i rapporti tra le norme di cui allo schema in esame e gli ordinamenti regionali (pure per le regioni a statuto speciale).
Considerato:
1. – Lo schema di disegno di legge in esame si inserisce nel quadro delle iniziative rivolte ad apprestare norme di carattere generale in tema di procedimento amministrativo.
Vanno ricordati, tra i precedenti più significativi, i contributi, ormai remoti, della commissione Villa (1918); della prima sottocommissione (presieduta da V. Scialoja) costituita in seno alla commissione reale per il dopoguerra (1920); della commissione parlamentare di inchiesta istituita dalla l. 16 marzo 1921 n. 260 (i risultati di quest’ultima sono consegnati nella relazione 10 luglio 1921).
In epoca più vicina si segnalano gli studi (editi nel 1948) sulla organizzazione e la procedura amministrativa della commissione per gli studi attinenti alla organizzazione dello Stato in larga parte posti, poi, a base di iniziative legislative (non pervenute, peraltro, alla conclusione del loro iter).
Norme generali sul procedimento amministrativo si rinvengono – come è noto – anche in ordinamenti stranieri (pur se le relative disposizioni non sono sempre trasferibili nel nostro ordinamento).
Anche a livello internazionale non sono mancati interventi in materia di procedimento: vanno ricordate la risoluzione n. 31 del comitato dei ministri del consiglio di Europa, adottata il 28 settembre 1977, recante norme sulla «protezione dell’individuo rispetto agli atti dell’amministrazione» e la risoluzione n. 2 dell’11 marzo 1980 dello stesso comitato, in ordine all’esercizio del potere discrezionale da parte dell’amministrazione pubblica.
2. – Lo schema di disegno di legge di esame si segnala, tuttavia (e di ciò va resa doverosa testimonianza al governo), rispetto alle precedenti iniziative per il particolare «taglio» che lo caratterizza: la ricerca di un assetto procedura (e organizzativo) in condizione di corrispondere alle esigenze di una società nuova che concepisce in termini diversi dal passato le relazioni tra collettività e pubblico potere.
L’obiettivo di fondo, perseguito dalla nuova disciplina (alla quale potrebbe essere assegnata la più semplice denominazione di «legge sul procedimento amministrativo») è, infatti, quello di realizzare un nuovo tipo di rapporti tra pubblica amministrazione e cittadino assicurando – insieme alla trasparenza, alla speditezza, alla economicità, ecc. dell’azione amministrativa – il coinvolgimento del cittadino nella procedura.
3. – Il disegno di legge in questione (che non ha, ovviamente, l’ambizione di sciogliere ogni nodo nell’area dei procedimenti amministrativi) risulta in parte costituito da «principî» e da proposizioni normative bisognose di ulteriore sviluppo ad opera di altre fonti (leggi regionali, regolamenti governativi, regolamenti ministeriali).
Non mancano però – come si vedrà – istituti ai quali viene offerto una completa disciplina dallo schema.
Dei rapporti tra le norme statali (sia espressive di principî sia di assetti che si estendono fino al dettaglio) e le competenze legislative regionali in tema di procedimenti si parlerà, più specificamente nel 38.
4. – Il titolo I dello schema enuncia i principî fondamentali ai quali deve ispirarsi l’azione amministrativa.
In particolare, nel 1o comma dell’art. 1, si stabilisce che «l’attività amministrativa deve svolgersi in modo sollecito, semplice ed economico».
La disposizione vale (pur nella sua genericità) a soddisfare l’esigenza – posta a base di tutta la nuova normativa – di ottenere un procedimento che si sviluppi con forme e ritmi rapportati unicamente all’espletamento di una congrua istruzione, evitando «tempi morti» o incombenti ridondanti che appesantiscano l’attività pubblica e mortifichino le aspettative del cittadino.
La norma, sprovvista di una diretta sanzione (non sembra ricollegarsi, infatti, alla sua inosservanza l’illegittimità dell’atto emanato), si pone, inoltre, come punto di riferimento – oltreché per le fonti sottordinate – per l’interprete nei casi, soprattutto, nei quali non risultano fissati tempi e metodi del procedimento.
È interessante sottolineare che i canoni individuati dal disegno di legge (semplicità, sollecitudine ed economicità) coincidono con quelli enunciati nelle disposizioni che regolano, in vari ordinamenti stranieri, il procedimento amministrativo. In particolare possono essere richiamati: l’art. 39, 2o comma, della legge austriaca sul procedimento amministrativo del 25 luglio 1925 (ripromulgata il 23 maggio 1950) che impone all’autorità, in mancanza di specifiche norme in materia, di condurre il procedimento sulla base di considerazioni di opportunità, semplicità, rapidità ed economia; l’art. 5, 2o comma, del decreto governativo cecoslovacco, sulla procedura amministrativa del 1955; l’art. 12 della legge jugoslava sulla procedura amministrativa del 1958 («l’azione amministrativa si svolgerà in conformità di norme di economia, celerità ed efficacia»).
5. – A) il 2o comma dell’art. 1 risulta imperniato su due periodi.
Il primo sembra esprimere una vera e propria regola ermeneutica precludendo all’interprete di ravvisare, nella normativa, interventi procedurali al di là di quelli espressamente previsti nella disciplina di settore (e in quella generale di cui allo schema in esame). Resta, perciò, vietato – per effetto della disposizione – il ricorso alla analogia o a criteri similari per la identificazione di ulteriori momenti procedurali.
Deve essere, peraltro, avanzato qualche dubbio sull’opportunità della disposizione. Sembra, invero, preferibile lasciare all’interprete – vincolato ovviamente, nella lettura della normativa, ai principî generali operanti in materia (le regole di speditezza, semplicità ed economia avanti ricordate) – stabilire se la specifica disciplina di settore (integrata da quella di cui al presente schema) esprima, in forma compiuta, l’intero assetto della materia o occorra ricercare, anche altrove, integrazioni dell’iter procedurale.
Si propenderebbe, perciò, per la soppressione del detto primo periodo.
B) – Il secondo periodo, sempre del 2o comma, dell’art. 1, fa divieto all’amministrazione di «aggravare» il procedimento salvoché sussistano «gravi e motivate ragioni di carattere istruttorio».
Anche la disposizione in esame si manifesta superflua.
Ed invero già dal 1o comma dell’art. 1 si deduce, inequivocabilmente, la necessità che l’amministrazione provveda a sviluppare la procedura senza sprechi di tempo e di energia (in modo sollecito, semplice ed economico come dice lo schema) ferma, in ogni caso, l’esigenza di una completa istruttoria arricchita, ove occorra, anche da interventi di carattere consultivo facoltativo (interventi che un’interpretazione rigorosamente letterale del 2o comma potrebbe indurre a ritenere, al limite, preclusi o sollecitabili solo in ipotesi assolutamente eccezionali).
6. – Nell’art. 2, dedicato alla «pubblicità», non si rinviene una specifica disciplina della materia. (La disciplina della pubblicità risulta espressa, infatti – come precisa lo stesso art. 2 – in altre norme dello schema oltreché nelle «disposizioni» che disciplinano i singoli procedimenti).
La collocazione dell’art. 2 nel titolo I, relativo ai «principî» (pur se con rinvio – come se si è detto – ad altre disposizioni), ha, tuttavia, nella logica dello schema, una sua giustificazione: quella di sottolineare – anche con riguardo alle fonti sottordinate – il valore che la nuova legge conferisce alla conoscibilità «all’esterno» dell’azione amministrativa (la c.d. trasparenza dell’azione amministrativa) destinata, appunto, a conseguirsi attraverso i meccanismi di pubblicità.
7. – L’art. 3 pare rivolto a trasferire, nell’ambito dei principî fondamentali, la regola (da decenni pacificamente enunciata dalla giurisprudenza) della doverosità dell’avvio del procedimento amministrativo (e della sua conclusione) quando la legge faccia obbligo all’amministrazione di pronunciare.
Non si hanno rilievi di sostanza da avanzare nei riguardi dell’inserimento della regola ora riferita tra i principî generali dell’azione amministrativa.
Occorre solo raccomandare all’amministrazione una più precisa formulazione della disposizione che presenta qualche ambiguità sul piano letterale. (Parrebbe, ad es., più opportuno parlare di doverosità di conclusione del procedimento anziché di doverosità di adozione dell’«atto esterno» finale).
8.- Alla prima parte dell’art. 3 (obbligo ex lege di avvio al procedimento), risulta strettamente collegata la norma dell’art. 5, 2o comma, relativa ai tempi entro i quali le procedure vanno concluse (norma, quest’ultima, che meriterebbe di essere, perciò, spostata in seno all’art. 3).
Il citato 2° comma dell’art. 5 – che contempla la fissazione di specifici termini per la definizione dei singoli procedimenti amministrativi (e di ciascuna delle fasi in cui ogni procedimento si scompone) – introduce, nel sistema, una novità che è, senz’altro, da condividere.
Non si possono, peraltro, sottovalutare le difficoltà che saranno, inevitabilmente, incontrate per la precisa determinazione dei vari termini dalle normative di minor rango alle quali lo schema rimette la formulazione della spcifica disciplina.
È da ritenere, ovviamente, che il decorso dei termini procedurali non implichi, di regola, preclusioni alla esplicazione della competenza da parte della p.a. (salva la responsabilità disciplinare del funzionario e – se ne ricorrano le condizioni – quella civile del funzionario e dell’amministrazione).
9. – L’art. 4 prevede l’obbligo della motivazione per ogni atto amministrativo con deroghe trassativamente enunciate nella stessa disposizione.
In proposito può osservarsi che l’approccio al problema della motivazione ha ottenuto, anche oltralpe, soluzioni non uniformi.
Si è previsto, talora, un obbligo di motivazione solo nei casi espressamente previsti dalla legge (questo è il sistema adottato, ad esempio, nella legge spagnola 17 luglio 1958 sulla procedura amministrativa: art. 43).
Altra volta si è affermata la obbligatorietà della motivazione, per esigenze di garanzia, quando l’atto incida pregiudizievolmente sui destinatari; tale è il sistema adottato dalla l. 25 maggio 1976 della Repubblica federale tedesca: § 39; dalla legge austriaca sul procedimento amministrativo generale del 1925: § 58; dalla legge israelita del 1958: art. 2 e 3; dalla legge jugoslava del 1950: art. 207; dal codice polacco del 1960: art. 9; dalle leggi di alcuni Lander della Repubblica federale tedesca; dalla risoluzione n. 31/77 del comitato dei ministri del consiglio d’Europa: art. 4).
Diffusa, pure, la linea dell’enunciazione di un obbligo generale ed immancabile di motivazione. A questo regime si ispira, ad esempio, il rapporto della commissione di esperti presso il ministero federale degli interni della Repubblica federale tedesca del 1960 e la legge federale Usa sulla procedura amministrativa del 1946 (art. 4, 6 e 8).
Lo schema di legge in esame accoglie, sostanzialmente, la seconda delle impostazioni sopra menzionate, posto che, pur imponendo l’obbligo di motivazione come principio generale, prevede, poi, l’esonero da tale obbligo quando l’atto non dispieghi effetti pregiudizievoli (lett. a dell’art. 4).
Tale impostazione non appare, però, del tutto persuasiva. Si consideri, anzitutto, che la motivazione è garanzia di una penetrante verifica di legittimità non soltanto, in sede contenziosa, ma anche in sede di controllo amministrativo; sicché non è corretto escluderne l’adempimento sul mero riflesso della «non lesività» dell’atto.
Sotto un profilo più generale, inoltre, la soluzione prescelta non risulta in sintonia con l’obiettivo di fondo dello schema di legge preordinato a garantire sia la partecipazione al procedimento anche di soggetti, non titolari di posizioni sostanziali tutelate dall’ordinamento (art. 10 e 11), sia a rendere «trasparenti» le scelte dell’amministrazione anche quando non comportano sacrifici (art. 13), sia, infine, a permettere l’accesso ai documenti amministrativi a tutti i cittadini indipendentemente dalla titolarità di posizioni pregiudicate dall’atto amministrativo (art. 21).
Delle altre regole contemplate dal 2o comma dell’art. 4, in tema di esonero dalla motivazione, mentre non danno luogo a rilievi quelle enunciate alla lettera c), limitatamente alla semplicità dell’atto e alla lettera d), per gli atti normativi non sono condivisibili quella sub c) (nella parte relativa agli atti ripetitivi) e sub d) (relativamente agli atti di carattere generale).
L’esclusione della motivazione nel caso di atti ripetitivi suscita, invero, perplessità non valendo, di per sé, la ripetitività a rendere intuitiva la ratio decidendi del provvedimento dal punto di osservazione almeno dei suoi destinatari.
Non trova nemmeno giustificazione (e sembra porsi in contrasto con gli indirizzi giurisprudenziali) la regola che sottrae gli atti generali all’obbligo di motivazione.
L’esplicito riconoscimento legislativo, poi, della possibilità che la motivazione del provvedimento possa essere espressa pure da altro atto richiamato dal primo, non sta a significare, ovviamente, esonero dall’obbligo di motivazione: la norma si limita, infatti, solo a prevedere un particolare regime di esternazione di questa ultima.
10. – Il titolo II dello schema detta disposizioni di carattere organizzativo.
Il 1o comma dell’art. 5 impone, anzitutto, alle pubbliche amministrazioni di dar vita a norme (di rilevanza esterna) rivolte a individuare le specifiche compagini chiamate a gestire le varie fasi del procedimento – ivi compresa la emanazione dell’atto finale – quando manchino norme (leggi, regolamenti governativi, precedenti regolamenti ministeriali, ecc.) che dispongano nella materia.
La disciplina si sviluppa lungo una linea da tempo seguita nel nostro ordinamento (v. d.p.r. n. 748 del 1972) che riconosce competenze decisionali (anche a livello esterno), oltreché alle autorità di vertice (il ministro), anche ai dirigenti (rectius: agli uffici dirigenziali).
Il nuovo assetto organizzativo potrà ottenere utile impiego negli spazi che saranno lasciati liberi dalla normativa di rango superiore (la quale, salvo il rispetto dell’art. 97, 1° comma, Cost., è bene si trattenga, in avvenire, dall’irretire l’organizzazione con norme di dettaglio).
Non occorre soffermarsi, in questa sede, sul 2o comma dell’art. 5: si è, infatti, già parlato di tale disposizione in occasione dell’esame dell’art. 3 (nell’ambito del quale si è ritenuto che la detta proposizione normativa andasse trasferita).
Il 3° comma (ora divenuto 2° comma) non dà luogo a sostanziali rilievi: si dispone, infatti, con tale norma – nell’esatto presupposto del carattere normativo delle proposizioni organizzative che saranno dettate dalle singole amministrazioni – che la disciplina relativa all’organizzazione dovrà essere pubblicata (secondo le modalità previste dai singoli ordinamenti).
Lo spostamento nel 2o comma dell’originario 3o comma ora ricordato rende solo opportuna una lieve modifica dell’originaria stesura di quest’ultima disposizione.
La norma in questione potrebbe essere così riformulata: «Le disposizioni di cui al comma precedente sono rese pubbliche secondo quanto previsto dai singoli ordinamenti».
11. – L’art. 6, 1o comma – in connessione con la istituzione delle unità organizzative chiamate alla gestione delle singole fasi della procedura (e alla emanazione dell’atto finale) – prevede la individuazione del «funzionario responsabile» del procedimento (rectius: delle singole fasi del procedimento).
La norma – come è chiaro – tende, da un lato, ad offrire al cittadino interessato un preciso interlocutore con cui dialogare nel corso del procedimento e, dall’altro, a rendere concreta la responsabilità dei pubblici funzionari, evitando che questa sfumi nell’ambito dell’apparato o si nasconda dietro l’autorità di vertice.
La norma merita approvazione.
Sul piano formale si suggerirebbero solo due marginali modifiche: a) la soppressione – per la sua superfluità – del richiamo, da parte del 1o comma, al «termine fissato ai sensi del precedente art. 5, 2o comma» (ora art. 3, ultimo comma); b) la formulazione del 2o comma nei termini seguenti: «Il nominativo del funzionario responsabile è comunicato ai soggetti di cui all’art. 8 della presente legge e, a richiesta, a chiunque vi abbia interesse».
12. – L’art. 7 – nel quale trovano elencazione le competenze del responsabile del procedimento (art. 6) – non dà luogo a rilievi di sostanza.
Anche a tale norma, andrebbero, però apportate talune variazioni formali: a) alla lettera b) la parola «esso» andrebbe soppressa; b) dovrebbero essere, pure, eliminate – perché superflue – alla lettera e), le espressioni «nel termine fissato ai sensi del precedente art. 5, 2o comma», «tempestivamente, entro il termine predetto, del relativo provvedimento».
13. – La rubrica del titolo III («contraddittorio nel procedimento amministrativo»), oltre a risultare, sul piano lessicale, più consona al processo che al procedimento amministrativo (meglio sarebbe parlare di «partecipazione» al procedimento), non rispecchia, del tutto, il contenuto delle disposizioni poste sotto tale titolo. E ciò, per la previsione, nell’art. 12, dei c.d. «accordi sostitutivi» (accordi che si muovono in tutt’altra area di quella concernente il c.d. contraddittorio) e, nell’art. 13, di una speciale disciplina (anch’essa estranea alla partecipazione) in tema di concessioni di contributi, sovvenzioni, ecc.
Le disposizioni del capo III, in tema di «contraddittorio», mirano ad assicurare agli interessati (privati, ma anche istituzioni pubbliche) la possibilità di «partecipare» al procedimento amministrativo contribuendo, così, alla formazione dell’assetto che dovrà essere espresso, autoritativamente, dall’amministrazione con l’atto conclusivo della procedura amminsitrativa.
È di assoluta evidenza il contributo che la partecipazione degli amministrati – se rettamente esplicata e attentamente recepita dagli amministratori – può offrire alla democratizzazione dell’attività amministrativa e all’attenuazione del contenzioso.
Non può, però, non rilevarsi che la disciplina ora riferita appare in condizione di frustrare, in qualche misura, quel «sollecito» svolgimento della procedura che pure è tra gli obiettivi fondamentali della nuova normativa.
Di questi inconvenienti sembra essersi reso conto, però, lo schema dal momento che, da un lato, all’art. 8, ultimo comma, contempla l’adozione di misure cautelari (anche anticipatrici – in tutto o in parte – degli effetti del futuro provvedimento) e, dall’altro (come si è accennato), stabilisce la non operatività del contraddittorio quando lo spazio assicurato a quest’ultimo finirebbe per impedire la sollecita definizione di pratiche che non ammettono differimenti in considerazione della loro urgenza (quest’ultima regola potrà provocare, peraltro, un notevole contenzioso circa l’accertamento della sussistenza – o meno – di particolari esigenze di celerità del procedimento).
14. – Passando allo specifico esame della disposizione del titolo III va rilevato che l’art. 8 obbliga l’amministrazione a dare notizia (si vedrà appresso con quali modalità) dell’«avvio» della procedura ai seguenti soggetti (identificati o facilmente identificabili): a) destinatari degli effetti diretti del provvedimento (si tratti di effetti vantaggiosi o pregiudizievoli per il destinatario); b) soggetti non destinatari, in via diretta, degli effetti dell’atto ma esposti, tuttavia, a risentire «rilevante pregiudizio» in conseguenza del provvedimento; c) soggetti dei quali – alla stregua della normativa di settore – è prevista la partecipazione alla procedura.
Gli adempimenti di cui ora si è detto postulano (come, riconosce, testualmente, anche lo schema) l’«avvio» del procedimento. Resta, perciò, estraneo al campo di azione della nuova regola la fase nella quale l’amministrazione è impegnata solo in studi e ricerche di carattere preparatorio per stabilire se ricorrano, o meno, le condizioni per promuovere la procedura.
Sul piano formale, va suggerito l’accorpamento, in un unico comma, del 1o e 2o comma dell’articolo in esame rinviandosi, inoltre, al successivo art. 9, la determinazione delle modalità con le quali va data notizia dell’«inizio» della procedura.
Potrebbe essere utile, inoltre, chiarire che la «notizia» del procedimento va offerta solo ai soggetti individuati o facilmente individuabili.
Qualche rilievo critico (in chiave sostanziale) va avanzato, invece, nei riguardi dell’ultimo comma dell’art. 8 rivolto a consentire – come si è ricordato – anche provvedimenti anticipatori (in tutto o in parte) di quello finale destinato a sopraggiungere, più tardi, nell’osservanza delle regole in tema di contraddittorio.
Suscita, invero, qualche riserva (almeno quando la misura cautelativa sia anticipatrice di risultati vantaggiosi per il privato) la regola – enunciata nell’ultimo comma dell’art. 8 – che sancisce il venir meno del provvedimento cautelare (anticipativo anche di effetti vantaggiosi), per il solo fatto che l’amministrazione, rendendosi inadempiente, non ha adottato, nei termini, i provvedimenti definitivi.
Si riconnette, infatti, in questo modo, all’inerzia amministrativa, nella adozione dell’atto finale, l’ingiustificato effetto di provocare la perdita, da parte dell’interessato, di quei risultati provvisori dei quali quest’ultimo – sia pure sulla base di una sommaria cognitio – era stato fino a quel momento riconosciuto meritevole.
15. – L’art. 9 stabilisce quali dati debbono essere indicati nell’atto con il quale si dà notizia dell’«avvio» del procedimento (amministrazione competente; ufficio e funzionario responsabile del procedimento; ufficio presso il quale può prendersi visione ed estrarre copia degli atti). Sarebbe, forse, opportuno che, nella elencazione dei dati ora ricordati, fosse enunciato pure l’«oggetto» della procedura promossa (anche se tale requisito deve già intendersi, implicitamente, richiesto dalla normativa).
In sede di art. 9 andrebbero anche definite le procedure da seguire per dar notizia agli aventi titolo dell’avvio del procedimento (sopprimendo, al contempo, talune ambigue proposizioni dettate in materia dell’art. 8, 1o e 2o comma).
Per quanto si riferisce alle procedure anzidette va osservato che lo schema (v. art. 9, 1o e 2o comma) sembra richiedere la trasmissione della notizia dell’«avvio» della procedura anche con meccanismi diversi da quelli della partecipazione personale (comunicazione o notifica); si fa, espresso riferimento, infatti, anche ad «altre» idonee forme di pubblicità.
L’utilizzabilità di queste ulteriori forme di divulgazione della notizia dell’avvio della procedura (alternative alla comunicazione e notificazione) non può non incontrare il consenso di questa adunanza generale: si riducono, infatti, sensibilmente, in questo modo, i rischi di illegittimità per errores in procedendo dell’azione amministrativa (ormai sottoposta, in tema di contraddittorio, a regole rigorose).
Sarebbe, peraltro, opportuno che fosse lo stesso schema ad individuare le precise condizioni (ad esempio: ampio numero dei destinatari, ecc.) che giustificano il passaggio a procedure diverse dalla comunicazione e dalla notifica personale e i meccanismi di pubblicità utilizzabili in alternativa.
16. – Dall’art. 10 si trae che la «partecipazione» al procedimento (il c.d. contraddittorio, nel linguaggio della rubrica) è anche consentita a soggetti che non hanno titolo a conseguire notizia dell’avvio della procedura.
Tale facoltà di intervento pare accordata, dall’art. 10, ai seguenti soggetti (accomunati per il fatto che il provvedimento – da assumere a conclusione della procedura – è idoneo a provocare «pregiudizio» agli interessi di cui gli stessi sono portatori): a) istituzioni pubbliche portatrici di interessi (pubblici) che potranno restare implicati (e con effetti negativi) dall’atto finale (a condizione, naturalmente, che l’interesse pubblico non sia chiamato ad evidenziarsi con iniziative procedimentali); b) soggetti portatori di interessi «privati». La disposizione – pur nella sua laconicità – sembra prevedere l’accesso alla procedura degli stessi soggetti indicati dall’art. 8 (destinatari diretti o indiretti) quando a questi ultimi (ad esempio per difficoltà di identificazione) non sia prescritta la comunicazione della notizia dell’avvio del procedimento; c) soggetti portatori di «interessi diffusi e collettivi».
Per quanto concerne quest’ultimo punto (sub c) va rilevato che la duplicità delle espressioni adoperate (interesse diffuso, interesse collettivo) non pare contribuire alla chiarezza della formula normativa: meglio sarebbe avvalersi, perciò, solo del primo degli anzidetti termini.
L’apertura della procedura agli interessi diffusi (e ai soggetti che se ne fanno espositori) dovrebbe, comunque, lasciare impregiudicata la questione (non ancora risolta a livello legislativo: v. sul punto la proposta di legge di iniziativa governativa 28 febbraio 1984 sul processo) dei limiti entro i quali, in sede contenziosa, può assicurarsi tutela agli interessi anzidetti.
17. – L’art. 11 riconosce, ai soggetti che hanno accesso alla procedura, la facoltà di prendere visione degli atti del procedimento, e di presentare «memorie scritte» e «documenti».
È qui che si manifesta quella partecipazione del cittadino alla formazione dell’atto amministrativo cui la notizia del procedimento è preordinata. Ne discende che l’amministrazione non solo dovrà valutare l’apporto degli interventi, ma sarà anche tenuta a pronunziarsi motivatamente su di essi nell’atto finale.
È appena il caso di avvertire che dovrà, in futuro, essere offerta una organica risposta ai problemi concernenti l’uso della lingua (diversa da quella italiana) nell’ambito del procedimento (e, perciò, anche ai fini dell’esercizio del contraddittorio).
È sempre, infatti, più frequente – specie in ambito comunitario – l’implicazione di soggetti di lingua non italiana nelle procedure.
18. – L’art. 12 prevede due tipi di accordo che possono scaturire dalla partecipazione degli interessati al procedimento.
A) Il primo di essi non dà luogo a particolari rilievi.
In sostanza si contempla che l’assetto di interessi affidato alla competenza unilaterale all’autorità amministrativa (e, perciò, da esprimere attraverso il provvedimento), possa ottenere, prima della sua emanazione e, di regola, dopo un confronto tra p.a. e privato, il consenso di quest’ultimo.
Sembra, peraltro, che il consenso preventivo del privato al provvedimento (unilaterale) che l’amministrazione si propone di emanare non dispieghi altro effetto fuor di quello di privare l’interessato che ha «accettato», delle possibilità di avanzare, poi, contestazioni nei riguardi del futuro provvedimento e di vincolare l’amministrazione (in via di autolimitazione?) alla adozione del provvedimento con il contenuto «concordato».
B) L’altra figura d’accordo di cui è parola nell’art. 12, 1o comma (il c.d. accordo sostitutivo), mira, invece, a svincolare l’amministrazione dal procedimento (e dal provvedimento che lo conclude) quando l’interesse pubblico, affidato dalla normativa a congegni autoritativi (e, perciò, all’atto e al procedimento), possa ottenere più rapido e sicuro soddisfacimento nel quadro di un assetto «concordato» con il privato (di carattere contrattuale).
È evidente che, in questo caso, la disciplina in quanto espressa dall’accordo e non dal provvedimento risulterà sprovvista dei caratteri della esecutorietà, imperatività, ecc.
Non si hanno obiezioni di fondo da opporre alla detta disciplina ispirata ad una considerazione realistica delle circostanze (la convenienza del passaggio, in certe situazioni, al regime convenzionale).
Deve, però, suggerirsi l’opportunità che lo schema – in luogo di introdurre in via generale, una norma che consente l’abbandono del provvedimento per l’accordo – commetta alle singole leggi di settore di decidere, volta a volta, cognita causa, con riguardo all’oggetto della materia regolata, se vada, o meno, riconosciuta alla p.a. tale facoltà.
Questa è, d’altra parte, la linea alla quale – senza inconvenienti – la legislazione si è, sino ad oggi, conformata: si è riconosciuto, infatti, in passato, operatività agli accordi sostitutivi dell’atto solo nei casi espressamente considerati dalla legge (si pensi agli accordi amichevoli in materia espropriativa).
L’affidamento alle singole leggi del compito di stabilire quando il passaggio dal provvedimento all’accordo possa essere consentito, non esclude, però, l’opportunità di mantenere, nel quadro dello schema, talune regole di carattere generale (quelle, appunto, enunciate nell’art. 12, ad un tempo, per gli accordi procedimentali e sostitutivi).
Non si hanno rilievi da muovere in ordine alla norma (2o comma art. 12) che sancisce, in via generale, ad validitatem, la necessità della stipulazione degli accordi per atto scritto (anche in vista di evitare incertezze e contestazioni fra amministrazione e singolo).
Del pari nulla, sostanzialmente, si ha motivo di opporre alle disposizioni (4o, 3o e 5o comma) che contemplano il recesso unilaterale dell’amministrazione per «sopravvenuti motivi di interesse pubblico», la soggezione degli accordi ai controlli previsti per i provvedimenti e la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Gli accordi qui in esame – caratterizzati dalla presenza di volontà che non sono sullo stesso piano – risentono, necessariamente, del contenuto e delle finalità del provvedimento che vanno a sostituire sicché è logico che la legge assicuri all’amministrazione una qualche posizione di supremazia in relazione al contesto pubblicistico in cui l’accordo viene ad inserirsi.
Il carattere pattizio dell’assetto suggerirebbe, poi, di verificare se non sarebbe opportuno – quando l’amministrazione per ragioni di interesse pubblico sia costretta a recedere dall’accordo – riconoscere al privato qualche forma di eventuale indennizzo, come avviene nella risoluzione unilaterale del contratto disciplinata dall’art. 345 l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. F, sui lavori pubblici.
Si nutre, invece, qualche perplessità in ordine alla opportunità dell’inserimento dello schema di quella norma (art. 12, 2° comma) che dispone l’applicabilità «agli accordi, sostitutivi del provvedimento, dei principî del codice civile in materia di obbligazioni in quanto compatibili».
A parte che non si comprende il richiamo limitato alle obbligazioni e non anche ai contratti (nel cui ambito l’accordo rientra, sia pure con le sue peculiarità) sembra più opportuno lasciare, per il momento, alle singole leggi di settore di anticipare qualche
proposizione in materia, confidando – per la delineazione della disciplina – sulla lettura che sarà data dalla normativa dagli interpreti (soprattutto in sede giurisprudenziale).
19. – L’art. 13 dispone, in via generale, che ogni atto amministrativo con il quale si provvede ad erogare «sovvenzioni, sussidi, ausili finanziari» o «vantaggi economici in genere» a «persone ed enti privati» deve essere preceduto dalla formulazione di criteri generali ed adottato in conformità di questi ultimi.
La norma prosegue disponendo che di tali criteri va offerta pubblicità nelle forme previste dai singoli ordinamenti (all’evidente scopo di far conoscere agli interessati ed alla collettività in genere condizioni, tempi, modalità, ecc. per conseguire detti benefici).
La norma si conclude ponendo un obbligo di motivazione «speciale» a carico dell’autorità emanante: l’attestazione (rifuggendo da clausole di stile) dell’avvenuta osservanza delle regole e modalità avanti ricordate.
L’adunanza generale osserva che la disposizione merita consenso in quanto tende a razionalizzare e a rendere trasparente la materia delle erogazioni senza corrispettivo. Andrebbe valutata l’opportunità di procedere alla sua estensione anche agli atti pubblici beneficiari, eventualmente, di analoghi vantaggi.
20. – L’art. 14 sottrae alla operatività delle norme di cui al titolo II (in tema di contraddittorio), «gli atti normativi, amministrativi generali, di pianificazione e di programmazione» nonché i provvedimenti tributari, per i quali restano ferme «le particolari norme che ne regolano la formazione». Della disposizione – fortemente limitatrice dell’ambito di applicazione della normativa sul contraddittorio – si comprende, tuttavia, la ratio: si è voluto sottrarre, per ragioni pratiche, atti di vasta portata e di applicazione generalizzata, alla troppo penetrante ingerenza di una molteplicità di interessati, al di là delle garanzie predisposte dalle singole leggi di settore.
21. – A) L’art. 15 (con il quale si apre il titolo IV dedicato alla «semplificazione dell’azione amministrativa») risulta imperniato su due commi raccordati tra di loro da un dato solo estrinseco: il fatto che, sia nella ipotesi di cui al 1o comma che in quella di cui al 2o comma, si prevede lo svolgimento di una «conferenza di servizi» tra più amministrazioni.
Il 2o comma (dal quale conviene prendere le mosse) dispone che le «intese», i «concerti», i «nulla osta», e «gli assensi comunque denominati» previsti dalla normativa, non dovranno più, d’ora innanzi, essere espressi con autonome determinazioni dall’autorità alla quale è riconosciuta la competenza ad esplicare tali interventi.
Pur tenendosi ferma, infatti, l’insopprimibile necessità del «consenso» dell’amministrazione della quale sono richiesti l’intesa, il concerto, il nulla osta, ecc., si dispone che il placet di questa ultima autorità (al pari dell’eventuale dissenso) va esternato in una apposita riunione (la c.d. conferenza di servizi) alla quale è chiamata a partecipare anche l’autorità alla quale spetta di adottare l’atto finale quella componente a esprimere l’intesa, il concerto, ecc. nonché – come meglio sarà chiarito più avanti sub B – le altre autorità i cui interessi possono restare implicati nella procedura.
Sono evidenti i benefici che la norma in esame è in condizione di offrire: il confronto tra le autorità interessate può, invero, favorire un «concordamento» che potrebbe non raggiungersi facilmente in assenza di un diretto dialogo tra esse.
Non è dubbio che alla conferenza di servizio debba partecipare – in rappresentanza dell’amministrazione competente ad esprimere l’intesa, il concerto, il nulla osta, ecc. – l’organo di quest’ultima che ha veste per pronunciare al riguardo.
La norma in esame, infatti, testualmente dispone che il consenso espresso nella conferenza «tiene luogo» (id est: svolge le veci) dell’intesa, del concerto, del nulla osta, ecc.
Analoga esigenza (anche se in termini meno perentori) sembra porsi anche per quanto si riferisce all’amministrazione alla quale spetta di adottare l’atto finale.
È vero che quest’ultimo provvedimento sarà espresso – fuori della riunione – con una successiva, separata determinazione. Occorre, però, che, il confronto con l’autorità con la quale va raggiunta l’intesa, il concerto, ecc. venga condotto da un organo in condizione di «negoziare» il futuro assetto così da favorire l’intesa, il concerto, ecc. richiesti dalla normativa. Va dato atto, peraltro, che i caratteri dell’attuale ordinamento – e, più ancora, il modo d’essere che lo stesso potrà assumere in applicazione delle norme di cui al presente schema (v. art. 5) – consente di conseguire, senza difficoltà insuperabili, la partecipazione alla riunione degli organi competenti.
Le competenze decisionali, in passato riservate all’autorità di vertice (spesso nella difficoltà di intervenire alle adunanze), possono, infatti, essere attribuite ad uffici collocati in una diversa e inferiore posizione nel quadro della struttura amministrativa.
Si aggiunge, nel 2o comma dell’art. 15, che «si considera acquisito l’assenso dell’amministrazione la quale, regolarmente convocata, non abbia partecipato alla conferenza salvo che essa non comunichi all’amministrazione procedente, entro dieci giorni dalla conferenza stessa, il proprio motivato dissenso».
La regola offre una equilibrata conciliazione tra due confliggenti esigenze: quelle di conseguire, dall’autorità competente ad ottenere l’intesa, il concerto, ecc., l’espressione del suo opinamento; quella di assicurare l’ulteriore sviluppo della procedura anche se manchi una esplicita pronuncia di quest’ultima autorità.
Nel caso in esame – diversamente da quanto accade in altre fattispecie – non si considera, infatti, equivalente all’intesa, al concerto, al nulla osta, ecc. il mero fatto inadempitivo (nel nostro caso la mancata partecipazione all’adunanza) occorrendo in più che, in un termine prestabilito, l’amministrazione (non intervenuta all’adunanza) non abbia comunicato il «proprio motivato dissenso».
A quest’ultimo riguardo una ulteriore puntualizzazione normativa potrebbe risultare, però, non inopportuna.
Se nella riunione alla quale è restata assente l’amministrazione, chiamata ad esprimere l’intesa, il concerto, ecc. sia stata ipotizzata l’adozione di un provvedimento diverso da quello sul quale il concordamento era stato richiesto, dovrà disporsi, con apposito precetto, che il termine per manifestare il dissenso prenderà a decorrere non dalla data della conferenza ma da quando all’autorità non intervenuta sia stata data notizia del nuovo assetto predisposto.
B) Strette connessioni con le disposizioni dettate dal titolo II in tema di partecipazione al procedimento presenta il 1o comma dell’art. 15.
Si prevede, in tale norma, che l’amministrazione, chiamata ad adottare la determinazione finale, possa invitare ad una apposita riunione (la c.d. conferenza di servizi) le autorità pubbliche i cui interessi possono restare coinvolti nel procedimento.
Una facoltà della quale l’amministrazione procedente dovrebbe avvalersi (nell’esercizio della lata discrezionalità ad essa attribuita dallo schema) quando risulti opportuno acquisire elementi ed opinioni delle dette amministrazioni a conclusione di un diretto confronto tra di esse e tra di esse e l’amministrazione procedente.
Qualora l’amministrazione procedente non indica la conferenza o ad essa non partecipino le amministrazioni interessate resterà sempre salva la facoltà di queste ultime di accedere, in via di intervento, alla procedura ai sensi degli art. 10, 11 e 12 dello schema.
22. – L’art. 16 dello schema si ricollega al precedente art. 15 per un dato meramente estrinseco: il fatto che gli accordi di cui si parla nella norma in esame possono venire conclusi anche in occasione di conferenze di servizi (v. l’inciso di apertura della norma citata: anche al di fuori della ipotesi prevista dall’articolo precedente»).
Il citato art. 16 sembra rivolto a consentire (forse meglio sollecitare) – senza incidere sulla competenza delle singole amministrazioni – «intese» tra due o più organi o enti pubblici in vista di coordinare tra di loro le iniziative (in qualche misura interferenti) è spettanza di ciascuna delle anzidette autorità. Attraverso tali accordi (nella prassi denominati «accordi di programma») ciascuna amministrazione autolimita, perciò, la propria discrezionalità in vista di ottenere che la sua competenza si sviluppi in armonia con quelle parallele.
Sembra che questi accordi siano destinati a fissare le metodologie che le singole amministrazioni si impegnano a seguire nello svolgimento dei procedimenti di rispettiva competenza, i criteri di decisione alle quali ciascuna di esse si atterrà, i tempi che verranno osservati, le attrezzature che saranno utilizzate, ecc.
Non si hanno rilievi da muovere alla norma in questione capace di offrire utili servizi specie quando le intese intervengano in amministrazioni che dispongono di competenze separate e distinte.
23. – L’art. 17 dello schema – generalizzando soluzioni anticipate, nel nostro ordinamento, da normative di settore – accorda all’amministrazione procedente la facoltà di proseguire nelle procedure senza attendere l’espressione del parere richiesto (si tratti pure di parere obbligatorio) qualora tale parere non risulti sopraggiunto alla scadenza del termine indicato dalla legge o dal regolamento (o, in mancanza di specifiche previsioni, nei novanta giorni dalla ricezione, da parte dell’organo consultivo, della richiesta di parere).
L’ultimo comma dell’art. 17 prosegue disponendo, poi, che, nel caso in cui l’organo consultivo abbia rappresentato esigenze istruttorie, il termine, decorso il quale l’amministrazione potrà procedere senza attendere ulteriormente il parere, prende a maturare dalla data sotto la quale risultano pervenuti all’organo consultivo i documenti e le notizie richiesti.
Va rimesso, naturalmente, alle valutazioni dell’amministrazione richiedente (e poi del parlamento) decidere se le esigenze acceleratorie che sono alla base della disciplina in esame vadano tenute ferme.
Non può farsi a meno, però, di rilevare che la disciplina di cui alla disposizione in esame pur se aderente alle esigenze di un sollecito svolgimento della procedura, comporta lo scorporo «cieco» dal procedimento di interventi (specie se trattasi di pareri di cui è prescritta in via obbligatoria l’acquisizione) sui quali la normativa particolarmente confidava ai fini della delineazione dell’assetto di cui al provvedimento finale.
Il secondo inciso, poi, del 1o comma (che una più corretta collocazione consiglierebbe di trasformare in comma autonomo da collocare alla fine dell’articolo) prevede che se il parere venga espresso in senso favorevole e senza osservazioni «il dispositivo è comunicato telegraficamente» all’amministrazione precedente.
La norma – rivolta a fare conseguire con particolare prontezza all’amministrazione la notizia dell’esito (favorevole) della consultazione – è, senz’altro, da condividere.
Si suggerisce, però, una sua modifica di carattere formale: la previsione, a lato, della trasmissione telegrafica, anche di quella con mezzi telematici (oggi sempre di più larga diffusione).
24. – L’art. 18, al pari della norma precedente (e, in qualche limite, dell’art. 15), si preoccupa delle inerzie amministrative: in particolare di quelle riferibili ad organi o enti pubblici chiamati ad eseguire, nell’ambito del procedimento, accertamenti o valutazioni di carattere tecnico.
La disposizione accorda, infatti, all’amministrazione procedente – nel caso in cui l’ufficio tecnico non abbia assolto i propri compiti nel termine prestabilito (e, in mancanza di termini specifici, nei novanta giorni dalla richiesta) – la facoltà di investire della esecuzione di tali incombenti altre istituzioni ed organi pubblici provvisti di pari capacità tecnica o professori universitari di ruolo nella materia o esperti iscritti negli albi.
Non si hanno obiezioni da muovere alla disciplina ora riferita.
Naturalmente, ove le future esperienze – in sede di applicazione della citata disposizione – dovessero dimostrare la necessità «istituzionale» di far ricorso a tali interventi surrogatori occorrerebbe pensare a nuove forme organizzative dei detti uffici tecnici per ottenere che gli stessi siano in grado di assolvere i compiti loro assegnati dall’ordinamento.
È appena il caso di sottolineare, poi, l’opportunità che si proceda, a suo tempo, dalle amministrazioni all’applicazione della norma in esame previa determinazione di criteri generali in vista di conseguire, tra l’altro, una equa e razionale distribuzione degli incarichi.
25. – L’art. 19 mira a liberare, in determinate circostanze, il privato da oneri di documentazione (posti a suo carico dalla vigente normativa) trasferendo i relativi adempimenti sull’autorità amministrativa.
All’amministrazione, in particolare, si attribuisce il compito di acquisire ex officio documenti che sono nei suoi archivi o in quelli di altre amministrazioni. Si commette, ancora, all’amministrazione di procedere ex officio all’accertamento di «fatti», «stati» e «qualità», rilevanti ai fini della procedura in corso, ove spetti all’amministrazione procedente o ad altra p.a. di attestare i fatti, gli stati e le qualità avanti ricordati.
La norma (che merita sotto ogni riguardo consensi) postula, naturalmente, per poter funzionare adeguatamente (specie per ciò che concerne il reperimento dei documenti in possesso di altri uffici), amministrazioni attrezzate con impianti informatici.
26. – A) Per quanto concerne l’art. 20 va, anzitutto, osservato che se la detta norma dovesse essere conservata nella sua attuale formulazione (v., però, i successivi suggerimenti modificativi sub c) occorrerebbe procedere al frazionamento dei commi di cui essa risulta costituita in due articoli separati e distinti.
Mentre, infatti, il 2o comma si preoccupa – raccordandosi ad altre norme già esaminate (15, 18, 19) – di offrire nuovi mezzi giuridici per superare l’inerzia amministrativa, il primo tende solo a «liberalizzare» – al di fuori di ogni riferimento a fatti inadempitivi – certe attività private la cui esplicazione risulta, nella normativa vigente, condizionata al previo conseguimento del titolo abilitativo.
B) Passando in particolare all’esame del 1o comma va ricordato che la detta norma (all’evidente fine di semplificare l’azione amministrativa e di rendere più agevoli i rapporti tra p.a. e privato) affida – almeno in area statale: per le regioni v. art. 20 – alla potestà ragolamentare governativa il compito di «liberalizzare» specifiche attività del privato in atto soggette al previo conseguimento di autorizzazioni, licenze, abilitazioni, nulla osta, permessi, o altri atti di consenso comunque denominati. Accollandosi, peraltro, al privato (secondo regole procedurali che, pure, in sede regolamentare dovrebbero venire stabilite) l’obbligo di denunciare all’amministrazione competente, prima del suo inizio, l’attività che si è sul punto di intraprendere.
Alla base della disciplina ora riferita pare essere la persuasione che le abilitazioni, richieste dalla normativa vigente, sono, in talune ipotesi, chiamate solo a verificare – senza spazi di discrezionalità o con discrezionalità di tasso ridottissimo – la conformità dell’attività, che il privato si propone di svolgere, alle prescrizioni della sovraordinata normativa (relativa, ora, agli oggettivi caratteri dell’attività ora ai requisiti di chi dovrà realizzarla).
Con la conseguenza della convertibilità, senza seri pregiudizi per l’interesse pubblico, della disciplina oggi vigente in un assetto alternativo nel quale l’ordinamento rinuncia ai previ controlli delle amministrazioni sostituendo ad essi solo interventi amministrativi successivi rivolti a riscontrare (senza margini di discrezionalità) se l’attività svolta dal privato è stata conforme alla normativa sovraordinata e se chi l’ha realizzata era in possesso dei requisiti prescritti.
Il passaggio alla nuova disciplina – via, via che le singole fattispecie saranno individuate in sede regolamentare – renderà inevitabile una nuova delineazione del regime sanzionatorio (al quale – nelle aree, almeno, di riserva di legge: si pensi a quelle penali – non potrà farsi fronte con la disciplina regolamentare).
È il caso di valutare, perciò, la possibilità di introdurre, nello schema, una disposizione, di carattere generale, rivolta a convertire le precedenti fattispecie sanzionate (imperniate, di regola, sulla carenza del titolo o sulla divergenza dal titolo) in nuove figure nelle quali dovrebbe conferirsi significato, ai fini della reazione sanzionatoria, alla avvenuta esplicazione dell’attività (liberalizzata) in difformità dalla normativa sovraordinata o da parte di chi risultava sprovvisto dei requisiti soggettivi richiesti.
C) Sul piano formale la norma del 1o comma, sembra richiedere, inoltre, le seguenti integrazioni e modifiche.
a) Pare necessario disporre, anzitutto, che il regolamento, al quale si commette il compito di individuare le singole fattispecie nei riguardi delle quali dovrà trovare applicazione il nuovo regime, venga adottato – come prescrive l’art. 87 Cost. – non con decreto del presidente del consiglio dei ministri ma del presidente della repubblica.
b) In vista di una più precisa delimitazione degli spazi regolamentari (al regolamento si affida il compito di decidere quali fattispecie vanno fatte ricadere sotto il regime della liberalizzazione) va precisato che l’esonero dal titolo può venire disposto dal regolamento solo in ordine a fattispecie che, nell’attuale regime, risultano sottoposte a previ controlli di carattere rigorosamente vincolato o caratterizzati da una discrezionalità particolarmente limitata (della quale ultima l’amministrazione perderà, ovviamente, l’esercizio in coincidenza con il passaggio al nuovo regime fondato sui soli controlli vincolati successivi all’attività posta in essere).
c) Al regime di piena liberalizzazione di certe attività, di cui fin qui è parlato, sarebbe opportuno che lo schema affiancasse anche un alternativo, più moderato regime, destinato ad ottenere applicazione quando, in relazione a talune fattispecie, si ritenga di non rinunciare del tutto ad una disciplina imperniata sulla disponibilità del previo titolo abilitativo.
Potrebbe pensarsi, in questa ipotesi (riconducendosi la disciplina tra le misure a tutela della inerzia), al passaggio ad un regime di «franchigia» dal titolo solo se, decorso un certo termine, l’amministrazione non abbia adottato alcuna pronuncia sulla richiesta dell’atto abilitativo (v. per una analoga soluzione art. 8 l. 94/82).
27. – Il 2o comma dell’art. 20 dispone che (a livello di normativa regolamentare per quanto concerne lo Stato: per le regioni vedi art. 29) dovranno essere identificate fattispecie nelle quali l’attività del privato – subordinata per il suo esercizio a valutazioni discrezionali della p.a. in sede di rilascio dell’atto abilitativo – potrà ritenersi per fictio iuris assentita, e secondo le richieste avanzate dal privato nella sua istanza, qualora l’amministrazione non pronunci (c.d. silenzio-assenso).
Si consente, in questo modo, la produzione ex lege, nell’ordinamento, di questi stessi effetti che il privato avrebbe potuto conseguire in forza di una pronuncia esplicita e favorevole dell’autorità amministrativa.
L’interessato resterà, perciò, abilitato a dar vita, e in conformità del suo progetto, all’attività come sarebbe accaduto se l’amministrazione avesse rilasciato il titolo prescritto.
In virtù del regime ora ricordato – a differenza che nei casi di cui al 1o comma – si dispiegano, perciò, nell’ordinamento, gli effetti indicati nell’istanza (l’abilitazione ad agire in conformità del progetto predisposto) pur se non sussistano, in ipotesi, le condizioni volute dalla legge (così come accadrebbe se, sul progetto presentato dal privato, fosse intervenuta una pronuncia abilitativa illegittima dell’autorità amministrativa).
È da rinvenire, appunto, nella equiparazione all’atto amministrativo del progetto del privato (anche illegittimo) sul quale non è sopraggiunta la pronuncia, la ragione d’essere della regola del 2o comma che contempla l’annullamento del titolo (id est: dell’atto amministrativo fittizio) quando l’amministrazione rilevi l’illegittimità del progetto e la sussistenza dell’interesse pubblico alla sua rimozione.
Spetterà, naturalmente, al regolamento decidere quando, in presenza di fattispecie oggi caratterizzate da momenti di discrezionalità, convenga avvalersi del regime di cui al 1o comma (liberalizzazione dell’attività con perdita dei poteri discrezionali anche in sede di controllo) o di quella del 2o comma (silenzio-assenso).
Logica vorrebbe (e di ciò dovrà tenersi conto in sede regolamentare) che il regime del silenzio-assenso (atto fittizio) debba essere preferito quante volte siano presenti momenti di discrezionalità – da valutare in sede di controllo preventivo – ai quali l’ordinamento non intenda rinunciare.
Il silenzio-assenso, conducendo infatti alla immissione nell’ordinamento di un atto fittizio (immagine fedele dell’assetto progettato dal privato), consente, di attribuire ancora valore ai momenti discrezionali. L’amministrazione potrà, così, ad esempio, in via di autotutela annullare (sussistendo l’interesse pubblico) il silenzio-assenso anche per profili di eccesso di potere non strettamente connessi alla formazione di una specifica volontà, come l’illogicità oggettiva dell’assetto, la disparità di trattamento, ecc.).
Sembrerebbe, però, necessario – proprio in vista di consentire all’amministrazione di avvalersi ancora dei poteri discrezionali in sede di autotutela – sopprimere quella proposizione dell’art. 20 nella quale si prevede l’annullamento d’ufficio del silenzio- assenso solo quando quest’ultimo risulti venuto in essere «in mancanza dei presupposti e dei requisiti di legge» (negandosi, così, ogni significato a momenti di discrezionalità).
28. – La disciplina sviluppata nel titolo V (accesso ai documenti amministrativi) trova ispirazione nella legislazione vigente nei paesi scandinavi.
Occorre, peraltro, dare atto che esigenze analoghe erano state, presso di noi, già avvertite ai tempi della emanazione della Costituzione repubblicana.
La commissione per gli studi per la organizzazione dello Stato (v. in particolare la relazione di cui fu estensore Antonio Sorrentino) ebbe a sottolineare, infatti, l’opportunità dell’inserimento, nella Costituzione di disposizioni che sancissero il diritto degli appartenenti alla collettività ad avere visione o copia dei documenti amministrativi.
Evidenti gli obiettivi ai quali tende la normativa di cui al titolo in esame: assicurare l’accesso alle fonti di informazione pubblica sia per favorire il coinvolgimento dei cittadini nei processi di decisione, sia per consentire agli stessi un permanente riscontro della correttezza dell’azione dei pubblici poteri.
29. – Passando all’esame delle singole disposizioni che compongono il titolo in esame va rilevato che l’art. 21 attribuisce il diritto di accesso «ai cittadini» (secondo le modalità stabilite dalle successive disposizioni dello schema: v. oltre).
Andrebbe, peraltro, valutata l’opportunità di estendere anche allo straniero, in determinate circostanze, l’esplicazione di questa facoltà (si pensi, ad esempio, ai lavoratori stranieri in Italia).
30. – L’art. 22 individua, con una formula di particolare latitudine, i soggetti nei confronti dei quali l’accesso potrà essere esercitato: le «amministrazioni dello Stato» (ivi comprese le aziende autonome); gli «enti pubblici» e i «concessionari di pubblici servizi».
È da supporre che fra gli enti pubblici debbano comprendersi anche gli enti pubblici economici, limitatamente, almeno, alla documentazione attinente alla loro attività organizzativa (arg. ex art. 21, ultimo comma, e 23, 2o comma, lett. d).
31. – Al diritto di accesso l’art. 23 (e – come si vedrà – anche il successivo art. 24) apportano taluni limitazioni:
A) Così, anzitutto, nel 1o e nel 2o comma dell’art. 23 risulta vietato l’accesso ai documenti coperti da segreto di Stato ai sensi dell’art. 12 l. 11 dicembre 1981 n. 861; ai documenti coperti da divieti di divulgazione «altrimenti previsti dall’ordinamento»; ad ogni documento la cui diffusione possa, comunque, pregiudicare la sicurezza, la difesa nazionale, le relazioni internazionali, la politica monetaria, valutaria, l’ordinamento pubblico, ecc.
B) Si riconosce, poi, ai soggetti pubblici, obbligati a consentire l’accesso (art. 22), la facoltà di differirne l’esecuzione – in relazione, ovviamente, a documenti non rientranti tra quelli sub A) – quando la «conoscenza» di essi potrebbe «impedire o gravemente ostacolare lo svolgimento dell’azione amministrativa».
C) Si dispone, infine, il divieto di accesso – durante l’iter di formazione – agli atti preparatori di provvedimenti di carattere normativo, di atti generali di pianificazione e di programmazione salvo, naturalmente, che le singole normative non dispongano diversamente.
Tutte le accennate limitazioni e cautele hanno un indubbio fondamento, tendendo ad evitare che l’accesso indiscriminato incida su interessi pubblici fondamentali.
Sarebbe, tuttavia, opportuno che una più puntuale identificazione dei documenti sottratti all’accesso fosse preventivamente tentata in via regolamentare da ciascuna amministrazione.
E ciò, tra l’altro, per evitare che i singoli uffici, adottino, caso per caso, interpretazioni divergenti (e speciosamente restrittive).
32 – L’art. 24 prescrive, nel 2o comma, che la richiesta di accesso ai documenti deve essere «motivata» (e, perciò, accompagnata da indicazioni valide ed apprezzabili ragioni).
Il detto onere, gravante sul privato, è rivolto, infatti, ad ottenere che delle facoltà di accesso non si faccia un uso distorto (ad esempio acquisendosi elementi da utilizzare al fine di nuocere a terzi, ecc.).
33. – La normativa offre, poi (sempre nell’art. 24), una specifica disciplina, sostanziale e processuale, rivolta ad assicurare tutela nei riguardi dei rifiuti e delle omissioni illegittimi della p.a. in tema di accesso.
Si precisa, così, che il rifiuto di accesso, il differimento e la limitazione di esso debbono essere motivati; che, trascorsi, inutilmente, trenta giorni dalla istanza di accesso, i documenti richiesti si intendono rifiutati riconoscendosi, così,
all’interessato veste per contestare, in sede contenziosa, l’inerzia dell’amministrazione.
Sempre nella norma in esame si dettano, poi, particolari regole processuali per apprestare un contenzioso rapido ed efficiente nei riguardi dei dinieghi espliciti e delle inerzie amministrative nell’area dell’accesso.
Si stabilisce, a tal fine, che è accordato all’interessato la possibilità di avanzare ricorso nel termine di trenta giorni al T.A.R. che dovrà pronunciare in camera di consiglio, con ordinanza motivata, entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito del ricorso, uditi i difensori delle parti che ne facciano richiesta.
Sempre nella logica acceleratoria che è alla base della procedura si stabilisce che la decisione del tribunale amministrativo va appellata entro trenta giorni dalla notifica della stessa e che il Consiglio di Stato decide, in appello, con le stesse modalità e negli stessi termini (i predetti termini dovranno intendersi, ovviamente, sospesi, nel caso di incombenti istruttori disposti dall’organo giurisdizionale).
La norma si conclude disponendo, che, in caso di totale o parziale accoglimento del ricorso, l’organo giurisdizionale dispone «l’esibizione dei documenti richiesti, adottando, ove occorra, i provvedimenti necessari anche in via sostitutiva».
Per quanto concerne le norme di carattere processuale che si sono ora riferite, questa adunanza generale ritiene di dover avanzare i seguenti rilievi:
a) Sembra non coerente l’(implicito) assoggettamento al normale regime di tutela delle contestazioni avanzate nei confronti di atti che anziché ritardare o negare l’accesso l’accordino. Va, invero, riconosciuto anche ai terzi la facoltà di insorgere contro atti che assentono ad altri la visione o la copia di provvedimenti che li riguardano beneficiando, così, della speciale, accelerata disciplina processuale avanti ricordata.
b) Non sembra, poi, esatto denominare la pronuncia conclusiva del processo di primo grado, «ordinanza». Tale atto concreta, infatti, una vera e propria decisione che chiude la lite (d’altra parte la stessa norma, con riguardo sempre alla pronuncia di primo grado, denomina la stessa, in altro punto, «decisione»).
c) Anche l’ultimo comma andrebbe meglio formulato.
L’obiettivo di questa disposizione sembra quello di ottenere che, già sulla base della sentenza di primo grado (salva sospensione in appello della detta pronuncia), la p.a. possa venire obbligata, in via coattiva, ad offrire in visione o a rilasciare copie di atti. Ora è evidente che, a questi fini, ciò che occorre conseguire (in deroga al generale regime di cui all’art. 37 l. 1034/71 richiedente il «giudicato» per l’avvio della ottemperanza) è che la sentenza di primo grado possa venir realizzata in via esecutiva ottenendosi, in questo modo – ove manchi lo spontaneo adempimento dell’amministrazione – il conseguimento (con l’ottemperanza o misure similari eventualmente espresse nella stessa fase di cognizione) di quell’accesso agli atti che la sentenza cognitoria ha riconosciuto ma che l’amministrazione persiste nel rifiutare.
34. – L’art. 25 si preoccupa di ottenere – secondo modalità che si lascia ai singoli ordinamenti di determinare – la più larga diffusione delle direttive, dei programmi, delle istruzioni, delle circolari, ecc. della p.a.
Nell’ultimo comma si dispone (con una norma che richiederebbe, forse, sul piano letterale, una formulazione più adeguata) che la pubblicazione integrale degli atti predetti in giornali ufficiali o secondo le norme stabilite nei singoli ordinamenti «assicura la libertà di accesso ai documenti in detti atti indicati». Ciò sembra significare che l’interessato ha, in questo caso, diritto ad ottenere, senz’altro l’accesso, senza che possa essergli opposta alcuna limitazione.
35. – Nell’art. 26 si prevede la istituzione, presso la presidenza del consiglio dei ministri, di una commissione per l’accesso ai documenti amministrativi. Alla detta commissione resta affidato (a parte ulteriori attribuzioni di minore rilievo: studi, raccomandazioni, ecc.) il compito di vigilare sull’applicazione della disciplina del diritto di accesso riferendo annualmente alle camere e alla presidenza del consiglio dei ministri.
Nell’ultimo comma si dispone che tutte le amministrazioni comunichino, nel termine assegnato, le informazioni e i documenti ad esse richiesti e concessi.
Per quanto si riferisce alla composizione del detto organo – tenuto conto delle competenze ad esso assegnate (competenze che trascendono l’ordinamento della p.a. concernendo aspetti essenziali dello Stato-comunità) – sembrerebbe opportuno disporre che tra i membri della commissione siano inseriti anche parlamentari o tecnici scelti dal parlamento.
36. – L’art. 27 – rivolto a coordinare l’art. 15 t.u. n. 3 del 1957 con le nuove proposizioni in tema di diritto di accesso – non dà luogo a sostanziali rilievi.
Una sola modifica, di carattere formale, potrebbe essere di qualche utilità: la sostituzione della espressione «dalle leggi», contenuta nella proposizione finale con l’espressione «dall’ordinamento». E cio in quanto le ipotesi di preclusione di cui alla norma traggono origine anche da atti di carattere non legislativo.
37. – A) A proposito della normativa ora in esame (concernente il diritto di accesso) va rilevato, peraltro, in via generale, che la stessa non pare tener conto (o tener conto in maniera adeguata) – a differenza della legislazione dei paesi stranieri – dei nuovi strumenti informatici (che pur ottengono sempre più larga applicazione nell’amministrazione).
Due particolari esigenze vanno, infatti, soddisfatte, in un sistema caratterizzato dalla raccolta di dati effettuata con tali congegni: a) una larga divulgazione dei criteri seguiti dall’amministrazione per la raccolta e la utilizzazione dei documenti; b) la previsione di una tutela dei dati capace di evitare un uso distorto dell’accesso (soprattutto a salvaguardia dei dati concernenti la vita privata).
Per quanto si riferisce al primo aspetto va rilevato, ad esempio, che la legge francese n. 78/17 del 6 gennaio 1978 (loi relative à l’informatique, aux fichiers ed aux libertés) dispone che la commissione nazionale dell’informatica e della libertà mette a disposizione del pubblico l’elenco degli archivi e tutte le notizie concernenti finalità e funzioni di essi; l’indicazione dell’ufficio presso il quale può essere eseguito il diritto di accesso (diritto che – in quel sistema: v. art. 34 ss. – ha per contenuto non solo la facoltà di ottenere visione dell’atto ma anche informazioni circa la sua effettiva portata).
Analoghe previsioni risultano racchiuse nell’art. 8 della convenzione europea per la protezione delle persone in relazione ai trattamenti automatizzati dei dati a carattere personale (convenzione, aperta alla firma a Strasburgo il 28 gennaio 1981, e firmata dall’Italia il 2 febbraio 1983) e nell’art. 21 della legge sulla protezione dei dati (Data protection act, 1984) con la quale, in Gran Bretagna, è stata disciplinata l’utilizzazione dell’informazione automatica concernente persone nonché la prestazione di servizi in relazione a dette informazioni ed è stato adeguato all’ordinamento interno alla convenzione europea sopra richiamata.
Per quanto concerne il secondo punto (quello relativo ai rischi di un accesso indiscriminato ai documenti amministrativi senza una specifica normativa di protezione dei dati personali) va ribadita la necessità di dar vita ad un sistema che garantisca, attraverso normative tra loro armonizzate, ad un tempo, l’accesso e la tutela dei dati (concernenti soprattutto la vita privata).
È evidente, infatti, che dati ricavabili da documenti pubblici, i quali, di per sé, sembrano non incidere sulla vita privata del soggetto, se messi in connessione con altri dati, anch’essi apparentemente neutri, riguardanti lo stesso soggetto, possono completamente travolgere la soglia della sua vita privata; allo stesso modo dati, che di per sé appaiono non toccare la sfera della vita privata di un soggetto facente parte di un gruppo, messi in connessione con altri dati apparentemente neutri concernenti altri soggetti dello stesso gruppo possono incidere profondamente sulla sfera dei diritti inviolabili degli appartenenti al gruppo.
38. – Il titolo VI (costituito da un’unica norma: l’art. 28) non dà luogo a sostanziali rilievi per quanto attiene alle regioni a statuto ordinario.
Sembra, invero, del tutto ineccepibile l’enunciazione di cui alla citata disposizione nella quale si afferma che la legge sul procedimento esprime principî fondamentali (art. 117 Cost.) ai quali la potestà legislativa delle regioni a statuto ordinario dovrà conformarsi.
Una diversa formulazione sembrerebbe, invece, opportuna per le regioni a statuto speciale. Occorrerebbe infatti, precisare che la nuova legge sul procedimento amministrativo si impone alle dette regioni nei soli limiti in cui il nuovo assetto esprime riforme economico-sociali (lasciando, all’interprete – e in primo luogo alle regioni interessate – di valutare se la totalità dei principî di cui alla legge in esame o solo parte di essi siano rivolti a realizzare una «grande riforma» nell’ordinamento).
Sembra invece capace di operare sia nei riguardi delle regioni a statuto ordinario che di quelle a statuto speciale la disposizione di cui al 2o comma dell’art. 28 nella quale si stabilisce che le disposizioni di dettaglio – pure racchiuse nella nuova legge – operano, in via diretta, come disposizioni suppletive in quegli ambiti nei quali si produce l’abrogazione della precedente disciplina per il sopravvenire dei nuovi principî (fino a quando naturalmente le regioni non avranno dato vita a un nuovo assetto conforme ai nuovi principî).
Per questi motivi, nelle suesposte considerazioni è il parere dell’adunanza generale del Consiglio di Stato.