FREE: L’esenzione dal servizio del pubblico dipendente

STEFANO GLINIANSKI e ORSOLA RAZZOLINI, L’esenzione dal servizio del pubblico dipendente nel decreto cura Italia e nel decreto rilancio*.



STEFANO GLINIANSKI (*) e ORSOLA RAZZOLINI (**)

L’esenzione dal servizio del pubblico dipendente
nel decreto cura Italia e nel decreto rilancio



Il decreto 17 marzo 2020, n. 18, c.d. “cura Italia”, all’art. 87, prevede la possibilità per le Pubbliche amministrazioni di esentare dal servizio il personale dipendente qualora non sia possibile utilizzare il lavoro agile e si sia già fatto ricorso agli istituti delle ferie pregresse, dei permessi, della banca ore, della rotazione e di «altri istituti analoghi».

L’istituto crea, in primo luogo, una disparità di trattamento difficilmente accettabile tra dipendente pubblico e dipendente privato. Il dipendente pubblico esentato dal servizio continuerà a percepire la retribuzione al 100% mentre il dipendente privato, in un caso simile, potrà accedere soltanto alla cassa integrazione che, per l’anno 2020, prevede un’indennità mensile massima pari ad Euro € 1.199,72 (lordi) per le retribuzioni superiori a 2159,48 Euro.

Le disparità emergono anche all’interno della stessa amministrazione dove la maggioranza dei dipendenti, che continueranno a svolgere la propria attività lavorativa, mal digeriranno il fatto che alcuni colleghi «più fortunati» possano restare a casa in regime di esenzione ma, comunque, percependo lo stipendio.

In un’ottica di finanza pubblica, un’applicazione acritica dell’istituto dell’esenzione, tra l’altro, rischia di determinare uno stigmatizzabile utilizzo di risorse pubbliche in spregio a quei principi di efficienza, efficacia ed economicità che devono governare l’azione amministrativa anche ove la stessa si espliciti nella gestione delle risorse umane.

Infine, non va sottovalutato il problema della tutela della professionalità del lavoratore: professionalità che, per giurisprudenza costante, corrisponde ad un diritto fondamentale della persona e che, per essere conservata, deve venire costantemente impiegata. Del resto, l’art. 52, d.lgs. n. 165/2001, sulla falsa riga dell’art. 2103 c.c., afferma che il lavoratore «deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento».

Così come il datore di lavoro ha il diritto di ricevere la prestazione di lavoro, in cambio della retribuzione, allo stesso modo il lavoratore ha il diritto di essere messo effettivamente nelle condizioni di svolgere l’attività lavorativa per cui è stato assunto, a fronte del fondamentale significato che il lavoro assume nella realizzazione della persona sia come singolo sia come soggetto di una comunità. Di qui il diritto del lavoratore, costretto all’«inattività forzata» o soggetto ad un demansionamento quantitativo, di chiedere il risarcimento del danno alla professionalità – oltre che eventualmente del danno biologico all’integrità psichica – liquidato dal giudice in una percentuale della retribuzione mensile (che può arrivare al 50%) per ogni mese di demansionamento o inattività (v., ad esempio, Cass., 15 gennaio 2014, n. 687; Trib. Bologna, 15 aprile 2014, n. 254; App. Ancona, 29 giugno 2017, n. 192).

L’esenzione del pubblico dipendente è, pertanto, una soluzione che, come spiega la circolare del Dipartimento della Funzione Pubblica n. 2/2020 con oggetto misure recate dal decreto-legge 17 marzo 2020 n. 18, recante “Misure di potenziamento del Servizio sanitario nazionale e di sostegno economico per famiglie, lavoratori ed imprese connesse all’emergenza epidemiologica da Covid 19”, deve costituire l’extrema ratio imponendo un’attenta valutazione di tutte le alternative organizzative esistenti.

Tra queste, pur nel silenzio della legge, deve essere considerata la possibilità di procedere ad una complessiva riqualificazione professionale del dipendente ovvero ad un mutamento di mansioni, purché equivalenti nell’ambito dell’area di inquadramento, fornendo anche la formazione ritenuta eventualmente necessaria. Si tratta del famoso «obbligo di ripescaggio» elaborato dalla Corte di Cassazione 7755/1998 in materia di giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

All’epoca il ragionamento della Corte si fondava su una innovativa lettura dell’oggetto del contratto di lavoro che non coincide con le sole mansioni di assunzione ma si estende alle mansioni equivalenti così giustificando un particolare impegno di cooperazione in capo al creditore della prestazione (il datore di lavoro) tenuto non soltanto «a predisporre gli strumenti necessari all’esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell’oggetto del contratto». Uno sforzo che a maggior ragione, oggi, deve essere compiuto dall’amministrazione pubblica prima di decidere di esentare dal servizio un pubblico dipendente: disposizione che coinvolge diritti e valori quali la professionalità del lavoratore, l’utilizzo efficiente ed efficace delle risorse pubbliche, la parità di trattamento e la giustizia sociale.

Nel procedere all’assegnazione al dipendente di nuove mansioni, rientranti nella medesima area prevista dal contratto collettivo (cfr., da ultimo, Cass., 17 dicembre 2018, n. 32592), sarà, tra l’altro, opportuno prevedere un periodo di formazione dello stesso. Possono, infatti, essere ricondotte alla stessa area contrattuale mansioni eterogenee, corrispondenti a professionalità nel concreto diverse, lo svolgimento delle quali può mettere in difficoltà il lavoratore.

La formazione, che sotto questo profilo costituisce una particolare declinazione del dovere di cooperazione del creditore, assumerà una particolare rilevanza in un contesto come quello attuale in cui il massiccio ricorso allo smart working e la spinta alla digitalizzazione di numerose attività pone la Pubblica amministrazione dinanzi all’esigenza di convertire e incrementare le skills e le conoscenze di molti dei suoi dipendenti, anche addetti a semplici mansioni esecutive.

Nel solco prospettico delineato, pertanto, per il datore di lavoro pubblico si presenta, una nuova sfida: decidere, nell’esercizio del suo potere datoriale, come organizzare la futura attività della amministrazione pubblica non subendo, ma consapevolmente gestendo, la fase della ripartenza il cui ultimo approdo è il decreto rilancio che chiaramente depone in tal senso, con la nuova disposizione, l’articolo 263, in materia di flessibilità del lavoro pubblico e di lavoro agile.

E tanto, anche nel rispetto dell’indiscusso principio che la disciplina dettata in materia di pubblico impiego, considerato che il costo del lavoro grava sulla collettività, deve essere improntata a criteri di efficienza, efficacia, economicità, sia nella fase di reperimento delle risorse umane, che nella concreta gestione del rapporto di lavoro, rappresentando la spesa pubblica, per potersi qualificare realmente efficace, non solo una questione di quantum finanziario ma, soprattutto, di qualità della stessa.

 

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(*) Consigliere Corte dei Conti e Segretario generale Autorità scioperi servizi pubblici essenziali.

(**) Associato Diritto del lavoro, Università studi di Milano, Commissario Autorità scioperi servizi pubblici essenziali.