FREE: prime note al D.P.C.M. 8 marzo 2020
FABIO RATTO TRABUCCO, Prime note al D.P.C.M. 8 marzo 2020: con l’emergenza Coronavirus la gerarchia delle fonti diventa un optional.
FABIO RATTO TRABUCCO (*)
Prime note al D.P.C.M. 8 marzo 2020: con l’emergenza
Coronavirus la gerarchia delle fonti diventa un optional
Apparentemente l’emergenza COVID-19, meglio noto come Coronavirus, ha mietuto vittime eccellenti e fra queste lo stesso Presidente del Consiglio. Evidentemente la patologia provoca anche effetti di natura amnesica laddove il medesimo risulta un esimio giurista ovvero professore ordinario di diritto civile nel rinomato Ateneo fiorentino epperò adotta atti lesivi della gerarchia delle fonti quali imposti dalla Costituzione in punto di diritto di circolazione.
L’atto dal medesimo sottoscritto in data 8 marzo 2020 appare un autentico monstrum giuridico degno di Capo dello Stato autoritario in fregio alle più basilari regole della gerarchia delle fonti del diritto. Per chi vede dall’estero la vicenda appare un Paese ripiegato su sé stesso davanti al certo baratro della recessione con annesso blocco dell’economia ed impennata del debito pubblico mentre l’esecutivo arranca in provvedimenti urgenti a raffica obliterando che limitazioni a diritti fondamentali non possono che passare per il Parlamento.
Orbene, nel marasma ed isteria collettiva che ha colpito il Paese a seguito della non meglio precisata introduzione del virus in Italia, gli effetti deleteri sono pacifici anche sulla normazione. Se il paziente zero resterà una chimera e a nulla é servito chiudere i collegamenti aerei con la Cina sin dal 31 gennaio 2020, se poi la gestione sanitaria sul territorio si é rivelata traballante anche in forza delle deficitarie risorse e strutture regionali. Il tutto per quanto l’area di primo contagio abbia riguardato le maggiori e più ricche regioni italiane, quali sono Lombardia e Veneto che, non a caso, hanno anche forti contatti commerciali con la Repubblica popolare cinese.
Il primo tentativo di reazione governativo all’emergenza é stata l’adozione del decreto legge 23 febbraio 2020, n. 6, prontamente convertito in legge nell’arco di meno di due settimane, con cui veniva disposto un rigido cordone sanitario attorno agli undici Comuni dell’area del primo contagio. Nulla da eccepire al riguardo. Sono poi seguiti a stretto giro due ulteriori decreti legge relativi, rispettivamente, alle misure urgenti di sostegno a famiglie, lavoratori e imprese connesse all’emergenza sanitaria delle aree lodigiane e padovane colpite (d.l. 2 marzo 2020, n. 9), nonché in tema di misure straordinarie per contenere gli effetti negativi sullo svolgimento dell’attività giudiziaria in gran parte congelata sino al 31 maggio 2020 (d.l. 8 marzo 2020, n. 11).
Tuttavia la decretazione del vertice governativo ha avuto una prima sinistra avvisaglia con il d.P.C.M. 1 marzo 2020, che richiama il predetto decreto legge recando “ulteriori disposizioni attuative del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, recante misure urgenti in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19”. Tale atto giá limitava fortemente il diritto di circolazione dei residenti nei ridetti undici Comuni con il divieto di allontanamento (ma anche di accesso) dai (ai) ridetti Comuni.
Successivamente, allorquando s’é compreso che la curva epidemica non s’arrestava, complici evidenti violazioni ovvero strutture sanitarie al collasso, e l’Italia s’avviava a divenire il secondo Paese al mondo per contagi dopo quello d’origine del virus, tutti gli schemi sono saltati, vieppú con il patente rischio che il virus si diffondesse al sud a fronte di sistemi sanitari in parte deficitari di risorse umane, finanziarie e strumentali.
Tuttavia, non soltanto, e sarebbe fors’anche giustificabile nella crisi del momento, sono venuti meno gli schemi comunicativi a mezzo di fughe di notizie, smentite, conferme parziali, mezze parole e simili nella difficoltà di coordinamento fra Governo centrali e Regioni, la maggior parte delle quali a maggioranza politica di diverso rispetto all’esecutivo romano.
Infatti ciò che é stato letteralmente fatto a pezzi con il d.P.C.M. 8 marzo 2020, come forse mai nella storia repubblicana italiana, é il sistema delle fonti del diritto nei suoi più basilari elementi, peraltro nel silenzio generalizzato della stampa ma anche della stessa accademia giuridica che nulla ha eccepito.
Il nodo é che con un mero decreto notturno del Presidente del Consiglio dei Ministri sono state disposte draconiane limitazioni alla libera circolazione dei cittadini di una Regione e di ulteriori quattordici Province limitrofe (in realtà dapprima erano „solo” undici sulla base di una bozza del decreto circolata furtivamente a fronte della solita fuga di notizia avallata da funzionari governativi compiacenti con la stampa). Ulteriori obblighi, di solo poco inferiore impatto, sono stati altresì imposti sull’intero territorio nazionale. Sono di fatto imposti dei forti limiti alla mobilità in entrata e in uscita e all’interno delle aree indicate, di talché in concreto sono approntati posti di blocco lungo le autostrade, nelle stazioni e negli aeroporti, per invitare chi non è strettamente obbligato a muoversi a non uscire dai confini di zona.
Infatti, ciliegina sulla torta, si prevedono espressamente financo sanzioni penali nei confronti dei trasgressori quale contravvenzione per inosservanza del provvedimento dell’Autorità sanzionata alternativamente con arresto ed ammenda (art. 4, c. 2), che come ben noto costituisce una tipologia di delitto penalmente perseguibile d’ufficio. A nulla certo vale il richiamo espresso all’art. 3, c. 4, d.l. 6/2020, laddove si prevedeva che il mancato rispetto delle misure di contenimento previste nello stesso decreto era punito ex art. 650, codice penale. Esso ben era applicabile nelle sole aree degli undici Comuni di primo contagio che costituiscono ora solo una limitatissima porzione dell’areale di blocco della mobilità quasi totale. Tale pudico richiamo nella sua fattuale incoerenza appare anzi rendere ancor più gravemente dissimulatoria la volontà di dare credito (rectius, rango) legislativo ad una norma pacificamente e meramente amministrativa.
Sfruttare la fonte del decreto del Presidente del Consiglio per estendere tale fattispecie criminosa costituisce violazione dell’ulteriore principio basilare per cui le sanzioni penali devono essere tassativamente previste per mezzo della norma primaria. Il mero rinvio del decreto alla norma di legge pacificamente applicabile in diversa e minore area territoriale costituisce un aggiramento del divieto d’imporre sanzioni penali a mezzo atti amministrativi mascherato da un laconico richiamo ad una pregressa fonte primaria relativa a diverse aree.
Infatti, é pacifico che un decreto del Presidente del Consiglio nell’ordinamento giuridico italiano, è un mero atto amministrativo alla stregua del decreto ministeriale adottato da un Ministro nell’ambito delle materie di competenza del suo dicastero. Il valore normativo del d.P.C.M. é dunque meramente amministrativo di talché sará esclusivamente impugnabile avanti al Tribunale amministrativo competente (nel caso di specie il T.A.R. del Lazio avendo il decreto un’efficacia ultraregionale). A nulla vale del resto neppure l’espresso richiamo in incipit al medesimo d.P.C.M. della l. 23 agosto 1988, n. 400, in tema di organizzazione del Governo laddove in alcun modo la stessa avalla provvedimenti del vertice dell’esecutivo ovvero di un Ministro quali gravemente limitativi della libertà di circolazione anche in relazione all’ampiezza della zona coinvolta pari a circa un sesto dell’intera superficie del Paese.
Appare dunque evidente che tali norme avrebbero dovuto essere varate a mezzo decretazione d’urgenza con successiva conversione parlamentare in legge come del resto avvenuto con il decreto legge di fine febbraio ratificato dalle Camere il 4 marzo.
La vicenda assume quindi contorni grotteschi tra l’ipotesi dell’abbaglio del vertice governativo e dei relativi apparati ovvero l’ignavia d’evitare di sottoporre un secondo atto di più ampie restrizioni al Parlamento, rimasto peraltro del tutto inerte avanti a tale pacifico esproprio.
L’esecutivo, pur di non ricorrere ancora al decreto legge – sarebbe stato il quarto nell’arco di soli quindici giorni (un certo record nella storia repubblicana, vieppiú in ordine alla stessa causa d’urgenza pur in via incrementale) – ha preferito optare per un atto amministrativo che appare però pacificamente abnorme e lesivo delle più elementari regole in materia di fonti del diritto e dunque del tutto incostituzionale in relazione a più profili.
Il riferimento é ovviamente alla libertà di circolazione, ex art. 16, c. 1, Cost., da cui deriva che ogni individuo possa liberamente disporre della propria persona scegliendo dove, come e quando spostarsi, circolare e fissare la propria dimora sul territorio del Paese. Inoltre, si consideri la vigenza della Convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen che ha previsto e reso operative l’abolizione dei controlli alle frontiere interne per tutti i cittadini in partenza dall’Italia verso un Paese membro dell’UE e viceversa. Convenzione che peraltro, ad oggi, non é stata oggetto di sospensione dall’Italia a fronte dell’impellente emergenza sanitaria.
Al riguardo é ben noto che la libertà di circolazione e soggiorno è tutelata a mezzo di una riserva di legge rinforzata per contenuto. La Carta fondamentale riserva la materia alla sola legge e con draconiani limiti di contenuto della medesima. Infatti, le ridette limitazioni alla libertà di circolazione sono adottate dalla legge “in via generale per motivi di sanità o di sicurezza”, così come disposto dall’art. 16, c. 1, Cost. In quest’ambito rientrano tutti quei casi d’emergenza sanitaria come un’epidemia (o supposta tale) in atto, e dunque il concreto e reale pericolo di diffusione di patologie ritenute perigliose per la popolazione.
Del resto per insegnamento della Consulta le restrizioni devono non giá solo riferirsi a situazioni di carattere generale quali epidemie o pubbliche calamitá, ma anche che la legge deve essere applicabile alla generalitá dei cittadini e non a singole categorie [1]. Tali motivi sanitari possono derivare da situazioni generali o particolari quali la necessità d’evitare l’accesso a zone infette o pericolanti ovvero isolare soggetti contagiosi, come nel caso dell’emergenza COVID-19.
In tali frangenti la razionalizzazione della libertà di circolazione è ampiamente giustificata dalla tutela del diritto alla salute dei cittadini e particolarmente di coloro che non hanno contratto la patologia a cui fanno da contraltare i contagiati. Tuttavia la fonte di disciplina non può che essere quella primaria ovvero il decreto legge stante evidenti ragioni emergenziali.
Appare dunque pacificamente incostituzionale procedere a mezzo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri ad imporre limitazioni alla libertà di circolazione di tal fatta. Tale atto si configura doppiamente lesivo della libertà di circolazione, in punto di lesione della gerarchia delle fonti e laddove prevede norme penali al suo interno in caso di violazione.
Diversamente dovremmo pensare ad un’evoluzione (ma sarebbe meglio dire involuzione) dei poteri del Presidente del Consiglio verso quelli del Capo di Stato russo laddove la relativa Carta ammette i decreti presidenziali (ukaz) aventi forza di legge ma che non possono modificare leggi già esistenti e che decade qualora venga approvata una legge del Parlamento (Duma) che disciplina il medesimo oggetto.
La redazione e pubblicazione del d.P.C.M. 8 marzo 2020 costituisce dunque non solo un evidente abbaglio governativo notturno nel marasma emergenziale, ma vieppiú un pacifico abuso in fregio alla rigida gerarchia delle fonti che imponeva il ricorso alla decretazione d’urgenza sotto riserva di conversione parlamentare onde limitare il diritto di circolazione di soggetti residenti e dimoranti in determinate aree del Paese.
Del resto non si vede come un tale atto possa reggere avanti al T.A.R. Lazio laddove non si tratta certo d’istituire un mera zona a traffico limitato. Infatti, é ben noto che limitazioni alla libertà di circolazione e di iniziativa economica a mezzo ordinanze sindacali sono del tutto giustificabili [2] allorquando scaturiscono dall’esigenza di tutela del patrimonio culturale ed ambientale dell’area, cui la Costituzione riconosce valore primario [3].
Limitare la libertà di locomozione per mezzo di un atto amministrativo appare alla stregua di sinistri regimi autoritari ovvero di Presidenti di Paesi con tradizioni democratico-culturali ben diversi dalla nostra, a nulla valendo che il mezzo valga il fine dell’emergenza sanitaria in corso (ammesso che la curva epidemica decresca per l’effetto del ridetto decreto, elemento che alcun esperto può assicurare alla luce di una forma virale comparsa solo alcuni mesi fa e di cui si sta completando la mappatura genica a fini vaccinali).
L’aver evitato la decretazione d’urgenza, pur così abusata nei decenni scorsi, grida ora vendetta ed accettare che un Presidente del Consiglio con „misero” proprio decreto possa imporre vincoli alla libera circolazione dei cittadini, financo sotto minaccia di sanzione penale, costituisce un chiaro abuso di poteri di cui non soltanto il medesimo s’assume la responsabilità politica (e ci mancherebbe non lo facesse) ma anche quella giuridica di aver defraudato il Parlamento della titolarità a sanzionare tali limitazioni del diritto di circolazione di un’ampia area del Paese ma, in generale, di fatto di tutto il Paese.
A ben vedere appare ancora una volta l’incapacità gestionale delle istituzioni governative italiane. A fronte di crisi emergenziali si forniscono risposte con mezzi spesso inadeguati se non del tutto incostituzionali come nel caso di specie. I motivi per cui tali limitazioni non sono state adottate a mezzo decretazione d’urgenza non sono stati chiariti e forse mai lo saranno, nel silenzio generalizzato delle opposizioni, della stampa e, soprattutto, del Parlamento in sé.
Tuttavia, di fatto, e a ben vedere, il rischio maggiore è quello di aver creato un precedente con tale insulso provvedimento governativo domenicale sanzionando poteri emergenziali in capo al Presidente del Consiglio in fregio alle regole costituzionali sul diritto di circolazione.
L’emergenza COVID-19, nella sua spirale perversa, appare recare con sé una sorta di „russificazione” dei poteri della figura del Presidente del Consiglio che in realtà non giova ad alcuno. Salvo dover ritenere fondata la nostra Repubblica per mezzo del vertice governativo che sovverte la gerarchia delle fonti ed impone financo sanzioni penali a mezzo di proprio atto amministrativo in fregio ai poteri parlamentari. Quale sarà dunque il prossimo passo: la detenzione amministrativa quale (anch’essa) prevista dalle norme russe [4]?
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* Professore a contratto in Diritto pubblico comparato nell’Università di Cassino e del Lazio meridionale.
[1] Corte cost.le, n. 2/1956.
[2] Cons. Stato, sez. V, 13 novembre 2015, n. 5191; Cons. Stato, sez. V, 7 novembre 2012, n. 4386; ord. Cons. Stato, sez. V, 25 luglio 2012, n. 2898; TAR Lombardia, Milano, sez. III, 13 giugno 2013, n. 1546; ord. TAR Lombardia, Milano, sez. II, 28 marzo 2013, n. 802; ord. TAR Lombardia, Milano, sez. III, 13 dicembre 2012, n. 1720; ord. TAR Lombardia, Milano, sez. III, 8 ottobre 2012, n. 1402; ord. TAR Lombardia, Milano, sez. III, 30 aprile 2012, n. 606; Cons. Stato, sez. V, 3 febbraio 2009, n. 596.
[3] Cfr. M. Calabrò, Istituzione di una zona a traffico limitato e profili di criticità connessi alla previsione di limitazioni alla libertà di circolazione stradale, in Il Foro Amministrativo C.d.S., 2009, 7-8, 1754-1778 e S. Amorosino, Le limitazioni amministrative alla circolazione: profili critici, in Il Foro amministrativo T.A.R., 2003, 11, 3403-3411.
[4] Codice degli illeciti amministrativi della Federazione russa.