E’ ancora attuale un sistema a doppia giurisdizione?
FABIO SAITTA, Giustizia amministrativa: un dualismo da perfezionare.
FABIO SAITTA
(Ordinario di diritto amministrativo
nell’Università degli Studi Magna Graecia di Catanzaro)
Giustizia amministrativa:
un dualismo da perfezionare*
1. Nel nostro Paese, viene periodicamente riproposta la questione se il sistema dualistico vigente dal 1889 e riconfermato dalla Costituzione del 1948 debba essere mantenuto ovvero sia preferibile attribuire ad una giurisdizione unica anche dal punto vista strutturale pure la tutela nei confronti della pubblica amministrazione. Quest’ultima soluzione, che in sede di Assemblea costituente – com’è noto – venne vanamente patrocinata da Pietro Calamandrei, rappresenta oggi un caposaldo della Scuola fiorentina di diritto amministrativo (in particolare, Orsi Battaglini, Ferrara e Cudia) ed è sostenuta anche da autorevoli processualcivilisti (ad es. Proto Pisani e Bile).
A nostro avviso, nonostante le Sezioni unite della Corte di cassazione stiano tentando di percorrere una strada che conduca, anche a Costituzione invariata, ad un’unità anche strutturale della giurisdizione, o si modifica la Carta costituzionale attraverso il procedimento all’uopo previsto oppure per l’unità della giurisdizione, in senso organizzativo e strutturale, non c’è spazio nell’ordinamento vigente.
Si tenga presente che, ad es., l’art. 19, comma 4, della Costituzione tedesca non specifica a quale «autorità giudiziaria» il cittadino si possa rivolgere ove venga leso «nei suoi diritti dal potere pubblico»; che l’art. 106 della Costituzione spagnola, pur garantendo il controllo giurisdizionale della «legalità dell’azione amministrativa», non si riferisce specificamente ad un tipo di giurisdizione; che la Costituzione francese, infine, tace del tutto sul punto e non contiene nemmeno questi principi generali. La nostra Costituzione, unica tra le principali Costituzioni europee, contiene, invece, molteplici ed incisive norme sulla giurisdizione amministrativa e, nel complesso, conferma la duplicità delle giurisdizioni (Cerulli Irelli), rendendo impraticabile, in assenza di una modifica costituzionale (peraltro, allo stato, non prevedibile né, dai più, auspicata), un superamento del modello attuale.
Un modello che – come ha recentemente notato l’attuale Presidente del Consiglio di Stato – i Costituenti hanno prescelto, scartando la soluzione della giurisdizione unica ancorchè sostenuta da un giurista dal calibro di Calamandrei, «probabilmente per non ricadere in una scelta che in passato si era rivelata dogmatica nonché per la considerazione pratica che non era il caso di trasformare radicalmente un sistema che si era nei decenni ben assestato e che aveva dato buona prova di sé anche sotto il profilo dell’indipendente esercizio della giurisdizione perfino durante il fascismo» (Patroni Griffi). Com’è stato recentemente ricordato, infatti, «[l]’abolizione del contenzioso amministrativo, lungi dal porre sullo stesso piano potere pubblico e diritti privati, mostrò subito l’insufficienza della tutela affidata al giudice ordinario, sia per la limitatezza dei poteri attribuiti a quest’ultimo, limitati alla disapplicazione dell’atto, sia per la deferenza che la giurisdizione ordinaria ha tradizionalmente mostrato – e ancora oggi frequentemente mostra – nei confronti del potere pubblico» (Torchia).
Né può condividersi l’orientamento, anche recente (Proto Pisani; I. Zingales; già prima, Berti), tendente a valorizzare il potere di annullamento degli atti amministrativi da parte del giudice ordinario previsto dal 3° comma dell’art. 113 della Costituzione, atteso che – com’è stato efficacemente notato – tale potere «presuppone l’esistenza della giurisdizione, non fonda la stessa» (Villata).
La stessa Corte costituzionale, del resto, a far data dalla nota sentenza n. 204 del 2004 – con la quale ha ripreso e fatte proprie le tesi di Costantino Mortati sulla «unità non organica, ma funzionale di giurisdizione, che non esclude, anzi implica una divisione dei vari ordini di giudici in sistemi diversi, in sistemi autonomi, ognuno dei quali fa parte a sè» – e fino almeno alla più recente sentenza n. 35 del 2010, ha impresso un autorevole sigillo al modello dualistico disegnato dalla Costituzione e sembra deporre per l’infondatezza della ricostruzione teorica che, svuotando di contenuto il 1° comma dell’art. 103 della Costituzione, qualifica come «inutile e in qualche caso fuorviante» (così Verde) il criterio di riparto fondato sulla distinzione tra diritto soggettivo e interesse legittimo (Villata e, da ultimo, Tanda).
In conclusione, la Costituzione vigente ha effettuato una scelta inequivocabile che conferma l’assetto strutturale della giurisdizione in senso dualista; scelta che, piaccia o non piaccia, non può essere elusa (tant’è che autorevole dottrina ha sostenuto che, per evitare il perpetrarsi delle segnalate «fughe in avanti» dei Giudici della giurisdizione, va seriamente ripresa in considerazione l’ipotesi, risalente addirittura a Mortara, di affidare, con legge ordinaria, il compito di decidere i ricorsi per motivi di giurisdizione ad un organo misto, cioè in sostanza di integrare la composizione delle Sezioni unite: così Villata e lo stesso Verde; ma – come traspare dalle colonne del Foro italiano – tale proposito è avversato da numerosi processualcivilisti).
In altri termini, com’e stato opportunamente precisato, «l’unità e l’unicità della giurisdizione non sono la stessa cosa e solo la prima è un principio costituzionale; l’aspirazione all’unicità, invece, è soltanto un legittimo obiettivo politico, pur con nobili radici culturali ed ideologiche» (Police). Altro conto è, allora, se la questione viene posta de iure condendo, ossia adombrando una modifica degli attuali artt. 24, 103, 111 e 113 della Costituzione: impostato il problema in questi termini, la soluzione da darsi dipende inevitabilmente da opzioni soggettive, sorrette da argomenti più o meno convincenti, che meritano qualche breve riflessione.
2. La prima considerazione da fare è che, nell’ultimo mezzo secolo, i principali ordinamenti europei si sono orientati in favore di un sistema giurisdizionale di tutela amministrativa distinto o, quantomeno, specializzato: in altri termini, anche nei sistemi di radicata tradizione monistica – come, ad es., la Gran Bretagna, che si è aperta ad una forma di giustizia specializzata che dell’unitarietà della giurisdizione mantiene solo la veste formale, e financo il Belgio, storico prototipo di modello monistico e principale riferimento per il nostro legislatore del 1865, che nel secondo dopoguerra ha sviluppato una ben definita giurisdizione amministrativa incentrata sul Consiglio di Stato – si è progressivamente affermato un distinto sistema di tutela giurisdizionale nei confronti dell’amministrazione (Chiti). Nel dettaglio, in Europa, i sistemi giudiziari sono attualmente organizzati nel seguente modo: in alcuni Paesi (Italia, Francia, Grecia, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Germania, Austria, Portogallo, Svezia, Finlandia, Polonia, Repubblica ceca e Lituania) c’è un’organizzazione giudiziaria dualistica pressochè completa; in altri Paesi (Spagna, Estonia, Ungheria, Lettonia e Slovacchia) l’organizzazione è unitaria, ma con formazioni specializzate per la materia amministrativa; altri Paesi (Regno Unito, Irlanda, Danimarca, Malta e Cipro), infine, hanno un sistema unitario, sia pure con giudici speciali per la materia amministrativa.
Peraltro, come notato circa un anno fa da Sabino Cassese, negli ordinamenti dualistici (principalmente, Italia e Francia), il giudice amministrativo ha progressivamente acquisito caratteristiche proprie del giudice in generale (indipendenza; imparzialità ed organi di garanzia dell’imparzialità; svolgimento del processo in contraddittorio tra le parti; riconoscimento della piena parità delle parti; potere del giudice di ricorrere a consulenze tecniche, di condannare al risarcimento del danno causato dalle decisioni amministrative annullate, di erogare tutela cautelare e di controllare l’adempimento); di converso, negli ordinamenti monistici, pur rimanendo unitario il sistema giudiziario, si sono create sezioni specializzate per la trattazione delle questioni amministrative e procedure speciali di esame degli atti amministrativi.
In conclusione, si registra una tendenziale convergenza dei due sistemi, anche se permangono elementi di differenziazione, come ad es., nei sistemi dualistici, la nomina governativa di alcuni giudici amministrativi, la funzione consultiva e l’utilizzo dei magistrati amministrativi da parte dell’esecutivo.
3. Negli scritti antichi e recenti sul tema della possibile riforma dell’assetto costituzionale della giurisdizione nella prospettiva della sua unificazione, l’unica significativa esigenza rappresentata si basa su un preteso «peccato originale» del giudice amministrativo, che è nato nella sfera dell’amministrazione e non in quella della giurisdizione: da qui la sua presunta «contiguità» con il potere esecutivo, la sua strutturale cedevolezza rispetto alle ragioni dell’interesse pubblico rispetto alla tutela delle situazioni giuridiche soggettive e la commistione dei ruoli e delle funzioni giurisdizionali e consultive (o financo amministrative) (così Travi). In sostanza, non sarebbero adeguatamente garantite l’indipendenza e l’imparzialità del giudice amministrativo o quantomeno la sua immagine di giudice indipendente ed imparziale (Ferrara).
E’ stato osservato al riguardo, però, come tale presunta contiguità della magistratura amministrativa con il Governo sia stata, da un lato, fortemente attenuata grazie alla scelta dei ministri di non avvalersi, se non in ridottissima misura, di giudici amministrativi nei propri uffici di staff e, dall’altro, sottoposta ormai da molti anni a precise regole deontologiche per l’esercizio della funzione giurisdizionale ed al controllo di istituzioni di garanzia, come accade per il giudice ordinario (Police).
In realtà, tutti gli argomenti che, in Italia, vennero soppesati dall’Assemblea costituente prima di optare per l’attuale modello dualistico – in primis, la riconosciuta capacità del Consiglio di Stato di esplorare e controllare, attraverso la poliedrica figura dell’eccesso di potere, l’esercizio della discrezionalità amministrativa senza invadere il merito o violare i limiti normativamente imposti e la specializzazione dello stesso giudice, che sarebbe stata inevitabilmente compressa con la giurisdizione unica – sembrano ancora oggi sufficienti per confutare la teoria favorevole al ritorno del modello monistico: annullare un patrimonio di esperienza maturato in più di un secolo sarebbe irrazionale, «dequoterebbe la tutela giurisdizionale delle situazioni di interesse del cittadino rispetto all’esercizio o mancato esercizio del potere pubblico, restituirebbe, per forza di cose, antistorici spazi di immunità al potere amministrativo» (Angiuli).
A diverse conclusioni non conduce il rilievo in ordine all’asserita crisi del potere autoritativo ed al ridimensionamento dell’uso di poteri amministrativi nell’ambito dell’esercizio della funzione pubblica, in quanto la dequotazione – a nostro avviso, assai limitata – dell’autoritatività conseguente a liberalizzazioni, semplificazioni e ricorso a moduli consensuali non ha fatto certo venir meno il potere, che semplicemente si manifesta in altro modo e richiede pur sempre, quindi, un adeguato controllo giurisdizionale, che soltanto un giudice adeguatamente attrezzato e specializzato è in grado di assicurare. Ed infatti, come notato da Sabino Cassese nello scritto poc’anzi citato, «la giustizia diretta a tutelare il cittadino nei confronti della pubblica amministrazione conserva una intrinseca specialità dovuta alla circostanza che la pubblica amministrazione è chiamata a curare un interesse collettivo, che riguarda anche il ricorrente, ed è quindi vincolata a rispettare la legge (principio di legalità)». Sotto altro profilo, è stato da ultimo osservato che la giurisdizione ordinaria, essendo stata «strutturalmente concepita per giudicare dei diritti nascenti da relazioni giuridiche paritetiche», non è «in grado di assicurare quella tutela delle libertà e degli interessi che, inevitabilmente coinvolti nell’amministrazione delle potestà pubbliche, ne vengono illegittimamente sacrificati» (Deodato).
Ma più in generale, che senso avrebbe oggi eliminare il modello dualistico, vista l’attuale situazione di accertata e preoccupante diffusione della corruzione della pubblica amministrazione e della vita politica italiana? Considerato il sempre crescente bisogno di legalità, di cui si fa un gran parlare, reintroducendo il modello monistico si riproporrebbe pericolosamente lo stesso scenario storico-politico che portò alla L.A.C.: oggi come allora, una preoccupante corruzione e l’esigenza di un potere esecutivo “forte” tendono a riversare sul giudice amministrativo responsabilità che vanno ricercate altrove: innanzitutto, nel numero eccessivo di norme contraddittorie e spesso incomprensibili e nell’inadeguatezza dell’amministrazione italiana a svolgere le sue attività in modi e tempi compatibili con il mondo moderno (Torchia).
Del tutto condivisibilmente, pertanto, in un documento di osservazioni alle misure in materia di giustizia amministrativa contenute nel decreto legge n. 90 del 2014, l’Associazione nazionale dei magistrati amministrativi ha rimarcato che la giustizia amministrativa «costituisce un fondamentale e ineludibile baluardo di legalità».
In conclusione, si ha la netta sensazione che al fondo delle ricorrenti proposte di sopprimere la giurisdizione amministrativa ci siano un malcelato fastidio ed un’evidente insofferenza ai controlimiti da parte dei pubblici poteri in genere e del potere esecutivo in particolare.
4. E’ per questo che – ad avviso di chi parla e di gran parte della dottrina amministrativistica (e non solo) – può parlarsi di unità della giurisdizione esclusivamente sotto il profilo funzionale, in tal modo assicurando, da un lato, la permanenza della differenziazione tra la giurisdizione amministrativa e quella ordinaria e, dall’altro, la possibilità di condizioni di indipendenza comuni agli appartenenti a tutte le magistrature: un approccio incentrato, dunque, su una dimensione meramente funzionale che, da un lato, presuppone una ripartizione dei diversi ordini di giudici in autonomi e distinti sistemi giustiziali e, dall’altro, rifugge l’idea di una giurisdizione unica dal punto di vista organizzativo.
E’ sull’identità di regole e principi più che sull’abolizione o sulla specialità del giudice amministrativo che occorre, dunque, soffermare l’attenzione: in sostanza, più che a questo o quell’altro tipo di modello processuale, occorre dare preminenza al fatto che il modello prescelto sia connotato dalle regole fondamentali del giusto processo e della garanzia dell’effettività e pienezza della tutela (Tanda).
Orbene, se ragioniamo di giustizia come servizio (Licciardello), quindi di effettività ed efficacia, non possiamo far a meno di ammettere che – al di là di alcune benevole letture dell’attuale rapporto tra le due giurisdizioni (mi riferisco, in particolare, alla figura del c.d. «dualismo a trazione monista» recentemente delineata da Battini, secondo cui «il monismo latente ha contribuito ad indirizzare il sistema dualistico verso un progressivo e complessivo innalzamento dei livelli di tutela giurisdizionale assicurati alle pretese dei cittadini aventi ad oggetto il corretto esercizio dei poteri amministrativi […], stimolando e accompagnando la progressiva trasformazione dello stesso giudice amministrativo da giudice speciale a giudice ordinario specializzato, indipendente quanto il giudice ordinario, ma al tempo stesso “interferente” quanto solo un giudice ab origine non inibito dal principio di separazione dei poteri può riuscite ad essere») – la fallacia dell’idea di «far venir meno il giudice amministrativo (con)fondendo tutto nel giudice ordinario» (per dirla con Patroni Griffi), ciò che peraltro certamente non aiuterebbe a risolvere il problema dei tempi dei processi, non autorizza ad affermare che, nel vigente sistema dualistico, non ci sia nulla da migliorare.
Ad es., non sono d’accordo con il Presidente del Consiglio di Stato quando dice che «[g]li inconvenienti tradizionali del riparto sono spariti o attenuati»: la quotidiana esperienza sul campo mi consente di affermare che, nonostante il progressivo aumento delle ipotesi di giurisdizione esclusiva, le incertezze in punto di giurisdizione continuano ad essere troppe, sicchè è evidente che siamo in presenza di un criterio di riparto ormai divenuto obsoleto.
Anche per quanto attiene all’indipendenza ed alla terzietà dei giudici amministrativi, pur essendo stati fatti molti passi in avanti, il percorso non può ritenersi ancora completato: si pensi, a tacer d’altro, all’annosa questione dei membri laici del C.G.A., anomalia siciliana che a ragione Salvatore Raimondi reputa, anzichè un privilegio, una «condanna».
Dal punto di vista funzionale, poi, permangono residui della connotazione oggettivistica della giurisdizione amministrativa, in funzione correttiva a garanzia della legittimità dell’azione amministrativa (Corpaci). Recenti tendenze legislative (si pensi alle rinnovate modifiche del rito appalti ovvero agli inediti poteri di legittimazione processuale conferiti a talune autorità indipendenti, dall’A.G.C.M. nel 2011 all’A.N.A.C. lo scorso anno) e discutibili pronunce giurisprudenziali (come, ad es., la decisione n. 5/2015 dell’Adunanza plenaria, che, pur prestando formale ossequio al principio della domanda, ha affermato che, in caso di mancata espressa graduazione dei motivi da parte del ricorrente, si riespande il potere del giudice di esaminare prioritariamente il vizio di illegittimità più grave e radicale, a prescindere dalla maggiore soddisfazione del ricorrente, dandosi priorità – sono parole della Plenaria – «all’interesse generale della collettività da un lato alla corretta gestione della cosa pubblica, e dall’altro a una corretta gestione del processo»; ed anche alcune ordinanze collegiali istruttorie che, alla faccia del principio di non contestazione, rinviano la decisione, invitando l’amministrazione intimata a costituirsi in giudizio ed a controbattere adeguatamente al ricorso non danno proprio l’immagine di un giudice terzo ed imparziale) sembrano, infatti, assecondare l’idea che la «stella polare» che deve guidare il giudice amministrativo sia l’interesse pubblico. Ecco, simili incrostazioni dovrebbero essere del tutto eliminate, anche perché non fanno altro che fornire un’arma formidabile ai sostenitori della tesi dell’unità della giurisdizione: nella Costituzione, infatti, c’è una precisa presa di posizione a favore del carattere soggettivo della giurisdizione amministrativa. Com’è stato opportunamente ricordato in un recentissimo contributo, poi, «[i]l principio di legalità e quello sulla soggezione alla legge (art. 101, co. 2, Cost.) […] implicano che il giudice, quale esso sia, deve applicare la legge, non fare mediazioni tra interessi. A maggior ragione non deve perseguire l’interesse pubblico, che è l’interesse di cui è portatrice una parte» (Tropea).
In conclusione, se vuole difendere le ragioni della propria persistente specialità, il giudice amministrativo deve accantonare una volta per tutte la pretesa di «salvare l’amministrazione da sé stessa» (Perfetti-Tropea) ed assicurare ai cittadini un processo pienamente soggettivo e di parti.
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* Intervento al Congresso nazionale A.N.M.A. su: «Giustizia amministrativa per i cittadini» – Catania, 16 novembre 2018.