Ancora sul concorso indetto dall’Agenzia delle Dogane
SALVATORE GIACCHETTI, Quando alcune bilance della giustizia hanno un improprio cigolio.
SALVATORE GIACCHETTI*
Quando alcune bilance della giustizia
hanno un improprio cigolio
Una recente vicenda giudiziaria ha fatto sorgere qualche dubbio sul corretto funzionamento di alcune bilance della giustizia.
Il fatto è il seguente.
Il segretario generale ed una dirigente del sindacato Dirpubblica, operante presso le Agenzie fiscali, partecipano alla trasmissione televisiva Report; ed in quella sede esaminano – tra l’altro – la situazione di un concorso dirigenziale pubblico, in via di svolgimento presso l’Agenzia delle dogane, rilevando in esso varie irregolarità (irregolarità poi ritenute fondate dalla Procura della Repubblica di Roma, che ha recentemente chiesto il rinvio a giudizio della commissione esaminatrice e di vari dipendenti dell’Agenzia, per avere organizzato una megatruffa finalizzata a far vincere esclusivamente gli appartenenti ad un ristretto numero di interni già incaricati dirigenziali).
In quella trasmissione la dirigente sindacale – tra l’altro – fa presente che, ad avviso del sindacato, il concorso “serviva a creare una classe dirigente fedele, anche a discapito delle regole e delle norme, e quindi del cittadino”. Il segretario generale conferma quanto detto dalla dirigente sindacale.
A seguito della suddetta trasmissione l’Agenzia delle dogane irroga alla dirigente sindacale la sanzione disciplinare del rimprovero verbale.
Il sindacato Dirpubblica e la dirigente sindacale ricorrono al giudice del lavoro ai sensi dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, chiedendo l’accertamento della natura antisindacale della condotta dell’Agenzia ed il consequenziale annullamento della sanzione disciplinare.
Ma il Tribunale ordinario di Civitavecchia, Sezione controversie di lavoro, con decreto del 24 febbraio 2017 respinge il ricorso, con condanna dei soccombenti alle spese, affermando:
a) che da parte della dirigente sindacale “non vi è stata dimostrazione che il tema affrontato nell’intervista sia stato già oggetto di confronto sindacale”;
b) che “Non è dimostrato dunque che, con riferimento a tale esternazione,” (la suindicata affermazione della dirigente sindacale) “la funzionaria stesse manifestando una critica puntuale da parte del sindacato al datore di lavoro”, “esternazione” che a quel giudice “sembra invece avere natura di considerazione personale, il cui gradimento (?!) da parte del sindacato non ne muta le caratteristiche”, che sarebbero quelle di “una persecuzione alla sua persona”.
Si afferma cioè che nell’attimo della “esternazione”, e solo in quell’attimo, la dirigente sindacale avrebbe parlato a titolo personale e non in qualità di sindacalista; sicché la sanzione ricevuta non atterrebbe alla tutela della libertà sindacale. I motivi di questo convincimento restano ignoti;
c) che “Nella fattispecie non si ritiene quindi integrato l’elemento della lesività dell’interesse collettivo sindacale (diritto di critica) della condotta tenuta dalla resistente, e pertanto non si riscontrano ragioni per annullare, nella presente fase sommaria, la sanzione disciplinare irrogata”.
Queste affermazioni sono, a dir poco, singolari. Infatti:
sub a) E’ inconcepibile che due sindacalisti, che partecipano assieme alla stessa trasmissione a tema libero, debbano preventivamente concordare tra loro (evidentemente per iscritto: altrimenti come potrebbero poi dimostrarlo?) e rendere pubbliche le “critiche puntuali” che ciascuno di essi intende trattare e il soggetto che li tratterà, a pena che altrimenti la “esternazione” sia riferita non al sindacato, fornito del parafulmine dell’art. 28 ST, ma alla persona fisica del sindacalista, che di tale parafulmine è privo.
Sarebbe questo il diritto di critica sindacale?
Certamente no; la decisione annotata ipotizza un ordinamento giuridico liberticida e dai mille occhi quale quello profetizzato nell’orwelliano “1984”; ma l’ordinamento nazionale è ancora un ordinamento democratico.
In ogni caso, la stessa decisione riconosce – contraddittoriamente – che la frase incriminata era “generica” e “priva di precisi riferimenti”. Con quale torchio logico-giuridico si è riuscito a spremere da una frase del genere lo specifico intento della dirigente sindacale di contestare “una persecuzione alla sua persona”? Si tratta di un torchio capace di leggere nel pensiero?
E con quale bisturi logico-giuridico si è riuscito a vivisezionare l’esternazione per poter affermare che mentre pronunciava quella frase, e solo in quell’attimo, la dirigente sindacale parlava a titolo personale e non nella sua qualità di sindacalista attestata dai titoli di pancia dell’intervista televisiva?
E come si è potuto dimenticare che il sindacato non ha una vita autonoma rispetto ai suoi rappresentanti, perché i suoi rappresentanti sono legati ad esso da un rapporto di immedesimazione organica? E che quindi solo il sindacato può smentire il rappresentante che sia andato ultra vires?
E nella denegata fantasiosa ipotesi che la dirigente avesse parlato a titolo personale, come mai non è stato considerato che il segretario generale del sindacato, condividendo il pensiero della dirigente l’avrebbe comunque ratificato, facendolo risalire al sindacato?
sub b) E’ ammissibile fondare una decisione giurisdizionale di condanna sul “sembra”, verbo con cui potrebbe giustificare qualsiasi decisione?
Un’impressione soggettiva del giudice sfornita del benché minimo riscontro oggettivo integra gli estremi del dovere di motivazione prescritto dalla Costituzione?
Come mai non è stato considerato che comunque quella dirigente sindacale parlava di un tema sindacale, e non di un tema estraneo all’attività del sindacato, tanto è vero che su tale tema si è espresso anche l’altro sindacalista?
sub c) Su quale base logica si afferma che la persecuzione diretta del sindacalista persona fisica non possa essere anche una persecuzione indiretta del sindacato in cui tale persona fisica è dirigente?.
Avverso la decisione suindicata Dirpubblica propone opposizione. Il nuovo giudice si rende evidentemente conto che la motivazione che la sindacalista abbia parlato a titolo personale non regge; e questa volta lo stesso Tribunale, con sentenza n. 418/2018 del 20/9/2018, respinge il ricorso, con nuova condanna del soccombente alle spese, perché:
a) ritiene che, trattandosi di “una sanzione disciplinare di lievissima entità” non sussisterebbe il necessario presupposto della “obiettiva idoneità della condotta denunciata a produrre l’effetto che la disposizione citata intende impedire, e cioè la lesione della libertà sindacale”;
b) rileva che il sindacato ricorrente non aveva allegato “una perdita di credibilità” e quindi non aveva neppure provato “la sussistenza di una condotta datoriale in concreto idonea a ledere la propria attività o la propria libertà”.
Questa seconda decisione pone in via preliminare un problema a prima vista singolare: che cosa devono misurare le bilance della giustizia?
La misurazione tradizionale è quella differenziale, tra le ragioni dell’attore e quelle del convenuto, espressa dalla classica iconografia dei due piatti della bilancia: e su questa base le ragioni più fondate, e quindi più pesanti, prevalgono sulle ragioni meno fondate, e quindi più leggere, indipendentemente dall’entità del differenziale. Un sia pur minimo peso maggiore è idoneo a determinare l’esito del processo.
La sentenza in esame invece segue una via diversa: ritiene che il rimprovero verbale costituisca una sanzione talmente modesta da non meritare a priori la tutela giurisdizionale. Secondo siffatta innovativa e a dir poco singolare concezione della giustizia, i torti modesti subiti non meriterebbero la tutela giurisdizionale; sarebbero come la grandine o come la peste manzoniana: a chi la tocca la tocca.
Non so se l’estensore della sentenza sia un appassionato di fisica quantistica, e quindi sia stato emotivamente indotto a ritenere che anche la giustizia proceda per pacchetti, per quanta di giustizia, con conseguente scarto di tutte le ragioni fondate ma sottomisura; oppure se, evidentemente aduso a trattare temi ben più gravi e complessi, si sia sentito diminuito nel dover perdere tempo in una questione tanto banale, e abbia voluto sdegnosamente allontanarla da sé, all’insegna del de minimis non curat praetor.
Quanto alla fisica quantistica non sono in grado, lo confesso con tutta umiltà, di scendere in un’analisi approfondita di questo profilo.
Ma quanto al ritenere che le ragioni sottomisura non meritino la tutela giurisdizionale non si può che essere in disaccordo. A parte l’episodio ben noto di Traiano che ferma l’esercito in marcia per rendere giustizia ad una povera vedova, e resta sempre anche per questo un grande e saggio imperatore, ed a parte il proverbiale e largamente condiviso “chi non è giusto nelle cose piccole non lo è neanche nelle grandi” (Luca, XVI, 10), l’orientamento della sentenza crea, sul piano giuridico, un’infinità di problemi.
1) Innanzi tutto sul piano costituzionale.
Se ben ricordo, l’art. 24 riconosce il diritto alla tutela giurisdizionale a “Tutti”, e non soltanto a chi pone questioni di particolare rilievo. Una volta si usava dire all’Università: se tu adisci un giudice per ottenere il pagamento di una lira a cui hai diritto, il giudice ha il dovere di fartela avere.
Altri tempi.
Ma l’attuale diverso avviso della sentenza che si annota sarebbe particolarmente destabilizzante per la democrazia reale in un momento storico come quello di oggi, che vede un taglio sempre più netto tra ricchi (l’1-2 % della popolazione mondiale, che possono “offrire” grandi questioni giuridiche) e poveri (resto del mondo, che può porre solo domande bazzecolari); e sarebbe particolarmente destabilizzante anche perché il resto del mondo vede le grandi questioni giuridiche con l’interesse distratto di chi legge su un rotocalco vicende altrui in cui mai potrà venirsi a trovare e che comunque – di solito – nemmeno comprende bene; ma comprende benissimo questioni bazzecolari che possono toccarlo direttamente. Escludendo queste ultime dalla tutela giurisdizionale si creerebbe una sperequazioni tra classi sociali che inevitabilmente condurrebbe ad una terza rivoluzione dopo quella francese e quella russa, dato che tutto si può sopportare tranne la mancanza di cibo e la mancanza di giustizia.
2) Sul piano processuale, poi, come si farebbe a stabilire il limite minimo del quantum di giustizia? In mancanza di una qualsiasi (sia pur incostituzionale) indicazione legale al riguardo il metro di valutazione sarebbe soltanto la sensibilità etico-giuridica del giudice. Ma le sensibilità possono essere molto diversificate; e questo farebbe venir meno il pilastro della certezza del diritto, con conseguenze ancora peggiori di quelle del ponte Morandi; si tornerebbe ad una situazione, anteriore al Codice Napoleone, che ad esempio vedeva a Napoli “almeno” 86 tribunali, ognuno dei quali con una sua competenza e il suo rito, e a Bari 18 giurisdizioni ordinarie (Nicola Picardi e Alessandro Giuliani, Codice per lo regno delle due Sicilie, III, Leggi della procedura ne’ giudizi civilj, 1819, edito da Giuffré, 2004, pag. XIII).
E’ questo quello che si vuole?
3) Sarebbe poi inesatto fare riferimento al principio del de minimis introdotto nell’ordinamento dell’UE.
Secondo questo principio gli aiuti di Stato di minima entità non vanno considerati violazioni o distorsioni del principio di libera concorrenza intracomunitaria chiuso nel tabernacolo dell’ordinamento dell’UE e colà esposto all’adorazione degli economisti (che si guardano bene dal ricordare che si tratta di un principio che può trovarsi in palese conflitto d’interessi con il principio costituzionale di solidarietà sociale).
Ma nel diritto europeo la situazione non ha nulla a che vedere con il disinteresse del pretore romano, che oltre tutto nel testo originario si riferiva all’attività amministrativa e non all’attività giurisdizionale. Si tratta infatti di un accordo di tutti gli Stati membri di non contestare i minimi aiuti concessi dagli altri Stati alle rispettive imprese; è un accordo di reciproca tolleranza in materia di diritti disponibili, che esclude a priori che da tali aiuti possa derivare agli altri Stati membri un danno economicamente significativo. Di conseguenza nessuno Stato può poi ritenersi legittimato a dolersi se altri Stati membri corrispondano ai propri operatori economici aiuti che si siano mantenuti nei limiti stabiliti dall’UE. Non sorge quindi l’eventualità che una domanda di giustizia possa restare disattesa.
4) In entrambe le decisioni in esame c’è un riferimento alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che però non sembra correttamente interpretata.
La Suprema Corte parla, correttamente, di “lesione” e di “lesività” dell’autonomia sindacale da parte di comportamenti datoriali. I due termini fanno evidente riferimento a due situazioni diverse: la “lesione” fa riferimento a fatti datoriali che hanno causato un danno diretto e già valutabile nella sua idoneità lesiva, mentre la lesività fa riferimento a fatti datoriali causa di probabili danni futuri al momento non quantificabili.
Ora è evidente che non si possono applicare ai secondi le valutazioni applicabili ai primi; ed in particolare non si può applicare ai secondi l’onere di dimostrare puntualmente l’esistenza del danno, che a quel momento è ancora una ragionevole ma futura probabilità. In entrambe le decisioni, invece, i due aspetti sono trattati promiscuamente, come se fossero la stessa cosa. Ne deriva così l’addebito al sindacato ricorrente di non avere allegato “una perdita di credibilità” e quindi di non aveva neppure provato “la sussistenza di una condotta datoriale in concreto idonea a ledere la propria attività o la propria libertà”; ciò senza tener conto che si trattava di una prova al momento impossibile, dato che verosimilmente il sindacato avrebbe potuto rilevare una perdita di credibilità non prima della chiusura del tesseramento dell’anno successivo, in sede di verificazione del numero di adesioni ricevute.
Trattandosi invece di danno indiretto, andava valutata la potenziale lesività del comportamento datoriale: e a questo proposito è stata ignorata la circostanza, pur prospettata dalla difesa di Dirpubblica, che nell’ordinamento dell’Agenzia qualsiasi provvedimento disciplinare preclude per due anni al sanzionato l’accesso agli incarichi, alle selezioni interne, e addirittura ai pubblici concorsi; e di fatto stronca, o quanto meno ritarda fortemente, ogni aspettativa di carriera. E siccome la dirigente sindacale parlava in nome e per conto del proprio sindacato, è evidente che l’averla sanzionata e così messa a tacere ha determinato una lesione della capacità operativa e di critica del sindacato stesso.
5) Va infine contestato che la sanzione sia stata effettivamente di “tenuissima entità”. Vero è che sicuramente è molto tenue se paragonata alla serietà della frase contestata. Ma proprio perché così tenue è giustificabile con un qualsiasi comportamento di fatto, e può così sfuggire ad una censura sul piano giurisdizionale; ed in tal modo può poi giustificare, nel caso di reiterazione del comportamento, l’applicazione dell’aggravante della reiterazione specifica, che parte da 11 giorni di sospensione. D’altra parte, che non si trattasse di mitezza o di generosità dell’Amministrazione è dimostrato dal fatto che la sindacalista è stata demansionata e privata di tutti gli incarichi, pur lodevolmente svolti, con diretto minaccioso avvertimento al suo superiore a non azzardarsi ad attribuirgliene altri.
Così l’Agenzia con il minimo sforzo (il rimprovero verbale ad una sola dipendente, sanzione ritenuta “di lievissima entità”, una cosuccia da niente), ha mandato:
a) un messaggio alla sindacalista, che dice “Ricordati che se ci riproverai scatterà la recidiva specifica”; messaggio divenuto quanto mai credibile, una volta che un giudice ha stabilito che quando tale sindacalista parla di concorso dirigenziale parla a titolo personale;
b) un messaggio a tuti gli altri dipendenti sindacalizzati, che dice: “attenti a non scherzare col fuoco”.
Insomma il massimo risultato con un minimo sforzo. Un piccolo capolavoro, nel suo genere.
E’ quindi ovvio che perfino dopo la citata proposta di rinvio a giudizio nessun dirigente sindacale abbia più osato parlare in pubblico del concorso dirigenziale taroccato.
E tutto questo sarebbe irrilevante per l’autonomia sindacale?
5) C’è infine da considerare una questione di psicologia giudiziaria.
Il giudice, si sa, per definizione è o dovrebbe essere imparziale. Ma come persona umana non può non sentire l’esigenza di rispettare sia la legge dello Stato sia la legge morale dentro di sé; esattamente si afferma che il giudice “decide secondo scienza e coscienza”. Ora da una parte la scienza del diritto impone al giudice il dovere di rispettare il principio che la legge è uguale per tutti; dall’altra parte la coscienza, sulla base dell’esperienza, gli ricorda che la legge è sì uguale per tutti sul piano formale ma sul piano sostanziale alcuni sono “più uguali” degli altri: il che comporta che nello scontro tra un Pubblica Amministrazione forte e denarosa e un quisque de populo che vive di un modesto stipendio le previsioni di successo siano, di regola, in favore della prima.
Questo il giudice lo sa; e di regola, se il diritto glielo consente, tende a controbilanciare la posizione forte.
Ma lo sa anche la posizione forte; che quindi impegna tutte le sue conoscenze, istituzionali e non, per veicolare il messaggio che quel quisque de populo sia un notorio rompiscatole “inaffidabile” (vocabolo che nel lessico dell’Agenzia equivale a “non prono ad ogni e qualsiasi richiesta della governance”). In questi casi, se il giudice abbocca, per lo sventurato che agisce contro il potere forte non ci sono possibilità di vittoria; il giudice, in buona fede e sicuro di fare opera di pulizia, farà di tutto per condannarlo, e giungerà perfino a condannarlo alle spese di giudizio (spese che pure, in materia di pubblico impiego, sono normalmente compensate, tenuto conto della sperequazione economica tra le parti). Questa che espongo è ovviamente una semplice ipotesi, priva di qualunque prova; ma non riesco a spiegarmi altrimenti il fatto che due giudici, sicuramente attenti e competenti, abbiano potuto emettere decisioni quali quelle suindicate. Tutti noi possiamo sbagliare; ma due gravi errori sullo stesso tema cominciano a non poter essere considerati meramente casuali; cominciano a prendere la consistenza di un indizio significativo.
Non ci si può però fermare a queste amare considerazioni. C’è già in giro troppa gente impegnata a piangersi addosso, angosciando inutilmente se stessi e gli altri. Occorre invece partire dalla premessa che nessun sistema umano è perfetto; e che quindi è del tutto normale che ogni sistema umano abbia bisogno di manutenzione (Morandi insegna). Occorre quindi valutare l’opportunità di dare una registrata a quelle bilance della giustizia che a volte emettono un improprio cigolio, ìndice di un malfunzionamento. Un tempo l’Italia era considerata la culla del diritto. Non ci si può permettere che quella culla assuma l’inquietante impressione di una bara.
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(*) Presidente aggiunto onorario del Consiglio di Stato.