FREE: Il nuovo processo amministrativo telematico
LUIGI VIOLA, I diversi modi di guardare al P.A.T. e le strategie di adattamento dell’ambiente forense.
LUIGI VIOLA*
I diversi modi di guardare al P.A.T. e
le strategie di adattamento dell’ambiente forense (**)
SOMMARIO: 1. Due modi diversi di guardare al P.A.T (e alla tecnica). 2. L’accesso alla giustizia e il P.A.T.: luci e (purtroppo) anche ombre. 3. Il deposito del ricorso dopo la “rivoluzione copernicana” del P.A.T. 4. Andare avanti per adattamenti e finzioni.
1. Due modi diversi di guardare al P.A.T (e alla tecnica).
Appare ormai evidente come l’entrata a regime del nuovo processo amministrativo telematico (di seguito indicato come P.A.T. [1]) abbia determinato una sostanziale divisione della dottrina (e, più in generale, degli operatori giuridici) in due diversi orientamenti che, a ben guardare, appaiono anche caratteristici di due diverse modalità di rapportarsi alla tecnica ed all’innovazione tecnologica.
Il primo orientamento, che potremmo definire come “minimale”, tende a vedere nel P.A.T. una modificazione solo delle caratteristiche “esteriori” del processo che resterebbe sostanzialmente regolamentato dagli istituti del diritto processuale amministrativo sedimentati nel corso della pluridecennale (se non secolare) evoluzione del processo nella sua versione “cartacea”; con tutta evidenza, si tratta pertanto di un’impostazione che tende a restringere le modificazioni derivanti dall’informatizzazione del processo alle sole modalità “esterne” di manifestazione o di deposito/archiviazione degli atti processuali (siano essi delle parti o del giudice) e che ha trovato espressione nella plastica (e fortunata) formulazione secondo la quale “in fondo si tratta solo di mandare una PEC [2]”.
A ben guardare, si tratta poi di un’impostazione che rispecchia, da un lato, il modo più generale di rapportarsi all’innovazione tecnologica di molti di noi (sostanzialmente caratterizzato da una qualche forma di “sottovalutazione” o addirittura rifiuto che appare poi destinato a scontrarsi con la realtà delle spesso pesanti modificazioni che derivano dall’avvento delle nuove tecnologie); dall’altro, appare evidente come si tratti di impostazione che appare sostanzialmente in linea ed è stata, in un certo senso, anche favorita dalle scelte sistematiche rispecchiate dalla stessa normativa fondamentale in materia di P.A.T.
Come ampiamente noto, il codice del processo amministrativo (d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104) ha operato, per quello che riguarda l’introduzione del processo amministrativo telematico, una scelta sistematica (cristallizzata nella disposizione dell’art. 13, 1° comma del Titolo IV delle disposizioni di attuazione al codice) che rinvia sostanzialmente ad un regolamento la definizione delle “regole tecnico-operative” del nuovo processo amministrativo digitale e, in definitiva, la stessa introduzione nell’ordinamento del cd. P.A.T. [3].
L’opzione per la sede regolamentare è stata giustificata, nella Relazione di accompagnamento al Codice del processo amministrativo, sulla base della necessità di assicurare i due requisiti fondamentali della flessibilità e tempestività di adattamento alle novità tecnologiche, in un contesto caratterizzato da una forte tecnicità e da una rapida obsolescenza dei sistemi: “il rinvio ad una normativa di livello regolamentare è stato ritenuto lo strumento più idoneo per consentire l’introduzione del processo amministrativo telematico, analogamente a quanto avvenuto con il d.m. 17 luglio 2008 che ha fissato le regole tecnico-operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile. Lo strumento regolamentare ha, infatti, il pregio della flessibilità e della tempestività di adeguamento, caratteristiche essenziali in un settore connotato da una continua evoluzione [4]”.
Ed è sostanzialmente su questa linea ricostruttiva, tesa a valorizzare i pregi dell’opzione per la sede regolamentare in un contesto indubbiamente caratterizzato da una rapida evoluzione, che si è immediatamente attestata la prima dottrina relativa al P.A.T., che ha spesso sottolineato come il legislatore abbia “demandato ad una fonte di rango regolamentare il compito di disciplinare dettagliatamente il processo amministrativo telematico (analogamente a quanto avvenuto con i D.M. che hanno fissato le regole tecnico-operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile), in quanto strumento maggiormente in grado di recepire i nuovi adeguamenti tecnologici [5]”.
Con tutta evidenza, si tratta però di una scelta sistematica che presuppone e ben si inserisce nella “linea ricostruttiva minimalista” sopra richiamata; si può affidare ad un testo regolamentare separato la disciplina delle modalità di funzionamento del P.A.T. proprio perché si ritiene che queste modalità non modifichino (e non possano modificare) le regole giuridiche assicurate dal testo normativo di livello primario (il codice del processo amministrativo); come dire, che il regolamento è il luogo deputato a regolamentare le sole modalità di trasmissione/trattamento degli atti processuali, mentre il codice del processo amministrativo continua a rimanere il luogo di definizione delle regole giuridiche del processo.
Appena dopo l’emanazione del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (regolamento recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico), destinato a regolamentare il processo amministrativo telematico, una parte importante della dottrina ha però sostanzialmente mutato registro ed ha iniziato a sollevare una serie di dubbi in ordine alla stessa compatibilità con la riserva di legge in materia processuale di cui all’art. 111, 1° comma Cost. (ovviamente, nel testo modificato dalla l. cost. 23 novembre 1999, n. 2) dell’opzione normativa per la disciplina regolamentare del P.A.T.: “essendovi in materia processuale riserva assoluta di legge, ciò che si può demandare alla fonte regolamentare/tecnica sono solo le disposizioni che traducono in modalità tecniche le regole processuali fissate da fonte primaria [6]”.
Del resto, si tratta di un dubbio sistematico di non poco momento e caratterizzato da immediati (e possibili) rischi applicativi che era stato immediatamente (e fortemente) avvertito già dal parere reso dalla Sezione consultiva atti normativi del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento applicativo dell’art. 13 disp. att. c.p.a., che, in termini più direttamente applicativi, aveva già rilevato un possibile contrasto con alcune previsioni del codice (quelle di cui agli artt. 1, 2 nella parte non abrogata, 3, comma 1, 4 e 7 dell’Allegato II al Codice ed in generale, con le disposizioni processuali in materia di “procura alle liti, deposito degli atti processuali, comunicazioni di segreteria e notificazioni”) ed il rischio di “problemi interpretativi e di coordinamento fra norme …..(e) di disapplicazione o impugnazione, mettendo così a repentaglio la piena operatività del processo telematico [7]”.
L’evidente problematicità dell’intero sistema [8] è stata poi notevolmente ridotta dallo stesso legislatore che ha successivamente e sostanzialmente cambiato registro, provvedendo, con l’art. 7 del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 (convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197), ad operare quella trasposizione a livello normativo delle più importanti regole del nuovo P.A.T. (particolarmente importanti, appaiono, in questa prospettiva, le modificazioni all’art. 25 del c.p.a. disposte dall’art. 7, 1° comma lett. a) del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 o le modificazioni alle previsioni degli artt. 3, 4 e 5 disp. att. al c.p.a. disposte dal secondo comma della disposizione) necessaria a neutralizzare, almeno in parte, il rischio di disapplicazione evidenziato dal parere reso dalla Sezione consultiva atti normativi del Consiglio di Stato sullo schema di quello che sarebbe poi divenuto il d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40; in buona sostanza, si è pertanto passati da una prima linea ricostruttiva che confinava alla sede regolamentare le regole applicative del P.A.T. ad una nuova strutturazione che inserisce almeno parte di queste norme nel codice del processo amministrativo e, per certi versi (per quello che riguarda la possibilità per i collegi di primo grado di deferire all’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato le questioni relative all’interpretazione delle norme in tema di processo amministrativo telematico prevista dal nuovo art. 13-bis del c.p.a. o la particolare composizione del Consiglio di Presidenza della Giustizia amministrativa quando debbano essere adottate “misure finalizzate ad assicurare la migliore funzionalità del processo amministrativo telematico” prevista dall’art. 7, 7° comma del d.l. 31 agosto 2016, n. 168), attribuisce alle norme in materia di P.A.T. valore di “supernorme [9]” sottoposte ad un regime diverso rispetto alle ordinarie regole processuali.
Ai fini che ci occupano assume però indubbia rilevanza il fatto che la “rilegificazione” delle norme relative al P.A.T. operata dall’art. 7 del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 (convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197) venga ad integrare una sostanziale smentita (e il parziale abbandono) della prima e originaria scelta sistematica che attribuiva carattere secondario e neutrale al passaggio al telematico, ritenendo che si trattasse di modificazioni incidenti sull’aspetto esteriore del processo (quell’impostazione minimizzante sintetizzata nella frase: “in fondo si tratta solo di mandare una PEC”) e non di innovazioni destinate ad incidere sulle coordinate fondamentali del sistema.
Del resto, anche sotto un profilo più generale, non è possibile farsi molte illusioni sul carattere “neutro” dell’introduzione delle nuove tecnologie e sull’effettiva possibilità di poter vedere all’opera un processo amministrativo immutato, se non per i supporti digitali e telematici utilizzati; a questo proposito, merita pertanto approvazione la lungimirante rilevazione della dottrina in ordine all’impossibilità di ravvisare campi “in cui la rivoluzione digitale non abbia condotto a modificare il modo di operare e la stessa natura degli operatori (dal mondo dell’informazione, al turismo, ai trasporti, ecc.). Non c’è dubbio quindi che anche la giustizia e i processi subiranno modifiche ben più sostanziali di quelle che si prospettano in questa fase di esordio dell’informatizzazione [10]”.
Non è pertanto possibile non convenire con la dottrina che ha individuato nell’introduzione del P.A.T. una vera e propria rivoluzione copernicana: “gli esperti di informatica giuridica sanno che dietro ad una apparente innocenza (del resto, anche nella favola di Cappuccetto Rosso il Lupo arrivò travestito da nonna) si nasconde una vera e propria rivoluzione copernicana del processo amministrativo [11]”.
In definitiva, i richiami sopra effettuati evidenziano la presenza nella dottrina di un secondo orientamento che appare decisamente più incline ad analizzare nel concreto le modificazioni degli istituti processuali derivanti dal passaggio al telematico, in una visione delle cose “disincantata” e realistica che si propone di analizzare la realtà, per come si manifesta al giorno d’oggi, accettando la tecnologia e confrontandosi in concreto con le modificazioni che discendono dal ricorso alle nuove tecnologie.
Del resto, si tratta di un dualismo di prospettive che non si è evidenziato solo nel diritto processuale amministrativo, ma anche nell’esperienza (peraltro meno caratterizzata dal ricorso all’informatizzazione rispetto al processo amministrativo) del processo civile telematico che ha registrato l’emersione di tesi tendenti a svalutare l’impatto delle nuove tecnologie su un sistema processuale che resterebbe, in fondo, immutato [12] e di tesi che, al contrario, hanno ampiamente sottolineato le profonde innovazioni derivanti dal ricorso ad un sistema processuale telematico: “una rivoluzione del genere non può non comportare una profonda modifica del diritto processuale che necessita di essere integrato e/o modificato per renderlo al passo con l’avanzare della tecnologia. Sono lontani ormai i tempi in cui si affermava che l’obiettivo del processo telematico era quello di creare un sistema applicabile a tutti i modelli processuali, senza però modificare in alcun modo le disposizioni che li regolano. Oggi ormai si è compreso che l’informatica non svolge più soltanto una funzione servente e che la conversione delle modalità cartacee in quelle digitali non potrà lasciare invariato il sistema processuale [13]”.
In questa seconda prospettiva tesa ad evidenziare le modificazioni concrete derivanti dall’entrata in vigore del P.A.T. saranno proposte, nelle prossime pagine, alcune considerazioni, articolate in una prospettiva che tenderà ad essere il più possibile law in action (come dire, attenta all’operare concreto degli istituti processuali) e relative all’aspetto dei costi e dell’accesso alla giustizia ed alla necessità di ripensare, anche radicalmente, le categorie processuali finora utilizzate (in questo caso, con riferimento esemplificativo all’istituto del deposito del ricorso); seguirà un paragrafo finale sull’impatto del P.A.T. sulla prassi giudiziaria e sulle strategie di adattamento all’innovazione tecnologica emerse nel contesto applicativo del nuovo sistema.
2. L’accesso alla giustizia e il P.A.T.: luci e (purtroppo) anche ombre.
L’introduzione delle nuove tecnologie in ambito processuale è una storia che viene “narrata”, in assoluta prevalenza con riferimento esclusivo ai recuperi di efficienza derivanti dal passaggio alle nuove tecnologie [14]; ed in effetti, al di là dei dubbi espressi da una parte della dottrina [15], appare veramente impossibile negare il recupero di efficienza derivante dall’entrata in vigore del P.A.T. (se non altro, per effetto dall’introduzione della firma digitale dei provvedimenti giurisdizionali e della conseguente riduzione dei tempi di deposito delle decisioni); da non sottovalutare è poi la riduzione complessiva dei costi di gestione del sistema (soprattutto relativi al personale addetto alle segreterie degli uffici giudiziari) che rappresenta, probabilmente, un’occasione storica per ridisegnare una Giustizia amministrativa meno costosa in termini generali e più centrata sul personale di magistratura, piuttosto che sul personale amministrativo [16].
L’introduzione del P.A.T. è però suscettibile anche di un’altra “narrazione” in termini di riduzione dei costi di giustizia e più facile accesso al processo amministrativo dei cittadini.
A questo proposito, chi scrive ed altri autori [17] hanno già in passato sottolineato come il nostro processo amministrativo sia caratterizzato da altissimi costi di giustizia (sia, riconoscibili, come per il livello davvero molto alto del contributo unificato, sia occulti, come per l’obbligo praticamente generalizzato di utilizzare il patrocinio dell’avvocato o per le tariffe forensi caratterizzate da compensi professionali più alti di quelli relativi al settore civile) che operano una sostanziale funzione di “selezione” nell’accesso alla giustizia, sia per quello che riguarda gli interessi tutelabili (che si restringono agli interessi di maggiore rilievo economico, visto l’effetto “dissuasivo” degli alti costi di giustizia), che per quello che riguarda la “platea” dei possibili ricorrenti (ristretta, anche in questo caso, dagli alti costi di accesso alla giustizia).
In questa prospettiva, l’avvento del P.A.T. appare sicuramente destinato, sotto un primo profilo, a determinare un (piccolo) effetto di riduzione dei costi di accesso alla giustizia derivante, sia dall’abbandono del “cartaceo” (che veniva ad integrare, pur sempre, un costo a carico del ricorrente, vista la spesso enorme quantità di fotocopie da predisporre, con i relativi costi in termini di denaro e tempo [18]), sia dalla (piccola) riduzione dei tempi di attesa che potrà derivare dall’introduzione della firma digitale dei provvedimenti giurisdizionali ed in generale, dal recupero di efficienza dell’intero sistema [19]; da non sottovalutare, in questa prospettiva, è poi soprattutto la riduzione dei costi di accesso alla giustizia che deriva dalla “smaterializzazione delle procedure” e dalla prospettiva di eseguire a distanza adempimenti processuali (soprattutto deposito di ricorsi e atti del processo), senza la pratica necessità di utilizzare domiciliatari [20].
Soprattutto la possibilità di gestire “a distanza” il giudizio amministrativo (soprattutto di appello) attraverso la progressiva entrata a regime del cd. domicilio digitale o virtuale [21] viene ad integrare quindi realmente una “rivoluzione copernicana” nella politica degli ultimi anni tesa a ridurre sostanzialmente l’accesso alla giustizia, attraverso una politica “occulta” (ma poi neanche tanto, trattandosi di caratterizzazione immediatamente evidente a chiunque, a diverso titolo, abbia a che fare con la giustizia amministrativa) di aumento dei costi di accesso al sistema; pur estremamente positiva, si tratta però di una modificazione sostanziale nell’accesso concreto alla giustizia che non risulta per nulla pubblicizzata (come, forse, sarebbe stato possibile) o valutata ai fini dell’opportunità (o meno) di “dare il via” al P.A.T., come risulta, al contrario, essere avvenuto nell’analogo esempio del processo amministrativo telematico francese (assicurato dall’applicazione Télérecours e dagli artt. R414-1 del code de justice administrative [22]) la cui progressiva introduzione risulta essere stata preceduta da valutazioni concrete riferite, non solo all’efficienza complessiva del sistema, ma anche ai costi di giustizia ed all’accessibilità degli utenti alla tutela giurisdizionale (particolarmente importante in un sistema che, a differenza del nostro, non prevede l’obbligatorietà del patrocinio dell’avvocato per una “fetta” importantissima del contenzioso di primo grado).
In buona sostanza, si tratta pertanto di una conseguenza “occulta” (anche se, per una volta, positiva) di una scelta politico-amministrativa che non risulta per nulla percepita e valutata in tutte le sue implicazioni dai decisori pubblici.
Sotto altro profilo, la strutturazione del P.A.T. viene però ad integrare anche un sostanziale aumento dei costi di accesso alla giustizia ed una riduzione delle possibilità di accesso da parte degli utenti; anche in questo caso, si tratta di una conseguenza “occulta” e sostanzialmente non valutata in tutte le sue implicazioni e che, per essere svelata, richiede una sintetica ricostruzione dei prerequisiti necessari per presentare un ricorso, nella nuova sistematica del P.A.T.
Senza procedere ad inutili (e sovrabbondanti) analisi delle diverse prescrizioni del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, appare, a questo proposito, di tutta evidenza come la presentazione e gestione di un ricorso giurisdizionale amministrativo richieda, nella sistematica del P.A.T., almeno tre prerequisiti, costituiti da una posta elettronica certificata (cd. P.E.C., definita dal d.P.C.M. 40 del 2016, come un “sistema di posta elettronica nel quale è fornita al mittente documentazione elettronica attestante l’invio e la consegna di documenti informatici”), da una firma digitale (definita dal d.P.C.M. già citato in termini di “firma elettronica avanzata basata su un certificato qualificato e su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere manifesta e di verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico o di un insieme di documenti informatici”) e di un’abilitazione ad interagire con il nuovo sistema informativo della giustizia amministrativa (cd. S.I.G.A.), necessaria per procedere all’eventuale deposito del ricorso in modalità upload e/o comunque per accedere al sistema e seguire l’evoluzione del processo [23]; in mancanza di questi tre prerequisiti risulta, infatti, impossibile presentare un ricorso, difendersi in giudizio o risultare destinatari delle comunicazioni previste dal codice del processo amministrativo.
Del resto, la necessità di essere in possesso dei tre prerequisiti sopra richiamati è espressamente confermata, anche con riferimento alla “parte privata, nei casi in cui è autorizzata a stare in giudizio personalmente”, dai commi 3 e 4 dell’art. 9 dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 [24]; al di là dell’evidente improprietà dell’inserimento di norme che incidono sul diritto alla difesa personale all’interno delle cd “specifiche tecniche” del P.A.T., appare di tutta evidenza come si tratti di una norma che trova una copertura solo parziale nell’art. 136, 2° comma c.p.a. che, anche nella formulazione attualmente vigente (quella modificata dall’art. 7, 1° comma lett. b del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197), si limita a prevedere l’obbligo anche delle “parti nei casi in cui stiano in giudizio personalmente …(di depositare) tutti gli atti e i documenti con modalità telematiche”, non prevedendo nulla con riferimento alle credenziali di accesso al sistema (la cui richiesta diventa però, una volta soddisfatti gli obblighi più gravosi come l’ottenimento della P.E.C. e della firma digitale, una necessità per poter eventualmente effettuare depositi tramite upload e/o gestire pienamente il ricorso, esercitando il proprio diritto di difesa nel procedimento).
La rilevazione dei prerequisiti indispensabili per poter presentare un ricorso non si ferma poi ai tre sopra individuati; anticipando quanto sarà rilevato nel prossimo paragrafo, deve anche darsi atto della funzione di filtro processuale esercitata dal sistema N.S.I.G.A. attraverso la funzione di controllo “della regolarità, anche fiscale, degli atti e dei documenti depositati da ciascuna parte” prevista dall’art. 3, comma 10 dell’Allegato A al D.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 e che si concretizza solo attraverso la lettura dell’“elenco errori depositi” [25] presente nella sezione Documentazione operativa del sito della Giustizia amministrativa; elenco che contiene un codice E005-“la casella P.E.C. del mittente non esiste nei Pubblici elenchi (ReGindE)” che, per effetto della funzione di “controllo” sopra richiamata, evidenzia sostanzialmente la necessità di un quarto prerequisito, costituito dall’inserimento della P.E.C. utilizzata per il deposito nel Registro generale degli indirizzi elettronici (cd. ReGindE), previsto dall’art. 7 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44 e tenuto dal Ministero della giustizia (e che, come ampiamente noto, non prevede l’iscrizione obbligatoria dei “semplici” cittadini) [26].
Al di là di ogni considerazione in ordine alla copertura normativa dei quattro prerequisiti sopra richiamati (sicuramente e completamente assente nel caso del quarto requisito sopra richiamato), appare indubitabile come si tratti di strutturazione che può venire ad integrare un sostanziale ostacolo all’esercizio del diritto alla difesa personale riconosciuto dall’art. 23 c.p.a., anche se negli ambiti molto limitati (giudizi in materia di accesso e trasparenza amministrativa e in materia elettorale) previsti dal nostro diritto processuale amministrativo.
Con ogni probabilità si tratta, infatti, di prerequisiti che diventeranno nei prossimi anni patrimonio comune di tutti gli utenti della giustizia amministrativa e non costituiranno più un sostanziale ostacolo all’accesso alla giustizia, ma che oggi continuano a rimanere “oscuri” ed estranei ad una fetta importante dei potenziali utenti del servizio [27].
Risulta pertanto legittimo un dubbio su quanto rimanga in concreto del diritto alla difesa personale garantito dall’art. 23 del c.p.a. nella sistematica del P.A.T:, sembra, infatti, che si tratti sempre più di un diritto ancora previsto “sulla carta” (espressione, in questo caso, da intendersi in senso sia letterale, che traslato), ma difficilmente esercitabile, nella versione digitale del processo, dal “semplice” cittadino.
In ogni caso, appare poi di tutta evidenza come la scelta del P.A.T. abbia caricato sugli utenti che decidano di optare per la difesa personale, oltre agli oneri economici (soprattutto contributo unificato) già previsti dal nostro sistema, gli ulteriori oneri derivanti dall’obbligo di acquisire i quattro prerequisiti sopra richiamati (P.E.C., firma digitale, iscrizione al ReGindE e acquisizione credenziali accesso al sistema) e, soprattutto, i costi da incertezza relativi alla necessità di gestire un processo digitale che, diciamocelo, può suscitare qualche perplessità in una popolazione, come quella italiana, non particolarmente giovane e addestrata all’utilizzo del digitale [28]; in buona sostanza, si tratta pertanto di un’innovazione tecnologica che ha mandato sostanzialmente in soffitta la difesa personale della parte prevista dall’art. 23 del c.p.a.
In questa prospettiva attenta alla salvaguardia dell’accesso diretto alla giustizia da parte degli utenti, ben si apprezza pertanto la scelta francese di rendere obbligatorio l’utilizzo del canale telematico agli avvocati, alle amministrazioni pubbliche più grandi e alle personnes privées, escludendo però dall’obbligo i semplici cittadini (che, nel sistema francese, sono esentati dall’obbligo di utilizzare un avvocato, per una fetta importante del contenzioso di primo grado) che “n’auraient pas la même facilité à utiliser Télérecours (absence d’accès internet ou de scan pour numériser de parfois trop nombreux documents…) et certains d’entre eux, non habitués à consulter régulièrement leurs emails, pourraient également rencontrer des difficultés à être informés à temps de la procédure dans laquelle ils seraient engagés, faute de se connecter souvent sur Télérecours [29]”; in buona sostanza, il processo amministrativo francese ha pertanto seguito un percorso diverso di approccio al telematico che salvaguarda esplicitamente delle enclaves di sopravvivenza del cartaceo, nella prospettiva prioritaria di non ostacolare l’accesso diretto alla giustizia di cittadini che continuano ad incontrare difficoltà nel governo degli strumenti informatici e che, per accedere al processo amministrativo, dovrebbero acquisire una strumentazione e delle abilità che si risolvono, alla fine, in costi occulti di accesso alla giustizia [30].
La scelta del processo amministrativo telematico italiano per la strada alternativa dell’obbligatorietà dell’opzione per il digitale (in questo senso, si veda l’art. 9, 2° comma del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40), temperata dalla previsione di minime enclaves di possibile sopravvivenza del cartaceo ha pertanto determinato un’evidente problematicità con riferimento alla difesa personale della parte ex art. 23 c.p.a. che rischia di andare (o è già andata) concretamente in desuetudine, superata da un contesto che presuppone la preacquisizione di competenze e requisiti informatici che non tutti i cittadini italiani possiedono.
Del resto, non si tratta di un problema meramente teorico, ma di un punto critico del sistema già avvertito dagli organi della Giustizia amministrativa; la circolare 21 giugno 2016 prot. n. 10919 del Segretario generale della Giustizia amministrativa ha, infatti già rilevato il rischio che “non tutti i cittadini …(siano) in grado di utilizzare questi nuovi strumenti” (P.E.C. e firma digitale) e individuato un possibile correttivo negli Uffici relazioni con il pubblico, destinati a svolgere “un ruolo fondamentale di primo ausilio nelle attività materiali per …. i cittadini che intendano proporre ricorso personalmente (e che dovranno essere aiutati) nella trasmissione e nel deposito degli atti processuali e dei documenti. In caso di bisogno, per esempio, il personale dell’URP potrebbe scansionare il documento cartaceo e aiutare gli utenti nella compilazione del modulo”; il tutto ovviamente al fine di evitare “che le nuove tecnologie finiscano per ostacolare la possibilità di esperire ricorso in proprio, nei casi (accesso ai documenti e ricorso elettorale) in cui il Codice del processo amministrativo lo prevede”.
Al di là della buona volontà del Segretariato generale della Giustizia amministrativa e dei responsabili degli U.R.P. (poi ridenominati, chissà perché, mini-U.R.P. dalla circolare 21 febbraio 2017 prot. n. 2562 del Segretario generale della Giustizia amministrativa [31]) appare però evidente come, da un lato, la funzione di supporto possa risultare effettiva per quello che riguarda l’accesso del cittadino al sistema (permesso anche in via temporanea dall’art. 17, 3° comma del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40), ma non per quello che riguarda l’ottenimento della P.E.C. e della firma digitale, che sono rilasciate da enti esterni alla Giustizia amministrativa; dall’altro, appare sostanzialmente difficile prospettare una funzione di supporto degli U.R.P. che possa risultare veramente effettiva e seguire un cittadino non in grado di acquisire autonomamente i prerequisiti di accesso alla Giustizia amministrativa e di servirsi degli strumenti digitali in suo possesso (depositando correttamente il ricorso e gli altri atti processuali, ma anche consultando regolarmente la P.E.C.), in modo da annullare il gap tecnologico.
Non è pertanto possibile non rilevare come la transizione al processo amministrativo telematico abbia determinato, sotto diverso angolo visuale, un’ulteriore riduzione concreta degli spazi assicurati alla difesa personale della parte nel processo amministrativo [32], così confermando (e, per certi versi, inasprendo) una caratteristica tradizionale del processo amministrativo italiano che viene ad integrare una differenziazione importante rispetto alla tradizione francese.
Si potrebbe obiettare che si tratta di una problematica “di nicchia” [33] e che investe una parte quantitativamente poco rilevante del contenzioso amministrativo; la rilevazione (sicuramente vera) non considera però adeguatamente, sia l’importanza sistematica del diritto alla difesa personale della parte ex art. 23 c.p.a. (sicuramente da salvaguardare per il riferimento “ideale” ad un processo amministrativo meno tecnico e più aperto all’accesso diretto degli utenti, come è, in definitiva, quello francese), sia l’importanza non marginale (anche con riferimento all’aspetto quantitativo) che la problematica potrebbe acquisire per effetto dell’intreccio con altra tematica molto dibattuta, come quella relativa all’estensione delle previsioni del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
Come ampiamente noto, la detta estensione è stata esclusa dal parere reso dalla Sezione consultiva atti normativi del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento applicativo dell’art. 13 disp. att. c.p.a., che ha espresso solo l’auspicio di una futura applicazione delle “norme del processo amministrativo telematico ………anche a tale istituto, al fine di incrementare il grado di efficienza di questo strumento di giustizia [34]”; la dottrina successiva all’intervento del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 si è però divisa tra la soluzione che esclude con tutta sicurezza l’applicabilità del P.A.T. al ricorso straordinario [35] e chi ha ritenuto di poter optare per l’opposta soluzione, sulla base della generica rilevazione della “natura giurisdizionale [36]” del gravame straordinario.
Per effetto del possibile intreccio con l’altra tematica dell’estensione del P.A.T. al ricorso straordinario, la problematica sopra richiamata rischia pertanto di “debordare” dagli ambiti limitati della difesa personale ex art. 23 c.p.a. per interessare un campo molto più ampio di utenti e, soprattutto, un mezzo straordinario di ricorso che, nel corso degli anni, è riuscito a sopravvivere (come ampiamente noto, si tratta, infatti, di un sostanziale “relitto storico”), soprattutto per effetto dei minori costi di proposizione derivanti dalla non necessità del patrocinio legale, del più lungo termine a ricorrere e dalla complessiva minore onerosità di un rimedio che permette di ottenere una decisione finale della controversia da parte del Consiglio di Stato (sia pure, nelle forme del parere) in unico procedimento [37]; non bisogna infatti, dimenticare che gli spazi di apertura che il diritto amministrativo processuale francese assicura mediante le ampie previsioni in materia di difesa personale delle parti in primo grado, sono sostanzialmente assicurati, nell’ordinamento italiano, proprio dalla sopravvivenza del “relitto storico” costituito dal ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.
In questa prospettiva, le considerazioni sopra articolate evidenziano il rischio concreto di una modificazione più ampia e sostanziale dell’assetto complessivo del nostro sistema di giustizia amministrativa che non è per nulla necessitata dall’introduzione del P.A.T. e che sembra decisamente debordare (almeno per quello che riguarda l’estensione del processo amministrativo telematico al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica [38]) dalla copertura normativa assicurata dall’art. 13 disp. att. c.p.a.
3. Il deposito del ricorso dopo la “rivoluzione copernicana” del P.A.T.
Per quello che riguarda le modalità di deposito del ricorso, il d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 ha previsto una disciplina complessiva che, come per gli altri aspetti del processo, presuppone una sostanziale “ginnastica” interpretativa [39] tra la prima parte del D.P.C.M. destinata alle cd. regole tecniche (in questo caso, l’art. 9, inserito tra i primi 21 articoli) e la seconda parte destinata alle cd. specifiche tecniche (in questo caso, l’art. 6, inserito tra i 18 articoli di cui all’Allegato A al d.P.C.M. modificabili e aggiornabili mediante la snella procedura di cui all’art. 19, comma 2 del regolamento).
In particolare, le modalità del deposito sono essenzialmente regolamentate dai primi cinque commi dell’art. 6, dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (destinato alla “redazione e deposito degli atti digitali”) che prevedono l’obbligo di utilizzare, a seconda dei casi, i moduli deposito ricorso o deposito atto scaricabili dal sito istituzionale compilati secondo le indicazioni ivi rese disponibili (primo e secondo comma) e, soprattutto, la necessità che “il ModuloDepositoRicorso e il ModuloDepositoAtto ..(siano) in formato PDF (e) sottoscritti con firma digitale PAdES” (art. 6, comma 4, d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40).
Ad un primo approccio, verrebbe da dire (secondo i dettami del primo “modo di guardare” al P.A.T. tratteggiati al primo paragrafo) che, in realtà, non è cambiato molto e si tratta solo di mandare via PEC un modulo in PDF, sottoscritto con firma digitale PAdES (ovvero, con l’unica firma utilizzabile nel processo amministrativo telematico); in realtà, le modificazioni risultanti dalla nuova strutturazione del deposito sono però più profonde e investono la stessa natura sistematica dell’adempimento [40].
Per capirci qualcosa è necessario risalire a trattazioni più risalenti del processo amministrativo (successivamente, la problematica è decisamente passata in secondo piano) che ancora mantenevano il “gusto” per una ricostruzione sistematica più accurata degli adempimenti processuali; in quella prospettiva era quasi obbligatorio rilevare come il deposito del ricorso fosse caratterizzato da una natura sistematica diversa rispetto agli altri atti processuali di parte, essendo considerato dalla legge “un mero fatto; sicché non sarebbe possibile dare la prova della non volontarietà di esso. Per ciò l’ufficio giudiziario lo accetta senza appurare l’identità di chi lo compia [41]”.
Il carattere non meramente teorico della precisazione dottrinale (già del tutto evidente dal riferimento presente nel testo di Paleologo alla prassi degli uffici giudiziari) è poi decisamente confermato dalla giurisprudenza relativa all’ammissibilità del deposito del ricorso a mezzo posta nel processo amministrativo (ovviamente nella “vecchia” versione cartacea); nell’ammettere il deposito a mezzo posta anche nel processo amministrativo, una decisione del Consiglio di Stato ha, infatti rilevato come “si può dare per certo, senza bisogno di ulteriori dimostrazioni, che nella prassi universale del processo amministrativo, come di quello civile, non si richiede ad validitatem che il deposito di un atto (incluso il ricorso introduttivo) in segreteria venga effettuato manualmente e personalmente dalla parte ovvero dal difensore costituito; può essere effettuato da un qualsivoglia mandatario, non necessariamente accreditato o qualificato, al limite neppure identificato. Non risulta che all’atto del ricevimento il cancelliere o segretario accerti l’identità e/o la qualifica del latore, tanto meno che ne prenda nota a verbale. È illuminante, per antitesi, il confronto con la necessaria identificazione di chi riceve una notifica, o di chi compare all’udienza [42]”.
Alla luce della ricostruzione sopra richiamata appare di tutta evidenza come la nuova disciplina del deposito del ricorso prevista dall’art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 non sia per nulla neutra sotto il profilo sistematico come si potrebbe (forse frettolosamente) concludere, avendo importato la trasformazione di quello che era un comportamento materiale/consegna manuale nella versione tradizionale e “cartacea” del processo in un vero e proprio atto processuale caratterizzato, come gli altri atti processuali, da formalità sue proprie (l’utilizzazione del modulo PDF; l’invio via P.E.C. ad un certo indirizzo) e dalla necessaria individuazione del soggetto che lo effettua, sia per effetto dell’utilizzazione di una determinata P.E.C., che per effetto dell’apposizione della sottoscrizione digitale PAdES sul modulo di deposito.
A questo proposito, appare altresì evidente come questa sostanziale “elevazione” del valore sistematico del deposito degli atti processuali dal campo dei fatti agli atti processuali in senso stretto abbia importato problematiche completamente nuove che non si ponevano neppure quando l’adempimento era confinato nel campo dei comportamenti materiali; e i primi due problemi sono risolti già da due successivi commi dello stesso art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40.
Il primo problema attiene all’aspetto soggettivo e quindi all’individuazione dei soggetti abilitati al deposito del ricorso ed è regolamentato dal terzo comma dell’art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 che prevede che “il deposito del ricorso introduttivo e dei relativi allegati, nonché degli altri atti processuali, p(ossa) essere effettuato autonomamente da ciascuno dei difensori della parte, anche nel caso in cui sia stata conferita una procura congiunta”; in buona sostanza, siamo pertanto in presenza di una disciplina che, da un lato, individua nel solo difensore il soggetto abilitato ad effettuare il deposito (senza possibilità di delega [43]) e, dall’altro, deroga ai principi generali, abilitando il singolo difensore ad effettuare da solo il deposito, anche nel caso in cui sia stata conferita una procura congiunta (con conseguenziale necessità, in linea di principio, che gli atti processuali siano sottoscritti da tutti i difensori).
La seconda problematica attiene al contenuto ed agli effetti del deposito ed è regolamentata dal quinto comma dell’art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 che, così recita, “i documenti digitali da allegare ai moduli di cui ai commi 1 e 2, compreso il ricorso, sono inseriti in un unico contenitore. La firma digitale PAdES, di cui al comma 4, si intende estesa a tutti i documenti in essi contenuti”.
Per quello che riguarda il contenuto della disposizione (di fattura tecnica non particolamente pregevole), è stato esattamente rilevato come il riferimento, presente nella prima parte della disposizione, ai “documenti digitali da allegare ai moduli di cui ai commi 1 e 2, compreso il ricorso” evidenzi, con tutta evidenza, la necessità di riferire la previsione “a tutti i documenti informatici, ivi compresi gli atti processuali [44]”; del resto, l’estensione della firma PAdES a tutti i documenti depositati non avrebbe alcun senso ove si dovesse operare un riferimento ai documenti in senso stretto (che non richiedono di essere sottoscritti dal difensore) e non alla categoria più ampia di documento prevista dalla prima parte della disposizione, comprensiva anche del ricorso e degli altri atti processuali (al contrario, soggetti all’obbligo della firma).
Siamo pertanto in presenza di una sistematica complessiva in cui, “sulla scorta di tale previsione, dunque, una volta compilato e sottoscritto con chiave PAdES il modulo per il deposito del ricorso non è necessario sottoscrivere digitalmente anche gli ulteriori documenti allegati; in altre parole, la norma prevede che non è necessario sottoscrivere ogni singolo atto e/o documento inserito nel contenitore essendo sufficiente la sottoscrizione del solo modulo [45]”.
A differenza della previsione del terzo comma (che non risulta aver dato vita a precedenti giurisprudenziali), la previsione del quinto comma dell’art. 6 dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 si è rivelata molto utile nel periodo di prima applicazione del P.A.T., con particolare riferimento alle (numerose) ipotesi di ricorsi caratterizzati da importanti difformità rispetto al nuovo modello di processo telematico, soprattutto per quello che riguarda la sottoscrizione del ricorso o della procura da parte del difensore, non in forma telematica (o con la chiave CAdES prescritta per il processo civile).
In particolare, un’ordinanza della Terza Sezione-bis del T.A.R. Lazio sede di Roma [46] ha attribuito alla sottoscrizione con chiave PAdES del modulo di deposito del ricorso da parte dell’avvocato valore sanante di un atto processuale (in quel caso, il ricorso) sottoscritto solo con firma autografa; l’unica questione interpretativa affrontata dall’ordinanza attiene alla (necessaria) interpretazione estensiva del riferimento ai “documenti” contenuto nell’articolato a tutti gli atti processuali: “tale locuzione (sia per la ratio del PAT, sia per l’espresso riferimento dell’art. 6, comma 4, dell’All. A al D.P.C.M. n.40/2016 al “ricorso”, sia per l’ovvia considerazione che i documenti allegati non devono essere firmati dal difensore, ma al più autenticati), deve intendersi riferita, in senso onnicomprensivo, a tutti gli atti di parte allegati con il Modulo, che ove non sottoscritti ex ante dovranno ritenersi firmati soltanto al momento della sottoscrizione di invio del Modulo di deposito, (secondo quanto riscontrabile tramite il software Adobe) [47]”.
In buona sostanza tutto è pertanto cambiato e si è passati da un deposito del ricorso che assumeva natura di comportamento materiale ad effetti processuali ad un deposito del ricorso che assume indubbia caratterizzazione in termini di atto processuale in senso stretto, che risulta essere caratterizzato da particolari oneri formali e regole processuali (quella sulla sottoscrizione del modulo in ipotesi di procura congiunta) e che può assumere anche valore sanante dell’omessa (o invalida) sottoscrizione degli altri atti processuali; un territorio quindi del tutto nuovo che, congiunto all’ulteriore caratteristica del nuovo processo telematico più oltre richiamata, appare essere foriero di importanti novità, da qualche opportunità (soprattutto, per il valore sanante della firma apposta al modulo di deposito) e da un nuovo assetto sistematico.
L’approfondimento sistematico delle previsioni sopra richiamate evidenzia poi un contesto in cui la modificazione complessiva dei contenuti sistematici dell’istituto del deposito del ricorso appare, per un verso, necessitata dal passaggio al telematico (che indubbiamente permette ed impone necessità di identificazione di chi effettui il deposito sconosciute al processo “cartaceo”) e, per l’altro, sembrano adeguatamente neutralizzabili quei rischi di disapplicazione per contrasto con le norme di valore normativo primario stigmatizzati ed introdotti nell’esperienza del P.A.T. dal già citato parere reso dalla Sezione consultiva atti normativi del Consiglio di Stato sullo schema di regolamento applicativo dell’art. 13 disp. att. c.p.a. (Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, parere 20 gennaio 2016, n. 66/2016) [48].
In questa prospettiva, la norma più problematica risulta sicuramente quella dell’ultima parte dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, relativa al valore sanante della firma digitale apposta al modulo che “si intende estesa a tutti i documenti in essi contenuti”.
A questo proposito, appare, infatti, quasi impossibile non rilevare come si tratti di una previsione che viene ad integrare una sostanziale sanatoria dell’invalidità/irregolarità derivante dalla mancata apposizione della sottoscrizione digitale ad un qualche atto depositato attraverso i moduli ModuloDepositoRicorso e ModuloDepositoAtto [49]; ed a questo proposito appare del tutto sufficiente il richiamo dell’orientamento giurisprudenziale già richiamato e che ha pienamente compreso il valore sanante dell’adempimento.
Anche senza entrare nella tormentata problematica relativa all’inesistenza, nullità o irregolarità dell’atto mancante della firma digitale [50] (o firmato con una firma digitale diversa dalla PAdES), è molto forte la tentazione di ritenere, almeno ad un primo approccio, che una tale forma di sanatoria/irregolarità sia evidentemente “fuori posto” in un testo regolamentare (anche perché inserita nell’Allegato A al d.P.C.M. destinato alle cd. specifiche tecniche del nuovo processo telematico), trattandosi di previsione da inserirsi a livello normativo primario; in questa prospettiva, il rischio di una disapplicazione della previsione regolamentare appare pertanto immediatamente evidente e non trascurabile [51].
Ad avviso di chi scrive è però possibile una diversa lettura tesa a “salvare” la previsione in una prospettiva più ampia che, per la verità, si traduce, in maniera sostanzialmente paradossale, in una lettura che minimizza il tasso di innovatività della disposizione.
Punto di partenza è la sostanzialmente indiscussa applicabilità anche al processo amministrativo [52] della previsione dell’art. 156, 3° comma, c.p.c. che così recita: “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”; sanatoria per raggiungimento dello scopo che, per tanti anni, è stata poco applicata nel processo amministrativo, ma che ha registrato un forte ritorno di interesse in dottrina [53] e in giurisprudenza per effetto proprio del “rimescolamento” di categorie ormai sedimentate determinato dall’entrata in vigore del P.A.T. (e delle conseguenti problematiche di “primo impatto” originate da atti non sottoscritti digitalmente o sottoscritti con firma non valida).
Riguardata nel prisma dell’art. 156, 3° comma, c.p.c. anche la previsione dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 cambia decisamente di prospettiva e si evidenzia immediatamente come una sostanziale applicazione del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo previsto dalla disposizione del codice di procedura civile (come già rilevato, indiscutibilmente applicabile anche al processo amministrativo); la giurisprudenza civilistica ben più avvezza ad applicare in concreto il principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo ha, infatti, ampiamente rilevato come uno dei campi più fecondi di applicazione della previsione dell’art. 156, 3° comma, c.p.c. sia costituito proprio dall’“integrazione del requisito mancante…dell’atto nullo ad opera della stessa parte (sempre che, medio tempore, non si siano perfezionate decadenze o preclusioni impeditive) [54]” e, nella fattispecie, siamo proprio in presenza di una di quelle ipotesi in cui la mancanza originaria di un requisito dell’atto processuale (la sottoscrizione con firma PAdES) è successivamente surrogata dall’intervento di un atto successivo (i moduli ModuloDepositoRicorso o ModuloDepositoAtto) assistito da una valida sottoscrizione e, soprattutto, presupponente ed evidenziante all’esterno la volontà dell’avvocato di fare propri e sottoscrivere gli atti processuali depositati con il modulo [55].
In questa prospettiva polarizzata sulla previsione dell’art. 156, 3° comma, c.p.c., la problematica della possibile disapplicazione dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 perde quindi indubbiamente di virulenza e si stempera; ad un primo livello, perché la previsione risulta, in buona sostanza, un semplice svolgimento del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo che è certamente assistito da una copertura normativa primaria (l’art. 156, 3° comma, c.p.c.) e, comunque, viene ad integrare un principio generale applicabile anche al processo amministrativo, con conseguente esclusione del rischio di una disapplicazione della norma regolamentare per contrasto con la disciplina processuale primaria; ad un secondo livello, perché si tratta di un risultato che sarebbe possibile conseguire anche in mancanza della previsione dell’art. 6, 5° comma, dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 attraverso l’applicazione, ad opera della giurisprudenza, del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo e conseguente rivalutazione della firma digitale apposta al modulo di deposito in termini di sanatoria e appropriazione da parte dell’avvocato degli atti processuali depositati con il modulo, ma originariamente mancanti della sottoscrizione.
In buona sostanza, la previsione dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 è quindi molto meno innovativa di quanto potrebbe sembrare a prima vista, risolvendosi, alla fine, nella mera esplicitazione di una conseguenza derivante dall’applicazione del principio di sanatoria per raggiungimento dello scopo alla nuova strutturazione telematica del deposito degli atti nel processo amministrativo; la vera e propria rivoluzione quasi prescinde pertanto dalle norme processuali espresse, derivando, più dalla modificazione della sostanza delle modalità di deposito degli atti, che dalle norme espresse [56].
L’esame analitico dei nuovi contenuti che il deposito del ricorso giurisdizionale amministrativo ha assunto a seguito dell’entrata in vigore del P.A.T. e delle conseguenti modificazioni sistematiche non sarebbe poi completo ove non si considerasse anche un’importante novità del nuovo sistema che, per la verità, risulta meno evidente e di più difficile individuazione.
L’art. 7, 7° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 ha condizionato l’esito del deposito degli atti processuali ad una verifica del rispetto delle “caratteristiche tecniche”, prevedendo, al proposito, l’invio all’interessato di un “messaggio di mancato deposito, attestante il mancato perfezionamento del deposito”.
In termini più generali, l’art. 3, 10° comma dell’Allegato A al D.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 ha poi previsto la possibilità che il S.I.G.A (sistema informativo della giustizia amministrativa) esplichi anche “funzionalità automatizzate per il controllo della regolarità, anche fiscale, degli atti e dei documenti depositati da ciascuna parte” e il successivo art. 4, 2° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. ha specificato le modalità di tale controllo con riferimento alla firma digitale, “subordinando all’esito positivo di tale controllo le operazioni di acquisizione e registrazione”.
Il contenuto di tale controllo (più stringente per quello che riguarda la presenza della firma digitale, per effetto della citata previsione dell’art. 4, 2° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40) è poi ulteriormente specificato, non dalle previsioni del c.p.a. destinate alla materia o da altre disposizioni del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, ma solo dall’“elenco errori depositi” presente sul sito della Giustizia amministrativa [57] che contiene due codici (“E003-La firma digitale sul modulo di deposito non è valida” e “E014-Errore durante la convalida della firma”) riferiti alla mancanza/irregolarità della firma digitale e che rientrano pienamente nell’elenco degli errori espressamente qualificati in termini di “errori bloccanti, comunicati al mittente del deposito telematico nel messaggio PEC di Mancato Deposito”.
Con buona pace di chi pensava solo che si trattasse di “mandare una PEC”, quanto sopra rilevato evidenzia, con plastica evidenza, come il passaggio al telematico non sia per nulla neutro e, soprattutto, non si esaurisca solo in una modificazione delle modalità di deposito degli atti, ma importi anche un nuovo ruolo del sistema informatico che assume anche un ruolo di “filtro” dei moduli di deposito non assistiti da una valida sottoscrizione; ruolo che risulta sostanzialmente inedito rispetto alla tradizionale strutturazione del deposito propria della versione “cartacea” del processo e che è stato ben descritto, dalla dottrina relativa alla “parallela” problematica emersa nel P.C.T., in termini di “inammissibilità di fatto [58]”.
Alle modificazioni di struttura del deposito sopra richiamate (da comportamento materiale con effetti processuali a vero e proprio atto processuale con le regole particolari sopra richiamate) deve pertanto essere aggiunto anche l’ulteriore profilo relativo alla presenza di una (nuova) forma automatizzata di controllo della presenza di alcuni requisiti del deposito che aggiunge ulteriori contenuti alle modificazioni già importanti derivanti dal passaggio al telematico, così disegnando una sistematica complessiva che è molto lontana dalla vecchia versione del deposito del ricorso (che certo non era assistita da forme di controllo/rifiuto di atti processuali mancanti di requisiti essenziali come la sottoscrizione degli atti depositati) e che finisce con l’incidere anche sulla materia delle invalidità processuali [59].
Per quello che riguarda il processo amministrativo, l’avvento del P.A.T. sembra pertanto avere determinato una “rivoluzione” della strutturazione del processo che assume contenuti ben maggiori delle “futuribili” prospettive relative all’”acquisizione di informazioni determinanti per intervenire sull’organizzazione della giustizia civile contribuendo a contrastare la crisi in cui questa versa da tempo [60]”, venendo ad integrare anche aspetti di sostanziale “automazione” di alcune verifiche che, nella versione “cartacea” del processo, dovevano essere compiute, alla fine, dal giudice; ed una simile circostanza costituisce la migliore riprova di quanto sostenuto al primo paragrafo in ordine al carattere non neutro del passaggio alle nuove tecnologie ed alla necessità di valutare le conseguenti modificazioni sulla base dell’analisi approfondita del reale funzionamento dei meccanismi processuali e non di (troppo tranquillizzanti) semplificazioni.
Certo quanto sopra rilevato attribuisce nuova forza alle eccezioni sollevate da una parte della dottrina con riferimento all’attribuzione delle funzioni di gestione del sistema informatico ad un privato [61]; nella prospettiva di chi scrive, il rilievo sopra formulato relativo all’automazione del processo assume interesse anche al fine dell’articolazione di due ulteriori considerazioni relative (la prima) ad un paradosso logico che appare oggi di immediata evidenza e (la seconda) allo scenario più generale che è alla base dell’innovazione in questione.
La prima considerazione attiene alla problematica dell’omessa sottoscrizione degli atti processuali con firma digitale o della sottoscrizione con firma digitale non valida che costituisce, in un certo senso, il “convitato di pietra” delle considerazioni sopra articolate con riferimento al deposito ed al valore sanante della sottoscrizione digitale del modulo ex art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40.
Da quanto sopra rilevato appare, infatti, evidente come il sistema accetti solo moduli di deposito assistiti da una valida sottoscrizione digitale; vale a dire che al giudicante sono sottoposti, per effetto della funzione di “filtro” sopra richiamata, solo atti depositati con moduli validamente sottoscritti e pertanto assistiti dal valore sanante dell’eventuale omessa sottoscrizione dell’atto depositato previsto dall’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40.
Ne risulta pertanto che tutti gli atti depositati sono assistiti da una valida sottoscrizione, originariamente presente sull’atto processuale o “mutuata” dal modulo di deposito che, altrimenti, non sarebbe accettato dal sistema; appare pertanto evidente come l’intera problematica risulti soltanto apparente, essendo comunque sottoposti all’attenzione del giudice solo atti comunque assistiti da una valida sottoscrizione.
Siamo pertanto in presenza di quel paradosso logico che è stato definito, dal titolo del bel libro di Joseph Heller, [62] come del comma 22 e che potrebbe essere formulato, nella materia che ci occupa, in questo modo: “sono invalidi/irregolari tutti gli atti processuali depositati non assistiti da una valida sottoscrizione digitale, ma tutti gli atti depositati sono assistiti da una valida sottoscrizione digitale (quanto meno apposta al modulo)”.
Siamo pertanto in presenza di un paradosso logico che può essere superato solo acquisendo consapevolezza degli effetti derivanti dalla funzione di “filtro” processuale assunta dal sistema telematico, ovvero del motivo logico nascosto o poco evidente che è all’origine stessa del paradosso.
La seconda considerazione tende ad ambientare meglio la problematica all’interno delle tendenze più recenti del diritto e della società globalizzata.
A questo proposito, appare di tutta evidenza come il nuovo ruolo di filtro processuale attribuito al S.I.G.A. abbia ormai determinato quel passaggio epocale dal “computer archivio” al “computer funzionario [63]” tante volte auspicato (o temuto)e costituisca una delle prime concretizzazioni di un vecchio sogno che è riportabile almeno alle incursioni nell’ambito processuale di Condorcet e Laplace (attraverso le loro formule matematiche per valutare l’attendibilità dei testimoni) e che consiste nella sostituzione del giudice con una macchina di calcolo basata su formule matematiche “impermeabili” all’errore umano; ed in questa prospettiva non appaiono necessarie molte parole per evidenziare come il computer e l’informatica altro non siano che la proiezione moderna della logica matematica [64].
In buona sostanza, siamo pertanto ben all’interno di quella trasformazione complessiva che è stata plasticamente definita [65] come la gouvernance par les nombres e che continua a trovare espressione a tutti i livelli dell’esperienza giuridica, ove emergono sempre di più nuove tendenze che attribuiscono a modelli matematico/informatici (ed alla moderna versione delle macchine di calcolo, il computer) funzioni sostitutive dei meccanismi classici dell’esperienza giuridica; a puro titolo esemplificativo si pensi al ruolo che ha assunto, nell’esperienza dell’Unione Europea, il ricorso al “feticcio” degli indicatori di deficit/bilancio, ai sistemi di valutazione della performance sempre più presenti nel lavoro pubblico e privato o ad alcune (innovative) soluzioni di problemi del diritto privato proposte dall’analisi economica del diritto (soprattutto nella versione della Scuola di Chicago).
Alle diverse ipotesi di gouvernance par les nombres sopra richiamate occorre ora aggiungere anche l’inedito ruolo di “filtro” processuale assunto dal S.I.G.A. nel processo amministrativo italiano; sicuramente una novità che non risulta, però, adeguatamente percepita e valutata dagli operatori del diritto processuale amministrativo.
Si può essere o non essere d’accordo con l’introduzione di meccanismi di “automazione” nel processo come quello sopra tratteggiato [66] ed al proposito, il dibattito è certo aperto; quello che è certo è che la completa e moderna ricostruzione delle problematiche processuali non può oggi prescindere anche dalla valutazione di questi meccanismi di automazione del processo.
4. Andare avanti per adattamenti e finzioni.
È già possibile procedere ad un primo bilancio dell’impatto che una “rivoluzione copernicana” come quella imposta dal P.A.T. ha avuto sulla pratica giudiziaria e sulla dottrina del processo amministrativo?
Quello che è certo è che non si è verificata una qualche “messa al rogo” del P.A.T. (del resto, difficile, visto che si tratta di un processo telematico [67]) e che anzi la prassi applicativa del nuovo processo amministrativo telematico ha registrato una sostanziale disponibilità dell’ambiente forense all’innovazione; disponibilità che è stata, di certo, potenziata dall’atteggiamento della giurisprudenza che ha manifestato, nella sua parte più importante, atteggiamenti antiformalistici che hanno di certo “sdrammatizzato” l’impatto di una svolta, per certi aspetti, radicale ed in parte, “adattato” le innovazioni derivanti dal P.A.T. alle categorie ed alle abitudini, ormai stabilizzate, del processo amministrativo cartaceo.
In questa prospettiva, appare quasi impossibile non rilevare come alcuni di questi orientamenti giurisprudenziali abbiano operato una sostanziale “rilettura” di alcune innovazioni del P.A.T. in una prospettiva maggiormente “digeribile” ad operatori non digital natives, formatisi in un contesto culturale completamente diverso e, per di più, frastornati dal parallelo affermarsi di un processo civile digitale informato a principi e caratterizzato da regole operative sostanzialmente diverse; il primo periodo di applicazione del P.A.T. appare pertanto indubbiamente caratterizzato, oltre che da orientamenti giurisprudenziali (forse inutilmente) rigoristici ed orientamenti più consapevoli delle difficoltà originate dalla “rivoluzione copernicana” in atto (come quelli che hanno largamente ammesso la regolarizzazione di atti non conformi al modello legale), anche da modelli giurisprudenziali che hanno dato vita ad una sorta di “meticciato” [68] tra la nuova sistematica del P.A.T. e le più tranquillizzanti categorie del processo cartaceo.
Il primo esempio che può essere richiamato, al riguardo, è certamente costituito dalla querelle giurisprudenziale in ordine all’ammissibilità (che, secondo alcuni autori, trascenderebbe, in alcune ipotesi, in una vera e propria necessità) nella sistematica del P.A.T. della prassi del cd. doppio originale [69]; a prescindere da ogni considerazione relativa alla correttezza della soluzione giurisprudenziale (che non appare sostanzialmente in linea con l’impostazione del P.A.T. [70]), appare di tutta evidenza come si tratti di affermazione di principio (probabilmente non necessaria) fortemente condizionata, da un lato, da una certa ritrosia degli operatori ad abbandonare le vecchie forme di redazione degli atti (nella prassi applicativa non mancano, infatti, numerosi esempi di atti che continuano ad essere assistiti dalla sottoscrizione autografa e digitale) e, dall’altro, da una certa confusione con la sistematica (sostanzialmente diversa) del processo civile telematico che appare, al contrario, essere caratterizzata da un sostanziale mix tra cartaceo e digitale e da maggiore “timidezza” nei confronti dell’innovazione tecnologica [71].
Il secondo esempio è costituito dalla problematica relativa alla sorte degli atti depositati nel giorno di scadenza, ma dopo le ore 12:00; a questo proposito, il sostanziale superamento della stessa necessità di rispettare gli orari di apertura delle segreteria derivante dall’art. 4, 4° comma disp. att. c.p.a. (come modificato dall’art. 7, comma 2, lett. b), d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in l. 25 ottobre 2016, n. 197) ha trovato, anche in conseguenza di una formulazione normativa di pessima fattura e dell’influsso della “parallela” problematica sorta nel P.C.T. [72], una sostanziale limitazione nell’interpretazione giurisprudenziale [73]; anche in questo caso, l’esame delle soluzioni giurisprudenziali evidenzia come la forte innovatività del passaggio al telematico abbia trovato una certa resistenza nelle categorie consolidate ed in particolare, in quell’impostazione che chi scrive, ha ritenuto di poter sintetizzare in una qualche sorta di “nostalgia delle segreterie” [74].
Il terzo esempio (per la verità, caratterizzato da importanti differenziazioni rispetto ai due esempi precedenti) attiene al ruolo che è stato attribuito, nel primo periodo di applicazione del P.A.T., alle cd. comunicazioni di cortesia, in un primo momento, per ovviare agli inevitabili “errori tecnici o di compilazione dei moduli [75]” evidenziatisi a seguito del deposito degli atti e, in un secondo momento [76], in funzione di “completamento” della nuova disciplina del domicilio digitale, prevista dal nuovo art. 25 del c.p.a. (come modificato dall’art. 7, comma 2, lett. a), del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in l. 25 ottobre 2016, n. 197) ed entrata in vigore a decorrere dal 1° gennaio 2018; anche in questo caso, si tratta di un’utile integrazione del modello legale che ha svolto un’importante funzione nel periodo transitorio, ma che comincia ad essere contestata in dottrina in quanto “genera un paradosso perché, proprio quando l’era digitale consente maggiori certezze e rigidità, si inserisce un elemento di elasticità (la comunicazione di cortesia), rimediando con una sorta di galateo a sterili formalismi. La comunicazione di cortesia ammette l’impossibilità di regolare formalmente tutte le ipotesi e consente poi di invocare l’errore scusabile, cioè un rimedio a decadenze per errori imprevedibili [77]”.
In buona sostanza, siamo pertanto in presenza di alcuni aspetti importanti del nuovo processo amministrativo telematico in cui, più che il modello previsto dal c.p.a. e dal d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40, trova applicazione un modello “intermedio” che deve considerare anche la necessità di adattare le nuove soluzioni ad una tradizione che si è formata con riferimento alla versione “cartacea” del processo; proprio per questo, nel titolo, si è fatto riferimento alle “strategie di adattamento dell’ambiente forense”; una formulazione forse non molto elegante, ma che evidenzia bene il processo di “riscrittura” che è in corso nella giurisprudenza e nella mentalità degli operatori.
Certo nulla di male trattandosi di un temperamento che evita reazioni di rigetto (come quelle originate dal codice di procedura civile del 1940) e risulta, in definitiva, auspicabile; ad avviso di chi scrive, quello che conta è però che non si perda la consapevolezza che si tratta di soluzioni di adattamento e non si tralasci il lavoro giurisprudenziale e dottrinale tendente a preservare il nucleo essenziale del passaggio al digitale e a valutare criticamente (ed eventualmente modificare) alcune soluzioni che portano ad un’ingiustificata restrizione delle nuove possibilità offerte dalla tecnologia (come quella relativa al deposito dopo le ore 12:00 del giorno di scadenza), introducono inutili superfetazioni processuali (come per la teorica del “doppio originale”) o permettono la creazione di una “zona grigia” caratterizzata da ampi spazi di discrezionalità applicativa (come per i territori coperti dalle “comunicazioni di cortesia”) la cui creazione non appare opportuna nella prospettiva dell’efficacia del nuovo modello processuale e che può originare una complessiva dilatazione dell’ambito applicativo dell’istituto dell’errore scusabile.
Del resto, che si tratti di tempi di transizione è confermato anche da una seconda serie di considerazioni che chiamano in causa soprattutto il legislatore.
Punto di partenza è la previsione dell’art. 83, 3° comma c.p.c. (applicabile anche al processo amministrativo, in mancanza di una disciplina completa dell’istituto [78]) che, nella versione da ultimo modificata dall’art. 45, 9° comma della l. 18 giugno 2009, n. 69, non ha direttamente disposto la validità della procura rilasciata su documento informatico separato, ma ha utilizzato una formulazione indiretta secondo la quale “la procura si considera apposta in calce anche se rilasciata … su documento informatico separato sottoscritto con firma digitale e congiunto all’atto cui si riferisce mediante strumenti informatici, individuati con apposito decreto del Ministero della giustizia”; con tutta evidenza siamo pertanto in presenza di una formulazione che si pone in evidente continuità con quella prevista dal testo previgente della previsione e che, con riferimento alla controversa problematica della procura rilasciata su foglio separato congiunto materialmente all’atto cui si riferisce, aveva indotto la dottrina a rilevare come “il legislatore, per risolvere il problema, non (abbia) detto che i difensori possono certificare anche le procure rilasciate su foglio autonomo, né tanto meno che tali procure, se congiunte, sono valide ed efficaci, ma …(abbia) fatto ricorso a una fictio legis …. ossia addirittura ad una presunzione iuris et de iure, imponendo a tutti noi, e in modo piuttosto brusco, di considerare come “apposte in calce” le procure su foglio spillato: che è concetto che va ben al di là della validità e dell’efficacia [79]”.
Anche la più volte citata previsione dell’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 appare poi caratterizzata dallo stesso approccio indiretto e mediato dal ricorso alla fictio legis alle innovazioni derivanti dall’avvento del P.A.T.; piuttosto che rilevare direttamente il valore sanante della sottoscrizione digitale apposta al modulo, si preferisce, infatti, rilevare che “la firma digitale PAdES, di cui al comma 4, si intende estesa a tutti i documenti in essi contenuti”; anche in questo caso, siamo pertanto in presenza di una formulazione che ha indotto la dottrina a rilevare come “tale estensione della firma digitale oper(i) come finzione giuridica, dal momento che la firma digitale materialmente non passa dal modulo al documento informatico allegato, che una volta estratto sarebbe comunque privo di firma digitale [80]”.
I due esempi sopra richiamati (probabilmente non esaustivi, visto che siamo in presenza di testi normativi ampiamente caratterizzati da definizioni come “si intende” o “si considera”) evidenziano il massiccio ricorso ad un tecnica definitoria indiretta che è stata definita della fictio legis o del come se e che consiste “nel travestire i fatti, dichiarandoli altri da ciò che realmente sono, e nel trarre da questa stessa adulterazione le conseguenze giuridiche che sarebbero connesse alla verità che si finge, se questa esistesse nei limiti che le si attribuiscono”; in buona sostanza, una tecnica normativa che “esige in primo luogo la certezza del falso [81]” e che porta a considerare una procura rilasciata su documento informatico separato (un documento quindi digitale) come se fosse una procura in calce, ovvero un documento cartaceo che, in realtà, non esiste e non esisterà mai, se non per effetto dell’equiparazione normativa.
Per quali ragioni, negli atti normativi relativi al P.A.T., è presente (ed è stata preferita) questa tecnica definitoria indiretta e che procede per finzioni?
La prima ragione è stata individuata ormai da lungo tempo (soprattutto, ad opera di giuristi come François Gény e Rudolf von Jhering) ed è tipica delle epoche di trasformazione in cui la “finzione procederebbe a delle assimilazioni inesatte ma necessarie, allo stato attuale del diritto, per ottenere –senza nulla cambiare del diritto- risultati che questo non riuscirebbe a ottenere se non cambiando se stesso….un mezzo (quindi) rudimentale, ma comodo per estendere le qualificazioni giuridiche al di fuori del loro campo iniziale, senza perciò modificare in nulla le qualificazioni stesse”; sostanzialmente si tratta quindi un modo di “adattare l’antico al nuovo” senza affrontare “fratture normative abbandonando nozioni antiquate per costruire istituzioni completamente nuove [82]”.
Una sorta di “arte della cautela …. (che rivela) la flessibilità, l’abilità, la prudenza o, per dirla in breve, l’accorta gestione del patrimonio normativo [83]” e che appare inequivocabilmente all’opera, secondo vecchie “abitudini”, anche nella transizione al P.A.T. e nell’adattamento al telematico del “vecchio” strumentario del processo cartaceo.
La seconda ragione può apparire, ad un primo esame, paradossale, ma trova piena giustificazione proprio nell’origine romanistica della fictio legis: a questo proposito, la dottrina ha, infatti, rilevato come, abbastanza paradossalmente, “la contestazione del carattere vincolante delle definizioni normative” in sede di interpretazione sia minore nei casi in cui “la definizione legislativa con cui il legislatore dice che un ente ….., anche se di fatto non ha quella qualità, è come se l’avesse”; un sostanziale paradosso che affonda le proprie ragioni nella “storia istituzionale, dato che le “definizioni” erano quelle del diritto romano comune bisognoso di adattamenti, e le “finzioni” erano gli adattamenti al diritto comune compiute da organi legislativi o della applicazione o (come molte volte accadeva) tutte e due [84]”
In questa seconda prospettiva, il ricorso alla fictio legis nelle previsioni normative relative al P.A.T. esprime pertanto (in maniera, forse, inconsapevole) anche l’altro aspetto problematico tipico delle epoche di trasformazione, ovvero la preoccupazione del legislatore di assicurare la riuscita del processo di transizione e cercare di evitare, al massimo grado, una definizione in sede interpretativa minimizzante o neutralizzante delle innovazioni normative (ed in questo caso, tecnologiche).
Per più ragioni, nelle epoche di trasformazione, si procede pertanto e ci si evolve per adattamenti e finzioni (come sintetizzato dal titolo del paragrafo) al fine di pervenire a quell’avanzamento “per slittamenti susseguenti o adattamenti parziali dei paradigmi…secondo una logica di incremento o graduale” che la dottrina ha definito in termini di “rivoluzione ben temperata che associ strettamente tradizione, e innovazione [85]”.
Probabilmente, siamo pertanto in un’epoca in cui, per dirla con Jorge Luis Borges, piuttosto che analizzare una realtà molto complessa scrivendo ponderosi libri, è forse “meglio fingere che questi libri esistano già e presentarne un riassunto, un commentario [86]”; al di là delle finzioni, è però anche necessario il lavoro di analisi e, in definitiva, una nuova consapevolezza delle trasformazioni indotte da questo nuovo processo amministrativo telematico.
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(*) Consigliere del T.A.R. Toscana – Professore a contratto di diritto sportivo presso l’Università degli Studi di Udine
** Il presente articolo riproduce il testo dell’intervento al convegno svoltosi presso il T.A.R. di Catania il 13 aprile 2018 ad iniziativa della Camera Amministrativa Siciliana e dal titolo “Il processo amministrativo telematico e la sua incidenza sull’esercizio della giurisdizione e sul diritto di difesa”.
[1] Tra i primi scritti in materia, si segnalano: F. Corona, Processo amministrativo telematico: regole e specifiche tecniche, in www.altalex.com, 2016; U. Fantigrossi, Per un processo amministrativo telematico giusto, in www.lexitalia.it, 2016, 1; F. Freni – P. Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, Milano, 2016; C.E. Gallo, L’attuazione del processo amministrativo telematico, in Urb. e appalti, 2016, 6, 632; A. M. Tamburro, Il processo amministrativo telematico (PAT), Vicalvi, 2016; I.S.I. Pisano, Il processo amministrativo telematico e la l. n. 132/2015, in Libro dell’anno del diritto-Encicl. giur. Treccani, Roma, 2016, 726; F. Volpe, Sarà davvero efficiente il processo amministrativo telematico?, in www.lexitalia.it, 2016, 2; Id., Il regime transitorio del processo amministrativo telematico, ivi, 2016, 6; F. Freni – P. Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, Milano, 2017; F. D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, in www.giustizia-amministrativa.it (si tratta di una delle relazioni al convegno sul P.A.T. organizzato dal Consiglio di Stato e svoltosi il 12 maggio 2017); I.S.I. Pisano, Prime riflessioni sull’avvio del PAT, tra principio di sinteticità e regime transitorio, in Giorn. dir. amm., 2017, 1, 41; Id. (con la collaborazione di V. Carollo-E. Barbujani), Il processo amministrativo telematico, Roma, 2017; Id., Commento all’art. 136 c.p.a. ed agli artt. 1-7 disp. att., in R. Chieppa (a cura di), Codice del processo amministrativo, Milano, 2017, 802 e ss.; F. Volpe, Il pat si regge su un sistema chiuso, www.lexitalia.it, 2017, 1; Id., Per la chiarezza di idee sulla forma digitale dell’atto processuale dopo l’entrata in vigore del p.a.t., ivi, 2; chi preferisce gli scritti a carattere compilativo, può leggere R. Trizzino, Il processo amministrativo telematico, in Libro dell’anno del diritto-Encicl. giur. Treccani, Roma, 2017, 723.
[2] U. Fantigrossi, Per un processo amministrativo telematico giusto, cit., par. 3; la posizione che potenzia il carattere “neutro” dell’introduzione delle tecnologie informatiche nel processo amministrativo è ben espressa da M.L. Maddalena, La digitalizzazione della vita dell’amministrazione e del processo, in Foro amm., 2016, 2535; Nuovo dir. amm., 2016, 6, 135; www.giustizia-amministrativa.it; AA.VV., L’Italia che cambia: dalla riforma dei contratti pubblici alla riforma della pubblica amministrazione, Milano, 2017, par. 6.1 che rileva come “a differenza di quanto si è detto a proposito della spinta verso la razionalizzazione e semplificazione del procedimento amministrativo che proviene dalla sua digitalizzazione, nel processo amministrativo il ricorso agli strumenti telematici non …(possa) certo incidere sulla struttura e sul modo di atteggiarsi dell’attività giurisdizionale, ma si present(i) come la mera messa a disposizione degli utenti di mezzi più rapidi e funzionali per lo svolgimento di alcune attività prima svolte presso le cancellerie o tramite gli ufficiali giudiziari” e limita le conseguenze dell’introduzione del P.A.T. ad una “nuova forma di comunicazione tra i soggetti del processo” (in un certo senso, si tratta di opinione particolarmente rappresentativa, trattandosi della relazione al LXXI convegno di studi di scienza dell’amministrazione tenutosi a Varenna il 22-24 settembre 2016).
[3] Una parte della dottrina (P. Clarizia, Il sistema informatico della Giustizia amministrativa-SIGA, in F. Freni_P. Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, cit., 9) ha però rilevato come, letteralmente, il potere regolamentare investisse “la sperimentazione, la graduale applicazione …(e) l’aggiornamento del processo amministrativo telematico” e non l’introduzione dello stesso.
[4] Relazione al Codice del processo amministrativo in www.giustizia-amministrativa.it.
[5] I.S.I. Pisano, Manuale di teoria e pratica del processo amministrativo telematico, Milano, 2013, 19; Id., Il processo amministrativo telematico (PAT), in G.P. Cirillo (a cura di), Il nuovo diritto processuale amministrativo, Padova, 2014, 1322. Sulla stessa linea ricostruttiva della Relazione al Codice, sono anche R. Chieppa, Il processo amministrativo dopo il correttivo al codice – Le novità apportate al giudizio amministrativo dal correttivo al codice (d.leg. 15 novembre 2011 n. 195) e i primi orientamenti della giurisprudenza, Milano, 2012, 815 e F. Liguori, Commento all’art. 13 disp. att., in G. Leone-L. Maruotti-C. Saltelli, (a cura di), Codice del processo amministrativo, d.lgs. 2 luglio 2010 n. 104 – Commentato e annotato con giurisprudenza, Padova, 2010, 1031 e ss.
[6] De Nictolis, (a cura di), Processo amministrativo – Formulario commentato, Milano, III ed., 2016, 2680; C. E. Gallo, L’attuazione del processo amministrativo telematico, cit., 632 ritiene di poter giustificare l’opzione per la fonte regolamentare sulla base della risalente tradizione di “apertura” del processo amministrativo (per moltissimi anni regolamentato dal r.d. 17 agosto 1907, n. 642 e dall’ordinanza 1° marzo 1954, n. 38 del Presidente del Consiglio di Stato) alla fonte regolamentare, non avvedendosi così delle rilevantissime novità derivanti dall’intervento del nuovo testo dell’art. 111, 1° comma della Costituzione. Per l’approfondimento della problematica della compatibilità tra l’opzione per la sede regolamentare e la previsione dell’art. 111, 1° comma Cost. (impossibile in questa sede), si rinvia a L. Viola, Diritto e tecnica nel processo amministrativo telematico, www.federalismi.it, 2016, 22, 2; Id. Giusto processo e processo amministrativo telematico: un rapporto difficile, in Urb. e appalti, 2017, 2, 181; si veda anche F. D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, cit., 6.
[7] Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, parere 20 gennaio 2016, n. 66/2016, in www.LexItalia.it, 2016, 2; www.giustizia-amministrativa.it.
[8] Ulteriormente complicata dalla scelta operata dal d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 per un sistema dualistico, organizzato sulla compresenza di regole tecniche (i 21 articoli del d.P.C.M. caratterizzati dal carattere regolamentare e la cui modificazione è soggetta all’iter previsto per i regolamenti) e specifiche tecniche (i 18 articoli di cui all’Allegato A al d.P.C.M., modificabili e aggiornabili mediante la più snella procedura di cui all’art. 19, 2° comma del regolamento); sulla problematica, si rinvia a De Nictolis, (a cura di), Processo amministrativo – Formulario commentato, cit., 2680; contra, P. Clarizia, Il sistema informatico della Giustizia amministrativa-SIGA, cit., 14, sulla base di un’interpretazione restrittiva che riferisce la previsione dell’art. 19, 2° comma del d.P.C.M. (così valorizzando la stessa formulazione letterale della previsione) alla modificazione dei soli “parametri tecnici che risultano non più compatibili con l’evoluzione tecnologica” siano essi compresi nel regolamento o nell’Allegato A.
[9] Sulla questione, si rinvia a L. Viola, Diritto e tecnica nel processo amministrativo telematico, cit., 18; Id. Giusto processo e processo amministrativo telematico: un rapporto difficile, cit., 189.
[10] U. Fantigrossi, Per un processo amministrativo telematico giusto, cit., par. 3, che continua rilevando, molto incisivamente, come “l’introduzione delle tecnologie dell’informazione e della telematica …(abbia) portato a vere e proprie rivoluzioni. Basti pensare alle Borse valori, dove con il passaggio dalle contrattazioni nei recinti delle grida alle contrattazioni on line si è addirittura eliminata totalmente dall’ordinamento una categoria di professionisti (gli agenti di cambio)”; è pertanto da sperare che alcuni principi e garanzie processuali non facciano, dopo l’avvento del P.A.T., la fine degli agenti di cambio.
[11] I.S.I. Pisano, Il processo amministrativo digitale o “Al lupo! Al lupo!, in www.federalismi.it, focus T.M.T., 2015, 1, 3; in questa prospettiva di “cambio di paradigma” del processo, si veda, per il processo civile telematico, N. Lettieri-E. Fabiani, Dati, computazione, scienza: estendere i confini del processo civile telematico, in Foro it., 2016, V, 53, con riferimento alle nuove prospettive di analisi che derivano dall’informatizzazione del processo. La ricostruzione in termini di vera e propria “rivoluzione copernicana del processo amministrativo” è, in buona sostanza, avvalorata anche da chi utilizza toni più soft e appare più aperto alla nuova disciplina regolamentare del processo amministrativo, come C.E. Gallo, L’attuazione del processo amministrativo telematico, cit., 633 che vede nel P.A.T. un vero e proprio “ordinamento processuale in sé concluso, che è l’ordinamento del processo telematico; questo processo, ferme restando le caratteristiche essenziali del processo amministrativo ordinario può ben essere retto da una disciplina specifica e particolare, che dipende da un lato dalle caratteristiche del sistema telematico, dall’altro dalle potenzialità del medesimo”; parlare di ordinamento processuale autonomo soggetto alle sole caratteristiche essenziali del processo amministrativo codicistico significa, infatti, ammettere il carattere innovativo e modificativo delle “vecchie” regole processuali delle nuove regole poste a base del P.A.T.
[12] “Va infatti sottolineato sin d’ora che se da un lato il processo telematico non è un nuovo processo, bensì solo un processo con nuovi strumenti, dall’altro lato nel contesto di questi nuovi strumenti il documento informatico rappresenta l’elemento centrale”: F. Ferrari, Il codice dell’amministrazione digitale e le norme dedicate al documento informatico, in Riv. dir. proc., 2007, 2, 415, par. 7.
[13] B. Brunelli, Misure minime di sicurezza per gli atti processuali digitali, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2017, par. 2; N. Lettieri-F. Fabiani, Dati, computazione, scienza: estendere i confini del processo civile telematico, cit., 53 ss., con riferimento a più avanzate e futuribili intersezioni tra l’esercizio della funzione giurisdizionale e le I.C.T. (Information and Communication Technology); B. Fabbrini, Il processo civile telematico, tra interpretazione del vigente e future evoluzioni, in Giusto proc. civ., 2013, 271 ss.
[14] Espressione di questa logica sembra essere il fatto che la voce relativa al processo civile telematico dell’Enciclopedia del diritto (S. Zan, Processo civile telematico, in Encicl. dir.-Annali, Milano, 2007, vol. I, 982) sia stata affidata ad un docente di teoria dell’organizzazione (anche se autore di studi in campo giudiziario) piuttosto che ad un processualcivilista; vedremo cosa succederà con il processo amministrativo.
[15] F. Volpe, Sarà davvero efficiente il processo amministrativo telematico?, cit. che, per la verità, radica le proprie critiche sul mantenimento dell’autonomia del P.A.T. rispetto al processo civile (e, più in generale, della Giustizia amministrativa rispetto all’A.G.O.) e sull’affidamento della gestione del servizio informatico ad un concessionario.
[16] Si veda, a questo proposito, quanto efficacemente rilevato da M.L. Maddalena, La digitalizzazione della vita dell’amministrazione e del processo, cit., 6.2. in ordine alla necessaria riconversione di una parte dei funzionari amministrativi nell’Ufficio per il processo istituito dall’art. 8 del d.l. 31 agosto 2016, n. 168, convertito in l. 25 ottobre 2016, n. 197.
[17] Si vedano, soprattutto, L. Viola, Introduzione breve all’analisi economica della responsabilità civile della pubblica amministrazione, in Giurisd, amm., 2006, II, 331; Id., Giurisdizione condizionata e azione risarcitoria nei confronti della p.a: le incertezze della Corte costituzionale, ivi, 2008, 219; F. Saitta, Appunti preliminari per un’analisi economica del processo amministrativo, in A.I.P.D.A. (Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo), Analisi economica e diritto amministrativo, Milano, 2007, 285 e ss.
[18] La rilevazione si riferisce, ovviamente, al processo amministrativo telematico “a regime” e non alla fase transitoria in cui l’insistenza (ad avviso di chi scrive, eccessiva) sull’obbligo di depositare la cd. copia di cortesia (o le copie di cortesia nella prassi di alcuni Tribunali) rischia di vanificare un vantaggio non disprezzabile del passaggio al telematico.
[19] In questo senso è orientato anche P. Clarizia, Il sistema informatico della Giustizia amministrativa-SIGA, cit., 9, che parla di “notevole riduzione degli aggravi amministrativi per l’attività dei difensori”.
[20] C.E. Gallo, L’attuazione del processo amministrativo telematico, cit., 636 che rileva come “sarà facilmente possibile per chiunque sia operatore del processo agire avanti a tutti i Tribunali Amministrativi Regionali e avanti al Consiglio di Stato in modo diretto, con un’evidente riduzione dei costi”.
[21] A. Napolitano, Il domicilio digitale, in F. Freni – P. Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 28 e ss.; R. Chieppa, Commento all’art. 25, in R. Chieppa (a cura di), Codice del processo amministrativo, cit., 141.
[22] Sul processo amministrativo digitale francese, si rinvia, in lingua italiana, a L. Viola, Processo amministrativo telematico e accesso alla giustizia: il pasticcio italiano e la soluzione francese, in www.federalismi.it, 2016, 18, 4; Id., Diritto e tecnica nel processo amministrativo telematico, cit., 10; Id. Giusto processo e processo amministrativo telematico: un rapporto difficile, cit., 189; in lingua francese, a C. Barray-P. X. Boyer, Contentieux administratif, Paris, 2015, 75; I. Bonneau, Vers une ouverture de Télérecours aux personnes privées? in J.C.P. A (Administrations et collectivités territoriales), 2016, 1, 2; E. A. Caprioli-I. Choukri, De la dématérialisation des contentieux au contentieux de la dématérialisation. État des lieux des procédures sur Télérecours, ivi, 7, 30 ; J.M. Pastor-D. Poupeau, Justice administrative : vers un usage obligatoire de Télérecours, in Dalloz avocats, 2015, 323 ; D. Bailleul, Le procès administratif, Paris, 2014, 64.
[23] Nello stesso senso si veda anche F. D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, cit., 2.
[24] In questo senso, si veda R. De Nictolis, (a cura di), Processo amministrativo – Formulario commentato, cit., 2694; il combinato disposto degli artt. 6, 8° comma e 9, 4° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (nella parte in cui limita il ricorso al deposito tramite upload della parte privata che eserciti il diritto di autodifesa alle sole ipotesi di “mancato funzionamento del sistema informatico”) esclude la possibilità di recepire la tesi dottrinale (J. d’Auria, Il deposito, in F. Freni-P. Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, cit., 89) che ha prospettato il diritto della parte privata che eserciti il diritto di autodifesa di utilizzare la modalità di deposito mediante upload “nel caso non sia munita di una PEC….utilizzando le credenziali di accesso fornite ad hoc dalla segreteria (in questo caso resta comunque irrisolto il problema della firma digitale da apporre al documento informatico da caricare sul portale)”.
[25] www.giustizia-amministrativa.it; oggi consultabile anche in F. Freni – P. Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 64.
[26] La funzione di “blocco” derivante dalla mancata inserzione della P.E.C. nel cd. ReGindE non è percepita da I.S.I. Pisano, Commento all’art. 136 c.p.a. cit., 807 che, per il resto, conferma sostanzialmente la necessità degli altri tre requisiti sopra richiamati, facendo leva anche sulla previsione di cui all’art. 16, 7° comma del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (conv. in l. 17 dicembre 2012, n. 221) per quello che riguarda la facoltà del cittadino che scelga di difendersi personalmente di indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata al quale vuole ricevere le comunicazioni e notificazioni relative al procedimento (ma, nel nostro caso, l’utilizzazione della P.E.C. è resa obbligatoria dalle previsioni sopra citate).
[27] M.L. Maddalena, La digitalizzazione della vita dell’amministrazione e del processo, cit., par. 5.2 rileva come l’Italia sia in grave ritardo rispetto agli altri Paesi per la diffusione delle competenze informatiche: “gli utenti regolari di Internet sono solamente il 56% della popolazione di età compresa tra 16 e 74 anni, contro una media europea pari al 72%, mentre per converso sono il 34% gli italiani che non hanno mai utilizzato Internet contro il 21% medio europeo. Il livello di utilizzo dei diversi servizi in rete è di norma inferiore alla metà del valore medio riscontrabile all’interno dell’Unione Europea e, di conseguenza, molto distante dagli obiettivi europei fissati per il 2015”.
[28] In questa prospettiva, il riferimento di J. Bonneau, Vers une ouverture de Télérecours aux personnes privées?, cit., 2 all’abitudine di non consultare la posta elettronica (soprattutto, la P.E.C.) appare pienamente estensibile all’Italia e costituisce la migliore dimostrazione della difficoltà di alcune fasce della popolazione di utilizzare pienamente gli strumenti informatici; si tratta certamente di abitudine dei cittadini non digital natives che si prospetta forse più rilevante delle problematiche (pur sussistenti) relative ai “tempi di concentrazione, memorizzazione e comprensione del testo digitale rispetto al testo cartaceo da parte del giudice” richiamate da M.L. Maddalena, La digitalizzazione della vita dell’amministrazione e del processo, cit., par. 6.2.
[29] J. Bonneau, Vers une ouverture de Télérecours aux personnes privées?, cit., 2 che giustifica peraltro l’esclusione delle persone fisiche dall’estensione obbligatoria di Télérecours, anche sulla base del rischio di spamming e di piratage du système derivanti dall’apertura del sistema informatico ad utenti non esperti.
[30] In questa prospettiva, alcuni autori (J. Bonneau, Vers une ouverture de Télérecours aux personnes privées?, cit., 2) arrivano a concludere per la preferibilità dell’introduzione obbligatoria del patrocinio dell’avvocato rispetto all’introduzione di ostacoli occulti all’effettivo accesso alla giustizia derivanti dalla forzata informatizzazione del deposito del ricorso (come quelli del P.A.T.).
[31] La circolare appare fortemente contraddittoria perché, da un lato, sembra presupporre il possesso della P.E.C. e della firma digitale in capo al cittadino che proponga il ricorso ex art. 23 c.p.a.(“il ricorrente deve essere in possesso della Pec e della firma digitale al fine di proporre ricorso”); dall’altro, prevede la sottoscrizione autografa del ricorso da parte del cittadino, la scannerizzazione del documento e l’asseverazione di conformità firmata digitalmente dal funzionario; in questa confusione, ampiamente condivisibile risulta la conclusione di I.S.I. Pisano, Commento all’art. 136 c.p.a. cit., 819 che così conclude: “la portata generale dell’art. 9 del d.P.C.M. n. 40/2016……e la puntuale previsione dell’art. 9, commi 3 e 4 del d.P.C.M. n. 40/2016 inducono senza dubbio a prendere (atto) che, quando la parte si avvalga liberamente della facoltà di intervenire in giudizio senza l’assistenza del difensore …. la stessa debba procedere al deposito del ricorso introduttivo e degli atti del atti successivi al primo con le stesse modalità di cui agli articoli 7 e 8 del d.P.C.M. n. 40/2016”.
[32] Riduzione che appare ancora più ingiustificata alla luce della previsione dell’art. 9, 8° comma del d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 che ha dispensato dagli obblighi di deposito in forma telematica i soli ricorsi di cui “all’art. 10, 5° comma del decreto del Presidente della Repubblica 15 luglio 1988, n. 574”.
[33] Il riferimento al “numero esiguo di cause effettivamente introdotte senza l’assistenza del difensore” è operato anche da J. d’Auria, Il deposito, cit., 90, che ha sottolineato per primo i riflessi negativi dell’introduzione del P.A.T. sul diritto all’autodifesa della parte.
[34] Cons. Stato, sez. consultiva atti normativi, parere 20 gennaio 2016, n. 66/2016, cit., 6.2.
[35] Nello stesso senso, si vedano P. Clarizia, Il sistema informatico della Giustizia amministrativa-SIGA, cit., 11 che esclude tale applicazione, “nonostante la progressiva giurisdizionalizzazione del ricorso in seguito alle recenti pronunce della Corte Costituzionale, della Corte di Cassazione e dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato” e E. Barbujani, La redazione dell’atto, in F. Freni – P. Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 43.
[36] R. De Nictolis, (a cura di), Processo amministrativo – Formulario commentato, cit., 2696. In questa logica sembra oggi muoversi Cons. Giust. Amm., sez. riunite parere 7 febbraio 2018, n. 57 (in www.giustizia-amministrativa.it e www.cameraamministrativasiciliana.it) che ha affrontato la problematica dell’ammissibilità della notifica via P.E.C. del ricorso straordinario attraverso un parallelismo con i principi affermati dall’Adunanza plenaria con riferimento al processo amministrativo, senza evidenziare gli aspetti comuni e le differenze tra i due rimedi; pur evidentemente influenzata dal parallelismo tra i due rimedi previsto dall’art. 9, 2° comma del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199 (che prevede che anche il ricorso straordinario sia “notificato nei modi e con le forme prescritti per i ricorsi giurisdizionali”), la decisione appare essere fondata su una generica equiparazione tra rimedio straordinario e ricorso giurisdizionale, senza le dovute differenziazione che potrebbe determinare proprio quell’effetto di forzata omologazione del rimedio straordinario evidenziata in queste pagine.
[37] Al proposito, si rinvia a L. Viola, Ricorso straordinario al Presidente della Repubblica e codice del processo amministrativo: un rapporto problematico, in Foro amm.-T.A.R., 2011, n. 3, 1139; www.federalismi.it, 2011, 9; Id., La Corte costituzionale ed il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica: problematiche di diritto intertemporale e prospettive future, in Foro amm., 2014, 2, 715 e ss.; A. Dapas-L.Viola, L’ottemperanza alle decisioni dei ricorsi straordinari spetta al Consiglio di Stato: la posizione dell’Adunanza plenaria, in Urb. e appalti, 2013, 7, 785.
[38] Ove dovesse prevalere la tesi proposta in queste pagine, l’informatizzazione del procedimento di decisione del ricorso straordinario al Presidente della Repubblica dovrebbe limitarsi all’introduzione della firma digitale dei pareri del Consiglio di Stato e del CGA prevista dall’art. 7, comma 8-bis del d.l. 31 agosto 2016, n. 168 (come modificato dalla l. di conversione 25 ottobre 2016, n. 197) ed alla possibilità per la parte (desunta dal diritto all’uso delle nuove tecnologie di cui all’art. 3, 1° comma del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, cd. codice dell’amministrazione digitale) di utilizzare mezzi informatici di trasmissione/notificazione del ricorso (oggi ammessi espressamente da Cons. Giust. Amm., sez. riunite parere 7 febbraio 2018, n. 57, cit.) o degli atti difensivi; una struttura caratterizzata quindi da una sostanziale facoltatività che non sembra incidere particolarmente sull’accesso al mezzo giustiziale.
[39] V. Varone, Le modalità di redazione degli atti processuali e il loro formato, in F. Freni – P. Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, cit., 42 sottolinea giustamente come l’analisi completa di ogni adempimento processuale possa essere compiuta solo “affiancando … alla disposizione regolamentare (già ad alto contenuto tecnico) la specifica corrispondente, affinché possa emergere la “norma”.
[40] Anche G.G. Poli, Profili teorico-pratici del deposito degli atti nel processo civile telematico, in Foro it., 2014, V, 137 parla, con riferimento all’avvento del deposito telematico nel P.C.T., di un passaggio da “considerarsi epocale” senza però evidenziare le modificazioni sistematiche derivanti dal passaggio al telematico.
[41] G. Paleologo, L’appello al Consiglio di Stato, Milano, 1989, 686.
[42] Cons. Stato, Sez. III, 30 ottobre 2015, n. 4984 (in Foro amm., 2015, 10, 2506 e Foro it., 2016, 3, III, 176) basata sull’argomentazione sopra richiamata e sul riferimento alla “consegna …(del) proprio fascicolo” presente nell’art. 5, comma 1 delle disp. att. c.p.a. che allude “inequivocamente ad una consegna manuale”. In senso contrario rispetto alla sentenza richiamata (che, ad avviso di chi scrive, ha anticipato, in maniera abbastanza paradossale, il passaggio alle nuove modalità di deposito, utilizzando sostanzialmente vecchi concetti, poi superati dal P.A.T.) si veda la giurisprudenza della Seconda Sezione del T.A.R Lazio, Roma (tra cui T.A.R. Lazio, Roma, Sez. II, 6 luglio 2015, n. 9003 in De Jure; 8 giugno 2015, n. 8024, ivi; 19 marzo 2015, n. 4344, ivi).
[43] A questo proposito assume un ruolo importante la previsione dell’art. 7, 1° comma dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 (richiamata anche dall’art. 6, 7° comma del d.P.C.M.) che prevede espressamente che l’invio tramite P.E.C. dell’atto introduttivo, dei relativi allegati e degli altri atti di parte sia effettuato dalla casella P.E.C. individuale dell’avvocato difensore, “fermo restando quanto previsto dall’articolo 6, comma 3” sopra esaminato.
[44] L. Aureli, Il ricorso, in F. Freni – P. Clarizia, Il nuovo processo amministrativo telematico, cit., 64.
[45] L. Aureli, Il ricorso, cit., 64.
[46] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III bis, 8 marzo 2017, n. 3231, ord., in Foro it., 2017, parte III, 177, con nota di Cavalieri.
[47] T.A.R. Lazio, Roma, Sez. III bis, 8 marzo 2017, n. 3231, ord., cit.; nello stesso senso si veda anche T.A.R. Calabria, Sez. Reggio Calabria, 15 marzo 2017, n. 209 in www.giustizia-amministrativa.it, che ha ritenuto valida una memoria priva della sottoscrizione digitale della parte, ma depositata utilizzando il modulo deposito atto regolarmente sottoscritto con firma digitale, sulla base dell’“ovvia considerazione che, poiché i documenti allegati non devono essere firmati dal difensore, l’estensione della firma digitale PAdES a tutti i documenti contenuti nel Modulo prevista dall’art. 6, V comma, seconda parte, dell’Allegato, deve intendersi riferita, in senso onnicomprensivo, a tutti gli atti di parte allegati con il Modulo. Ne deriva che tali atti, ove non sottoscritti ex ante, dovranno ritenersi firmati soltanto al momento della sottoscrizione di invio del Modulo di deposito, secondo quanto riscontrabile tramite il software Adobe”. Contra, ma senza particolare approfondimento, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 9 febbraio 2017, n. 50, in Ilprocessotelematico.it, 24 febbraio 2017, con nota di Barbujani.
[48] Per l’approfondimento della problematica relativa al rischio di possibile disapplicazione delle altre previsioni dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 relative al deposito degli atti (impossibile in questa sede), si rinvia a L. Viola, Il deposito del ricorso dopo il P.A.T., tra sanatoria per raggiungimento dello scopo e automazione del processo, in Urb. e appalti, 2017, 6, 806.
[49] La tesi è condivisa, in dottrina, da I.S.I. Pisano, Commento all’art. 136 c.p.a. cit., 813 che rileva come non ci sia “motivo per negare efficacia giuridica alla sottoscrizione degli atti diversi dal ricorso introduttivo (memorie difensive, istanze di prelievo e in generale tutti gli atti che possono essere redatti e depositati contestualmente) con le modalità di cui all’art. 6, comma 5, All. A d.P.C.M. n. 40/2016, tenendo conto che, in tal caso, la data, l’ora e l’autore dell’atto processuale saranno identificati con riferimento al momento e al soggetto che procede alla sottoscrizione del Modulo”. Per una sostanziale critica all’orientamento giurisprudenziale in discorso, si veda però E. Barbujani, La redazione dell’atto, in F. Freni – P. Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 44 che opera un riferimento all’orientamento giurisprudenziale maggioritario (peraltro non citato) che “ritiene che l’apposizione della firma digitale al singolo atto processuale debba essere ricondotta ai requisiti di cui all’art. 40 c.p.a., motivo per cui, in caso di deposito di atto processuale privo di firma digitale, il deposito digitale sarebbe irregolare. Di conseguenza, secondo tale orientamento, il collegio dovrebbe concedere alla parte un termine per consentire di regolarizzare il deposito”; probabilmente il riferimento è all’orientamento giurisprudenziale originato da Consiglio Stato, sez. IV, 4 aprile 2017, n. 1541 (in Ilprocessotelematico.it, 10 aprile 2017; in Guida dir., 2017, 18, 94 con nota di Ponte; Dir. proc. amm., 2017, 3, 990 con nota di F. Volpe, L’irregolarità dell’atto processuale amministrativo alla prova del processo telematico; Foro amm., 2017, 4, 828; Foro it., 2017, 5, III, 245, con nota di Cavalieri e Travi; D& G, 2017, 7 aprile con nota di C. Coticelli) che non risulta aver percepito e valorizzato (ma neanche escluso) il ruolo sanante ex art. 6, 5° comma dell’allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 della sottoscrizione digitale apposto al modulo di deposito.
[50] Su cui si veda oggi Consiglio Stato, sez. IV, 4 aprile 2017, n. 1541, cit.
[51] In questa prospettiva si è posto T.A.R. Campania, Napoli, sez. I, 28 marzo 2017, n. 1694 (in D& G, 2017, 30 marzo) che ha sostanzialmente disapplicato la previsione in discorso, sulla base della seguente motivazione: “in un sistema processuale contraddistinto dai principi di legalità ex art. 111 della Costituzione e della gerarchia delle fonti, è evidente che le specifiche tecniche di natura non regolamentare contenute nell’Allegato A non possono contenere disposizioni contrastanti con le fonti normative superiori. Dette specifiche tecniche riguardano le concrete modalità di svolgimento delle operazioni tecniche necessarie per la redazione e la sottoscrizione degli atti, per il deposito e la consultazione dei medesimi, e per ogni altra attività informatica inerente il processo amministrativo digitale. Nel parere n. 66/2016 espresso sullo schema di regolamento, il Consiglio di Stato ha sottolineato un punto nodale e cioè che l’utilizzo di atti di natura non regolamentare è ammesso a condizione che questi ultimi disciplinino norme di carattere tecnico e non attengano a profili e materie facenti parte a pieno titolo della disciplina regolamentare (cfr. anche Consiglio di Stato, Sez. Atti Normativi, n. 3128/2012; n. 3092/2010). Ne consegue che le specifiche tecniche vanno necessariamente coordinate con le disposizioni contenute nel codice del processo amministrativo (fonte primaria) e nelle regole tecnico – operative (fonte secondaria regolamentare). In altri termini, ad esse deve riconoscersi un valore essenzialmente “neutro”, inidoneo ad innovare o modificare le regole processuali fissate da fonti normative gerarchicamente sovraordinate o, ancora, ad integrare il contenuto precettivo di queste ultime. Deve quindi ritenersi che la disposizione contenuta nell’art. 6, comma 5 delle specifiche tecniche non possa in alcun modo derogare alle già richiamate previsioni processuali e regolamentari che espressamente sanciscono come indefettibile, salve ipotesi che non rilevano in questa sede, l’apposizione della “firma digitale conforme ai requisiti di cui all’articolo 24 del CAD” in calce “a tutti gli atti e i provvedimenti del giudice…e delle parti” (cfr. art. 136, comma 2 bis, del c.p.a. e 9, comma 1, del D.P.C.M. n. 40/2016). Non è quindi sostenibile una interpretazione del citato art. 6 comma 5 che consenta di prescindere dalla sottoscrizione con firma digitale di ogni singolo atto processuale di parte”.
[52] In questo senso, si veda, nella manualistica, V. Caianiello, Manuale di diritto processuale amministrativo, Torino, 1988, 371.
[53] F. Volpe, Per la chiarezza di idee sulla forma digitale dell’atto processuale dopo l’entrata in vigore del p.a.t., cit.; lo scritto più equilibrato e completo in materia è quello di F. D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, cit.,
[54] R. Poli, Commento all’art. 156, in Consolo e Luiso (a cura di), Codice di procedura civile commentato, Milano, III ed. 2007, 1433.
[55] E. Barbujani, La redazione dell’atto, cit., 44 ha, del resto, rilevato come “una volta firmato digitalmente il modulo di deposito, il portfolio pdf e l’atto processuale, costituirebbero comunque un unico documento informatico, motivo per cui sarebbe comunque possibile attribuire al firmatario del modulo la paternità dell’atto processuale allegato”.
[56] Per l’esame (impossibile in questa sede) di un consistente dubbio sistematico in ordine alla possibile inoperatività della particolare sanatoria prevista dall’art. 6, 5° comma dell’Allegato A al d.P.C.M. 16 febbraio 2016, n. 40 nell’ipotesi in cui siano maturate decadenze, si rinvia a L. Viola, Il deposito del ricorso dopo il P.A.T., tra sanatoria per raggiungimento dello scopo e automazione del processo, cit., 810; sostanzialmente nello stesso senso si veda anche F. D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, cit., 17 che ha rilevato come “la problematica si po(nga), in linea generale, per gli atti diversi dal ricorso che deve, infatti, essere sottoscritto prima del deposito”, argomentando anche sulla base della natura di fictio iuris della disposizione.
[57] www.giustizia-amministrativa.it; oggi consultabile anche in F. Freni – P. Clarizia, Le novità del processo amministrativo telematico, cit., 64.
[58] E. Consolandi, Deposito telematico degli atti processuali, in Libro dell’anno del diritto-Encicl. giur. Treccani, Roma, 2016, 540 che però ritiene di poter escludere l’inammissibilità “perché è possibile “forzare” il sistema e costringerlo ad accettare l’atto, per il che occorre comunque un intervento umano che andrà sollecitato da chi, parte o giudice o cancelliere, si accorga dell’accaduto”; non sembra però a chi scrive che una conseguenza pratica e sistematica di questa importanza possa essere superata teorizzando la possibile “forzatura” di un sistema che rimane sempre una forma di intervento discrezionale e attinente alla patologia piuttosto che alla fisiologia processuale.
[59] Del tutto esattamente, E. Consolandi, Deposito telematico degli atti processuali, cit. 537 rileva come il passaggio al deposito telematico nel P.C.T. comporti “regole e problematiche nuove, a fronte delle quali occorre elaborare nuove soluzioni e non bastano più le categorie tradizionali: si è abituati a ragionare in termini di nullità degli atti, eventualmente di inammissibilità o di inesistenza, ma queste sanzioni processuali appaiono difficilmente collegabili a violazioni di prescrizioni delle regole tecniche o addirittura delle specifiche tecniche….proprio per la natura regolamentare o sottoregolamentare delle prescrizioni”.
[60] Si vedano, al proposito, N. Lettieri-F. Fabiani, Dati, computazione, scienza: estendere i confini del processo civile telematico, cit., par. 1, cui si deve anche la qualificazione in termini di “rivoluzione” dell’avvento del processo civile telematico.
[61]F. Volpe, Sarà davvero efficiente il processo amministrativo telematico?, cit. che aveva già sollevato (in maniera, per la verità, abbastanza criptica) la problematica delle “conseguenze della mail di c.d. “mancato deposito” sulle sorti del giudizio”; per una critica alla scelta del programma che costituisce l’architettura del sistema, si veda altresì Id., Il pat si regge su un sistema chiuso, cit.
[62] J. Heller, Comma 22, Milano, 2016; come ampiamente noto, si tratta di un romanzo (Catch-22) del 1961 che ruota intorno alle vicende di un gruppo di aviatori statunitensi in Italia durante la seconda guerra mondiale ed alla (pare inesistente) previsione di un regolamento militare così formulata: “Chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo”.
[63] P. Otranto, Decisione amministrativa e digitalizzazione della p.a., in www.federalismi.it, 2017, 2.14 che cita, al proposito, A. Masucci, Atto amministrativo informatico, in Encicl. dir.-Aggiornamento, I, Milano, 1997, 221 ss.; lo scritto di Otranto assume particolare interesse per l’evidenziazione di alcuni parallelismi con la tematica dell’atto amministrativo informatico che attribuiscono ulteriore valore sistematico a quanto sopra rilevato.
[64] Tutte e due le rilevazioni sopra richiamate sono prese da A. Supiot, La gouvernance par les nombres, Cours au Collège de France (2012-2014), Paris, 2015, cap. 5 par. Juger e cap 9, Les impasses de la gouvernance par les nombres (le citazioni sono dall’edizione digitale); il libro di Alain Supiot è fondamentale per la comprensione di alcuni aspetti della cd. globalizzazione, ma purtroppo non risulta ancora disponibile in lingua italiana.
[65] Supiot, La gouvernance par les nombres, cit.
[66] In termini generali, una posizione radicalmente critica è quella già citata di Supiot, La gouvernance par les nombres, cit.
[67] Non si tratta di una boutade; con riferimento al codice di procedura civile del 1940, Franco Cipriani riporta, infatti, che “di recente si è appreso che la mattina del 26 luglio 1943, ossia poche ore dopo il proclama di Badoglio con l’annuncio della caduta di Mussolini, un gruppetto di avvocati romani, con un tempismo a dir poco sorprendente, dette letteralmente alle fiamme in un corridoio del palazzo di giustizia di Roma il codice di procedura civile: non, si badi, un qualsiasi c.p.c., ma quello del primo presidente della Cassazione, Ettore Casati, che evidentemente volle così contribuire e partecipare alla solenne e purificatoria cerimonia” (F. Cipriani, Sulla paternità del codice di procedura civile, in Foro it., 2007, V, 136, par. 2; Id. Finalmente identificati i piromani che dettero alle fiamme il c.p.c. all’indomani della caduta del fascismo, in Giusto processo civ., 2006, 2, 273). Sulle vicende relative all’opposizione che la versione originaria del codice di procedura civile incontrò nell’ambiente forense fino alla “disgraziata novella del 1950”, si rinvia ai numerosi scritti di Franco Cipriani e ad A. Proto Pisani, Il codice di procedura civile del 1940 fra pubblico e privato, in Foro it., 2000, V, 73.
[68] Il riferimento alla terminologia propria dell’antropologia giuridica non è (forse) fuori luogo in un contesto in cui siamo in presenza dell’interazione di impostazioni talmente differenti da venire ad integrare vere e proprie “differenti linee di frontiera giuridiche” (B. de Sousa Santos, Stato e diritto nella transizione post moderna. Per un nuovo senso comune giuridico, in Soc. dir., 1990, 3, 28); su questi temi, si rinvia a L. Mancini, Introduzione all’antropologia giuridica, Torino, 2015.
[69] “La tematica in esame si atteggia in maniera peculiare rispetto alle notifiche cartacee, per le quali si offrono, in concreto, due soluzioni: a) formazione dell’originale informatico, con estrazione di copia analogica, autenticata dall’avvocato, ai fini della notifica cartacea; b) formazione di due distinti originali, uno analogico, ai fini della notifica cartacea, ed uno informatico, per le eventuali, parallele notifiche a mezzo pec, o, comunque, ai fini del deposito telematico (ipotesi concretizzatasi nella specie)” (T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 9 maggio 2017, n. 5545, in Ilprocessotelematico.it, 30 maggio 2017 con nota di Barbujani; nello stesso senso, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. I, 26 aprile 2017, n. 679, ibidem; D& G, 2017, 4 maggio e TAR Lazio, Roma, Sez. II, 1° marzo 2017, n. 2993 in www.giustizia-amministrativa.it).
[70] Condivisibili appaiono, infatti, i dubbi, espressi, al proposito, da E. Barbujani, La redazione dell’atto, cit., 39.
[71] Espressione di quest’impostazione appaiono, ad avviso di chi scrive, i numerosi scritti di Francesco Volpe al riguardo (da ultimo, si veda F. Volpe, L’irregolarità dell’atto processuale amministrativo alla prova del processo telematico, cit.).
[72] G.G. Poli, Profili teorico-pratici del deposito degli atti nel processo civile telematico, cit., par. 4.1.
[73] Per la tesi che ritiene comunque tardive le memorie depositate dopo le ore 12:00, si vedano T.A.R. Lazio, Roma, Sez. I bis, 5 febbraio 2018, nn. 1428, 1430 e 1431 in Urb. e appalti, 2018, 2, 229 con nota di Dapas-Viola; per la tesi che ritiene, al contrario, tempestivi anche i depositi effettuati dopo le ore 12:00, ma con il temperamento del differimento della decorrenza dei termini per controdedurre a garanzia del diritto di difesa delle controparti al giorno successivo: T.R.G.A. Trento 13 febbraio 2018, n. 31 (ivi, 2018, 2, 229; D& G, 2018, 26 febbraio).
[74] A. Dapas-L. Viola, Il P.A.T.: disorientamenti giurisprudenziali (e normativi) in materia di termini di deposito degli atti, in Urb. e appalti, 2018, 2, 230, cui si rinvia per eventuali approfondimenti.
[75] A. Napolitano, Il domicilio digitale, cit., 35 che aggiuntivamente rileva come si tratti “di comunicazioni, appunto, di “cortesia” che le segreterie non sono tenute sempre a inviare e sulle quali, perciò, non si può riporre alcun affidamento”.
[76] Si veda, al proposito, il parere reso dall’Ufficio Studi del Consiglio di Stato diramato con la nota 6 marzo 2018 prot. n. 3330 del Segretario generale della Giustizia amministrativa (in D&G, 2018, 7 marzo).
[77] G. Saporito, Se la Pec non funziona vale l’indirizzo fisico, in Il Sole-24 ore, 8 marzo 2018, 20, in nota al già citato parere dell’Ufficio Studi del Consiglio di Stato.
[78] R. Chieppa, Commento all’art. 24, in R. Chieppa (a cura di), Codice del processo amministrativo, cit., 134.
[79] F. Cipriani, La procura che si considera in calce e il silenzio-stampa delle sezioni unite, in Foro it., 1998, I, 961 che cita giustamente G. Tarello, L’interpretazione della legge, Milano, 1980, 222, che, all’epoca, forniva probabilmente le migliori notazioni sulla fictio legis.
[80] E. Barbujani, La redazione dell’atto, cit., 44; nello stesso senso anche F. D’Alessandri, La violazione delle regole tecniche del PAT e il principio di conservazione degli atti, cit., 17 che però dubita che una fictio iuris possa essere prevista in una disposizione di rango non legislativo.
[81] Le citazioni sono da Y. Thomas, Fictio legis, Macerata, trad. it. 2011, 17; per l’applicazione delle categorie elaborate nell’articolo di Yan Thomas (uscito in Francia nel 1995) al diritto amministrativo, si rinvia al classico B. Latour, La fabrique du droit. Une ethnographie du Conseil d’Ėtat, Paris, 2002, 68.
[82] Citazioni sempre da Y. Thomas, Fictio legis, cit., 21; in queste pagine viene utilizzata la definizione “conservatrice” di fictio legis richiamata solo in prima battuta da Yan Thomas e non la più ampia definizione utilizzata dai giuristi romani “sovversivi del fatto” e che ci porta ad interrogarci “sul rapporto che unisce fondamentalmente diritto e finzione, positività giuridica e costruzione, in breve, sul radicale scollamento tra l’istituzionalità e il mondo delle cose della natura” (Y. Thomas, Fictio legis, cit., 23-24).
[83] Y. Thomas, Fictio legis, cit., 22-23.
[84] Le citazioni sono da G. Tarello, L’interpretazione della legge, cit., 222, che rileva ulteriormente che “va anche rilevato che, molto sovente, gli enunciati definitori in termini di “si reputa…” o “si considera…” sono interpretati come esprimenti presunzioni legali, sul cui carattere vincolante nessuno dubita”; le poche pagine di Giovanni Tarello sopra richiamate sono pertanto perfettamente in linea con la successiva ricostruzione di Yan Thomas.
[85] Citazioni da M. van de Kerchove-F. Ost, Il diritto ovvero i paradigmi del gioco, Milano trad. it. 1994, 157 che partono dall’impostazione di Thomas Kuhn.
[86] J. L. Borges, Finzioni, (1944), ora in Id., Tutte le opere, I, Milano, 1984, 621.