La compensatio lucri cum damno nei giudizi amministrativi

ANTONIO VETRO, La compensatio lucri cum damno in diritto privato: applicazione del principio della compensazione nei giudizi amministrativi e contabili*.



ANTONIO VETRO
(Presidente on. Corte dei conti)

La compensatio lucri cum damno in diritto privato: applicazione
del principio della compensazione nei giudizi amministrativi e contabili



1) Brevi note sulla disciplina civilistica.

L’istituto della compensatio lucri cum damno era già conosciuto nel diritto romano, e veniva applicato quando il vantaggio, di natura patrimoniale ed il danno provenivano dallo stesso evento.

L’analisi della compensatio lucri cum damno, per verificarne l’applicabilità ai giudizi amministrativi e contabili, richiede preliminarmente il suo esame nel diritto privato.

Trattasi di un istituto prevalentemente di matrice giurisprudenziale, anche se spesso viene considerato espressione di un principio generale dell’ordinamento e, in mancanza di una specifica normativa regolamentare, è fonte di notevoli incertezze, tanto che recentemente la soluzione dei maggiori problemi applicativi è stata demandata, sia in sede civile che amministrativa, ai massimi organi giurisdizionali per ottenere pronunzie nomofilattiche.

Presupposti per la sua applicazione sono la provenienza dallo stesso fatto ed il nesso di causalità, immediato e diretto, del lucro e del danno con il fatto medesimo, escludendosi la possibilità di tale applicazione quando il rapporto fra le due poste sia di mera occasionalità necessaria.

La compensatio trova applicazione sia in sede contrattuale che extracontrattuale: per la prima occorre tener conto dell’art. 1223 c.c., (secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta); per la seconda, dell’art. 2056 c.c., (secondo cui il risarcimento dovuto al danneggiato si deve determinare tenendo conto sia del danno emergente che del lucro cessante, con possibilità di valutazione equitativa del pregiudizio e con diminuzione dell’importo in caso di concorso di colpa del danneggiato o di aggravamento dei danni imputabile a quest’ultimo).

Principio fondamentale immanente è quello in base al quale, eseguito un confronto tra l’entità del patrimonio del danneggiato, prima del fatto illecito, con quello successivamente depauperato, non si verifichi una situazione patologica che consenta al danneggiato di trarre profitto dallo stesso fatto illecito, che non deve mai essere occasione di vantaggio. Infatti il risarcimento deve essenzialmente perseguire la finalità di riportare il patrimonio del danneggiato nello status quo ante.

Al momento attuale, il motivo di maggior contrasto interpretativo riguarda la questione dell’applicabilità o meno della compensatio quando il danneggiato, oltre al risarcimento, consegua anche un’indennità o un indennizzo, in conseguenza del fatto illecito.

La tesi a sostegno della cumulabilità si basa sulla diversità delle finalità perseguite, da una parte, dai risarcimenti, e dall’altra, dalle indennità e dagli indennizzi.

Infatti i risarcimenti esplicano una funzione meramente riparatoria, mentre le indennità perseguono scopi solidaristici e gli indennizzi scopi previdenziali assicurativi.

Stessa diversità viene ravvisata nel caso in cui dall’illecito consegua, oltre al risarcimento, anche un trattamento pensionistico privilegiato o di reversibilità

Indennità sono legislativamente previste, ad esempio, a favore delle vittime di disastri naturali o di atti di terrorismo, indennizzi sono previsti a carico di enti pubblici, come l’INPS, per infortuni connessi ai rischi dell’attività lavorativa o da società private, nell’ambito di polizze assicurative stipulate dagli interessati.

La Cassazione per lungo tempo ha sostenuto, in tali casi, prevalentemente l’indirizzo della inapplicabilità dell’istituto in esame.

Così, nella sentenza 10.3.2014 n. 5504 ha stabilito che l’ipotesi della “compensatio lucri cum damno” non si configura quando, a seguito della morte della persona offesa, ai congiunti superstiti aventi diritto al risarcimento del danno sia stata concessa una pensione di reversibilità, giacché tale erogazione si fonda su un titolo diverso rispetto all’atto illecito. Infatti, in tali casi il fatto illecito viene valutato solo come “occasione” dell’erogazione indennitaria, cumulabile con la somma liquidata per risarcimento danni.

Con sentenza 30.9.2014 n. 20548 la Cassazione ha ribadito che, in tema di risarcimento del danno da illecito, il principio della ” compensatio lucri cum damno” trova applicazione unicamente quando sia il pregiudizio che l’incremento patrimoniale siano conseguenza del medesimo fatto illecito, sicché non può essere detratto quanto già percepito dal danneggiato a titolo di pensione di inabilità o di reversibilità, ovvero a titolo di assegni, di equo indennizzo o di qualsiasi altra speciale erogazione connessa alla morte o all’invalidità, trattandosi di attribuzioni che si fondano su un titolo diverso dall’atto illecito e che non hanno finalità risarcitorie.

Peraltro, la tesi opposta è stata propugnata in altre sentenze.

Così, nella sentenza 13.6.2014 n. 13537, la Cassazione ha ritenuto che in tema di danno patrimoniale patito dal familiare di persona deceduta per colpa altrui, dall’ammontare del risarcimento deve essere detratto il valore capitale della pensione di reversibilità percepita dal superstite in conseguenza della morte del congiunto, attesa la funzione indennitaria assolta da tale trattamento, che è inteso a sollevare i familiari dallo stato di bisogno derivante dalla scomparsa del congiunto, con conseguente esclusione, nei limiti del relativo valore, di un danno risarcibile.

Con sentenza 14.6.2013 n. 14932, nel giudizio promosso nei confronti del Ministero della salute per il risarcimento del danno conseguente al contagio da virus HBV, HIV o HCV, a seguito di emotrasfusioni con sangue infetto, la Cassazione ha stabilito che l’indennizzo di cui alla legge n. 210/1992 non può essere scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno, in applicazione del principio della compensatio lucri cum damno, soltanto qualora l’indennizzo non sia stato corrisposto o non sia determinato o determinabile, in base agli atti di causa, nel suo preciso ammontare, da portare in decurtazione del risarcimento.

In particolare nella sentenza viene chiarito che “nel giudizio risarcitorio promosso contro il Ministero della salute per omessa adozione delle dovute cautele, l’indennizzo eventualmente già corrisposto al danneggiato può essere interamente scomputato dalle somme liquidabili a titolo di risarcimento del danno (compensatio lucri cum damno), venendo altrimenti la vittima a godere di un ingiustificato arricchimento consistente nel porre a carico di un medesimo soggetto (il Ministero) due diverse attribuzioni patrimoniali in relazione al medesimo fatto lesivo (Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 584 ; Cass. 23 maggio 2011, n. 11302 ; Cass., 17 gennaio 2012, n. 532 )”.

Con ordinanza n. 15534/2017, la Cassazione, Sez. III, premesso che il principio generale della compensatio potrebbe essere desumibile da varie leggi speciali (tra queste, l’art. 1, comma 1-bis, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 o l’art. 33, comma 2, del d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327), ha ritenuto applicabili i seguenti principi: a) alla vittima d’un fatto illecito spetta il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione; b) nella stima di questo danno occorre tenere conto dei vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato dal fatto illecito; c) per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalità utilizzata per stabilire se il danno sia conseguenza dell’illecito, regola desumibile dall’art. 41 c.p. la quale, in materia di responsabilità civile, comporta che il nesso causale sussista quando, senza l’illecito, il danno non si sarebbe mai verificato (teoria della “regolarità causale”).

In conclusione la Sezione ha espresso l’avviso che il risarcimento spettante alla vittima dell’illecito andrà ridotto in tutti i casi in cui, senza l’illecito, la percezione del vantaggio patrimoniale sarebbe stata impossibile. Tale condizione ricorre in tutti i casi in cui il vantaggio dovuto alla vittima è previsto da una norma di legge che fa dell’illecito, ovvero del danno che ne è derivato, uno dei presupposti di legge per l’erogazione del beneficio.

Tanto premesso, la Sezione ha chiesto che le Sezioni unite si esprimano sul seguente principio: “se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati, da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante. Quesito che in sé pone anche l’interrogativo sul se la c.d. “compensatio lucri cum damno possa operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie”.

Le Sezioni Unite non si sono ancora pronunziate e si è in attesa di una decisione che sarà di particolare rilievo, sia sul piano dei principi che delle conseguenze pratiche, tenuto conto del numero delle cause interessate e dei profili economici sottostanti.

2) La compensatio nei giudizi amministrativi.

Con ordinanza 6.6.2017 n. 2719 il Consiglio di Stato, Sez. IV, ha rimesso all’Adunanza Plenaria la questione relativa alla possibilità di sottrarre dal risarcimento dovuto al danneggiato le indennità versate da assicuratori privati o da enti pubblici previdenziali.

Nell’ordinanza viene fatto presente che, in primo grado, il TAR adito aveva ritenuto che le prestazioni indennitarie, riconosciute dalla legge in favore dei pubblici dipendenti affetti da patologie contratte per causa di servizio ovvero per le vittime del dovere, concorrano con il diritto al risarcimento del danno, da responsabilità contrattuale o extracontrattuale, dell’amministrazione in ordine al medesimo pregiudizio all’integrità psicofisica patita dal dipendente, dovendosi escludere la compensatio lucri cum damno.

L’illecito, infatti, mentre costituisce fatto genetico della pretesa al risarcimento, rappresenta una mera occasione rispetto alla spettanza dell’indennità che sorge per il solo fatto che la lesione sia avvenuta nell’espletamento di un servizio di istituto del soggetto, indipendentemente dalla responsabilità civile dell’amm.ne datrice di lavoro ed in misura autonoma dall’effettiva entità del pregiudizio subito dall’interessato.

La Sezione, dopo aver ricordato il tradizionale (e tuttora maggioritario) indirizzo giurisprudenziale della Cassazione, contrario a riconoscere l’operatività, nei casi di specie, del principio della compensatio, ha precisato che questo orientamento è stato sinora seguito anche dal Consiglio di Stato, citando, in particolare, Cons. Stato, Ad. plen. 8.10.2009, n. 5, secondo cui le somme spettanti al dipendente a titolo di equo indennizzo trovano fondamento nell’esistenza di un rapporto di lavoro e quindi non hanno natura retributiva e costituiscono una delle controprestazioni cui è tenuto il datore di lavoro nei confronti del dipendente nel caso in cui ricorrano alcuni presupposti di fatto. Questi presupposti differenziano l’istituto dell’equo indennizzo dal risarcimento del danno.

Peraltro la Sezione ha posto in evidenza anche l’orientamento minoritario secondo cui, ove la legge od il contratto stipulato dal danneggiato con terzi contemplino, in dipendenza di un danno, benefici, indennità, provvidenze o trattamenti preferenziali di vario genere, i conseguenti vantaggi economici sono legati alla condotta del danneggiante (che quel danno ha provocato) da un nesso eziologico che non può non essere qualificato, in ottica giuridica, esso pure “immediato e diretto”, stante la strutturale ed ineludibile cogenza della legge (cui, quoad effectum, è parificato il contratto – art. 1372 c.c.). D’altra parte, la somma percepita dal danneggiato a titolo indennitario esclude funditus la sussistenza stessa, in parte qua, di un danno, dovendosi anche escludere che l’attuale sistema di responsabilità civile sia mosso da intenti punitivi, sanzionatori o comunque afflittivi.

Infine, la Sezione, “in considerazione del pregio delle argomentazioni poste a sostegno del più recente indirizzo e dell’esposto contrasto giurisprudenziale”, ha ritenuto di sottoporre la questione di massima all’Adunanza plenaria, la quale si è recentemente pronunziata con sentenza n. 1 del 23.2.2018.

In tale sentenza si premette che la questione si può porre in relazione a tre diverse categorie:

La prima riguarda fattispecie di rapporti obbligatori bilaterali, in cui compaiono una sola parte responsabile, obbligata ad effettuare una prestazione derivante da un unico titolo, ed una sola parte danneggiata, per le quali non sussistono dubbi sulla necessità di valutare l’entità dei vantaggi conseguiti dal danneggiato ai fini della determinazione effettiva del danno.

La seconda categoria è quella che comprende fattispecie nelle quali, accanto all’obbligo del responsabile di risarcire il danno derivante da fatto illecito, sussista anche l’obbligo di un altro soggetto di corrispondere una indennità sulla base di titoli differenti, come nel caso di forme di assicurazione privata o di forme di assicurazione sociale disciplinate da leggi speciali a tutela dei lavoratori contro gli infortuni, le malattie professionali ecc.

La terza categoria è quella in cui è presente un’unica condotta responsabile, un solo soggetto obbligato e titoli differenti delle obbligazioni, come nel caso concreto oggetto del presente giudizio nel quale l’interessato ha già ottenuto dal Ministero della Giustizia una somma a titolo di indennità per infermità dipendente da causa di servizio ed ha chiesto anche la condanna dello stesso Ministero al risarcimento del danno alla salute subito per la medesima ragione senza detrazione della somma già corrisposta a titolo di indennità.

Per tale caso l’Adunanza plenaria, sovvertendo quanto disposto in materia con le precedenti sentenze n. 9/1993 e n. 5/2009, ha concluso nel senso che “la presenza di un’unica condotta responsabile, che fa sorgere due obbligazioni da atto illecito in capo al medesimo soggetto derivanti da titoli diversi aventi la medesima finalità compensativa del pregiudizio subito dallo stesso bene giuridico protetto, determina la costituzione di un rapporto obbligatorio sostanzialmente unitario che giustifica, in applicazione della regola della causalità giuridica e in coerenza con la funzione compensativa e non punitiva della responsabilità, il divieto del cumulo con conseguente necessità di detrarre dalla somma dovuta a titolo di risarcimento del danno contrattuale quella corrisposta a titolo indennitario”.

3) La compensatio nei giudizi contabili.

Il tema della compensatio è trattato, il più delle volte “di sfuggita”, in una quantità di sentenze in materia di responsabilità amministrativa, non meritando la richiesta di applicazione dell’istituto che poche parole: infatti spessissimo i difensori dei convenuti eccepiscono, anche con motivazioni inconsistenti, presunti e, quasi sempre, inesistenti vantaggi che dovrebbero giustificare, in sede di compensazione, la diminuzione o addirittura l’azzeramento del danno erariale contestato.

La norma fondamentale in tema di compensatio lucri cum damno per i giudizi contabili va rinvenuta nell’art. 1 bis della legge 14.1.1994 n. 20, secondo cui “Nel giudizio di responsabilità, fermo restando il potere di riduzione, deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’amministrazione di appartenenza, o da altra amministrazione, o dalla comunità amministrata in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti pubblici soggetti al giudizio di responsabilità”.

Tale norma non brilla per chiarezza, soprattutto per l’indeterminatezza dell’ambito applicativo e dei parametri di riferimento: così risulta oscuro il precetto secondo cui potenzialmente non vi sarebbe limite al computo dei vantaggi, indipendentemente dalla qualità e dalle modalità di acquisizione, data l’amplissima sfera determinata dal termine “comunque”; ancora, appare arduo comprendere quali siano i vantaggi alla “comunità amministrata” cui la norma intenda riferirsi, anche perché esistono, non una, ma numerose categorie di comunità, unite dai più disparati interessi, di natura economica, religiosa, politica, linguistica, ideologica ecc.

Tanto precisato, va sottolineato che la disposizione è stata richiamata dalla Cassazione, Sez. III, nell’ordinanza n. 15534/2017, come una delle varie leggi speciali da cui potrebbe desumersi il principio generale della compensatio e la Sez. III App., nella sentenza n. 183/2016, ha statuito che “i criteri cui il giudice deve attenersi per l’applicazione della norma sui “vantaggi” sono sostanzialmente – pur nella diversità dei due istituti – i medesimi che presiedono alla più generale regola della compensatio lucri cum damno.

Si ritiene utile elencare i principi desumibili dalle sentenze, specie di data recente, della Corte dei conti in materia, limitatamente, motivi di brevità, a quelle maggiormente significative, specie delle Sezioni centrali d’appello.

A)L’onere della dimostrazione della utilitas grava sui convenuti presunti responsabili che la invochino in giudizio a propria discolpa, in base al tradizionale riparto dell’onere probatorio previsto dall’art. 2697 c.c., traducendosi la stessa in un fatto di natura modificativa o parzialmente estintiva del diritto fatto valere in giudizio. (Sez. Campania n. 511/2014).

B) L’art.1 bis della legge n. 20/1994 richiede, secondo la pacifica giurisprudenza delle Sezioni di appello di questa Corte, l’accertamento da parte del giudice della sussistenza di determinati presupposti, ovverossia: l’effettività del vantaggio, la identità causale tra il fatto produttivo del danno e quello produttivo della utilitas, la corrispondenza di quest’ultima ai fini istituzionali dell’amministrazione pubblica de qua (Sez. III App. n. 482/2016).

C) La consolidata giurisprudenza ritiene che la compensatio lucri cum damnooperi solo quando danno e vantaggio siano conseguenze immediate e dirette dello stesso fatto, che deve essere idoneo a produrre entrambi gli effetti: il pagamento dell’IRPEF – vantaggio per cui è chiesta una maggiore decurtazione – discende dalla circostanza, assolutamente indipendente dalla liceità del conferimento dell’incarico, che la prestazione è stata chiesta a un soggetto passivo dell’imposta. Perciò, pagamento dell’imposta ed inutilità dell’incarico sono fatti tra loro privi di qualsiasi connessione causale, nel senso che l’imposta doveva essere pagata anche se l’incarico dovesse essere ritenuto lecito ed utile (Sez. III App. n. 396/2016; Sez. I App. n. 280/2017).

D) L’apparato amministrativo è per sua natura autosufficiente e idoneo all’assolvimento dei compiti dei quali è intestatario, non potendo spogliarsene se non ridefinendo le competenze ad esso attribuite; pertanto, non possono apprezzarsi prestazioni rese contra legem, per definizione prive di vantaggi per l’Amministrazione (Sez. III App. n. 233/2016; Sez. Abruzzo n. 67/2016).

E) La valutabilità dei vantaggi conseguiti dall’Amministrazione presuppone che il giudice contabile, cui la conseguenziale valutazione compete, possa giudicare sulla base di prove certe o, quanto meno, di un principio di prova il cui relativo onere incombe sulle parti che li adducono. I criteri cui il giudice deve attenersi per l’applicazione della norma sui “vantaggi” sono sostanzialmente: l’accertamento dell’effettività della utilitas conseguita; l’unicità del fatto generatore determinante sia il danno che il vantaggio in relazione ai comportamenti tenuti; l’appropriazione dei risultati da parte della P.A. che li riconosce; la rispondenza della stessa utilitas ai fini istituzionali dell’Amm.ne che li riceve (Sez. III App. n. 183/2016).

F) Nella peculiare fattispecie sub iudicedeve farsi applicazione del principio della compensatio lucri cum damno,  in deroga al generale indirizzo di questa Corte secondo cui nessun vantaggio può essere tratto dallo svolgimento di funzioni dirigenziali assegnate ad un soggetto privo di una specifica laurea e di adeguata professionalità, in relazione alla circostanza che il soggetto in questione era comunque dotato di ordinaria preparazione tecnico-gestionale e laurea in fisica e, dunque, la sua prestazione resa durante l’illegittimo incarico dirigenziale non può non essere valutata e retribuita in misura inferiore, pari cioè a quella confacente ad un incarico dirigenziale non apicale (Sez. Lombardia n. 91/2017).

G) L’apprezzamento dei vantaggi conseguiti dalla comunità amministrata non può trovare ingresso laddove l’illecito s’identifichi con la costituzione o il mantenimento in esercizio di organi, dal momento che, se un dato organo non poteva essere istituito o conservato, gli oneri finanziari da questo generati sono irrimediabilmente contra legem, e costituiscono danno erariale, con ciò restando preclusa qualsivoglia operazione compensativa. (Sez. Friuli-Venezia Giulia n. 69/2017).

H) Quando l’Amministrazione conferisce un incarico sul presupposto del possesso di un titolo di laurea, (nella specie, in medicina) essa non richiede l’espletamento di un’attività riconducibile a mansioni generiche ma esige che sia resa una prestazione professionale particolarmente qualificata. Ne consegue che la prestazione lavorativa che venga, comunque, resa dal soggetto sfornito del prescritto titolo di studio non può ontologicamente produrre l’utilità che l’Amministrazione aveva preventivato di conseguire in sede di stipula del contratto di lavoro. Pertanto deve ritenersi che il rapporto sinallagmatico sia irrimediabilmente inficiato e che le retribuzioni siano giuridicamente prive di “giusta causa”, con conseguente inapplicabilità del principio della compensatio (App. Sicilia n. 469/2014; Sez. Veneto n. 190/2017).

I) L’erogazione della retribuzione di risultato in assenza dei presupposti legittimanti è illecita e produttiva di danno erariale, non essendo neppure ipotizzabile l’astratta possibilità di un diritto alla liquidazione di importi minori rispetto al livello massimo illecitamente riconosciuto, in carenza di una preventiva definizione degli obiettivi da conseguire e della valutazione dei risultati di gestione conseguiti in coerenza con detti obiettivi (Sez. II App. n. 736/2017).

L) L’erogazione di emolumenti non dovuti in costanza di prestazione lavorativa contrattualmente e puntualmente disciplinata sia in termini qualitativi, che quantitativi, non può mai condurre ad una valutazione ed alla remunerazione di vantaggi aggiuntivi ed ulteriori (Sez. II App. n. 645/2017).

M) L’art. 1 bis della legge n. 20/1994 demanda al giudice di operare “comunque” la valutazio­ne dell’utilità derivata in siffatte vicende (conferimento incarico a professionista esterno), per cui la stessa non può rite­nersi limitata in ragione della tipologia del precetto violato, anche laddo­ve lo stesso formi oggetto di norme cogenti rivolte soprattutto alla tutela di interessi primari. Pertanto, considerata comunque l’avvenuta prestazione offerta dal professionista, desumibile dagli atti di causa, il Collegio reputa di po­ter affermare, secondo una valutazione equitativa, che il danno quantifi­cato dal primo giudice possa essere diminuito di una quota (Sez. I App. n. 349/2017).

N) Nessun vantaggio può derivare dal pagamento contra legem di compensi per prestazioni ordinarie, in particolare, per ciò che concerne lo straordinario (Sez. II App. n. 497/2017).

O) Laddove il danno erariale sia riconducibile alla violazione di vincoli modali all’effettuazione della spesa, contenuti in norme imperative poste a tutela della sana gestione delle risorse finanziarie ed a salvaguardia dei precari equilibri di bilancio degli Enti Pubblici, l’esborso compiuto in violazione delle stesse è implicitamente non utile e insuscettibile di valutazioni compensative (Sez. App. Sicilia n.48/2017; Sez. I App. n. 224/2017).

P) In applicazione del meccanismo della compensatio lucri cum damnola quantificazione del danno effettivamente risarcibile costituisce il risultato di una valutazione globale, da parte del giudice, degli effetti comunque oggettivamente prodottisi e, nella fattispecie in esame, a seguito dell’aggiudicazione dell’appalto, illegittimamente disposta a favore di una società, l’onere finanziario contabilmente a carico dell’Amministrazione è stato inferiore a quello che essa avrebbe, invece, dovuto sostenere ove l’aggiudicazione fosse stata legittimamente disposta in favore di altra società. Considerato, quindi, che dal medesimo fatto illecito sono scaturiti, da un lato, una spesa sostanzialmente inutile per l’Amministrazione, pari alla somma che essa ha dovuto versare alla società estromessa a titolo di risarcimento del danno patito per effetto della mancata aggiudicazione, e, da un altro lato, un oggettivo risparmio di spesa pari al minor onere finanziario assunto dalla Amm.ne a seguito dell’aggiudicazione dell’appalto alla società incaricata del servizio, il debito risarcitorio da porsi concretamente a carico del responsabile va rideterminato tenendo conto di tale risparmio (Sez. App. Sicilia n. 3/2018).

4) Brevi note riepilogative sui presupposti richiesti per l’applicazione della compensatio nei giudizi contabili.

La disposizione in esame (art. 1 bis legge n. 20/1994), statuendo genericamente che “deve tenersi conto dei vantaggi comunque conseguiti”, potrebbe indurre a ritenere che detta valutazione possa essere effettuata: I) ex officio dal giudice; II) per qualsiasi categoria di vantaggio.

Peraltro la giurisprudenza, assai opportunamente, ha interpretato la norma in senso restrittivo addossando l’onere della prova a chi pretende di avvalersi del beneficio e individuando precise limitazioni riguardo alla sua valutabilità. In particolare, per quest’ultimo aspetto, ha statuito che la utilitas deve rispondere ai seguenti requisiti: effettività del vantaggio che deve essere concreto, effettivo ed attuale e non meramente potenziale, basato su semplici previsioni; identità causale tra il fatto produttivo del danno e quello produttivo della utilitas; corrispondenza di quest’ultima ai fini istituzionali della pubblica amministrazione; appropriazione dei risultati da parte della P.A. che li riconosce.

Poiché danno e vantaggio debbono essere conseguenziali in modo diretto e immediato rispetto ad un determinato, specifico fatto, un trattamento economico illecitamente conferito rappresenta un danno erariale che deve essere integralmente risarcito, anche per la quota riguardante il carico fiscale, che non può essere portata in detrazione, sulla base di un presunto vantaggio per la P.A., non sussistendo alcun nesso tra la contestata illiceità e l’adempimento dell’obbligo tributario.

Un numero rilevante di sentenze riguarda compensi indebitamente conferiti o a pubblici dipendenti o a pubblici amministratori o, infine, a professionisti esterni non legati alla P.A. da rapporti di servizio ed in tali casi molto spesso i convenuti in giudizio eccepiscono la utilitas della prestazione comunque eseguita. La giurisprudenza maggioritaria, a ragione, esclude che la prestazione resa in difetto dei presupposti legislativi richiesti possa consentire l’ingresso dell’istituto della compensatio.

Così, il conferimento di una consulenza o di altro incarico professionale non consentito in quanto la relativa prestazione poteva essere adempiuta nell’ambito del personale in carico all’amministrazione costituisce null’altro che un onere aggiuntivo ingiustificato, che non tollera riduzioni di sorta.

Parimenti, anche se non mancano statuizioni minoritarie, per nulla condivisibili, di segno contrario, non può ammettersi che il difetto delle specifiche condizioni richieste per l’assolvimento di determinate funzioni tecniche o amministrative nell’ambito della P.A., come un apposito titolo di studio, in particolare la laurea, o una esperienza pluriennale acquisita nel settore di competenza, possa consentire, in virtù della compensatio, un recupero parziale delle retribuzioni indebitamente conferite, che deve essere invece integrale, considerata anche la manifesta violazione del sinallagma posto alla base del rapporto di lavoro. Stesso principio va applicato nel caso di istituzione di organi, nell’ambito delle Amministrazioni, non consentiti dalla normativa vigente, che costituiscono null’altro che uno sperpero di pubblico denaro.

Infine, di particolare rilievo è l’affermato principio che non consente il riconoscimento di una qualche utilitas qualora una spesa venga effettuata in violazione di norme imperative poste a tutela della sana gestione delle risorse finanziarie e degli equilibri di bilancio degli Enti Pubblici.

Roma 12 marzo 2018.