Meritocrazia nella P.A.?
LORENZO IEVA, Meritocrazia nella P.A.? Allora, ritorniamo alle carriere!
LORENZO IEVA (*)
Meritocrazia nella P.A.? Allora, ritorniamo alle carriere!
SOMMARIO: 1.- Premessa. 2.- La posizione della dottrina sul merito. 3.- La soluzione: ritorno alle carriere. 4.- Conclusioni.
La riforma delle istituzioni pubbliche e degli apparati amministrativi esige, in via – diremmo – propedeutica, che si proceda ad una seria riflessione sui processi di selezione meritocratica di coloro che sono destinati a ricoprire ruoli eminenti nell’organizzazione pubblica [1].
La costruzione di una classe dirigente forte e capace, nei suoi diversi profili, rappresenta infatti una sorta di pre-condizione per poter riuscire ad avviare un rilancio economico-produttivo, coniugato con un efficiente funzionamento della P.A.
Nell’ambio del copioso dibattito pubblico sulla meritocrazia [2] e su cosa poter fare per rinsaldare, nella vita produttiva e culturale del nostro (incerto) Paese, costanti processi di formazione meritocratica e di affidamento di importanti funzione pubbliche a persone dotate di un solido background culturale e professionale, pensiamo in questa sede di doverci interrogare, in poche righe, su una considerazione di fondo: ma l’ordinamento dei lavoratori del pubblico impiego risponde veramente a principi meritocratici ?
L’ordinamento dei pubblici funzionari ed impiegati uscito dalle riforme dei primi anni Novanta (L. n. 421 del 1992 e d.lgs n. 29 del 1993), dopo oltre venti anni dalla sua introduzione, appare mostrare tutti i segni del tempo ed aver rappresentato una “pia illusione”, dalla quale bisogna tentare di uscire, in quanto ha finito per risolversi in una sorta di pan-sindacalizzazione, non poi così elisa dalla riforma di cui alla L. n. 15 del 2009.
Non è poi un caso che le organizzazioni sindacali si pronuncino proprio a favore del modello cd. privatistico-contrattuale del regime giuridico del rapporto di lavoro del personale del pubblico impiego ed avversino il modello cd. pubblicistico-amministrativo, proprio perché il primo offre davvero molto spazio all’autonomia negoziale ed alla forza contrattuale delle organizzazioni sindacali, al contrario del secondo che in nuce esclude tendenzialmente la negoziazione e – si sa bene – che nel mondo produttivo pubblico i rapporti di forza in campo tra i datori di lavoro ed i prestatori di lavoro si presentano a parti invertite rispetto al privato, prevalendo la forza associativa dei prestatori sulla forza associativa dei datori, anzi la seconda non esiste affatto, essendo rappresentata e rappresentativa solo la prima. [3]
Difatti, è stato pure acutamente notato dal prof. Stefano Battini come si sia passati da una regolamentazione unilaterale, quella pubblicistica per leggi, regolamenti e decreti, se non altro “più ordinata”, ad un’altra regolamentazione unilaterale, quella contrattuale collettiva, senz’altro “più frammentata” e disorganica [4].
Aver disposto la cd. privatizzazione o, altrimenti detta, contrattualizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, con la legge delega n. 421 del 1992, poi attuata dal d.lgs n. 29 del 1993, successivamente modificata dai decreti delegati del 1998, infine raccolta nel (parziale) testo unico del d.lgs n. 165 del 2001, più volte peraltro modificato ed integrato, da ultimo, dalla legge n. 15 del 2009 e dal d.lgs n. 150 del 2009 e, di seguito, oggetto di ulteriori interventi micro-settoriali, in ultima analisi, ha costituito un formidabile errore [5].
In verità, il celebre “Rapporto Giannini” [6], già dagli anni Settanta del secolo scorso, ci ha indicato, con una minuziosa analisi storica e dovizia di particolari, quali fossero i mali della pubblica amministrazione italiana.
Rimasto però per molti anni inascoltato, è stato poi travisato, come è infatti avvenuto proprio con la vicenda della cd. privatizzazione del regime giuridico degli impiegati pubblici, che suggerita dal predetto rapporto come auspicabile, ad esclusione dei dirigenti e dei funzionari, [7] è stata invece realizzata per tutte le figure professionali con esiti esattamente contrari alla ratio per la quale è stata pensata, [8] talché se ne è auspicato, da parte di molti, un ripensamento con un ritorno al passato e con una perdita di tempo di circa venti anni sul ruolino di marcia verso l’innovazione nella P.A. [9].
Particolarmente oscuro è stato il destino riservato ai funzionari (ex VIII e IX q.f.) – come notato dalla attenta dottrina del prof. Pietro Virga. [10] Secondo il nuovo ordinamento cd. privatistico, il funzionariato direttivo può essere destinatario soltanto di alquanto discrezionali “posizioni organizzative”, [11] ma in realtà è stato appiattito indietro sulla fascia del restante personale, anziché essere inquadrato in un’apposita area dei quadri, come meglio più competerebbe loro per l’attività di flatus voci della P.A. [12] esercitata quota parte unitamente ai dirigenti; ma molto più spesso essi stessi sono stati posti all’apice della struttura, in luogo del personale con qualifica dirigenziale.
Mentre, dal canto suo, la giurisprudenza – per fortuna – ha avuto modo di sottolineare le numerosissime diversità, finanche ontologiche, esistenti tra il lavoro pubblico ed il lavoro privato.
Più specificamente, le sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione (sent. n. 1807 del 2003 [13]) e (dopo però averla giudicata costituzionalmente legittima) anche la Corte costituzionale (sent. n. 146 del 2008 [14]) hanno cercato di individuare i fattori che rendono assolutamente speciale il lavoro pubblico, che è e ineluttabilmente rimane irriducibile alla sola regolamentazione di diritto privato, in tal modo recuperando alcune posizioni invero fin dall’inizio rappresentate dalla celebre e lungimirante pronuncia dell’Adunanza generale del Consiglio di Stato reso sullo schema del d.lgs n. 29 (parere n. 146 del 1992 [15]).
Di certo, la cd. privatizzazione del lavoro pubblico che secondo alcuni ex se avrebbe dovuto rendere più efficiente l’attività della pubblica amministrazione non sembra affatto essere riuscita nello scopo.
Invero, la cd. privatizzazione o contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico ha soltanto generato confusione negli uffici pubblici, resa precaria la dirigenza pubblica, consentito progressioni in carriera scriteriate del personale, [16] favorito l’instaurazione di rapporti di lavoro precari (cd. flessibili), dato largo alle rivendicazioni, il più delle volte immaginarie, di mansioni superiori di fatto svolte ed incrementato a dismisura il potere negoziale del sindacato, [17] che però sovente è stato esercitato in modo nient’affatto propulsivo e migliorativo dell’efficienza della P.A., anzi, al contrario, come ha ben osservato il prof. Sabino Cassese: “Il potere esecutivo è inefficiente, oltre che per debolezza e breve durata dei governi, anche per difetti dell’amministrazione. Questa è sotto assedio sindacale. Ciò impedisce di introdurre valutazione, incentivi e disincentivi o sanzioni”. [18]
La legge del 4 marzo 2009 n. 15 (cd. riforma Brunetta) contenente “Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni […]” ha richiamato la necessità di una piena “valorizzazione del merito” (art. 2, co. 1, lett. e).
La recente legge del 7 agosto 2015 n. 124 (cd. riforma Madia), contenente: “Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”, cita espressamente la parola “merito”, a proposito della dirigenza pubblica (art. 11, co. 1, lett. a) e poi in tema di valutazione dei dipendenti pubblici (art. 17, co. 1, lett. r).
Ma, finora, la cd. meritocrazia è risultata essere lontana anni luce dall’impiego pubblico privatizzato! Anzi, se pure c’è stata qualche embrionale applicazione, il più delle volte è avvenuta in maniera distorta.
2. La posizione della dottrina sul merito.
L’applicazione della cd. meritocrazia non può riguardare solo l’accesso al pubblico impiego, ma deve riguardare, forse ancor più, la carriera: questo, in sintesi, è il pensiero di un profondo conoscitore della P.A. qual è il prof. Sabino Cassese.
Purtroppo, va constatato che il merito “[…] è stato in passato rigidamente escluso […]” dalla carriera, prediligendo un sistema improntato sulla mera anzianità. Talché, ribadisce l’esimio giurista: “Il riconoscimento del merito nell’accesso e nella carriera e la stabilità nella funzione sono strumenti essenziali per assicurare efficienza all’amministrazione, eguaglianza ai cittadini, equilibrio tra i poteri”, per cui: “Questi principi vanno rispettati: quando c’è bisogno di personale, vanno banditi concorsi, non lasciato formare un esercito di avventizi; quando sono stati scelti e nominati i migliori, non bisogna tralasciare di valutarne le prestazioni, promuovendo chi lo merita; una volta promossi i migliori alle cariche più alte, queste non vanno rese precarie; chi le ricopre sarà sottoposto a sua volta a giudizio e, in caso di conclusione negativa, allontanato” [19].
Molto importante è senz’altro anche la riflessione del prof. B.G. Mattarella, il quale ha osservato che: “i comportamenti dei singoli funzionari non dipendono solo dalla misura della loro onestà e correttezza, ma – in larga parte – dalle condizioni in cui essi operano e dalle regole che disciplinano lo svolgimento della loro attività. Per assicurare la correttezza dei comportamenti dei funzionari, occorre far funzionare correttamente le istituzioni presso le quali essi operano” [20].
In tale ottica, il prof. Cassese, [21] più recentemente, ha meglio precisato che, negli uffici pubblici, la meritocrazia vada ricercata soprattutto attraverso alcuni punti chiave, tra cui: i concorsi selettivi, la stabilità degli impiegati, la costruzione di una carriera per titoli e l’introduzione di fattori di modernizzazione degli apparati, quali l’informatizzazione delle procedure.
Ma tutto questo, ci riporta in fondo al pensiero del Max Weber (autore ingiustamente bistrattato da una certa corrente di pensiero nell’ambito degli studi aziendalistici), che, già agli inizi del Novecento, ha avuto modo di osservare come, alle organizzazioni statuali del passato, debba contrapporsi nei tempi più moderni: “[…] la trasformazione della […] burocrazia in un corpo di lavoratori intellettuali altamente qualificati, dotati di una preparazione specialistica maturata nel corso di lunghi anni di studio e provvisti di un onore di ceto particolarmente sviluppato nell’interesse della propria integrità” [22].
Il prof. Michele Ainis, tra i più illustri professori di diritto costituzionale, dal canto suo, dopo aver rammentato che “meritocrazia non è una parolaccia”, bensì “un sistema che sa ricompensare i meriti, ovunque si trovino, chiunque se ne renda artefice”, in quanto “il merito consiste nella capacità d’assolvere una specifica funzione, è quindi una virtù” [23], ha elaborato un efficace decalogo, per consentire un rilancio del sistema istituzionale ed economico dell’Italia, così riassunto:
1) disarmare le lobbies;
2) rompere l’oligarchia dei partiti e dei sindacati;
3) dare voce alle minoranze;
4) annullare i privilegi della nascita;
5) rifondare l’Università sul merito;
6) garantire l’equità dei concorsi;
7) neutralizzare i conflitti di interesse;
8) favorire il ricambio della classe dirigente;
9) impedire il governo degli inetti;
10) promuovere il controllo democratico.
Questo decalogo tocca praticamente tutti i punti deboli del nostro Paese, che evitano uno sviluppo armonioso e democratico dell’economia, della società e, or dunque, anche degli uffici pubblici.
3. La soluzione: ritorno alle carriere.
Ma veniamo in termini pratici ad una possibile soluzione del problema, utile per la introduzione perlomeno di un tentativo di meritocrazia.
L’ordinamento professionale dei pubblici funzionari ed impiegati attuale non funziona!
Bisogna tornare ad un ordinamento, tendenzialmente unico per tutti gli uffici pubblici, possibilmente imperniato su uno statuto pubblicistico, impostato in modo tale da suddividere i lavoratori pubblici (come peraltro fa l’art. 2095 cod. civ. [24]) nelle seguenti quattro categorie:
a) dirigenti;
b) quadri (o funzionari);
c) impiegati (di concetto e d’ordine);
d) operatori (od esecutori).
Un valido sistema di classificazione del personale pubblico, definibile esattamente delle carriere funzionali, in linea con il mutato assetto socio-economico-culturale del Paese, dovrebbe prevedere le predette quattro macro-aree professionali, nettamente separate e contraddistinte in relazione al titolo di studio richiesto per l’accesso (e per lo svolgimento proficuo delle funzioni e mansioni inerenti) ed alla tipologia intrinseca di attività da svolgere (sempre più elevata in relazione al crescente ruolo ricoperto).
Chi vive nella P.A., quando prova a chiedere ai funzionari più anziani quale sia stato l’ordinamento migliore del personale che abbia mai vissuto, avrà una risposta unica e certa: quello delle carriere di cui al T.U. d.P.R. n. 3 del 1957 succ. mod., in quanto era in grado di far progredire il personale in modo ordinato, attraverso un percorso certo fin dall’ingresso in ufficio, in modo costante e scandito da momenti di valutazione, senza alimentare troppi attriti tra i colleghi sul posto di lavoro.
I titoli di studio, la cultura amministrativa, l’esperienza e le capacità allora erano tutti abbastanza ben coniugati e contribuivano a far sentire il funzionario, come il semplice operatore, parte di un gruppo, nel quale ognuno aveva un proprio ruolo ben preciso, che veniva valorizzato nel tempo con adeguata progressione economica e professionale.
Nell’ambito di una riedizione delle cd. carriere, la progressione può essere dunque assicurata, attraverso la combinazione ponderata di quattro gruppi di criteri, i primi due di tipo oggettivo, il terzo semi-oggettivo ed il quarto di tipo soggettivo con adeguate garanzie di trasparenza e di revisione, quali:
1) i titoli di studio;
2) l’anzianità di servizio, o esperienza professionale;
3) i corsi di formazione iniziale e successivi di aggiornamento professionale, con valutazione finale;
4) il giudizio del dirigente.
Dal coacervo dei predetti quattro fattori, ogni tre anni, dovrà essere possibile assegnare al dipendente uno cd. “scatto economico”, che ne valorizzi la professionalità acquisita ed il merito sul campo di lavoro dimostrata.
Secondo questo sistema, in primo luogo, la valutazione dei titoli di studio (laurea, dottorati di ricerca, specializzazioni, masters, etc.) e delle abilitazioni professionali, con un peso pari al 40%, naturalmente, testimonia l’avvenuta acquisizione di una professionalità potenziale e di una formazione generale appropriata al ruolo, o anche più che appropriata, che va riconosciuta ed incentivata. Anche lo sforzo del dipendente che, durante la vita lavorativa, acquisisca ulteriori titoli di studio, dopo la laurea dimostra la capacità dello stesso di voler sviluppare il proprio bagaglio di conoscenze.
Mentre, la cd. anzianità di servizio (o esperienza professionale), con un peso pari al 30%, deve costituire solo un oggettivo riferimento di base nel processo di selezione meritocratica; non è l’unico criterio, non va sopravalutata, ma neanche sottovalutata. Essa esprime un concetto di comune esperienza, che assegna al trascorrere del tempo una funzione di erudizione pratica del dipendente, il quale matura, giorno dopo giorno, un saper fare significativo, che va pure riconosciuto.
Inoltre, va dato rilievo al risultato della frequentazione di specifici corsi formativi iniziali e di aggiornamento (epperò tassativamente con valutazione finale), rilevanti con un peso pari al 20%, la cui partecipazione deve costituire un’opportunità trasparente per tutti i dipendenti; detti corsi hanno la funzione di consentire di elaborare e poi di consolidare la formazione etica di genere e la indispensabile specifica formazione professionale inerente all’Amministrazione di cui si fa parte, proprio allo scopo di poter sviluppare una solida capacità di rispondere in modo ottimale e consapevole alle problematiche applicative dell’attività lavorativa della pubblica amministrazione in cui si presta servizio, in un’ottica di customer satisfaction degli utenti.
Infine, la valutazione del dirigente con un peso pari al 10%, sulla proficuità dell’attività lavorativa del dipendente appare fondamentale per far emergere dati intangibili riguardanti le capacità e l’impegno del pubblico dipendente dimostrati in servizio in una determinata struttura. E’ questo forse l’elemento che può destare più di qualche dubbio o perplessità, in quanto comporta un certo tasso di soggettività, che però può essere temperato da procedure di garanzia (ad esempio: ricorsi interni, o istanze motivate di riesame), e presuppone una certa maturazione di capacità valutativa forte da parte della dirigenza, oltreché la sua semi-stabilità alla direzione di una struttura, poiché postula una certa qual consolidata conoscenza dei dipendenti valutati, che non può evincersi con sufficiente certezza in pochi mesi o anni di direzione della struttura cui appartengano questi ultimi.
Al contrario, la cd. privatizzazione del rapporto di lavoro pubblico ha reso “precaria” la dirigenza, che, in taluni enti pubblici, sovente nelle regioni ed enti locali, ma anche negli altri enti nazionali autarchici e poi nelle agenzie fiscali, vede il proprio ruolo eccessivamente instabile, insidiato da dirigenti extra-ruolo e/o da vari fenomeni di incarichi conferiti contra legem, ma con appigli normativi nella regolamentazione interna, che evidentemente nessuno controlla, come nella nota vicenda, ribaltata agli onori della cronaca e stigmatizzata come costituzionalmente illegittima dal Giudice delle leggi (C. cost. n. 37 del 2015), dell’Agenzia delle Entrate. [25]
Alcuni enti pubblici non economici (cd. parastato), come quelli previdenziali, praticano poi forme di turnazioni del personale dirigenziale, in contrasto con la riforma del T.U. D.Lgs n. 165 del 2001, avvenuta nel 2002; infatti, l’art. 3, co. 1, lett. a), L. 15 luglio 2002 n. 145 (cd. riforma Frattini), nel riformulare l’art. 19 D.Lgs n. 165, ha eliminato ogni riferimento alla: “c) rotazione degli incarichi […]”. L’art. 40 D.Lgs. n. 150 del 2009 (cd. riforma Brunetta) ha confermato l’eliminazione del detto criterio. Mentre, il riformulato art. 27 D.Lgs n. 165 cit., letteralmente, dispone: “1. […] Gli enti pubblici non economici nazionali si adeguano, anche in deroga alle speciali disposizioni di legge che li disciplinano, adottando appositi regolamenti di organizzazione”. [26]
Né, in ordine alla cd. turnazione, assumono alcun rilievo le disposizioni di cui alla L. n. 190 del 2012 in materia di prevenzione e repressione della corruzione nella P.A. e, in particolare, l’art. 1, co. 5, lett. b), secondo il quale le P.A. definiscono un “piano di prevenzione della corruzione”, che tra l’altro dovrebbe prevedere “procedure appropriate per selezionare e formare […] i dipendenti chiamati ad operare in settori particolarmente esposti alla corruzione, prevedendo, negli stessi settori, la rotazione di dirigenti e funzionari”, perché, per l’appunto, riguarda esclusivamente i settori cd. particolarmente esposti, tipo gestione degli appalti et similia e non già tutti.
4. Conclusioni.
Possiamo terminare con alcune considerazioni di fondo.
Per meritocrazia dobbiamo orbene intendere quel particolare approccio organizzativo, che assegna preminente rilievo al valore ed alle capacità professionali potenziali e cd. agite dalla persona predestinata a ricoprire determinate posizioni o ruoli, in modo tale che risulti selezionato l’individuo più competente e migliore possibile, scartando, per quanto possibile, ogni altra considerazione di tipo sociale, ereditario, nepotistico, di cooptazione, di affiliazione, di raccomandazione, et similia.
Trattasi di un metodo di selezione e di promozione delle capacità individuali e delle competenze professionali, valido tendenzialmente per tutti i settori dell’organizzazione di una data comunità statuale, da quello politico a quello amministrativo, per poi considerare pure quello prettamente economico, industriale e produttivo.
Non va dimenticato che la meritocrazia è un concetto che può dirsi intrinsecamente “rivoluzionario” e non a caso la sua prima declinazione, in forma moderna, la si è avuta proprio nel corso della Rivoluzione francese del 1789, ed esattamente all’interno della Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del cittadino.
L’art. 6 della Déclaration des Droits de l’Homme et du Citoyen approvata dall’Assemblea Nazionale in data 26 agosto 1789 (ed accettata da Re Luigi XVI il 5 ottobre per essere inserita, come preambolo, nella Carta costituzionale del 1791) così recita: “[…] Tutti i cittadini, essendo uguali ai suoi occhi [della legge], sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, posti ed impieghi pubblici secondo la loro capacità, e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti”. [27]
In questa direzione, si colloca il pensiero di illustri autori.
Il prof. M. L. Salvadori, nel suo recente libro “Democrazia. Storia di un’idea tra mito e realtà”, Donzelli, Roma, 2015, p. 180, ci racconta dello scambio epistolare intervenuto nel 1813 tra i due padri della Patria americani, nonché in epoche diverse Presidenti degli Stati Uniti, John Adams e Thomas Jefferson: “Per Adams era la stessa natura a stabilire le diseguaglianze di talento, capacità, industriosità, intelligenza che stavano alla base della formazione di quella che definiva «aristocrazia naturale», composta dall’élite dei migliori e dei più sapienti, e alla quale era perciò giusto affidare le leve del potere politico ed economico […]”; mentre, per: “il democratico Jefferson [se] era certamente vero che si dava nella società un’aristocrazia naturale […] questa era formata da quanti detenevano superiori qualità etiche, spirituali, intellettuali. Essi e non i ricchi e i privilegiati ne erano esponenti. La realtà delle cose insegnava che in troppi casi il mondo dei ricchi e dei privilegiati era del tutto svincolato da «virtù e talenti», e, arroccato sistematicamente per usare il potere a sua difesa, mirava a impedire il progresso della maggioranza popolare, incarnando una pseudo-aristocrazia non naturale ma artificiale. Compito delle buone istituzioni era portare alle massime cariche i «realmente buoni e saggi» (fossero dunque essi proprietari o non proprietari)”.
Alexis de Tocqueville (1805-1859), nella sua magistrale opera intitolata “La democrazia in America” (scritta tra il 1835 ed il 1840), uno dei testi davvero fondativi di tutto il pensiero Occidentale e della sua cultura, che permea la struttura democratica di qualsiasi Stato di diritto che possa dirsi tale, a proposito della funzione precipua che deve ricoprire chi governa, a vari livelli, una società, ha limpidamente affermato che: “Istruire la democrazia, ravvivare, se possibile, le idee, purificare i costumi, regolarne i movimenti, sostituire a poco a poco la scienza dei pubblici affari all’inesperienza, la conoscenza dei suoi reali interessi al cieco istinto, adattare il suo governo ai tempi e ai luoghi, modificarlo secondo le circostanze e gli uomini: questo è il primo dovere imposto ai nostri giorni a coloro che dirigono la società”. [28]
Vilfredo Pareto (1848-1923), nel suo “Manuale di economia politica” (1906), a proposito della cd. classe dirigente (o classe eletta, o élite), ben ammoniva come bisognasse eliminare quelle che possono essere definite come vere e proprie “tossine” del corpo sociale, ossia coloro che non sono all’altezza del ruolo ricoperto, in quanto: “Non è solo l’accumularsi di elementi inferiori in uno strato sociale che nuoce alla società, ma anche l’accumularsi in strati inferiori di elementi eletti che sono impediti di salire. Quando ad un tempo gli strati superiori sono ripieni di elementi decaduti e gli strati inferiori sono ripieni di elementi eletti, l’equilibrio sociale diventa sommamente instabile ed una rivoluzione violenta è imminente”. [29]
Motivo per cui – ha sostenuto ancora Pareto – è necessario consentire il naturale ricambio della classe dirigente, in quanto: “Nell’economia sociale […] Quando negli strati inferiori si sono accumulati elementi attivi, energici, intelligenti; e quando invece gli strati superiori sono inquinati da soverchia proporzione di elementi decaduti accade improvvisamente una rivoluzione, che sostituisce una aristocrazia ad un’altra. […] Tali rivoluzioni violente possono essere sostituite da infiltrazioni per le quali gli elementi scelti salgono, gli scadenti scendono. Quel movimento esiste quasi sempre, ma può essere più o meno intenso; ed è da quella diversa intensità che ha origine l’accumularsi, o il non accumularsi, di elementi decaduti negli strati superiori, di elementi eletti negli strati inferiori. Perché il movimento sia sufficiente ad impedire che l’accumulazione abbia luogo, non basta che la legge permetta il movimento, che non ci ponga ostacoli di nessun genere […]; ma occorre anche che le circostanze siano tali che il movimento possibile diventi reale”. [30]
In ultima analisi, il pensiero degli illustri autori è chiaro: la scienza dei pubblici affari reclama uomini preparati e meritevoli, che governino la res publica in modo appropriato alle vere esigenze, senza incedere all’approssimazione ed al caso ! E l’avvicendamento delle persone meritevoli al governo dei pubblici uffici (politici ed amministrativi) deve poter avvenire con naturalezza, senza soluzione di continuità, nell’interesse generale di tutti i consociati e della stessa élite, a pena di ineluttabili involuzioni economiche e crisi generali di efficienza.
Nel contesto della cd. globalizzazione economica, giuridica e sociale, [31] “meritocrazia”, per riuscire a star dentro un mondo globale, vuol dire far avanzare solo chi merita, ossia chi ha le capacità e risulta adeguato a ricoprire determinati ruoli, anche qualora abbia una origine familiare sfavorita o non sia particolarmente favorito dal censo, ma significa, ancor di più ed anche ineluttabilmente, lasciare indietro chi è inadeguato, pur se favorito in partenza da fattori esogeni al proprio carente talento. Tant’è, che piaccia o meno.
(*) Dottore di ricerca in diritto pubblico dell’economia e dirigente della pubblica amministrazione.
[1] Etimologicamente, il termine “meritocrazia” deriva dal latino “meritum”, che significa “cosa meritata, mercede, ricompensa”, oppure anche dal verbo passivo “mereri”, ovverosia “azione per cui ne venga premio”, unito al sostantivo del greco antico “κρατος” (kràtos), ossia “forza, potere”, per quindi voler dire molto eloquentemente: “potere (o forza) di chi ha compiuto qualcosa per cui ha meritato o che va premiato” ed indica, per l’appunto, colui che è da ritenersi “meritevole”.
[2] Sull’argomento esiste un’ampia letteratura giuridica, sociologica e giornalistica. Segnatamente, tra i molti testi, vedi: S. Cassese – J. Pellew, Il sistema del merito nel reclutamento della burocrazia come problema storico, in Riv. trim. dir. pubbl., Giuffrè, Milano, 1987, p. 756 ss; L. Ieva, Il fattore umano quale causa della inefficienza nella pubblica amministrazione, in Dir. econ., Mucchi, Modena, n. 4, 2006, p. 741 ss S. Cassese, L’ideale di una buona amministrazione. Il principio del merito e la stabilità degli impiegati, Edit. Scientifica, Napoli, 2007; B. G. Mattarella, Il principio del merito e i suoi oppositori, in Riv. trim. dir. pubbl., Giuffrè, Milano, n. 3, 2007, p. 641 ss; G. Floris, Mal di merito. L’epidemia di raccomandazioni che paralizza l’Italia, Rizzoli, Milano, 2007; R. Abravanel, Meritocrazia. Quattro proposte concrete per valorizzare il talento e rendere il nostro Paese più ricco e più giusto, Garzanti, Milano, 2008; M. Ainis, La cura. Contro il potere degli inetti per una Repubblica degli eguali, Chiarelettere, Padova, 2010; B.G. Mattarella, Il principio del merito, in M. Renna – F. Saitta, (a cura di) Studi sui principi del diritto amministrativo, Giuffrè, Milano, 2012, p. 149 ss; L. Ieva, Costituzione italiana e meritocrazia, in Persona e danno, Key editore, Vicalvi, n. 11 del 2015 [www.personaedanno.it].
[3] In tema, ex multis, cfr. la efficace analisi di R. Chiarini, Le ragioni di un cambiamento: la riforma dell’impiego pubblico in Italia, in Riv. it. di scienza della politica, il Mulino, Bologna, n. 2, 2005, p. 289 ss e, in part., p. 307-308, la quale mirabilmente ha osservato: “l’avvicinamento al settore privato, attraverso la piena contrattualizzazione del rapporto d’impiego pubblico, trascura una ovvia diversità di condizioni in cui essa si svolge e delle logiche di azione che muovono gli attori. La contrattazione nel settore pubblico riproduce solo fittiziamente la dinamica della contrattazione nelle imprese private […]. Di conseguenza, l’assenza di un contesto di mercato, la non esposizione alla concorrenza, la possibilità di eludere i vincoli di bilancio, le speciali garanzie occupazionali per i dipendenti e, soprattutto, la natura politica della parte datoriale, rappresentano condizioni strutturali e istituzionali del tutto diverse da quelle presenti nel settore privato […] che certamente accrescono la vulnerabilità del datore pubblico di fronte alle pressioni delle organizzazioni sindacali”.
[4] In tale direzione, cfr. S. Battini, Le fonti della disciplina del rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni: da una regolamentazione unilaterale all’altra ?, in Riv. trim. dir. pubbl., Giuffrè, Milano, n. 3, 2007, p. 627 ss.
[5] Su temi più generali, cfr. anche L. Ieva, “Ritorno al futuro”. Ritorno allo Stato, in Amministrazione in cammino, LUISS, Roma, 28 feb. 2014 [www.amministrazioneincammino.luiss.it].
[6] Cfr. M.S. Giannini, Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato, in Foro amm., Giuffrè, Milano, 1979, sez. II, p. 2667 ss, nonché pubblicato in Foro. it., Zanichelli, Bologna, 1979, V, p. 290 ss. Inoltre, cfr. S. Cassese, Lo stato dell’amministrazione pubblica a vent’anni dal Rapporto Giannini, in Giorn. dir. amm., Ipsoa, Milano, n. 1, 2000, p. 99 ss.
[7] Sul punto, cfr. M.S. Giannini, Rapporto sui principali problemi dell’amministrazione dello Stato, cit., p. 2682-2683 per il quale: “alcuni dei dipendenti pubblici aggiungono al rapporto di servizio un rapporto d’ufficio, quando divengono titolari di un organo dello Stato, e in tale qualità agiscono con atti autoritativi di pubblico potere: sono le persone attraverso le quali si esprimono le potestà pubbliche. Vi è dunque una fascia di pubblici dipendenti che hanno uno status speciale, per essere, in atto o in potenza, i portatori delle potestà pubbliche”, dunque: “C’è allora da chiedersi se un’altra strada percorribile non sia quella di privatizzare i rapporti di lavoro con lo Stato non collegati all’esercizio della potestà pubblica, conservando come rapporto di diritto pubblico solo quello di coloro ai quali tale esercizio è affidato o affidabile, cioè gli attuali direttivi e dirigenti”. Lo stesso Giannini, in altra sede, rilevò la negatività di una concezione pan-pubblicistica del rapporto di pubblico impiego esteso anche a coloro che svolgono mansioni materiali, esprimendosi a favore della privatizzazione di questa parte del personale pubblico, a esclusione dei dirigenti e dei funzionari. In tal senso, cfr. M.S. Giannini, (voce) Impiego pubblico. a) Profili storici e teorici, in Enc. dir., vol. XX, Giuffrè, Milano, 1970, p. 293 ss e, in part., p. 305, il quale, a conclusione della sua profonda analisi, rileva come la assimilazione del pubblico impiego al lavoro privato, possa contribuire a far: “emergere in tutta la sua chiarezza il problema dei funzionari direttivi, per i quali indubbiamente occorrerà una normativa del tutto particolare”.
[8] Si sono pronunciati sulla deludente privatizzazione del lavoro pubblico ex multis: S. Cassese, Il sofisma della privatizzazione del pubblico impiego, in Corr. giur., Ipsoa, Milano, n. 4, 1993, p. 401 ss; L. Ieva, Giudice amministrativo e progressioni interne di carriera, in Funzione pubblica, Ipzs, Roma, n. 3, 2004, p. 207 ss; A. Pozzi, La contrattazione collettiva nel pubblico impiego tra illusioni e delusioni. Dalla legge 421/1992 al d.l. n. 1338/2011, in Giustizia amm., Consiglio di Stato, Roma, n. 10, 2011 [www.giustizia-amministrativa.it]; L. Busico, Brevi riflessioni a 20 anni dall’avvio della privatizzazione del pubblico impiego, in LexItalia, Giuriconsult, Palermo, n. 11, 2012 [www.lexitalia.it].
[9] E’ quanto auspicato da A.M. Petroni, Le riforme della pubblica amministrazione in Italia: una valutazione, in Giorn. dir. amm., Ipsoa, Milano, n. 5, 2013, p. 537 ss con precipuo riferimento alla dirigenza, ma già in precedenza A. Romano, Un (eterodosso) auspicio di una almeno parziale controriforma, in Lav. pubbl. amm., Giuffrè, Milano, n. 2, 2003, p. 265 ss ha auspicato la riconduzione nell’alveo pubblico del personale dirigenziale e di quello direttivo (in particolare, quello già IX ed VIII q. f.), che esplica propriamente le funzioni pubbliche; mentre resta possibile il regime privatistico soltanto per il residuale personale, che non esercita funzioni pubbliche, bensì soltanto mansioni lavorative di collaborazione e di supporto. In materia, cfr. anche R. Cavallo Perin, Le ragioni di un diritto ineguale e le peculiarità del rapporto di lavoro con le amministrazioni pubbliche, in Dir. amm., Giuffrè, Milano, n. 1, 2003, p. 119 ss e C. De Fiores, “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione” ?, in Dir. pubbl., il Mulino, Bologna, n. 1, 2006, p. 149 ss.
[10] Ha notato P. Virga, Ripristinare le qualifiche e rivalutare i “quadri”, in Giustizia amm., Ipzs, Roma, n. 7-8, 2001, p. 859 ss che la cd. contrattazione collettiva, dopo il d.lgs n. 29 del 1993 succ. mod., ha: “umiliati e delegittimati i “quadri intermedi”, che sono invece il nerbo dell’amministrazione”.
[11] Per un caso paradigmatico, cfr. L. Ieva, Conferimento di posizione organizzativa nel lavoro pubblico ed interesse legittimo del dipendente pubblico privatizzato (nota a Tribunale di Trani, sez. lavoro, ord. 22 settembre 2011), in LexItalia, Riv. Internet dir. pubbl., Palermo, Giuriconsult, n. 10, 2011 [www.lexitalia.it].
[12] Cfr. Santi Romano, (voce) Funzionario, in Digesto it., vol. XI, Utet, Torino, 1892-1898, p. 938 ss, osservava: “Lo Stato […] deve nell’esercizio delle sue funzioni, necessariamente servirsi di organi che lo rappresentino, cioè di funzionari. Senza di essi, poiché la sua volontà è in sostanza volontà degli uomini, lo Stato non potrebbe possedere, e tento meno dichiarare ed attuare una sua propria volontà. Da ciò sorge che l’idea di Stato implica necessariamente quella di pubblico funzionario: pubblico funzionario è da un lato colui, la cui volontà, manifestata con date forme, sotto date condizioni e in una sfera ben delimitata di competenza costituisce o concorre a costituire la volontà dello Stato, e, dall’altro lato, colui ch’è incaricato di eseguire tale volontà, quando essa è diretta al conseguimento di un fine pubblico […]”.
[13] Cass. civ., sez. un., 6 febbraio 2003 n. 1807, in Giur. it., Utet, Torino, n. 6, 2003, p. 1244 ss e, in part. p. 1245: “Esiste certamente una spiccata specialità della disciplina del rapporto di lavoro pubblico “contrattualizzato”, data dal sistema delle fonti concorrenti (la legge e il contratto, ma anche gli atti organizzativi, normativi o amministrativi); dal procedimento di formazione dei contratti collettivi di settore e dal sistema di selezione dei soggetti contrattuali; dalla natura giuridica e dagli effetti peculiari dei contratti collettivi; dalla stipulazione del contratto di lavoro con soggetti scelti all’esito di procedimenti amministrativi; dalla sensibile deviazione rispetto a regole fondamentali del lavoro privato […]. Queste peculiarità di disciplina sono, quindi, tali da collocare il rapporto suddetto a metà strada tra il modello pubblicistico e quello privatistico (in questo senso si è espressa la Corte costituzionale nelle sentenze n. 313 del 1996 e n. 309 del 1997)”.
[14] Corte cost. 16 maggio 2008 n. 146, in LexItalia.it, Giuriconsult, Palermo, n. 5, 2008: “Malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee. Per tale motivo è da ritenere ammissibile una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali. La pubblica amministrazione, infatti, conserva pur sempre […] una connotazione peculiare, essendo tenuta al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa”.
[15] C.d.S., Ad. Gen., parere 31 agosto 1992 n. 146, in Foro it., Zanichelli, Bologna, 1993, III, p. 4 ss, secondo il quale esiste una: “diversità ontologica che distingue il lavoro privato dall’impiego pubblico”, per cui: “la cd. privatizzazione, se intesa come totale unificazione della disciplina dell’impiego pubblico e del lavoro privato, non appare possibile, anche alla luce delle disposizioni costituzionali in materia (art. 28, 97, 100, 103, 113)”, difatti: “vi saranno sempre […] molti aspetti per i quali la disciplina dell’impiego pubblico risulterà per sua natura differenziata da quella del lavoro privato”; segnatamente: “in un gran numero di casi la “prestazione lavorativa” richiesta al dipendente pubblico consiste, in tutto o in parte, nell’esercizio di pubbliche funzioni”, in un simile contesto: “pare impossibile ridurre la posizione soggettiva della pubblica amministrazione ad un mero interesse economico-privatistico a conseguire l’effettuazione della prestazione lavorativa da parte del dipendente; laddove è preminente l’interesse, pubblicistico e generale, al corretto esercizio delle pubbliche funzioni a vantaggio della collettività”, inoltre è possibile osservare che: “anche quando la prestazione lavorativa non comporta l’esercizio, in alcuna forma, di pubbliche funzioni, sta di fatto che la pubblica amministrazione opera per il conseguimento di interessi che trascendono la soggettività delle persone fisiche che ne hanno pro tempore la rappresentanza”. Conclude il Consiglio nel senso che: “la “privatizzazione” generale, astratta e globale del pubblico impiego […] non è obiettivamente possibile, giacché né con interventi puramente nominali né con la contrattualizzazione, si può alterare la sostanza di rapporti giuridici, i quali traggono la loro qualificazione dalla natura pubblica degli interessi che vi sono implicati, dai connessi poteri dell’ente pubblico datore di lavoro e dalle stesse strutture in cui sono inseriti”.
[16] Sul punto, amplius, cfr. L. Ieva, La giurisdizione del giudice amministrativo sulle procedure concorsuali interne nel pubblico impiego contrattualizzato, in Foro amm.-C.d.S., Giuffrè, Milano, n. 1, 2004, II, p. 243 ss.
[17] Sul ruolo del sindacato nell’amministrazione italiana, amplius, cfr. B.G. Mattarella, Sindacati e pubblici poteri, Giuffrè, Milano, 2003. Sul punto, cfr. i classici studi di O. Ranelletti, I sindacati e lo Stato, in Riv. trim. dir. pubbl., Giuffrè, Milano, n. 1, 2006, p. 125 ss (ripubblicazione di un saggio del 1920) e di V.E. Orlando, Lo Stato sindacale nella letteratura giuridica contemporanea, in Riv. trim. dir. pubbl., Giuffrè, Milano, n. 1, 2006, p. 162 ss (ripubblicazione di un saggio del 1924).
[18] Così S. Cassese, Il mondo nuovo del diritto. Un giurista e il suo tempo, il Mulino, Bologna, 2008, p. 53.
[19] S. Cassese, L’ideale di una buona amministrazione, cit., p. 34-35.
[20] B.G. Mattarella, Le regole dell’onestà. Etica, politica, amministrazione, il Mulino, Bologna, 2007, p. 43.
[21] Cfr. S. Cassese, Meno Stato e più Stato. Qualche idea per la modernizzazione amministrativa, in Giorn. dir. amm., Ipsoa, Milano, n. 7, 2013, p. 685 ss.
[22] Così Max Weber, La politica come professione (1919), in M. Weber, La scienza come professione. La politica come professione, Mondadori, Milano, 2006, p. 68-69, continua l’illustre autore che senza un corpo di burocrati altamente qualificati: “[…] saremmo fatalmente esposti al pericolo di una terribile corruzione e di un filisteismo generalizzato e ne risulterebbe minacciato anche il funzionamento puramente tecnico dell’apparato statale, la cui importanza per l’economia […] è costantemente aumentata e aumenterà ancora”. Ed è proprio quanto è accaduto in Italia da quando si è rinunciato a far attenzione ai metodi di reclutamento e di progressione in carriera dei pubblici funzionari e degli impiegati della pubblica amministrazione.
[23] Cfr. M. Ainis, La cura. Contro il potere degli inetti per una Repubblica degli eguali, Chiarelettere, Padova, II ed., 2010, in part. p. 21.
[24] L’art. 2095 cod. civ., a ben vedere, non fa altro che delineare la ripartizione fondamentale delle attività svolte nell’ambito di una organizzazione produttiva di grandi dimensioni, che, per l’appunto, vanno dalla attività dirigenziale e vice-dirigenziale (o di quadro, o di direzione, o di supporto alla dirigenza, o specialistica) a quella impiegatizia di livello medio e basso ed ancora a quella meramente di esecuzione materiale delle operazioni. La logica vorrebbe che, ad una suddivisione – si direbbe – “ontologica” delle attività lavorative di tal fatta, corrisponda, secondo principi di coerenza ed efficienza sistematica, un ordinamento professionale ritagliato proprio sulle specificità delle attività svolte, le quali, d’altro canto, richiedono una preparazione teorica ed uno sviluppo delle competenze pratiche diverse per aspetto morfologico e contenutistico.
[25] Cfr. C. cost. 17 marzo 2015 n. 37, in Lav. giur., Ipsoa, Milano, n. 8-9, 2015, p. 799 ss, con commento di I. Bresciani, Limiti all’attribuzione di incarichi dirigenziali a funzionari pivi della elativa qualifica.
[26] Tanto, in disprezzo di quanto stabilito chiaramente dalla legge che prevede la normale conferma nell’incarico in caso di valutazione positiva e della giurisprudenza che in caso di mutamento di incarico prevede l’attivazione di forme trasparenti anche comparative di valutazione (ex multis, cfr.: Cass., sez. lav., sez. un. civ., 23.9.2013 n. 21671: “Le norme contenute nell’art. 19, co. 1, del D.Lgs n. 165 del 2001 obbligano l’Amministrazione datrice di lavoro al rispetto dei criteri di massima in esse indicati, anche per il tramite delle clausole generali di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 Cost. Tali norme obbligano la P.A. a valutazioni anche comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e ad esternare le ragioni giustificatrici delle scelte; laddove, pertanto, l’Amministrazione non abbia fornito nessun elemento circa i criteri e le motivazioni seguiti nella scelte dei dirigenti ritenuti maggiormente idonei agli incarichi da conferire, è configurabile inadempimento contrattuale, suscettibile di produrre danno risarcibile”; Cass., sez. lav., 4.4.2012 n. 5369: “In caso di affidamento di un incarico dirigenziale, anche se tale atto ha natura di determinazione negoziale assunta con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, la PA è obbligata al rispetto delle clausole generali di correttezza e buona fede (art. 1175 e 1375 c.c.), applicabili alla stregua dei principi di imparzialità e di buon andamento di cui all’art. 97 della Costituzione. Le norme contenute nel D.lgs n. 165/2001, all’art. 19, co. 1, obbligano infatti la PA, datrice di lavoro, a valutazioni anche comparative, all’adozione di adeguate forme di partecipazione ai processi decisionali e a rendere noti i motivi della scelta”; Cass., sez. lav., 12.10.2010 n. 21088: “Le previsioni di cui all’art. 19 D.Lgs n. 165 del 2001, laddove prevedono che per il conferimento di ciascun incarico di funzione dirigenziale si tiene conto, in relazione alla natura e alle caratteristiche degli obiettivi prefissati, delle attitudini e delle capacità professionali del singolo dirigente, valutate anche in considerazione dei risultati conseguiti con riferimento agli obiettivi fissati […] obbligano l’amministrazione datrice di lavoro al rispetto degli indicati criteri di massima e, necessariamente, anche per il tramite delle clausole generali di correttezza e buona fede, “procedimentalizzando” l’esercizio del potere di conferimento degli incarichi, rendendo con ciò necessario procedere a valutazioni anche comparative”).
[27] In argomento, cfr. S. Cassese, L’ideale di una buona amministrazione. Il principio del merito e la stabilità degli impiegati, Edit. Scientifica, Napoli, 2007, in part. p. 22, il quale ci riferisce come nel contesto della Rivoluzione francese del XVIII sec.: “la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 proclama che tutti i cittadini possono essere ammessi a tutti gli impieghi pubblici secondo le loro capacità e senza altra distinzione che quella della loro virtù e dei loro talenti”; ugualmente sul punto, cfr. M. Clarich, Manuale di diritto amministrativo, il Mulino, Bologna, 2013, p. 389, il quale, a proposito dell’art. 97 Cost., dopo un’accurata analisi storica delle “oscillazioni” della disciplina giuridica del rapporto pubblico impiego tra il modello pubblicistico ed il modello privatistico, più volte invero ritenuti sia l’uno che l’altro alquanto insufficienti, ci ha ricordato come, durante la Rivoluzione francese: “[…] la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 stabiliva che il concorso consente a tutti i cittadini di accedere ai pubblici uffici “senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei propri talenti” e ciò in contrasto con le prassi precedenti che riservavano invece questo tipo di incarichi alla nobiltà”.
[28] Cfr. expressis verbis A. de Tocqueville, La democrazia in America (1835-1840), Einaudi, Torino, 2006, p. 7, il quale invero nel raccontarci di un suo lungo viaggio negli Stati Uniti, fatto con lo sguardo del profondo ricercatore scientifico, ci illustra quali fossero e, in gran parte, ancora siano i peculiari caratteri fondamentali del popolo americano e di quello europeo, analizzati in un costante confronto parallelo, alla luce di una meticolosa analisi empirica e storica.
[29] Cfr. V. Pareto, Manuale di economia politica (1906), Egea – Univ. Bocconi ed., Milano, 2006, p. 226.
[30] Cfr. ancora V. Pareto, Manuale di economia politica, cit., 305-306.
[31] Sul punto, cfr. N. Irti, Geo-diritto, in Riv. trim. dir. e proc. civ., Giuffrè, Milano, n. 1, 2005, p. 21 ss. Acutamente, osserva Irti (p. 30) come: “Globalizzazione è propriamente caduta dei confini. Se i confini […] generano l’identità dei luoghi, segnano l’appartenenza (linguistica, etnica religiosa) degli uomini […]; ebbene la globalizzazione determina il declino di questo mondo. Il mercato globale riduce i luoghi a un “dovunque”, tutti fungibili e sostituibili, tutti misurati dal grado di profitto”; per cui cfr. p. 33: “Il problema è piuttosto che gli Stati, gli ordinamenti giuridici degli Stati, si offrono alla scelta dell’economia: la quale, distendendosi sull’intero globo e potendo impiantare produzione e scambio qui e lì, calcola costi e benefici dei singoli diritti, e preferisce l’uno e l’altro. Così, all’ordine giuridico del mercato subentra il mercato degli ordini giuridici […]. Non più il diritto determina il luogo dell’economia; ma l’economia sceglie il luogo del diritto”. Oramai ampia è la letteratura in mateia di “globalizzazione”, ex multis, vedi: A. Giddens, L’Europa nell’età globale, Laterza, Bari, 2007. Sulla globalizzazione, in generale, vedi: M. R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione, il Mulino, Bologna, 2000; S. Cassese – G. Guarino (a cura di), Dallo Stato monoclasse alla globalizzazione, Giuffrè, Milano, 2001; A. Baldassarre, Globalizzazione contro democrazia, Laterza, Bari, 2002; S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, Laterza, Bari, 2003; S. Cassese, Oltre lo Stato, Laterza, Bari, 2006; S. Cassese – M. Conticelli (a cura di), Diritto e amministrazioni nello spazio giuridico globale, Giuffrè, Milano, 2006. Inoltre, vedi: M. R. Ferrarese, (voce) Globalizzazione. Aspetti istituzionali, in Enc. scienze sociali, vol. IX, Treccani, Roma, 2001, p. 156 ss; S. Cassese, Lo spazio giuridico globale, in Riv. trim. dir. pubbl., Giuffrè, Milano, n. 2, 2002, p. 323 ss; G. M. Flick, Globalizzazione delle regole e fondazione dei valori: l’esperienza europea, in Pol. dir., il Mulino, Bologna, n. 2, 2002, p. 197 ss; G. Azzariti, Il futuro dei diritti fondamentali nell’era della globalizzazione, in Pol. dir., il Mulino, Bologna, n. 3, 2003, p. 327 ss; S. Cassese, Gamberetti, tartarughe e procedure: standards globali per i diritti amministrativi nazionali, in Riv. trim. dir. pubbl., Giuffrè, Milano, n. 3, 2004, p. 657 ss; I. M. Marino, Diritto, amministrazione, globalizzazione, in Dir. econ., Mucchi, Modena, n. 1, 2005, p. 25 ss; D. Zolo, (voce) Globalizzazione, in Dig. disc. pubbl., vol. II agg., Utet, Torino, 2005, p. 378 ss; S. Battini, L’impatto della globalizzazione sulla pubblica amministrazione e sul diritto amministrativo: quattro percorsi, in Giorn. dir. amm., Ipsoa, Milano, n. 3, 2006, p. 339 ss; M. R. Ferrarese, Diritto sconfinato. Inventiva giuridica e spazi nel mondo globale, Laterza, Bari, 2006; D. Zolo, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Bari, 2006.
Contributo interessante e utile. Personalmente non concordo su due punti : 1) la precarietà del dirigente non è per forza un male. Un incarico a tempo non deve presupporre maggiore possibilità di corruzione di uno in cui si e inamovibili, anzi. La durata ottimale in un ruolo e o presso uno stesso datore di lavoro e’ tra i 3 e i 9 anni, poi è salutare cambiare 2) per una società meritocratica e’ più giusto vi siano stesse regole tra pubblico e privato (level plain field).
Il problema è che tra pubblico (inteso come P.A. in senso stretto) e privato non esistono uguali condizioni di partenza. Nel pubblico, i rapporti tra forza datoriale e forza lavoratrice si presentano esattamente a parti invertite, rispetto al privato. Tanto per mille motivazioni, che sarebbe molto lungo illustrare. Basti pensare che un dirigente, un funzionario, un impiegato, un operatore qualsiasi di un qualsiasi ente pubblico sono, quasi sempre, iscritti ad una delle consuete sigle sindacali. Non esiste un’associazione “Confindustria” dei dirigenti. Le organizzazioni sindacali che si rivolgono ai dirigenti nel pubblico sono poco rappresentative.
La componente pubblicistica (Legge, regolamento, etc.), nella PA, ha proprio lo scopo di “compensare” il gap che esiste nel rapporto tra pubblico e privato. Ha una funzione, per così dire, di “riequilibrio” delle forze in campo.
In ordine alla gestione del personale pubblico, per carriere, com’era un tempo, va ricordato che questo sistema era molto motivante, dava una prospettiva di lungo periodo, a ridosso del cd. “scatto” in carriera, il personale era motivato e molto attento sul lavoro, non tutti “scattavano” nel medesimo anno, e quindi ogni anno vi era una certa aliquota di dipendenti, quelli che potevano essere promossi, molto attenti sul lavoro, il personale non si sentiva giudicato in confronto di altri, ma solo valutato individualmente, e questo eliminava deleterie rivalità sul luogo di lavoro.
Piaccia o meno, il pubblico (quello che serve e deve servirne sempre meno, ma in settori essenziali), in Italia (altrove può essere diverso), si ritrova in una condizione profondamente differenziata rispetto al privato, e questa differenziazione va capita, altrimenti si finisce, per una ineluttabile eterogenesi dei fini, per conseguire risultati opposti a quelli pensati, come è accaduto finora con la riforma del rapporto di pubblico impiego fatta agli inizi degli anni Novanta (L. 421 del 1992).
Il nostro sistema istituzionale e amministrativo è molto simile a quello francese, per mille motivi, storici e culturali, basterebbe “copiarlo”, con opportune modificazioni. In Francia, mi sembra che lo Stato funzioni e il pubblico dipendente pure.
Un organizzazione datoriale ci sarebbe ed e’ la Cida. Al loro interno ho visto fare ottime cose ad Anp.
Il modello francese e’ secondo me bello, ma insostenibile per la crescita sana di un economia. Credo che la Francia sia il vero malato d’Europa e rischia di trascinare tutti nel baratro della conservazione e del sottosviluppo. Vedo meglio funzionanti in termini di crescita e meritocrazia i modelli anglosassoni o del nord Europa.
In generale preferisco che i modelli organizzativi vengano tratti da casi di successo in sistemi con risorse scarse e competizione e non da sistemi monopolistici con risorse infinite (come e’ stata la Pa in passato) o peggio da principi astratti. Argomento molto interessante che meriterebbe grande dibattito e studio in modo aperto a molte discipline (scienze sociali, economiche, imprenditoriali, giurisprudenziali) e non autoreferenziale.
Indubbiamente i due sistemi ( priv. e pubb) devono essere calati sino in fondo e una riforma
parziale rischia di essere pericolosa. Per ordine storico e logico porterei a compimento il passaggio al sistema privatistico lasciata a meta’ strada. In alternativa si può tornare ad un modello pubblicistico ma lo stato non dovrebbe praticare più del 5/10% delle attività economiche di una nazione (forze armate, giustizia, sicurezza , organi costituzionali). Il
resto andrebbe privatizzato comunque.