FREE – L’equivoco della sentenza semplificata nella legge di stabilità 2016
PIER GIORGIO LIGNANI, L’equivoco della sentenza semplificata (note a margine della disciplina prevista dai commi 777 e 781 della legge di stabilità 2016 per assicurare la ragionevole durata del processo).
PIER GIORGIO LIGNANI
(Presidente di Sez. del Consiglio di Stato)
L’equivoco della sentenza semplificata
1. La legge “di stabilità”, n. 208 del 28 dicembre 2015, contiene, fra l’altro, importanti innovazioni alla disciplina della riparazione per violazione del termine ragionevole della durata del processo. Tali disposizioni sono contenute nell’art. 1, comma 777, della legge.
Fra le innovazioni più rilevanti vi è la previsione di una serie di “rimedi preventivi” ossia di iniziative processuali delle parti per accelerare e semplificare il corso del processo; con la rilevantissima precisazione che solo chi ha esperito (almeno) uno dei “rimedi preventivi” previsti avrà diritto all’equa riparazione se nonostante tutto sarà violato il termine ragionevole.
Altra innovazione di notevole importanza è un elenco di casi nei quali si presumerà insussistente (e dunque non indennizzabile) il danno da ritardo: come il caso dell’imputato che ha usufruito della prescrizione del reato, o più in generale quello della parte che dalla lunga durata del processo abbia ritratto un vantaggio patrimoniale.
2. Per quanto riguarda il processo amministrativo, il “rimedio preventivo” messo a disposizione delle parti – e che dunque “deve” essere esperito perché si abbia in seguito diritto alla riparazione del danno da ritardo – è la “istanza di prelievo” di cui l’art. 71, comma 2, del codice del processo amministrativo.
L’art. 1, comma 781, della legge n. 208/2015, inoltre, introduce nel codice del processo amministrativo un articolo 71-bis, del seguente tenore: «A seguito dell’istanza di cui al comma 2 dell’articolo 71, il giudice, accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria, sentite sul punto le parti costituite, può definire, in camera di consiglio, il giudizio con sentenza in forma semplificata».
3. La nuova disposizione deve essere decifrata.
3.1. In base all’art. 71, comma 2, l’istanza di prelievo comporta, in sostanza, il potere-dovere dell’ufficio giudiziario di verificare sommariamente le ragioni d’urgenza rappresentate dalla parte, e quindi di fissare la trattazione del ricorso con una certa anticipazione rispetto ai ricorsi per i quali non vengano rappresentate esigenze analoghe.
L’effetto naturale dell’istanza, dunque, è solo una relativa alterazione nell’ordine di trattazione dei ricorsi, restando invariato il numero complessivo delle cause decise nel medio e nel lungo periodo. L’accelerazione di una causa viene ottenuta a spese delle altre. L’art. 71, comma 2, non si propone di incrementare la produttività degli uffici e l’efficienza del sistema giustizia.
3.2. L’ispirazione della nuova disposizione (l’articolo 71-bis) è invece quella di aggiungere agli effetti dell’art. 71, comma 2 (utili solo a chi presenta l’istanza, quando lo sono), anche un’accelerazione complessiva, sia pure relativa. Sono introdotti, infatti, due espedienti che dovrebbero (nell’intenzione del legislatore) oltre che anticipare la trattazione di quella determinata causa, anche renderla più breve; con un vantaggio, dunque, per l’intero sistema.
3.3. I due espedienti escogitati sono i seguenti:
(a) la trattazione in camera di consiglio, anziché in udienza pubblica;
(b) la pronuncia di una sentenza «in forma semplificata».
4. La formulazione dell’art. 71-bis appare palesemente ricalcata su quella dell’art. 60, che permette la definizione immediata della controversia all’esito della camera di consiglio. Disposizione, quest’ultima, che è una delle poche (se non l’unica) davvero efficace per l’accelerazione dei tempi della giustizia amministrativa.
Qui peraltro affiora un primo equivoco. La ragione essenziale degli effetti utili dell’art. 60, c.p.a. (e prima di questo dell’art. 9 della legge n. 205/2000, che ne aveva anticipato il contenuto) sta nella possibilità di “saltare” dalla fase cautelare alla decisione del merito, seduta stante, per iniziativa del giudice (alla quale le parti non possono opporsi se non rappresentando serie esigenze difensive). La camera di consiglio nella quale la causa viene decisa ai sensi dell’art. 60 è quella già convocata e in corso di svolgimento per l’esame della domanda cautelare. Si eliminano tutti gli incombenti relativi alla convocazione dell’udienza pubblica, all’inerente attività difensiva, e via dicendo; si eliminano anche gli incombenti relativi alla pronuncia, alla stesura ed alla pubblicazione dell’ordinanza cautelare (che scompare) sostituiti da quelli relativi alla sentenza definitiva, i quali prima o poi si sarebbero comunque dovuti eseguire. Donde un effettivo, e rilevante, risparmio di lavoro per i magistrati e per le segreterie, e anche per gli avvocati, ancorché questi ultimi non sempre lo apprezzino.
La camera di consiglio prevista dal nuovo art. 71-bis, invece, deve essere fissata appositamente, né più né meno dell’udienza pubblica che comunque si dovrebbe fissare per effetto dell’art. 71, comma 2. In pratica la differenza fra le due ipotesi è che in un caso la trattazione della causa segue il rito ordinario, nell’altro caso quello camerale (art. 87, c.p.a.).
Gli incombenti preliminari (decreto di fissazione, comunicazione alle parti, deposito di documenti e memorie, etc.) e i relativi tempi tecnici sono sempre gli stessi, sia che gravino sull’ufficio sia che gravino sulle parti. La sola differenza è che i termini sono più brevi (preavviso alle parti di trenta giorni invece che sessanta, etc.) ma non è questo che possa rendere il giudizio più spedito, e il sistema giustizia più efficiente.
5. Ci si chiede ora se il risparmio di tempo e di attività derivi dal fatto che la decisione venga pronunciata “in forma semplificata”.
Qui emerge un secondo, ma ben più rilevante equivoco.
E cioè che la sentenza c.d. semplificata (detta in gergo anche “sentenza breve”) sia un provvedimento tipico, con proprie caratteristiche giuridiche e formali che lo distinguono dalla sentenza “normale”, all’incirca come l’ordinanza si distingue dalla sentenza; di tal che sia materialmente possibile per il giudice scegliere, caso per caso, anche a seconda del rito, se emettere un provvedimento di un tipo piuttosto che dell’altro.
Invece, dal punto di vista giuridico e formale non vi è alcuna differenza fra la sentenza “semplificata” e quella “normale”. La differenza riguarda solo la complessità e l’ampiezza della motivazione; ma la motivazione sarà più o meno “semplificata”, o non la sarà affatto, nella misura in cui lo consentano la complessità e l’ampiezza delle domande, delle eccezioni e delle argomentazioni delle parti.
6. Invero, la motivazione della sentenza (per quanto l’estensore si proponga di essere sobrio) non può che conformarsi alle difese delle parti. Il mancato esame di una domanda (se del caso anche istruttoria) o di una eccezione è motivo di appello; e se si tratta di sentenza di ultimo grado è motivo di revocazione.
Anche il mancato esame di un’argomentazione difensiva (non qualificabile come autonoma domanda o eccezione) può essere motivo di appello, quanto meno se si trattava di un’argomentazione rilevante (ma nell’ottica della parte lo sono tutte).
Quanto all’ipotesi di revocazione, si segnala una sentenza molto recente resa appunto in un giudizio di revocazione (Cons. Stato, sez. III, 30 dicembre 2015, n. 5879) nella quale fra l’altro si legge: «Se è vero che può farsi rientrare nella previsione dell’art. 395, n. 4, c.p.c., anche l’omesso esame di una domanda o di una eccezione (nel senso che l’omesso esame dimostra la mancata percezione e quindi la «supposta inesistenza di un fatto – la domanda o l’eccezione – la cui verità è positivamente stabilita»), non si può dire altrettanto per ciascuna delle svariate argomentazioni esposte a sostegno della suddetta domanda o eccezione. Non si può infatti ammettere che il giudice sia tenuto – pena incorrere in un vizio revocatorio – a confutare distintamente ed esplicitamente ciascuno degli argomenti addotti a sostegno di una tesi di parte; basta che esponga, in positivo, le ragioni per cui la giudica infondata».
Ma è onesto avvertire che su questo punto le opinioni non sono unanimi e non si può escludere che la costante pressione delle parti per l’espansione dei mezzi di tutela induca ad interpretazioni sempre più estensive dei presupposti della revocazione.
7. Quindi, l’invito del legislatore a scrivere “sentenze semplificate” nelle cause qualificate urgenti dalla presentazione di un’istanza di prelievo appare puramente velleitario.
8. Se poi per “sentenza semplificata” s’intende null’altro che un testo che si limita allo stretto necessario ed elimina il superfluo, allora si deve dire che tutte le sentenze debbono essere “semplificate” – a prescindere dal rito più o meno sommario e/o urgente.
E’ vero che si leggono sentenze che dichiarano l’inammissibilità del ricorso per una ragione preliminare di rito, o addirittura dichiarano la cessazione della materia del contendere, non senza però avere premesso, nel “fatto”, una laboriosa quanto inutile cronistoria della vicenda amministrativa, nonché una minuziosa esposizione dei motivi di ricorso e delle relative eccezioni e controdeduzioni. Così come si leggono motivazioni nelle quali abbondano le digressioni e gli obiter dicta, e chilometriche citazioni di precedenti favorevoli e contrari. Parecchi valenti magistrati ritengono anzi che ciò sia doveroso.
Personalmente sono convinto del contrario; ma in astratto si potrebbe discuterne. In concreto no: un minimo di senso di responsabilità dovrebbe impedire a priori persino di parlarne.
L’anno 2016 si apre con circa 26.500 ricorsi giurisdizionali pendenti davanti al Consiglio di Stato, con una capacità di smaltimento che, negli ultimi anni, ha consentito molto a fatica di smaltire ogni anno circa dieci o undicimila ricorsi, cioè tanti quanti ne entrano annualmente (ivi incluso un buon numero di appelli su ordinanze cautelari, i quali intuitivamente vengono definiti rapidamente e non ingrossano la pendenza storica). Quindi la giacenza complessiva di venticinque o ventiseimila ricorsi permane più o meno stabile, anche se fortunatamente i più vecchi vengono via via eliminati.
Quanto detto ora si riferisce, ripeto, alla situazione esistente all’inizio dell’anno 2016. Proprio negli stessi giorni, però, com’è noto, i quadri del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali hanno subìto un colpo durissimo per l’applicazione, a scoppio relativamente ritardato, del decreto legge n. 90/2014 con la riduzione dei limiti di età.
In questa situazione, attenersi al modello della “sentenza semplificata”, eliminando ogni elemento superfluo nei limiti in cui la causa lo consente, è divenuto indispensabile con qualunque rito.
Per quel che possa valere la mia opinione, condivido l’analisi del Pres. Lignani e ne apprezzo la lucidità.
Lucidità che, purtroppo, manca al testo di legge.
Ipotizzato che il giudice, quando procederà ex comma 777, cit., debba fissare l’udienza camerale (altrimenti non si spiegherebbe l’inciso “sentite le parti”), l’unico presupposto per il nuovo rito sembra essere la completezza del contraddittorio (oltre che dell’istruttoria, ma questo, a ben vedere, appartiene anche al merito della domanda).
Completezza del contraddittorio non significa, però, che tutte le parti intimate o che abbiano interesse a partecipare al processo si siano costituite. Significa invece che alle parti necessarie il ricorso deve essere stato semplicemente notificato.
Il che è quanto capita pure quando il giudice decide in forma semplificata all’esito dell’udienza cautelare.
Tuttavia, in questo secondo caso, le parti diverse dal ricorrente ben sono in grado di valutare questa eventualità, perché pur sempre l’istanza cautelare deve essere loro notificata. Non così vale per l’istanza di prelievo, della quale è previsto il solo deposito.
Pertanto ben può accadere che la parte resistente o controinteressata, se non ancora cosituite in giudizio perché confidenti nell’assenza della domanda cautelare, possano subire, ignare, la sentenza semplificata se, all’atto del deposito del ricorso, la parte che abbia promosso la lite abbia avuto cura di depositare, contestualmente, anche l’istanza di prelievo.
In tesi, questo potrebbe avvenire pure nell’ipotesi in cui non siano scaduti i termini (ordinatori per le parti; dilatori per il giudice, quanto alla fissazione dell’udienza di merito) dell’art. 46 c.p.a.
Non si capisce infine perché sarebbe, a questo punto, nulla una sentenza pronunciata dal Tribunale resa all’esito di una udienza pubblica, ma senza che siano stati rispettati i termini a difesa dell’art. 71, comma 5, c.p.a., mentre non sarebbe nulla una sentenza, per di più in forma semplificata (e quindi succintamente motivata), pronunciata all’esito di una udienza di camera di consiglio. Ammesso pure che detta nel fissare l’udienza di camera di consiglio, di cui al comma 777, cit., il giudice sia tenuto a rispettare (in virtù di un procedimento analogico tutto da approfondire) i ben meno garantisti termini dell’art. 55, comma 5, c.p.a.
In definitiva, a mio parere, la novella introdotta dalla legge n. 208/2015 è forse stata non sufficientemente meditata, rivelandosi probabile frutto di un’emotività, nella produzione giuridica, dalla quale sarebbe opportuno guardarsi.
Un effetto non considerato delle nuove disposizioni contenute nei commi 777 e 781 della legge di stabilità 2016 – veri e propri “espedienti” come giustamente definiti dal Pres. Lignani – è che non solo tutti i ricorrenti, per non precludersi la possibilità almeno di ottenere il magro indennizzo previsto dalla c.d. legge Pinto, prevedibilmente presenteranno una istanza di prelievo (con buona pace della istanza di fissazione, che diventerà nuovamente un doppione superfluo e soprattutto con un aggravio di lavoro), ma anche che la decisione se fissare o meno una apposita camera di consiglio spetterà nuovamente ad un organo monocratico (il Presidente della Sezione alla quale è stato assegnato il ricorso) piuttosto che al Collegio.
Il codice, nel prevedere il criterio cronologico nella fissazione dei ricorsi, aveva in apparenza cancellato tale potere. Si ripropone quindi il tema del potere presidenziale di fissazione dei ricorsi, un potere questo che in passato non sempre è stato esercitato in modo del tutto imparziale e che, tuttavia, ha un grande rilievo.
Come venire a capo del delicato problema?
Mi permetto di riproporre l’idea (già avanzata in sede di discussione circa il nuovo codice del processo amministrativo: v. il mio articolo intitolato “Rapporti tra tutela cautelare e tutela di merito nel processo amministrativo” – relazione al Convegno Nazionale di Studi “La codificazione del processo amministrativo: riflessioni e proposte”, Siracusa, 30 e 31 ottobre 2009, in LexItalia.it, n. 11/2009, pag. http://www.lexitalia.it/p/92/virga_processo.htm) di fissare per tutti i ricorsi per i quali è stata avanzata una domanda di prelievo una camera di consiglio preliminare, in modo tale che sia l’intero collegio a decidere quale sia il ricorso meritevole di essere definito con sentenza emessa in forma abbreviata.
In quella occasione – con una camera di consiglio che funge da udienza preliminare, sulla falsariga del cd. modello di Stoccarda – il collegio potrebbe anche valutare se occorre una attività istruttoria e quali mezzi siano all’uopo da ammettere. La lettera della norma lo consente: il comma 781 fa riferimento genericamente al “giudice”, senza indicare se monocratico (presidente) o collegiale.
Già prevedo l’obiezione per tale soluzione: una camera di consiglio preliminare comporterebbe un ulteriore aggravio di lavoro. Ma è sempre meglio che lasciare la decisione al Presidente di Sezione, che già è pressato da tutti i lati. In ogni caso, a mio avviso, sia pure informalmente, senza la presenza dei difensori, la questione preliminare della fissazione o meno della camera di consiglio e della necessità o meno di mezzi istruttori, andrebbe affrontata collegialmente, piuttosto che dal solo Presidente. Così sembra ricavarsi anche dal testo (sia pure vago) della norma.
La vera questione è comunque quella posta alla fine dell’interessantissimo scritto del Pres. Lignani: i magistrati amministrativi sono troppo pochi e rischiano di divenire ancora meno a causa delle improvvide norme degli ultimi tempi sui pensionamenti.
Occorrerebbe prevedere dei concorsi straordinari (magari riservati ad avvocati con una certa anzianità; preciso subito che io non sono in ogni caso interessato) per rimpinguare i ruoli e, per il pregresso, prevedere delle apposite sezioni stralcio piuttosto che applicare quel “mostro giuridico” che, lo ripeto, è stato, è, e sarà la cd. perenzione straordinaria dei ricorsi.
Come dimostrerà probabilmente l’applicazione pratica della nuova norma, la coperta è ormai troppo corta e, tirandola da troppi lati, si rischia seriamente di strapparla. Con essa si accentua ancor più la tendenza di trasformare il processo amministrativo in un processo a due velocità: un processo ad alta velocità per i cd. procedimenti abbreviati ed ora anche per quelli per i quali è stata presentata domanda di prelievo ed il Presidente (od il Collegio, come da me proposto) riterrà di fissare una camera di consiglio; un processo a scartamento ridotto invece per tutti gli altri ricorsi.
Con il serio rischio, per l’affollarsi delle cause alle quali è riservata l’alta velocità, di trovarsi ingolfati – in mancanza di un adeguato potenziamento degli organici – in una serie di controversie nominalmente ad alta velocità ma per le quali, in pratica, perfino la camera di consiglio diventa un miraggio.
P.S. (semiserio): mi permetto di notare infine che il “coniglio” estratto di recente dal cilindro del legislatore (e cioè la c.d. istanza di prelievo) non costituisce affatto una novità.
Prima ancora del codice, che l’ha prevista in via positiva ed istituzionalizzata, l’istanza di prelievo già esisteva nella prassi sotto tre forme: a) la istanza di prelievo semplice; b) la istanza di prelievo motivata; c) la cd. “supplica” (così chiamata nel gergo forense e cioè la lettera personale al Presidente, con la quale si elencavano i ricorsi aventi maggiore urgenza).
La nuova norma rischia di reintrodurre la “supplica”.
Anche a mio parere il meccanismo di definizione dei ricorsi introdotto dal nuovo art. 72 bis del c.p.a., presenta forti analogie con il giudizio immediato previsto dall’art. 60 e, aggiungerei, anche con la sollecita fissazione della udienza di merito di cui al comma 10 dell’art. 55.
La camera di consiglio convocata a seguito della presentazione della istanza cautelare oramai da tempo è divenuta uno snodo che dà accesso a varie modalità di definizione accelerata dei giudizi. In tale sede, infatti, il ricorso può essere definito tramite sentenza semplificata oppure può essere sollecitamente fissata l’udienza per la sua trattazione nel merito.
Le ragioni sottese ai due meccanismi acceleratori sono diverse: la decisione con sentenza in forma semplificata risponde all’esigenza di non caricare sul ruolo ricorsi che alla udienza camerale si presentino già maturi per una decisione immediata, mentre la sollecita fissazione della udienza di trattazione costituisce una misura volta a tutelare le ragioni d’urgenza prospettate dal ricorrente tutte le volte in cui il periculum non sia tale da imporre l’adozione di una pronuncia interinale.
Entrambi i percorsi, tuttavia, portano alla abbreviazione dei tempi del processo e trovano il loro snodo nella camera di consiglio convocata per la decisione sulla istanza cautelare.
Con l’articolo 72 bis del codice il legislatore ha inteso doppiare il meccanismo sopra descritto utilizzandolo, questa volta, non per prevenire il sovraccarico dei ruoli ma per favorire lo smaltimento dell’arretrato.
Viene, infatti, prevista una inedita camera di consiglio che ha la funzione di verificare se sussistano i requisiti per la definizione del ricorso con sentenza semplificata e l’atto di impulso processuale per la convocazione di tale udienza camerale è dato dalla presentazione di una istanza di prelievo.
In tal modo, le ragioni d’urgenza segnalate nella istanza di prelievo non comportano più solo una possibile deroga all’ordine cronologico di trattazione dei ricorsi ma debbono essere valutate anche ai fini della convocazione di una camera di consiglio dalla quale può scaturire una sentenza in forma semplificata.
Il meccanismo acceleratorio prefigurato dalla norma presenta tuttavia dei punti oscuri.
In primo luogo non è chiaro quale ruolo debbano giocare nella sua applicazione il presidente ed il collegio.
Rimane, inoltre, il dubbio se la presentazione della istanza comporti l’obbligo di fissare la camera di consiglio o se la convocazione della udienza camerale costituisca una semplice facoltà che il presidente può esercitare a sua discrezione.
Si potrebbe ipotizzare uno sdoppiamento della valutazione della istanza ex art. 72 bis riservando al presidente il vaglio delle ragioni d’urgenza prospettate dal ricorrente ai fini della fissazione della camera di consiglio ed al collegio l’accertamento dei presupposti (completezza della istruttoria, del contraddittorio, manifesta fondatezza o infondatezza etc.) per la definizione del ricorso con sentenza in forma breve.
Un sistema siffatto, appare, tuttavia, macchinoso: cosa accade, infatti, se dopo la convocazione della camera di consiglio il collegio ritiene che non vi siano i presupposti per la decisione in forma semplificata? E’ probabile che, in tal caso, la palla torni al presidente al quale, a quel punto, non rimarrebbe che anticipare la trattazione del merito del ricorso in udienza pubblica (avendo già favorevolmente apprezzato la sussistenza delle ragioni d’urgenza prospettate dal ricorrente al momento della fissazione della camera di consiglio).
Ritengo per questo preferibile la soluzione ipotizzata dal Prof. Virga secondo cui una volta presentata l’istanza di prelievo la fissazione della camera di consiglio da parte del presidente dovrebbe essere obbligatoria, come, del resto, la stessa rubrica della norma sembra suggerire.
Una volta fissata la camera di consiglio il collegio verrebbe investito di ogni decisione ed avrebbe di fronte a sé tre possibili strade: la pronuncia in forma semplificata, la sollecita fissazione della udienza di trattazione del merito, la remissione del ricorso sul ruolo cronologico.
In tal modo, ove non sussistano i presupposti per la adozione della decisione immediata ma vi sia una positiva valutazione delle ragioni d’urgenza poste alla base della istanza, queste verranno soddisfatte attraverso un’anticipazione della udienza di discussione sulla falsariga di quanto prevede il comma 10 dell’art. 55, eventualmente previo ordine di integrazione del contraddittorio e disposizione dei mezzi istruttori ritenuti necessari.
Mi pare che questa proposta interpretativa valorizzi la vera novità che l’art. 72 bis contiene che è quella di collegare l’istanza di prelievo non più ad una attività di mera organizzazione dei ruoli delle udienze pubbliche ma ad una vera e propria attività giurisdizionale, facendo così transitare la natura di tale atto dallo schema della mera sollecitazione a quello della domanda.
Certo una siffatta soluzione porta con sé il pericolo di una crescita notevole del carico delle camere di consiglio già gravate dai cautelari e dai ricorsi afferenti i riti speciali come l’accesso, il silenzio e il giudizio di ottemperanza.
Tuttavia tale problema dovrà essere risolto regolamentando in sede di organo di autogoverno il numero massimo di ricorsi che può essere portato alle udienze camerali per effetto della presentazione delle istanze di prelievo (non operando per la camera di consiglio ex art. 72 bis il comma 3 dell’art. 87 che prevede un termine fra la costituzione delle parti intimate e la fissazione della camera di consiglio), anche per evitare la disomogeneità che deriverebbe dall’affidamento a ciascun presidente di sezione di tale delicato compito.
Raffaello Gisondi