FREE: il Pres. Giacchetti sulla proposta agostana di abolire il G.A.

SALVATORE GIACCHETTI, La sagra estiva della caciara sulla giurisdizione amministrativa e sul PIL con un inquietante sfondo di poteri forti.



SALVATORE GIACCHETTI*

La sagra estiva della caciara sulla giurisdizione amministrativa
e sul PIL
con un inquietante sfondo di poteri forti



1- Il Prof. Gerardo Villanacci, ordinario di diritto civile presso l’Università Politecnico delle Marche, il 4 agosto scorso ha pubblicato sul Corriere della sera un articolo dal titolo “La giustizia amministrativa che rallenta il Paese” (il cui testo è stato riportato anche nella presente rivista), in cui, premesso che intende “buttarla in caciara”, beninteso non nel senso tradizionale della locuzione “bensì in quella più subdola utilizzata da chi vuole semplicemente guadagnare tempo, fare confusione”, ha espresso l’avviso che la giurisdizione amministrativa costituirebbe un freno allo sviluppo economico del Paese, dal momento che consentirebbe di abusare del processo amministrativo per finalità strumentali; il che, a conti fatti, per il ricorrente sarebbe più conveniente che rispettare gli impegni assunti.

L’articolo è stato oggetto di un vivace commento del Prof. Giovanni Virga, che, ricordato un analogo intervento a gamba tesa sulla giurisdizione amministrativa effettuato nell’agosto del 2014 da Romano Prodi con l’articolo “Abolire TAR e Consiglio di Stato per non legare le gambe all’Italia”, ha rilevato come ormai ogni anno nel mese di agosto, quando le informazioni scarseggiano, appare un articolo che immancabilmente propone di abolire la giurisdizione amministrativa; ed ha invitato i lettori di lexitalia.it ad ulteriori interventi sull’argomento evitando di fare caciara.

Provo a rispondere a questo invito.

2- Ricordo che nel citato articolo l’esimio Professore di economia Romano Prodi:

– riferiva che un potenziale (peraltro imprecisato) investitore in Italia gli aveva confidato che “per l’incertezza su ogni decisione economica per effetto del modello organizzativo della nostra giustizia amministrativa….se si abolissero i TAR e il Consiglio di Stato il nostro PIL assumerebbe subito un cospicuo segno positivo”; e ciò “non solo senza spese ma con copiosi risparmi”;

– premetteva “Non sono un giurista”;

– lamentava comunque “che il ricorso a questi tribunali è diventato ormai un fatto normale ogni volta in cui si procede ad un appalto o che sia pronunciato l’esito di un concorso pubblico o una qualsivoglia decisione che abbia un significato economico”, il che “blocca regolarmente e per anni gli investimenti infrastrutturali, ferma per periodi quasi indefiniti i concorsi universitari e viene usato per scopi che il buon senso ritiene del tutto estranei a un efficace difesa dei diritti”, giungendo al punto che addirittura “si ferma regolarmente l’assegnazione degli acquisti pubblici decisi da un organo dello Stato come la Consip, che è stato creato proprio per fornire una sicura garanzia nel delicato campo degli acquisti della Pubblica Amministrazione” (autorevole certificazione di “sicura garanzia” che, sulla base di quanto è poi emerso, fa quanto meno dubitare della concreta competenza in materia dell’esimio Professore);

– concludeva: “Non essendo giurista” (ripetizione peraltro del tutto pleonastica: a quel punto ce n’eravamo già accorti da soli) “non riesco a suggerire rimedi che non cadano poi nella rete degli azzeccagarbugli ma, nella difficile realizzabilità dell’abolizione dei TAR, chiedo di essere aiutato a fare in modo che i ricorsi siano ammessi nei rari casi in cui conviene che siano ammessi (cinque o dieci per cento dei ricorsi ammessi oggi?), che siano accompagnati dalle opportune garanzie finanziarie, che i ricorsi dichiarati infondati provochino le logiche conseguenze negative a chi li ha sollevati e che siano decisi nei tempi coerenti con l’obiettivo di non legare le gambe all’Italia.

Possibile che non ci sia qualche giurista disposto ad aiutarmi nel risolvere questo problema?

In sintesi, l’esimio economista, in nome della tutela dell’economia nazionale, bandiva una vera e propria crociata contro la giurisdizione amministrativa, sulla base di un vivace razzismo professionale nei confronti dei giuristi (indiscriminatamente confinati nella spregiata categoria degli “azzeccagarbugli”); razzismo appena temperato dall’invito a “qualche giurista” (e cioè – parrebbe – a quei pochi che la pensavano come lui e quindi non rientravano nella massa indifferenziata degli azzeccagarbugli) ad unirsi agli economisti (che invece – sembrava – sarebbero stati tutti quanti d’accordo con lui e quindi portatori della verità) in una lotta comune.

Con un successivo articolo dal titolo ultimativo, comparso su Il Messaggero del 4 maggio 2015, il Prof. Prodi “Ecco le condizioni perché la riforma della burocrazia avviata da Renzi possa andare in porto”, riprendeva il suo Mein Kampf sull’argomento, affermando che “lo spazio di intervento sempre più ampio e indefinito della magistratura amministrativa e ordinaria costituisce un sistematico elemento di aggravio di tempi e dei costi”, precisando di volere solo “evitare che le istituzioni nate come mezzi di tutela diventino uno strumento per calpestare i diritti degli altri”; e così, con termini sapientemente ambigui, sostanzialmente ribadiva un collegamento tra la lentezza e la almeno potenziale iniquità dell’esercizio della giurisdizione amministrativa, a cui questa volta accomunava (bontà sua) la giurisdizione ordinaria, lasciando intendere che entrambe, per la loro intrinseca inadeguatezza, possono rivelarsi “un sistematico elemento di aggravio di tempi e dei costi”, a differenza – si sottintendeva – della libera iniziativa economica, foriera di progresso economico e sociale a condizione che venga sciolta dai sempre tanto deprecati “lacci e laccioli” (tra i quali, appunto, la giurisdizione amministrativa).

Le citate considerazioni meritano una puntualizzazione sia sul piano logico sia sul piano costituzionale, sia sul piano economico sia sul piano etico-politico.

3– Sul piano logico c’è un evidente errore sistematico di partenza: quello di mettere a confronto due interessi non omogenei e quindi non comparabili: l’interesse alla giustizia nell’amministrazione e l’interesse alla libertà dell’iniziativa economica. Sulla base di questo errore si può affermare, fondatamente, tutto quello che si vuole: perché vero è che per gli investimenti infrastrutturali e i concorsi qualsiasi processo costituisce “un elemento di aggravio di tempi e dei costi” ma è anche vero che almeno gran parte degli investimenti infrastrutturali e dei concorsi sono usati – come riconosce lo stesso Prof. Prodi – “per scopi che il buon senso ritiene del tutto estranei a un efficace difesa dei diritti”. Da “mani pulite” in poi ogni volta che la magistratura ha affondato il bisturi in un appalto o in un concorso sono saltati fuori illegittimità amministrative e illeciti penali a grappolo; e il numero dei casi cresce ogni giorno. E quindi come l’attuale giustizia ammnistrativa costituisce un aggravio dell’economia pubblica così l’attuale economia pubblica costituisce un aggravio della giustizia amministrativa. Si tratta semplicemente di stabilire un congruo punto di equilibrio tra due interessi potenzialmente antitetici. Ma questo non è affatto un problema, dato che tale punto è stabilito dalla Costituzione, che impone alla pubblica amministrazione di operare secondo principi di buon andamento (fondato sulla legalità) e di imparzialità e riconosce agli amministrati il diritto alla giustizia. E quindi, ferma restando la Costituzione, ogni ulteriore discorso è pura ed inutile caciara.

4- Sempre sul piano costituzionale va poi considerata l’affermazione, prudentemente attribuita ad un non identificato “potenziale investitore” in Italia, secondo cui “se si abolissero i TAR e il Consiglio di Stato il nostro PIL assumerebbe subito un cospicuo segno positivo”.

Premesso che se questo innominato esisteva davvero il Prof. Prodi avrebbe fatto migliore figura se ne avesse consentito l’identificazione (per evitare il rischio di apparire una persona che getta la pietra e nasconde la mano), e che comunque ci fa piacere che il Prof. Prodi abbia rapporti confidenziali con investitori esteri, va innanzi tutto rilevato che non veniva rivolta alcuna specifica censura alla magistratura amministrativa come tale (non è mai affermato che essa faccia uso contra legem dei propri poteri) ma al “modello organizzativo della nostra giustizia amministrativa” e cioè al sistema normativo che attribuirebbe a tale magistratura un “enorme e senza confronti spazio di potere” tanto da consentire che “il ricorso a questi tribunali è diventato ormai un fatto normale ogni volta in cui si procede ad un appalto o che sia pronunciato l’esito di un concorso pubblico o una qualsivoglia decisione che abbia un significato economico”.

Un’affermazione del genere, da parte di una persona che nel campo politico non è certamente l’ultimo venuto, era quanto meno stupefacente. Sarebbe stato fin troppo facile obiettare: ma non sapeva il Prof. Prodi che il sistema normativo non lo fa la magistratura ma la legge, e cioè la politica? E non sapeva che il giudice non può che attenersi a quanto la legge gli impone di fare? E allora perché non se la prendeva col legislatore anziché con la magistratura amministrativa? E perché allora non proponeva anche di abolire tutti gli altri giudici, dato che la lentezza della giustizia è un comportamento trasversale in cui la magistratura amministrativa non occupa certo il primo posto? E perché non teneva conto della considerazione che allora, per identità di logica, avrebbe dovuto essere abolito nelle materie di economia pubblica ogni intervento dell’Autorità Giudiziaria, della Corte dei Conti e del Commissario Anticorruzione?

Siamo evidentemente un paese molto singolare in cui i politici prima fanno leggi inidonee e poi se la prendono con chi – come la magistratura – applicando quelle leggi, giunge a decisioni ad essi sgradite. E che i politici, e quindi in primis i governi, abbiano molta difficoltà a fare testi decenti risulta dal caso esemplare di testi normativi inutilmente e incostituzionalmente farraginosi (perché in contrasto con le indicazioni delle rispettive leggi delega), quali quello dell’attuale codice degli appalti e quello del progetto di riforma della pubblica amministrazione.

Per quanto riguarda in particolare la normativa relativa ai contratti pubblici, chiamata in causa dall’esimio Prof. Prodi, l’allora vigente disciplina normativa era fondata sul codice dei contratti pubblici del 2006, come successivamente più volte modificato ed integrato, e sul relativo regolamento n. 207 del 2010. Era una disciplina indubbiamente pletorica, di dimensioni più che doppie della disciplina vigente negli stati europei con legislazione analoga a quella italiana, e che presentava varie incongruenze sul piano sistematico. Per migliorare la situazione l’art. 1, d), della legge delega 28 gennaio 2016 n. 11 aveva prescritto che la nuova disciplina normativa dovesse essere “ispirata a criteri di massima semplificazione e rapidità dei procedimenti” e dovesse attuare “una drastica riduzione e razionalizzazione del complesso delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative vigenti e un più elevato livello di certezza del diritto”.

Il risultato è stato esattamente l’opposto.

In primo luogo il nuovo codice è partito con una redazione tecnico giuridica di difficile lettura e di basso coefficiente di professionalità, tanto che il testo definitivo prima della pubblicazione è stato oggetto di serie critiche da parte della Sezione Normativa del Consiglio di Stato (parere 1 aprile 2016 n. 855, di ben 228 pagine) e dopo la pubblicazione ha richiesto la correzione di ben 181 asseriti errori di stampa, implicitamente (ed ingenerosamente) attribuiti alla Gazzetta Ufficiale; il che ha determinato numerose esitazioni applicative da parte degli operatori del settore. Stendhal diceva che quando voleva leggere un testo scritto in modo chiaro ed elegante andava a sfogliare il Code Napoleon. Non è certo questo il caso nostro.

In secondo luogo la nuova disciplina codicistica, come modificata ed integrata dal decreto legislativo 24 aprile 2017 n. 56, è innanzi tutto molto più complessa della precedente. Infatti, fermo restando il carattere pletorico del codice (gli articoli del nuovo sono 220 contro i 257 del vecchio, ma l’ampiezza totale in pagine del nuovo è notevolmente superiore a quella del vecchio), l’interprete deve lavorare non solo sul codice e sulle parti del regolamento n. 207/2010 non ancora abrogate (nei limiti in cui siano compatibili con la nuova disciplina) ma anche tenendo presenti i 51 decreti attuativi previsti dal codice (sinora non tutti emanati) nonché le deliberazioni dell’ANAC, delle quali non è pacifico se siano (almeno in parte) vincolanti, come ritenuto dal Consiglio di Stato nel parere 1° aprile 2016 n. 855. A queste fonti, in un prossimo futuro, dovrebbero aggiungersi le “migliori pratiche internazionali”, alle quali fanno riferimento la giurisprudenza della Corte di giustizia europea e l’art. 1 della legge delega e che erano previste dalla bozza di decreto delegato di riforma della dirigenza pubblica n. 328/2016, in corso però di rielaborazione. Siamo insomma di fronte ad una legislazione a grappolo, dove non c’è neanche l’ombra dell’applicazione dei citati principi di “drastica riduzione e razionalizzazione” enunciati dalla legge delega ed in cui l’interprete può essere costretto ad un estenuante nomadismo giuridico tra le fonti, con la conseguenza di compromettere il già esile filo della certezza del diritto. A questo punto di incertezza non c’è da stupirsi se gli appalti per la rimozione delle macerie dei comuni terremotati– i più semplici tra gli appalti di lavori – possono essere banditi solo con un anno di ritardo e se si verifica una abnorme proliferazione di processi amministrativi.

Perciò il Prof. Prodi già allora avrebbe dovuto imputare a se stesso (almeno pro quota) i lacci esistenti alla gambe dell’Italia.

5- Nel merito, poi, con la generica auspicata “abolizione” si potevano intendere due distinte situazioni: che nelle questioni concernenti l’economia pubblica:

a) sarebbe opportuno trasferire, armi e bagagli, le attuali attribuzioni della giurisdizione amministrativa al giudice ordinario;

b) sarebbe opportuno escludere l’intervento di qualsiasi giudice.

Ma allora avrebbe dovuto essere considerato che:

sub a) se l’auspicio si intendeva nel senso che i giudici amministrativi dovrebbero essere trasformati ope legis in giudici ordinari limitandosi a cambiare cappello (anzi neanche quello, dato che i giudici amministrativi non usano il tocco) e mantenendo inalterate mutato titulo le loro funzioni e la legislazione sostanziale e processuale che sono tenuti ad applicare, tutto sarebbe restato – ovviamente – come prima;

sub b) se l’auspicio si intendeva nel senso che la giurisdizione in materia di economia pubblica dovrebbe essere sottratta ai giudici amministrativi e affidata ai giudici ordinari, ne sarebbe derivato, di fatto:

-il blocco operativo della giurisdizione in materia per almeno un anno, considerate le complicazioni logistiche derivanti dal trasferimento di giurisdizione;

-il successivo rallentamento della giurisdizione, perché come i giudici amministrativi troverebbero difficoltà a riciclarsi come giudici ordinari così i giudici ordinari troverebbero difficoltà a riciclarsi come giudici amministrativi, per la diversità della legislazione sostanziale e processuale da applicare, con cui dovrebbero preventivamente familiarizzarsi;

-il possibile collasso della giurisdizione ordinaria dato che anche i giudici ordinari sono già per conto loro oberati da una legislazione soffocante e da un conseguente notevole carico di lavoro arretrato (nove milioni di giudizi pendenti, tra il civile e il penale), che rendono notoriamente molto lunghi i processi: sicché il nuovo carico giurisdizionale avrebbe potuto costituire per essi il colpo di grazia.

Credo quindi che nessun apprendista stregone, con un minimo di buon senso, avrebbe azzardato una soluzione del genere.

In realtà quello che allora si voleva e che si vorrebbe tuttora è l’abolizione di qualsiasi intervento dello Stato nell’economia, ed in particolare l’abolizione di qualsiasi intervento giurisdizionale, sul quale la politica della Stato (e quindi i poteri forti) non possono direttamente influire. E’ la classica visione prekeynesiana fondata sulla teoria dell’equilibrio naturale del mercato libero concorrenziale, teoria che, nell’interesse generale, costituirebbe la stella polare su cui dovrebbe essere orientata l’azione (o più precisamente l’inazione) dei pubblici poteri. Ci sono i casi dell’Expo, del Mose, dell’ILVA, delle risate per il terremoto di L’Aquila, della autostrade che in Francia costano un terzo di quello che costano in Italia, di appalti per la rimozione delle macerie dei comuni terremotati che vengono banditi dopo un anno? Lo Stato, la giurisdizione amministrativa, non devono intervenire: l’Italia ha bisogno che l’economia cammini, perché questo corrisponde al bene comune. Ci sono concorsi ospedalieri in cui tutti i vincitori sono risultati tali per aver fruito degli appoggi incrociati riservati a figli, coniugi e amiche/amici carissimi di professori ordinari o di primari, con conseguente trasformazione delle relative istituzioni in blindatissime riserve di caccia? Ci sono concorsi delle Agenzie fiscali all’esame della giustizia costituzionale, penale e amministrativa per avere scientemente violato norme costituzionali, penali e amministrative? Non importa: l’economia nazionale deve andare avanti. Lo richiede il mitico PIL, a sua volta fondato sul mitico presupposto di uno sviluppo economico continuo e illimitato (presupposto palesemente irrazionale, date sia la perdurante ricorrenza delle crisi economiche sia la limitatezza delle risorse del nostro pianeta, scese ormai ad un livello pericolosamente vicino al punto di non ritorno della sostenibilità ambientale). In ogni caso: PIL, PIL über alles. L’indicata irrazionalità è tanto macroscopica da far sorgere il sospetto che ci si possa trovare in presenza di un equivoco di fondo: e cioè che, parlando di “prodotto interno lordo”, quel “lordo” possa essere stato inteso nel senso originario di “sudicio, moralmente corrotto, ecc.” e non nel senso derivato di “comprensivo di spese, imposte e altre voci da cui deve essere depurato”. Se così fosse tutto diventerebbe più semplice: basterebbe tener conto dello smercio di stupefacenti e – come auspicato dall’anonimo citato dal Prof. Prodi – “il nostro PIL assumerebbe subito un cospicuo segno positivo….non solo senza spese ma con copiosi risparmi

Ma quello che più impressiona nell’articolo citato è l’affermazione che occorrerebbe “fare in modo che i ricorsi siano ammessi nei rari casi in cui conviene che siano ammessi (cinque o dieci per cento dei ricorsi ammessi oggi?). Si tratta di ipotesi talmente strampalata da lasciare interdetti, e da far sorgere un’infinità di domande. Che significa ammettere i ricorsi “nei rari casi in cui conviene”? Conviene a chi? Conviene a cosa? Chi dovrebbe stabilire l’invocata “convenienza”? Su quale base scientifica, per mezzo di quale algoritmo è stata ricavata la riduzione al cinque o al dieci per cento? Avrebbe un senso invocare che la corruzione negli appalti pubblici vada repressa nei rari casi in cui “conviene”, adottando per il resto il principio della libera corruzione in libero Stato? Come la metteremmo con l’art. 24 della Costituzione che assicura a tutti di poter agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi? Come la metteremmo con l’UE che riconosce a tutti i contribuenti la legittimazione ad impugnare l’aggiudicazione di pubblici appalti? Per l’inclusione in quel privilegiato cinque-dieci per cento si vuole far sorgere una tangente di nuova generazione o si vuole creare un apposito concorso a premi, il totogiustizia, per dare nuovo alimento alle esangui casse dello Stato? In sintesi: è normale che una persona che dichiara, ribadisce e prova di non essere un giurista possa poi concludere indicando – con perentorio piglio – la via a suo giudizio da seguire per migliorare il sistema giuridico sostanziale e processuale?

Insomma allo stato dell’arte si tratta di parole in libertà, di “caciara”, come oggi dice il Prof. Villanacci: e come tali non suscettibili di essere prese sul serio.

Devo quindi rassegnarmi a restare, purtroppo, tra gli azzeccagarbugli. E devo restarci con l’amarezza di dover constatare che una persona del prestigio e del cursus honorum di Romano Prodi, che solo per una incomprensibile (ma a questo punto da ritenere provvidenziale) congiura di palazzo ha mancato di coronare la sua carriera con l’elezione a presidente della Repubblica, abbia ceduto – forse per banali motivi di visibilità – alla non commendevole moda della politica “urlata” e dei facili (ed erronei) populismi. Non è questa la strada per velocizzare le gambe dell’Italia: è solo la strada per spezzarle del tutto. E comunque, per impostare la questione in termini corretti, non bisognerebbe mai confondere il problema di “legare le gambe dell’Italia”, notoriamente malate, con il problema di “cucire le tasche della corruzione”, che scoppiano di salute.

6- Passando agli aspetti economici della questione, devo anch’io fare una confessione: non sono un economista. E siccome non voglio essere a mia volta imputato di dire parole in libertà mi limito a riferire quanto segue.

Il 3 giugno 2014 la Scuola Nazionale dell’Amministrazione ha tenuto in Roma un interessante convegno, in cui noti economisti (Giuliano Amato, Massimo Egidi, Luigi Paganetto e Giovanni Tria, moderatrice Adriana Cerretelli, de il Sole 24 ore) hanno commentato il libro di JEAN-PAUL FITOUSSI Il teorema del lampione (Einaudi, 2013), in cui l’Autore, autorevole consulente della Commissione Europea, osserva:

a) è “tutto irragionevole quel che accade al mondo oggi: il livello di disuguaglianza e quello di occupazione, la massa delle carriere interrotte, il numero incredibile di persone che non riescono nemmeno ad avviarne una o di quanti si arenano a qualche anno dalla pensione, l’enormità delle fortune accumulate, l’oscenità di alcune remunerazioni, l’insicurezza generalizzata che regna nei Paesi ricchi. ….Ma se oggi accettiamo quel che ieri ci sembrava inaccettabile è anche perché ci viene ripetuto all’infinito che non esiste altra strada possibile” (pagg. 3-4).

b) “Da tempo, seguendo il pensiero economico dominante, i poteri pubblici hanno puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica – che dovrebbe anche consentire la crescita del PIL – e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione. Si sa quel che è accaduto. La stabilità dei prezzi si è rivelata compatibile con la massima instabilità economica e finanziaria. La crescita del PIL si è accompagnata ad una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stato il preludio al loro peggior funzionamento dai tempi della crisi degli anni Trenta” (pag.6).

c) “Prima della crisi si diceva che dal momento che l’economia di mercato è fondamentalmente stabile, i governi devono evitare qualunque interferenza e limitare la loro azione ad assicurare la stabilità dei prezzi, il pareggio di bilancio e la concorrenza. Ed ora, dopo la crisi, cosa si dice? Esattamente la stessa cosa” (pag.13).

c) “La crisi finanziaria ha scosso con forza il capitalismo, ma l’economia di mercato, che è il nome politicamente corretto che gli si dà oggi, resta insormontabile all’orizzonte. E’ necessaria una maggiore elasticità perché i mercati possano funzionare meglio, ci viene detto, come se gli errori dovuti alla troppa elasticità lasciata ai mercati finanziari non ci avesse insegnato niente. Affrontiamo il futuro con gli occhi rivolti a fasci di luce che provengono dal passato” (pag. 217).

Sulla fondatezza delle conclusioni dell’Autore hanno concordato sostanzialmente tutti gli intervenuti, che hanno concordemente constatato il fallimento di un’idea di mercato fondato su una concorrenza in grado di autoregolarsi e che quindi non necessita né della regolazione statale né del controllo giurisdizionale.

A questo punto un giurista che – come me – non ha una profonda cultura economistica ma non è neanche il Candide di turno convinto che questo sia il migliore dei mondi possibili, non può non prendere atto che il j’accuse di Jean-Paul Fitoussi era espressione di una posizione che appariva la più consapevole della gravità dei dati reali che già allora caratterizzavano la situazione italiana da lui esaminata:

a) da una parte un’asserita libera concorrenza ridotta però – in realtà – ad una serie di oligopoli di settore in cui potevano entrare solo i grandi capitali (erano sotto gli occhi di tutti le migliaia di supermercati che avevano fatto fallire o comunque costretto a chiudere più di centomila imprese minori); PIL in regresso di circa il 25% a fronte di una borsa tornata spumeggiante, +40% nel 2012; il che dimostrava come i capitali finanziari, gli unici che potevano sfruttare a fondo il diritto di stabilimento, fossero divenuti i veri padroni dell’economia, in mancanza di un reale contropotere politico o giudiziario in grado di controllarli;

b) dall’altra parte un milione di nuovi disoccupati, in crescita con punte altissime tra i giovani, e il progressivo scivolamento sotto la soglia di povertà di gran parte della classe media.

Non si può non prendere atto che l’evidente fallimento della teoria dell’equilibrio generale concorrenziale stia facendo avverare la maledizione marxista: i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E’ quindi quanto meno eccessivo considerare il PIL come la manna nel deserto, dal momento che il PIL è uno strumento di misura che postula un incremento economico generalizzato solo se comporta una redistribuzione abbastanza omogenea della ricchezza, e quindi non ha grande significato nel caso in cui la maggior parte della ricchezza sia accumulata nel primo centile della popolazione (i cosiddetti “poteri forti”, che marciano col Pill mit uns scritto sul cinturone), con la conseguenza che un aumento del PIL possa avere contemporaneamente – come di fatto avviene oggi – effetti positivi o fortemente positivi sui poteri forti ed effetti negativi o fortemente negativi sulle fasce deboli, in cui verrebbero inevitabilmente fagocitate le fasce intermedie.

E’ con queste “gambe” teoriche e pratiche che l’Italia avrebbe dovuto essere condannata a continuare a camminare?

Ed è credibile che le constatazioni di Fitoussi, condivise come già detto dai maggiori economisti italiani, fossero ignote al Prof. Prodi, pur rientrando nel suo pane quotidiano? Sono state forse ignorate per un “riguardo” ai poteri forti?

7- Per quanto poi riguarda il piano ed etico-sociale e politico va tenuto presente che la teoria generale del mercato libero concorrenziale – a parte il suo anacronismo (sembrerebbe che Keynes non abbia insegnato niente) – non è altro che la legge della jungla con la camicia bianca: è cioè una teoria basata sulla selezione naturale del più forte, con conseguente inevitabile scomparsa (talvolta anche fisica) del più debole, all’insegna dell’homo homini lupus. E’ una teoria basata sulla competizione, con conseguente eliminazione dello sconfitto. E’ appunto in questa logica che il Prof. Prodi auspica “l’abolizione” istituzionale, e quindi l’eliminazione fisica, della giurisdizione amministrativa.

Ma questo è l’esatto contrario di quello che prevede la nostra Costituzione, che punta invece alla cooperazione tra il più forte (sul quale ricade, in particolare, “l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” prescritto dall’art.2) ed il più debole (al quale non possono essere sottratti i corrispondenti “diritti inviolabili”): il che comporta che lo Stato debba intervenire sia per assicurare che la differenza tra il forte e il debole non diventi una abisso incolmabile sia per assicurare una congrua redistribuzione dei redditi. Ed è anche l’esatto contrario di quel che dispone la legislazione europea, che pone al primo posto, tra i diritti fondamentali e intangibili dell’UE, non la libertà di concorrenza ma “la dignità dell’uomo”, dignità che il debole o il senza lavoro ovviamente perde se viene abbandonato a se stesso. E questa dignità comporta non la restrizione (come sollecitava il Prof. Prodi) ma un ampliamento della platea di chi, in nome della legalità, vuole contestare episodi di malcostume amministrativo, ed in particolare vuole proporre ricorsi amministrativi, come del resto espressamente riconosciuto dalla direttiva comunitaria sui pubblici appalti n. 24/2014, che al considerando n. 122 riconosce che tutti i cittadini “hanno comunque un interesse legittimo in qualità di contribuenti ad un corretto svolgimento delle procedure d’appalto”. Si tratta, com’è evidente, di una legittimazione a 360 gradi, dal momento che tutti siamo a vario titolo “contribuenti”; legittimazione che, dato il presupposto, per ovvi motivi costituzionali dovrebbe poi estendersi all’intera economia pubblica, dato che a tale legittimazione viene riconosciuta – correttamente e consapevolmente –la funzione di contribuire ad assicurare la legalità dell’azione amministrativa, attualmente in desolante declino. E senza legalità dell’azione amministrativa si innesta un ribellismo diffuso che una volta acceso può poi condurre a conseguenze incontrollabili.

In questo quadro nazionale ed europeo solo prescindendo dalla realtà politica, economica, etica e sociale dell’Italia e dell’Europa può proporsi una restrizione della legittimazione processuale dei potenziali ricorrenti alla giurisdizione amministrativa.

8- Con le considerazioni che precedono non si è inteso ovviamente dire che il modello organizzativo della nostra giustizia amministrativa sia perfetto; il modello è sicuramente perfettibile, come tutte le cose umane. Ad esempio si potrebbe:

a) semplificare l’attuale procedura, partendo dal punto di vista che il ricorrente mira – sia pure nel proprio interesse – all’affermazione della giustizia nell’amministrazione, e quindi va incoraggiato e non scoraggiato;

b) prevedere la sanabilità di almeno gran parte degli errori procedurali, tenendo presente che la giustizia concreta ed effettiva è quella che attiene al merito;

c) potenziare il soccorso istruttorio;

d) stabilire che solo nel caso di interessi oppositivi il dispositivo delle sentenze possa limitarsi a disporre l’accoglimento o la reiezione del ricorso, mentre nel caso di interesse pretensivi o partecipativi il giudice debba anche dettagliatamente prescrivere quale comportamento dovrà adottare l’amministrazione nel futuro.

Ma tutto questo rischia di non dare risultati se si ignorano le tare più pesanti del sistema: l’incertezza del diritto e la corruzione, la cui sinergia può spingere un soggetto in malafede a tentare la sorte e un soggetto in buona fede, che ha perso la percezione di una pubblica amministrazione come soggetto che agisce legalmente e nel pubblico interesse, a ritenere di avere ragione anche quando in realtà ha torto; dal che un patologico drogaggio del numero dei ricorsi.

9- Dell’incertezza del diritto si è già parlato. Resta da dire più di qualcosa sulla corruzione, dovuta in gran parte al malcostume politico.

 A questo riguardo va ricordato che la politica italiana ha perso ufficialmente la sua verginità quando nell’agosto del 1993 Bettino Craxi dichiarò, in un Parlamento attonito e silente: “Si alzi in piedi chi di voi non ha preso finanziamenti illeciti in questo Paese”. A quanto risulta, nessuno si alzò. Il Paese così venne formalmente informato che la corruzione aveva messo radici in tutti i partiti. Tutti colpevoli; e quindi nessun colpevole, anche se la cosa veniva presentata come strumento non per arricchire il singolo ma per sostenere il partito e quindi la sua linea politica (ci sarebbe stato però da domandarsi con quali soldi tutti i segretari di partito, eccetto chi era già ricco di suo, si fossero fatte le loro brave fondazioni o come Craxi si sarebbe poi fatta una megavilla ad Hammamet). E siccome chi contribuiva generosamente alle spese della politica non lo faceva certamente per filantropia politica, il Paese venne anche formalmente informato che i veri referenti dei partiti erano non gli elettori ma i cosiddetti “poteri forti”, e cioè i poteri economico finanziari in grado di muovere in tempo reale grandi quantità di denaro da un capo all’altro del globo e di fornirsi di ingenti fondi neri con i quali poter esercitare il loro potere corruttivo anche sulle istituzioni.

 In proposito una recente pubblicazione di R. CANTONE e F. CARINGELLA (La corruzione spuzza, Mondadori, 2017, pagg. 164-170) ha fatto un rilievo di estrema gravità, attesa l’autorevolezza e la competenza specifica della fonte: e cioè che la corruzione in Italia sta facendo un salto di qualità: “Dalla corruzione dei politici funzionale all’arricchimento personale e agli interessi della politica (e quindi, dei partiti) si è passati ad una corruzione che rischia di diventare il meccanismo di selezione di una classe dirigente funzionale agli scopi di vere e proprie organizzazioni criminali che accomunano mondo imprenditoriale, faccendieri e, in qualche caso, soggetti legati a gruppi malavitosi”, creando così un vero e proprio contropotere.

Si tratta di un secondo livello di corruzione, più subdolo e meno noto perché più tecnico e meno ghiotto per i media, dal momento che è la risultante di tanti fatti successivi che, isolatamente considerati, non hanno particolare risonanza. Questo secondo livello consiste essenzialmente nel sommare all’indebita percezione di beni o utilità l’indebita acquisizione di poteri pubblici che consente la creazione di un mondo separato in cui non vigono più le leggi dello Stato. Si passa così da una episodica corruzione nella pubblica amministrazione ad una più radicale e sistemica corruzione della pubblica amministrazione, che, senza fare molto clamore, incide direttamente sull’assetto istituzionale legale, dal momento che tende a svuotarlo di parte del suo contenuto legale finalizzato al conseguimento del pubblico interesse, che poi riempie con un nuovo contenuto illegale finalizzato al conseguimento dell’interesse dei componenti della governance di crearsi, a titolo personale, una fitta rete di rapporti con le altre istituzioni e i poteri forti tale da attribuire alla governance un crescente peso politico fondato su un mutuo scambio di favori illeciti.

Questo secondo livello non può essere efficacemente contrastato dall’opera delle magistrature (salvo quella costituzionale), dato che, sotto il profilo del fenomeno eversivo, è al momento difficilmente inquadrabile in una specifica forma di reato o di illegittimità amministrativa o contabile; e la politica è – non a caso – normalmente distratta al riguardo, e comunque appare spesso incapace di esprimere una qualsiasi volontà generale sul piano politico (situazione che i soggetti corrotti ben conoscono ed anzi alimentano, dato che il potere politico è inversamente proporzionale al potere dei soggetti corrotti).

Questo contropotere ha una chiara prospettiva: quella di acquisire la certezza dell’impunità di ogni proprio comportamento, per la sopravvenuta formazione di un’area funzionale in cui la sovranità concreta è fondata non più sul popolo e sui suoi rappresentanti ma su una oligarchia costituita dai vertici dei soggetti pubblici corrotti, da una fascia trasversale del potere politico e dai vertici dei poteri forti economico finanziari; triumvirato che, in virtù della sua sinergia tra forza politica e forza economica, è in grado di influenzare anche altri settori istituzionali. In questo caso parlare di “corruzione” è palesemente riduttivo: perché si tratta di un ben più vasto disegno eversivo o meglio sovversivo di cui la corruzione costituisce un semplice strumento. A questo punto ogni discorso di carattere giuridico perde di significato; la forza del diritto cede al diritto della forza.

Il disegno eversivo a cui ho accennato non è né caciara né una fantasia frutto del caldo torrido d’agosto né un’ipotesi di scuola; è la realtà concreta di un non lontano passato: mi riferisco allo scandalo petroli che negli anni settanta e ottanta ha visto un gigantesco traffico clandestino di prodotti petroliferi (si parla di evasione di migliaia di miliardi delle vecchie lire e cioè di miliardi di euro) che si protrasse dal 1973 al 1979, che venne messo in luce da Mario Vaudano, allora giudice istruttore a Torino, e da Felice Napolitano, allora giudice istruttore a Treviso, e che è stato oggetto del libro “Scandalo petroli. Corruzione elevata a sistema con poteri criminali ed occulti” scritto da Domenico Labbozzetta, allora sostituto procuratore della Repubblica a Torino, ed edito nel 2011 dall’Osservatorio veneto sul fenomeno mafioso. L’inchiesta allora mise in luce l’esistenza di una “organizzazione monolitica… in cui ogni elemento perturbatore era prontamente isolato con severe normalizzazioni su chi – operatore economico o personale subalterno – costituiva un pericolo…La potenza dell’organizzazione criminale si manifestò con la forza e la consapevolezza di un contropotere in grado di resistere ad ogni contraccolpo e di condizionare gli stessi magistrati inquirenti….con la comprovata copertura che allo stesso venne fornita da alcuni apparati istituzionali dello Stato: partiti politici (percettori di rilevanti sovvenzioni) uomini di governo, dirigenti ministeriali, quasi tutti cementati da una comune adesione a quell’organizzazione eversiva che faceva capo alla loggia massonica P2, il ministro della giustizia svizzero, la mafia turca, cosa nostra, ecc.”. Si è avuta così una prima manifestazione di quel “salto di qualità” costituito da “una corruzione che rischia di diventare il meccanismo di selezione di una classe dirigente funzionale agli scopi di vere e proprie organizzazioni criminali”, attualmente rilevato da R. CANTONE e F. CARINGELLA.

Era inimmaginabile che tutto ciò potesse accadere. Ma è accaduto: ed esistono attualmente casi giudiziari che fanno ritenere che potrebbe accadere di nuovo; e che se ciò avvenisse, come paventato dagli Autori appena citati, farebbe perdere la speranza non solo di migliorare la giustizia nell’amministrazione (e a questo punto occorrerebbe veramente abolire, per inutilità sopravvenuta, la giustizia ammnistrativa) ma addirittura di poter mantenere il nostro assetto costituzionale.

E’ quindi quanto mai necessario che ci si ricordi in tempo di non ricadere nella stessa situazione di allora: oggi i poteri forti economico finanziari sono più difficili da contrastare perché transnazionali e molto più forti e sfuggenti di prima mentre lo Stato è molto più debole di allora. Se cade potrebbe non risollevarsi più.

Per poter contrastare questo pericolo reale è necessaria una grande attenzione su recenti comportamenti di soggetti pubblici a rischio, che si sono organizzati assicurandosi l’incondizionata obbedienza dei subalterni con il sistema di corrispondere retribuzioni solo in piccola parte fisse e per il resto del tutto discrezionali; sistema semplice ma indubbiamente efficace che crea una fedeltà assoluta del dipendente, che si sente a servizio della rispettiva “governance” e non della “Nazione” (come prevede l’art. 78 della Costituzione) o “del cittadino” (come precisato dall’art. 1 del decreto legislativo n. 33 del 2013). L’amministrazione pubblica rischia così di diventare una sorta di compagnia di ventura disponibile ad eventuali intese illecite con il triumvirato. Ma una situazione del genere è il normale humus su cui può poi svilupparsi quella “organizzazione criminale monolitica….in cui ogni elemento perturbatore era prontamente isolato con severe normalizzazioni ….con la forza e la consapevolezza di un contropotere in grado di resistere ad ogni contraccolpo e di condizionare gli stessi magistrati inquirenti….con la comprovata copertura fornita da alcuni apparati istituzionali dello Stato”, come a suo tempo rilevato da Domenico Labbozzetta. E non va trascurato il contributo positivo che potrebbe dare il whistelblower, dato che le cupole malavitose tendono a chiudersi a riccio ad ogni interferenza esterna; ho detto potrebbe dare perché la tutela normativa di tale nuova figura introdotta dalla legge anticorruzione è – temo volutamente – quanto mai carente sul piano dell’effettività della tutela. In un recente convegno il presidente dell’ANAC ha riferito che i casi di tutela sono in aumento: ma sembra che si tratti soltanto di casi relativi alla corruzione di tipo tradizionale, che non coinvolgono i vertici delle pubbliche amministrazioni interessate, e che quindi di regola vedono i vertici di esse a fianco del whistelblower (almeno formalmente, per tentare di salvare quel poco che resta della loro faccia), mentre per i casi di corruzione di nuova generazione, che investono direttamente la governance, ogni tentativo di denuncia viene stroncato con ogni mezzo dai vertici delle amministrazioni interessate, che distruggono burocraticamente e psicologicamente ogni denunciante. Occorre quindi richiamare con fermezza il legislatore ad assumersi le sue responsabilità. Ne va della tenuta della democrazia.

In questo allarmante quadro chi – in buona o cattiva fede – vuole buttare le cose in caciara non fa che creare ulteriore confusione che fa soltanto il gioco dei poteri forti e dei contropoteri, che hanno tutto da perdere da uno Stato in cui le istituzioni siano attente custodi della giustizia e della democrazia e i cittadini siano attenti custodi dei loro diritti; poteri che quindi sono ben lieti dell’insorgere di pseudoproblemi gridati che altro non sono che mezzi di distrazione di massa che allontanano l’attenzione pubblica dalle attività malavitose del triumvirato e dal rischio di un indebolimento dei poteri dello Stato. Perciò, specie in un momento di crisi come l’attuale, chi riveste una carica istituzionale dovrebbe avvertire il dovere di dire cose serie e costruttive sulla base del suo mestiere. La caciara lasciamola a Crozza, che è del mestiere e quindi la sa fare molto meglio.

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* Presidente aggiunto onorario del Consiglio di Stato.