Acquisizione sanante

M. MORELLI, L’art. 43 D.p.r. n. 327/01 non esiste più. Note a margine della sentenza n. 293/10 della Corte Costituzionale e prospettive di riforma*.



MARCO MORELLI
(Avvocato del Foro di Roma)

L’art. 43 D.p.r. n. 327/01 non esiste più.
Note a margine della sentenza n. 293/10 della Corte Costituzionale
e prospettive di riforma.



SOMMARIO: 1. L’art. 43 d.p.r. n. 327/01 ed i problemi derivanti dalla sua applicazione. 2. La sentenza n. 293 dell’8 ottobre 2010 della Corte Costituzionale: prima analisi. 3. Alcune riflessioni sulle prospettive di una eventuale riforma.

1. L’art. 43 d.p.r. n. 327/01 ed i problemi derivanti dalla sua applicazione.

Sembrava la panacea di tutti i mali, la frontiera ultima alla quale le pubbliche amministrazioni potevano accedere dopo anni di occupazioni illegittime di suoli altrui non seguite da validi ed efficaci decreti di esproprio.

Ha avuto vita breve ed è stato definitivamente espunto dal Testo Unico in materia di espropri per effetto della sentenza n. 293 dell’8 ottobre 2010 della Corte Costituzionale.

Parliamo, ovviamente, dell’art. 43.

Parliamo della norma di più rilevante interesse del D.p.r. n. 327/01, talmente innovativa rispetto all’impalcatura generale che per decenni aveva caratterizzato il mondo degli espropri, che è stata ritenuta incostituzionale per eccesso rispetto ai criteri della legge-delega 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998) che aveva previsto il mero coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti in materia di espropri, e che consentiva, nei limiti di tale coordinamento, le sole modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguarne e semplificarne il linguaggio.

E’ stranoto, infatti, che la materia – anche se non sarebbe corretto definirla tale perché è solo servente rispetto al governo del territorio – degli espropri per pubblica utilità, costituzionalmente garantita, è stata per tempo caratterizzata da una pluralità di fonti normative e regolamentari che l’hanno disciplinata e che, di certo, non hanno facilitato, neppure dal punto di vista terminologico (basti pensare e fare riferimento al testo della l. n. 2359/1865) l’operatore di settore.

La delega contenuta nella l. n. 50/99, aveva previsto il suo riordino; riordino che c’è stato per effetto del D.p.r. n. 327/01 che, seppure con qualche difetto di collegamento alla pratica effettiva “sul campo” degli espropri, ha rappresentato un indubbio contributo alla semplificazione del sistema espropri in Italia.

Eppure, nel corpo del Testo Unico, l’unica norma che sembrava esistere, era quell’art.43 oggi abrogato che, di fatto, faceva ombra alle tante regole poste in materia di gestione di procedimenti ablativi.

La ragione è presto detta.

Cosa facevano (e lo hanno fatto per decenni), le PA invece di espropriare legittimamente e seguire le procedure ablative come delineate dal legislatore nazionale?

Come noto, si immettevano nel possesso delle aree interessate agli interventi pubblici o di pubblica utilità, le trasformavano irreversibilmente senza minimamente preoccuparsi del rispetto delle garanzie partecipative previste dall’ordinamento e, per effetto della c.d. accessione invertita – istituto introdotto solo in via giurisprudenziale nel nostro ordinamento per effetto della sentenza della Cass. SS.UU. 26 febbraio 1983 n. 1464 – divenivano proprietarie non solo delle costruzioni realizzate, ma dello stesso suolo altrui.

La pratica aveva dato vita alle c.d. occupazioni acquisitive ed usurpative.

Le prime erano collegate ad interventi della PA su immobili altrui, realizzati in presenza di dichiarazione di pubblica utilità non seguita da valido ed efficace decreto di esproprio.

Le seconde, invece, erano caratterizzate da un’attività completamente priva di supporto dichiarativo della pubblica utilità dell’opera da parte delle amministrazioni agenti.

Entrambe davano vita al diritto del proprietario illegittimamente spogliato della sua proprietà di chiedere il risarcimento del danno, con differenze tra l’una e l’altra, quanto ai termini di prescrizione (operanti per le sole acquisitive) del relativo diritto risarcitorio.

Il fenomeno era davvero frequente tanto da far ritenere normale una pratica che di normale e, soprattutto, di legittimo, non aveva nulla.

Eppure numerosissime pubbliche amministrazioni, evidentemente in altre faccende affaccendate, non chiudevano affatto espropri in maniera legittima oppure non li iniziavano neppure, creando una piaga del nostro sistema che ha reso necessario, a seguito – manco a dirlo – di censure della CEDU, l’intervento riformatore ed “innovatore” del legislatore del Testo Unico.

Dalla necessità di superare la piaga delle occupazioni acquisitive ed usurpative è nato l’art. 43 del D.p.r. n. 327/01, oggi censurato dalla Corte Costituzionale.

La norma prevedeva, ormai dobbiamo metterci al passato, l’istituto della c.d. acquisizione coattiva sanante, per la quale, valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizzava un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, poteva disporre che esso andasse acquisito al proprio patrimonio indisponibile e che al proprietario andassero risarciti i danni.

Che bello, veniva da dire all’indomani dell’entrata in vigore del D.p.r. n. 327/01!

Dinanzi a procedure ablative non avviate correttamente, ovvero non avviate affatto o non concluse, le amministrazioni conservavano integra la possibilità di acquisire al proprio patrimonio indisponibile, adeguando – quindi – la situazione in diritto a quella in fatto, determinati beni immobili modificati dalle stesse in maniera illegittima.

La sanatoria di tutti i mali!

Eppure, sin dal 2003, anno di entrata in vigore del Testo Unico, i più attenti operatori di settore, nonché i primi commentatori, pronosticavano che l’art. 43 avrebbe avuto vita breve e che, comunque, per come formulato, avrebbe inesorabilmente suscitato – come è stato – grandi problemi di ordine pratico ed interpretativo.

Su tutti, sono emerse – da subito – problematiche legate all’autorità amministrativa competente all’adozione del provvedimento, alla necessità di anticipare la comunicazione di avvio del procedimento, alla retroattività o meno della disposizione normativa, alla corretta quantificazione del risarcimento del danno dovuto ai proprietari, solo per citare quelle di maggiore interesse.

Dinanzi alle plurime problematiche sottese alla norma, non hanno tardato a sopraggiungere i primi pronunciamenti della giurisprudenza, inesorabilmente divisa su molti fronti che, a distanza di sette anni dall’entrata in vigore della norma, ancora non avevano raggiunto la definitiva soluzione.

Pensiamo, per esempio, alla competenza all’adozione del provvedimento acquisitivo: si diceva, da parte di alcuni, che essa fosse del dirigente, quale atto di gestione di un indirizzo già originariamente dato dall’organo politico con l’atto approvativo della dichiarazione di pubblica utilità; ma tale lettura funzionava per le vecchie occupazioni acquisitive, per le quali, in effetti una dichiarazione di pubblica utilità c’era stata.

Non funzionava, invece, per le occupazioni usurpative, per le quali – senz’altro – era più corretto parlare di un competenza dell’organo consiliare per effetto di quella norma, contenuta nel D.lgs. n. 267/00, l’art. 42, che demanda al massimo organo assembleare dell’ente gli atti di alienazione ed acquisizione immobiliare.

Chi scrive si è convinto, nel tempo, della competenza del consiglio comunale in via generalizzata, tanto nel caso di procedure inizialmente avviate sulla base di una dichiarazione di pubblica utilità ma successivamente non concluse, quanto in quello delle pregresse occupazioni usurpative.

Il perché di tale pensiero, è legato alla soluzione che i giudici amministrativi stessi, giudici naturalmente competenti a valutare della legittimità o meno di un atto acquisitivo sanante, avevano seguito in merito alla retroattività dell’art.43.

Come noto, direi tutti i Tribunali amministrativi regionali, il Consiglio di Stato e quello di Giustizia della Regione Sicilia (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 26 marzo 2010, n. 1762, Sez. IV, 8 giugno 2009, n. 3509, Cons. Stato, IV, 21 maggio 2007, n. 2582; A.P., 29 aprile 2005, n. 2; TAR. Emilia-Romagna, Bologna, I, 27 ottobre 2003, n. 2160), hanno riconosciuto – da subito – la validità retroattiva dell’art.43, diversamente da quanto – in maniera continua – affermato dal giudice ordinario che l’ha sempre esclusa categoricamente (cfr., ex multis, Cass., sentenze 22 settembre 2008, n. 23943, 28 luglio 2008 n. 20543, 19 dicembre 2007, n. 26732); ebbene il GA ha ritenuto che il provvedimento acquisitivo dovesse avere una portata retroattiva, in pratica perché lo stesso era avulso, distaccato, autonomo di fatto dalle procedure ablative per le quali, invece, doveva valere l’art. 57 del D.p.r. n. 327/01 secondo cui le norme del Testo Unico si applicano solo se al 30 giugno 2003 non sia stata dichiarata la pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza.

Dicevo che, col tempo, posti i continui riconoscimenti del GA sulla retroattività dell’art.43, chi scrive si è convinto che se i TAR chiamati a pronunciarsi hanno ritenuto che il provvedimento acquisitivo sanante dovesse avere un valore autonomo rispetto alla procedura espropriativa, gli stessi non potevano non ammettere la competenza del consiglio comunale alla sua adozione, non solo in virtù dell’art. 42 D.lgs. n. 267/00, ma perché non si poteva una volta (quando si parlava della retroattività) disancorare l’art. 43 dal procedimento ablativo ed altre (quando si parlava di competenza) riconoscere il potere all’adozione del dirigente per effetto di un rinvio alla procedura.

La competenza all’adozione, pertanto, non sembrava non poter essere che del consiglio comunale, anche se poi, poste le resistenze dei conservatori a trascrivere un atto deliberativo siffatto, era necessario un passaggio dal dirigente di riferimento per chiudere le operazioni di pubblicità-notizia dell’atto.

Altri problemi pratici di rilievo, inoltre, l’art. 43 aveva suscitato in merito alla procedura da seguire per la sua adozione, con l’approdo della giurisprudenza verso la necessità del previo avviso di avvio del procedimento trattandosi di atto di natura discrezionale e per il quale non poteva operare dell’art. 21-octies, comma 2, della L. n. 241/90 (cfr. TAR Toscana, sez. I, 12 maggio 2009, n. 817).

Di sicuro rilievo, da ultimo, erano le problematiche pratiche della quantificazione del risarcimento del danno da riconoscere al proprietario; difatti, anche se il comma 6 della norma richiamava il criterio del valore venale del bene e degli interessi moratori dal momento in cui era diventata illegittima l’occupazione, le PA si trovavano dinanzi ad oggettive difficoltà sulla quantificazione, posto che molto spesso la necessità di chiudere la partita con i proprietari era legata al “solo” riconoscimento del titolo legittimante l’acquisizione e non al ristoro economico, magari già avvenuto per effetto del pagamento, negli anni, dell’indennità di esproprio.

Questi i temi fino a ieri in campo in merito all’art. 43 sui quali largamente ha avuto modo di pronunciarsi la magistratura di volta in volta interessata.

Come dire, nemmeno il tempo di porre la parola fine alle diverse problematiche che abbiamo appena sopra accennato (ma, siamo sicuri, le stesse erano ancora ben lontane dal traguardo), che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 293 dello scorso 8 ottobre, ha definitivamente cancellato dall’impianto normativo del D.p.r. n. 327/01, l’art. 43 con un pronunciamento tutto, o quasi, fondato sulla violazione dell’art. 76 Cost. ed il susseguente eccesso di delega.

2. La sentenza n. 293 dell’8 ottobre 2010 della Corte Costituzionale: prima analisi.

Veniamo, allora, ad una prima analisi della sentenza n. 293/2010.

La Consulta ha chiaramente evidenziato che la delega contenuta nella legge n. 50 del 1999, a sua volta collegata alla legge 15 marzo 1997 n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), riguardava il «riordino» delle norme elencate nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 (nel testo risultante a seguito dell’art. 1, legge 24 novembre 2000, n. 340 – Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999), che contemplava, quale oggetto, il «procedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge 25 giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865».

Il tenore delle norme richiamate, ad avviso della Corte, rendeva palese che la delega oggetto delle medesime concerneva esplicitamente il tessuto normativo costituito dalle leggi n. 2359 del 1865 e n. 865 del 1971, nel quale mancava il benché minimo riferimento ad una norma posta quale “rimedio” o “sanatoria” di procedure illegittime, come – invece – è stato l’art.43.

Accanto all’impianto normativo suddetto, la stessa Corte, ha riconosciuto operanti gli istituti, frutto della elaborazione della giurisprudenza di legittimità, delle c.d. occupazioni acquisitive ed usurpative di cui già si è detto sopra.

Fatto il quadro della situazione esistente, la Consulta ha evidenziato come nella redazione del testo unico sugli espropri, il legislatore delegato avrebbe dovuto rispettare i principi e criteri direttivi, contenuti nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 50, ossia la puntuale individuazione del testo vigente delle norme, l’indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni, il coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, dovendo apportare, nei limiti dell’imposto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire coerenza logica e sistematica alla normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo ormai, evidentemente, obsoleto.

La legge-delega imponeva anche l’indicazione delle disposizioni, non inserite nel testo unico, che restavano comunque in vigore, nonchè l’esplicita abrogazione di tutte le rimanenti disposizioni che regolavano la materia oggetto di delegificazione, con espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico.

La Corte, ricordato quanto sopra, è passata a verificare se il legislatore delegato effettivamente avesse osservato i suindicati principi e criteri direttivi, giungendo ad una risposta negativa tale da condurre alla totale abrogazione dell’art. 43 per eccesso di delega e conseguente violazione dell’art. 76 Cost.

Per far ciò i giudici costituzionali, dapprima hanno affermato che secondo la consolidata giurisprudenza della stessa Corte, il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa si deve esplicare operando un confronto tra gli esiti di “due processi ermeneutici paralleli“.

Il primo processo, legato alle norme che determinano oggetto, principi e criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e si individuano le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione; il secondo riguarda le norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega.

L’analisi, secondo la Consulta, deve operarsi riferendosi tanto alla ratio della delega quanto alle possibilità di “introdurre norme che siano un coerente sviluppo dei principi fissati dal legislatore delegato”; dall’altro ancora, hanno spiegato i giudici costituzionali, pur potendo essere possibile, per il legislatore delegato, “emanare norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore” è necessario che la discrezionalità del delegato venga esercitata nell’ambito di limiti stabiliti da principi e criteri direttivi.

Fondamentale, ancora, è il passaggio della decisione dove la Corte ha spiegato come “secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, qualora la delega abbia ad oggetto, come nella specie, la revisione, il riordino ed il riassetto di norme preesistenti, queste finalità giustificano un adeguamento della disciplina al nuovo quadro normativo complessivo, conseguito dal sovrapporsi, nel tempo, di disposizioni emanate in vista di situazioni ed assetti diversi. L’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente è, tuttavia, ammissibile soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato (sentenza n. 170 del 2007 e n. 239 del 2003).”

Analizzati i punti salienti della delega, la sua ratio e finalità, alla Corte Costituzionale è parsa chiara la fondatezza delle tesi dei ricorrenti e, conseguentemente, la illegittimità costituzionale dell’art. 43.

Difatti la legge-delega aveva conferito al legislatore delegato il potere di provvedere solamente ad un coordinamento formale relativo a disposizioni vigenti, quando, al contrario, l’acquisizione coattiva sanante introdotta dall’art.43 era – evidentemente – caratterizzata da numerosi aspetti di novità, tanto rispetto alla disciplina espropriativa pre Testo Unico, quanto agli istituti di matrice prevalentemente giurisprudenziale dell’occupazione usurpativa ed acquisitiva.

Il pregresso impianto normativo in materia di espropri, difatti, non consentiva affatto alcuna sanatoria di pregresse procedure da parte della PA; così come, hanno spiegato i giudici costituzionali, neppure sarebbe valso collegarsi agli orientamenti giurisprudenziali che avevano introdotto le occupazioni acquisitive ed usurpative, in quanto le previsioni dell’art.43 eccedevano, per diversi aspetti, anche i limiti di tali istituti.

L’art.43, difatti, aveva assimilato le due figure giurisprudenziali delle occupazioni acquisitive ed usurpative, secondo la Consulta, introducendo la possibilità, per l’amministrazione e per chi utilizzava il bene, di chiedere al giudice amministrativo, in ogni caso e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in luogo della restituzione.

Inoltre, altro profilo di evidente eccesso rispetto alla originaria delega, era che l’art. 43 estendeva tale sanatoria anche alle servitù, per le quali la giurisprudenza aveva escluso l’applicabilità della occupazione appropriativa, trattandosi di fattispecie non applicabile all’acquisto di un diritto reale in re aliena, in quanto difettava la non emendabile trasformazione del suolo in una componente essenziale dell’opera pubblica.

Secondo la Corte anche il differimento della produzione dell’effetto traslativo al momento dell’atto di acquisizione sanante costituiva un elemento innovativo dell’art. 43.

L’evidente portata innovativa dell’art. 43 tanto rispetto al contesto normativo positivo di cui era stato consentito solo un semplice riordino, quanto rispetto agli orientamenti di giurisprudenza, hanno condotto alla censura di illegittimità costituzionale della norma.

3. Alcune riflessioni sulle prospettive di una eventuale riforma.

De iure condendo molte dovranno essere le criticità dell’art. 43 da superare da parte del legislatore di una futura (ed auspicabile) riforma, già da più parti invocata.

In pratica un eventuale intervento del legislatore non potrà non affrontare, risolvendoli, gli aspetti problematici dell’ormai abrogata norma che avevano suscitato finanche contrasti giurisprudenziali.

Il pensiero va, prima di tutto, all’applicazione retroattiva o meno che di una norma simile a quella abrogata, si dovrebbe fare.

L’art. 43, infatti, come noto aveva creato una spaccatura tra la giurisprudenza della Cassazione, orientata ad escluderne l’applicazione retroattiva per effetto dell’art. 57 TU espropri e quella del Consiglio di Stato che, al contrario, ritenendola avulsa dal procedimento espropriativo, ne aveva escluso la riconduzione all’art. 57 e la conseguente retroattività.

Il tema, tanto importante da essere stato richiamato anche nella sentenza 293/10 della Corte Costituzionale, in prospettiva futura non potrà non essere ex professo affrontato dal legislatore, in modo da evitare inutili divisioni da parte della magistratura di volta in volta chiamata a pronunciarsi.

Altro tema di rilievo che dovrà essere considerato de iure condendo attiene alla competenza all’adozione dell’atto.

Anche per tale aspetto il legislatore dovrà chiarire chi dovrà essere l’organo competente all’adozione di un atto simile a quello di cui all’art.43; la giunta (in verità esclusa anche dall’attuale giurisprudenza), il consiglio, il dirigente?

A tale riguardo nota, e già richiamata nel presente scritto, la divisione interna al giudice amministrativo tra chi riteneva competente il dirigente, soprattutto nei casi in cui già fosse intervenuta una preventiva dichiarazione di p.u. (cfr. ad esempio TAR Toscana, Sez. I, 12 maggio 2009, n. 817) e quanti ritenevano (da ultimo anche il Cons. Stato, Sez. V, 13 ottobre 2010, n. 7472) che la competenza non potesse non essere del consiglio comunale in virtù dell’art. 42 TUEL.

Altri profili problematici che hanno interessato l’art. 43 e che non potranno non essere superati dal legislatore di un’auspicabile riforma, attengono anche ad elementi soggettivi ed oggettivi da rispettare per l’emanazione di un provvedimento acquisitivo sanante.

Quanto ai primi, il pensiero va all’autorità competente all’adozione di un atto di tal fatta; il comma 1 dell’abrogata norma, infatti, si limitava a ritenere legittimata attiva all’adozione del 43 l’autorità che utilizzava un bene immobile per scopi di interesse pubblico.

In disparte la lettura di autorità competente, evidentemente richiamata l’autorità espropriante, dubbi nascevano sui soggetti privati, magari concessionari delegati dei poteri espropriativi.

Potevano, in pratica, soggetti privati adottare un provvedimento acquisitivo? A rigore, in senso contrario avrebbe dovuto porsi il riferimento al patrimonio indisponibile cui dovevano confluire i beni immobili illegittimamente occupati.

Ma l’art. 43, nella sua formulazione alquanto lacunosa, mi si passi il termine, non risolveva tale dubbio (al riguardo cfr. TAR Veneto, Sez. I, 14 maggio 2007, n. 1462).

Ancora, sotto il profilo oggettivo, in prospettiva riformatrice, non potrà non essere tenuto presente che l’abrogata norma non chiariva espressamente se il provvedimento sanante potesse o meno essere adottato in assenza del vincolo preordinato all’esproprio; al riguardo, infatti, l’art. 43 si riferiva al solo annullamento (cfr. comma 2, lett. a) dell’atto da cui era sorto il vincolo e nulla più.

Ma non solo.

Il legislatore dovrà espressamente indicare se occorre (come, solo la giurisprudenza aveva chiarito sull’art. 43) o meno, la comunicazione di avvio del procedimento preliminare ad un provvedimento sanante, dovrà indicare la necessità dei tipi di frazionamento (altra assenza, invero accomunata alla stessa procedura ablativa ordinaria), nonché l’obbligatorietà o meno di una motivazione approfondita.

E che dire in ordine alla sorte del risarcimento del danno?

Anche su tale aspetto il legislatore non potrà non tenere presente le criticità emerse dall’applicazione dell’art. 43; dalla procedura da seguire (ma è necessario il deposito delle somme non accettate dai proprietari? la previsione del risarcimento, obbligatoria ai fini della legittimità dell’atto, deve essere collegata o meno ad un “colloquio” col privato?) alla corretta quantificazione del ristoro (basti pensare al problema della rivalutazione ed a quello degli interessi) fino ad arrivare alla conseguenze sul quantum risarcitorio per effetto di un pagamento – già avvenuto negli anni, seppur non seguito da valido ed efficace decreto – dell’indennità.

In definitiva il legislatore di un’eventuale riforma non potrà, se non si vorranno far riemergere dubbi interpretativi e problematiche oggettive, non confrontarsi con alcune delle criticità presentate dall’art. 43 e con le soluzioni alle stesse fornite dalla giurisprudenza che già ha avuto modo di pronunciarsi sui diversi punti.

Visti i precedenti, c’è da sperare che la prossima sia davvero una riforma che ponga fine agli annosi problemi che le pubbliche amministrazioni sono chiamate ad affrontare relativamente alla sorte di immobili occupati da anni e mai espropriati, se non di fatto.

L’occasione è sicuramente propizia per fare chiarezza: speriamo che il legislatore provveda in tempi brevi posta la drammatica situazione che stanno vivendo numerosissime amministrazioni italiane che non sanno come definire situazioni di occupazioni divenute illegittime e non concluse con validi procedimenti ablativi.

E pensare che l’art. 43 sembrava aver risolto tutti i mali!!


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