Il corto circuito Stato-regioni nell’emergenza sanitaria
MICHELE ORICCHIO, Il corto circuito Stato-regioni nell’emergenza sanitaria: il caso Valle D’Aosta.
MICHELE ORICCHIO
(Presidente di sezione della Corte dei Conti)
Il corto circuito Stato-regioni nell’emergenza
sanitaria: il caso Valle d’Aosta
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 37 del 12 marzo 2021 ha scritto un’altra pagina nella complicata storia dei rapporti fra Stato e regioni, pagina che aveva avuto come “incipit” l’impugnativa da parte dello Stato della legge della Regione Valle d’Aosta 9 dicembre 2020, n.11 recante “misure di contenimento della diffusione del virus SARS-COV-2 nelle attività sociali ed economiche della Regione autonoma Valle d’Aosta in relazione allo stato di emergenza”.
Questa volta, la Presidenza del Consiglio, per il meritorio tramite dell’avvocatura Erariale, aveva richiesto anche la sospensione dell’efficacia dell’intera legge impugnata evidenziando la sussistenza di un pericolo di danno grave ed irreparabile derivante dall’eventuale applicazione delle disposizioni in essa contenute : tale misura cautelare era stata concessa con l’ordinanza n.4 del gennaio 2021.
A distanza di poco più di due mesi è stata poi pubblicata la sentenza di merito che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 4 (commi 1, 2, 3) della legge della Valle d’Aosta 9 dicembre 2020 n.11 perché sostanzialmente ritenuti travalicare “non solo i limiti che in via generale sono riservati alle autonomie dal legislatore statale, ma dispongono che ciò avvenga con legge , nonostante l’impiego della fonte primaria sia precluso dalla legislazione statale a ciò titolata”.
La vicenda processuale testè sintetizzata si connota per alcune specificità che attengono sia all’uso del potere cautelare che al vero e proprio merito della controversia che è opportuno segnalare e che confermano l’irragionevolezza del sistema istituzionale che si è venuto confusamente consolidando in questi ultimi anni nel nostro Paese e che ha richiesto la rassicurante affermazione che “Lo Stato c’è e ci sarà”, pronunciata dal presidente Draghi a Bergamo il 18 marzo scorso durante la toccante cerimonia per l’istituzione della giornata nazionale delle vittime del Covid.
Profili processuali
La Corte costituzionale , investita della richiesta di misura cautelare nell’ambito dell’impugnativa governativa della legge valdostana n. 11/2020, con l’ordinanza n. 4/2021 ne ha disposto la completa sospensione dell’efficacia emettendo così il primo provvedimento, nella ormai lunga storia della Corte (iniziata nel 1956), recante la sospensione dell’efficacia di una legge regionale impugnata in via d’azione attraverso l’applicazione di un meccanismo (analogo a quello previsto dal codice del processo amministrativo nell’art. 55) già presente negli artt.35 e 40 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (recante norme sulla costituzione ed il funzionamento della Corte costituzionale) e nell’art. 21 delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.
Orbene, l’art. 40 della legge 1 marzo 1953, n. 87, prevedeva originariamente che la Corte costituzionale potesse, nell’ambito di un conflitto di attribuzioni tra Stato e Regioni o tra Regioni, sospendere per gravi ragioni e con ordinanza motivata l’esecuzione degli atti che avessero dato luogo al conflitto stesso. Questa previsione è stata estesa ai giudizi sulle leggi sollevati in via principale, in forza della legge 5 giugno 2003, n. 131, c.d. legge “La Loggia”, il cui art. 9, comma 4, ha sostituito il vecchio testo dell’art. 35, l. n. 87/1953. Nella Relazione illustrativa al d.d.l. n. 1545, deliberato dal Consiglio dei Ministri il 19 aprile 2002, l’introduzione del potere di sospensiva della Corte nei giudizi in via d’azione veniva giustificato, in particolare, in ragione del «nuovo sistema di verifica, successivo alla pubblicazione della legge regionale (e non più preventivo)», dovuto all’entrata in vigore della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Il testo vigente così dispone: «…Qualora la Corte ritenga che l’esecuzione dell’atto impugnato o di parti di esso possa comportare il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico o all’ordinamento giuridico della Repubblica, ovvero di un pregiudizio grave e irreparabile per i diritti dei cittadini, trascorso il termine di cui all’art. 25, d’ufficio può adottare i provvedimenti di cui all’art. 40. In tal caso l’udienza di discussione è fissata entro i successivi trenta giorni e il dispositivo della sentenza è depositato entro quindici giorni dall’udienza di discussione».
La sospensione, ai sensi dell’art. 28 delle norme integrative, può essere chiesta in qualsiasi momento, anche nell’udienza di discussione, e la Corte si pronuncerà al riguardo in camera di consiglio, uditi i rappresentanti delle parti e previe le indagini che ritenga opportune.
E’ di tutta evidenza come il potere cautelare utilizzato dalla Corte nel caso in esame sia strettamente collegato al fatto che, con la riforma del titolo V, le leggi regionali entrano in vigore immediatamente senza alcun previo vaglio di compatibilità ordinamentale, come accadeva nella vigenza del testo originario dell’art. 127 della Carta, donde la necessità di introdurre un meccanismo di sospensione giudiziale degli atti legislativi: questo, peraltro, è disciplinato da una legge ordinaria cioè da una fonte che, ad oggi, è la stessa con la quale è stato introdotto il potere di sospensiva nell’ambito dei conflitti tra Stato e Regioni o tra Regioni.
In dottrina ha suscitato qualche perplessità il fatto che si sia ritenuto di ricorrere ad una legge ordinaria per disciplinare un potere della Corte che incide, però, su leggi o atti aventi forza di legge statali e regionali e non, come nel caso dell’art. 40 della legge n. 87/1953, su atti normativi di rango sub-primario.
Si tratta comunque di un’esigenza obiettiva conseguente all’inscindibile binomio “tempo/effettività della tutela” che è da ricollegarsi, in primo luogo e senza dubbio, all’art. 113 Cost., cui si deve aggiungere l’art. 111 Cost. che, tra i principi del giusto processo, richiama quello della “ragionevole durata”, altresì proclamato all’art. 6, par. 1 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali (CEDU).
Ciò significa che il potere cautelare è sicuramente implicito in tutte quelle forme di tutela giurisdizionale in cui vengono in rilievo diritti soggettivi ed interessi legittimi quali, ad esempio, il processo civile ed amministrativo e, a maggior ragione, quello costituzionale.
La problematica sottesa alla riflessione sulla tutela cautelare nei giudizi costituzionali è, dunque, costituita dalla constatazione che, come ogni giudice, anche quello delle leggi è chiamato ad assolvere il proprio compito di garantire la supremazia dei valori costituzionali attraverso forme processuali. Il rispetto di queste forme non è evidentemente fine a se stesso, ma è stato concepito come condizione necessaria per un esame approfondito delle questioni rilevanti ai fini della decisione di merito, come strumento per conseguire lo scopo di emanare una decisione finale “giusta”, attraverso l’applicazione del corretto parametro di diritto costituzionale alla questione dedotta in giudizio. Per questo motivo i processi costituzionali, al pari degli altri tipi di processo, hanno una loro fisiologica durata nel tempo.
Durante il tempo necessario alla Corte costituzionale per una cognizione piena ed esauriente delle questioni rilevanti ai fini della decisione finale, con l’essenziale apporto di un approfondito contraddittorio delle parti, vi può essere però il pericolo concreto che si verifichino degli eventi in grado di frustrare l’utilità del provvedimento conclusivo, rendendo così necessaria l’assunzione di misure cautelari, in un quadro di assoluta coerenza con i principi del diritto processuale.
In tale contesto e in riferimento al caso concreto la Corte, accogliendo la tesi statale, ha ritenuto sussistente il fumus boni iuris, sull’assorbente considerazione che gli interventi consentiti al legislatore regionale avrebbero riguardato la materia della profilassi internazionale, riservata alla competenza esclusiva dello Stato dall’art. 117, secondo comma, lett. q) della Costituzione, ferma restante la possibilità di diversificazioni regionali della disciplina, adottate nel quadro di una leale collaborazione tra Stato e Regioni.
Ha quindi ritenuto che l’applicazione della legge fino alla trattazione nel merito della questione avrebbe potuto comportare “il rischio di un irreparabile pregiudizio all’interesse pubblico ad una gestione unitaria dell’epidemia a livello nazionale” nonché “il rischio di un pregiudizio grave e irreparabile per la salute delle persone”.
L’ordinanza n. 4 del 13 gennaio 2021 si impone, dunque, all’attenzione dei cultori del diritto pubblico per rappresentare un unicum nel panorama della giurisprudenza costituzionale sia perché ha sospeso l’efficacia di una intera legge regionale, sia perché è intervenuta per la prima volta in materia di emergenza sanitaria e distribuzione di competenze fra Stato e regioni; ad essa ha fatto immediato seguito la sentenza n. 37 del 12 marzo scorso con cui è stato sostanzialmente confermato l’impianto motivazionale sottostante il provvedimento cautelare confermandosi che “ Non è in discussione in questo giudizio, che riguarda il riparto di competenze nel contrasto alla pandemia, la legittimità dei d.P.C.m. adottati a tale scopo – comunque assoggettati al sindacato del giudice amministrativo – ma è, invece, da affermare il divieto per le Regioni, anche ad autonomia speciale, di interferire legislativamente con la disciplina fissata dal competente legislatore statale. Difatti, «ciò che è implicitamente escluso dal sistema costituzionale è che il legislatore regionale (così come il legislatore statale rispetto alle leggi regionali) utilizzi la potestà legislativa allo scopo di rendere inapplicabile nel proprio territorio una legge dello Stato che ritenga costituzionalmente illegittima, se non addirittura solo dannosa o inopportuna […]. Dunque né lo Stato né le Regioni possono pretendere, al di fuori delle procedure previste da disposizioni costituzionali, di risolvere direttamente gli eventuali conflitti tra i rispettivi atti legislativi tramite proprie disposizioni di legge» (sentenza n. 198 del 2004)”.
Sulla base di queste considerazioni, le questioni di costituzionalità degli artt. 1, 2 e 4, commi 1, 2 e 3, della legge regionale impugnata sono state dichiarate fondate, con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera q), della Costituzione.
Profili di merito
Così sinteticamente ricostruita la vicenda processuale di riferimento, la pronuncia in rassegna si segnala anche per la questione di merito affrontata, scaturita da un ricorso dello Stato in cui si è impugnata una intera legge regionale che consentiva, negli articoli dichiarati incostituzionali, lo svolgimento di attività economiche e sociali in deroga alla normativa statale sull’emergenza pandemica .
Si tratta di una materia molto sensibile specie in questo periodo emergenziale in quanto la gestione della pandemia sta passando per le mani di numerose istituzioni. Una mappa molto complessa da ricostruire in cui ogni giorno vengono prese decisioni importanti: sia legislative che amministrative.
Secondo uno studio di Openpolis, solo fino al 31 marzo scorso – in Italia erano stati emanati dalle istituzioni centrali ben 583 atti per contrastare l’avanzata del coronavirus nel nostro paese, per una media di oltre 37 al mese. I primi mesi del 2020 sono stati i più intensi dal punto di vista della produzione normativa: a febbraio sono stati pubblicati 67 atti Covid, a marzo 103, ad aprile 65. Nel 2021 gli atti pubblicati sono già 117.
Imprecisate poi sono le ordinanze di Presidenti di regione e sindaci, molte delle quali connotate da delicati profili di compatibilità con le garanzie sostanziali e procedurali (es. “riserve di legge”) sancite in Costituzione : in tale magmatico contesto è stato individuato nell’art. 1 del d.l. 23 febbraio 2020 n. 6, convertito nella legge 5 marzo 2020 n. 13 (ove è rimesso “alle autorità competenti di adottare ogni misura di contenimento e gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”) il presupposto per l’emanazione dei numerosi DPCM che hanno recato disposizioni per il contrasto all’emergenza pandemica.
Tale normativa primaria, integrata dalle previsioni recate dal successivo d.l. 25 marzo 2020, n. 19, convertito nella legge 22 marzo 2020 n. 35, ha definito in generale le misure limitative della libertà che possono, poi, essere disposte nei casi specifici tramite atti di normazione secondaria (quali DPCM) mentre le ordinanze dei presidenti delle regioni hanno trovato fondamento normativo nella legge istitutiva del S.S.N. n. 833 del 1978 (art. 32, co. 3).
Ne è scaturito un frequente contrasto di iniziative che ha anche originato un copioso contenzioso nel cui ambito va sicuramente ascritto quello conclusosi con la sentenza n. 37/2021 dell’Alta Corte che, peraltro, con le successive ordinanze n. 66 e n. 67 del 13 aprile 2021, ha affrontato -dichiarandoli inammissibili- i conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato in relazione a tutti gli atti adottati dal Governo per fronteggiare l’emergenza Covid dall’inizio della pandemia rispettivamente al 20 novembre e al 7 dicembre 2020, date in cui erano stati depositati due distinti ricorsi ad opera di due deputati che avevano ritenuto sussistente una carenza di potere del Governo e del Presidente del C.M. a provvedere.
Tutto ciò è accaduto sia perchè il principio di “leale collaborazione” è più facilmente enunciato che applicato sia per l’assenza, in Costituzione, di una esplicita previsione generale del c.d. “stato di eccezione” la cui ipotesi ricorre unicamente nell’art.78 con riguardo al solo caso di guerra in cui è previsto che “le Camere conferiscono al governo i poteri necessari”.
E’ andato così consolidandosi una sorta di “percorso ad ostacoli” che ha comportato un reiterato ricorso alla Giustizia, specie amministrativa, il cui intervento cautelare è stato spesso richiesto non solo da privati che si sono ritenuti illegittimamente penalizzati dai provvedimenti emergenziali emanati soprattutto in sede locale, ma anche dal Governo che, nel mentre era impegnato a combattere l’emergenza sanitaria, ha ritenuto di dovere impugnare diversi provvedimenti “eccentrici” di autorità territoriali che, a loro volta, hanno sovente impugnato atti governativi: si tratta di un corposo contenzioso di cui sinceramente non si sentiva l’esigenza che è cominciato con l’impugnativa del provvedimento del presidente della regione Marche, che aveva disposto la chiusura delle scuole sin dal 24 febbraio 2020 anche in assenza all’epoca di casi di contagio (sospeso con decreto n.118/2020 Presidente TAR-Marche) e registra, da ultimo, vari pronunciamenti sulla contestata ascrivibilità delle regioni alle varie fasce di rischio (vedasi Lombardia e Sardegna) ovvero sulla legittimità dei provvedimenti che obbligano alla D.A.D. (didattica a distanza).
Nel caso in esame, invece, il contenzioso ha investito la Corte costituzionale in quanto la regione Valle d’Aosta aveva ritenuto di emanare un provvedimento legislativo per contrastare le previsioni contenute in un provvedimento legislativo statale costringendo il Governo ad impugnarlo estensivamente proponendo varie questioni di costituzionalità di cui quelle relative agli artt. 1, 2 e 4, commi 1, 2 e 3, della legge regionale impugnata sono state dichiarate fondate, con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera q), Cost.
Secondo la Corte “ Tali disposizioni, infatti, surrogano la sequenza di regolazione disegnata dal legislatore statale appositamente per la lotta contro la malattia generata dal nuovo COVID-19, imponendone una autonoma e alternativa, che fa invece capo alle previsioni legislative regionali e alle ordinanze del Presidente della Giunta.
È perciò evidente l’invasione della sfera di competenza legislativa esclusiva dello Stato. Essa non dipende dalla manifestazione di un effettivo contrasto tra le singole misure in concreto applicabili sulla base dei d.P.C.m. e quelle imposte in forza della normativa regionale. Infatti, una simile antinomia potrebbe sorgere ad un dato tempo e venire meno in un tempo successivo, o viceversa, a seconda di come evolvano diacronicamente l’ordinamento statale e quello regionale per effetto dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri da un lato, e delle ordinanze del Presidente della Regione dall’altro. Non è quindi questione di soffermarsi sulle censure che il ricorso rivolge specificamente a talune previsioni contenute nell’art. 2 impugnato, in forza della divergenza che esse avrebbero rispetto al contenuto del d.P.C.m. vigente al tempo di promulgazione della legge regionale censurata.
Ciò che rileva, prima ancora e in via assorbente, è invece la sovrapposizione della catena di regolazione della Regione a quella prescelta dalla competente normativa dello Stato, con conseguente invasione di una sfera di attribuzione sottratta all’intervento del legislatore regionale”.
La Corte ha, dunque, affermato l’importante principio che il nostro sistema costituzionale non consente una politica regionale autonoma sulla pandemia, quand’anche di carattere più stringente rispetto a quella statale, ma la sola disciplina che si dovesse imporre per ragioni manifestatesi dopo l’adozione di un D.P.C.M. e prima che sia assunto quello successivo e ciò solo per mezzo di atti amministrativi , in ragione della loro flessibilità e non con attività legislativa regionale.
Conclusioni
Come ha ricordato la Corte nella sentenza in rassegna, l’art. 117, comma 2 lett. q) attribuisce allo Stato la competenza legislativa esclusiva in materia di “profilassi internazionale”, mentre nel terzo comma vi è la previsione di una competenza concorrente in materia di “tutela della salute” e “protezione civile” sicchè non si spiega, se non con una evidente debolezza di sistema, perché il legislatore statale non abbia fatto da subito esplicito ricorso alla richiamata competenza esclusiva , spegnendo sul nascere ogni possibile velleità normativa delle regioni in questo delicato frangente, salvo poi ad appellarvisi in sede di contenzioso costituzionale.
Peraltro anche a voler richiamarsi alla materia della “salute”, il principio di sussidiarietà, introdotto con la riforma del 2001 all’art.118 postula che, a fronte di un’emergenza nazionale, la gestione della stessa sia assunta dal livello amministrativo corrispondente, ovvero quello nazionale rappresentato dal Governo, c.d. “sussidiarietà verso l’alto” secondo la elaborazione della Suprema Corte degli Stati Uniti.
Del resto proprio la Corte costituzionale sin dalla sentenza n. 303 del 1 ottobre 2003 aveva affermato che “l’avocazione della funzione amministrativa si deve accompagnare all’attrazione della competenza legislativa necessaria alla sua disciplina, onde consentire il rispetto del principio della legalità dell’azione amministrativa”.
Peraltro la leale collaborazione fra i vari livelli di governo ha subito mostrato notevoli difficoltà ad affermarsi durante l’emergenza, mettendo “a nudo” tutte le sue debolezze in un sistema “diarchico” come quello realizzato con la riforma del titolo V, cui certo non possono porre rimedio i pur frequenti autorevoli moniti lanciati dal Presidente della Repubblica: “La piena attuazione della Costituzione richiede un impegno corale, con l’attiva, leale collaborazione di tutte le Istituzioni, compresi Parlamento, governo, Regioni, giudici. Questa cooperazione è anche la chiave per affrontare l’emergenza”.
Contrasti, invece, insorgono ad ogni occasione e comportano estenuanti discussioni e convulse decisioni che dimostrano inconfutabilmente come vi sia in Italia un grande e irrisolto problema di rapporti fra il livello di governo nazionale e quelli regionali, peraltro affetti da un eccesso di protagonismo: il diritto all’istruzione può essere differenziato e limitato in alcuni luoghi e non in altri da decisioni locali? Può il diritto costituzionale alla libera circolazione dei cittadini essere impedito da ordinanze regionali? La risposta non dovrebbe che essere negativa e conferma una indubbia debolezza del Parlamento, unico depositario della sovranità popolare nonchè del Governo centrale, che non hanno saputo e voluto avocare ogni competenza in questo delicato frangente come pure era possibile – certo non facile, con la Costituzione vigente- in base all’art. l’art. 117, comma 2 lett. q), come applicato nella sentenza in rassegna che ha fondato la decisione sulla condivisibilissima considerazione che “le modalità di diffusione del virus da Covid-19 rendono qualunque aggravamento del rischio, anche su base locale, idoneo a compromettere in modo irreparabile la salute delle persone “sicchè la responsabilità di fronteggiare l’aggravamento del rischio deve spettare esclusivamente allo Stato che, peraltro, deve in ciò utilizzare un sistema sanitario “regionalizzato”.
Dunque, quando questa emergenza sarà finita sarà necessario affrontare subito l’ormai indifferibile problema del disordine istituzionale in cui siamo piombati, quasi senza accorgercene, inseguendo passivamente le sirene dell’”autonomismo” con conseguente stratificazione di particolarismi ed arroganze di compiaciuti sedicenti “governatori” di turno che danneggiano tutto il sistema-paese e non possono trovare una sintesi solo in sede giudiziale.
L’episodio che ha originato il contenzioso qui esaminato costituisce, infatti, solo un ennesimo esempio del persistente contrasto fra Stato ed autonomie locali che ha caratterizzato gran parte della gestione dell’emergenza sanitaria conseguente alla diffusione della pandemia da Coronavirus nel nostro Paese e che sta provocando una diffusa presa di coscienza dell’insostenibile logorio cui sono sottoposte le Istituzioni della Repubblica, in gran parte dovuto alla mai sufficientemente deplorata riforma del titolo V della Costituzione, di cui ricorre il ventennale, essendo stata introdotta con la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3.
Sebbene il caso affrontato dall’Alta Corte non sia direttamente riconducibile alla richiamata riforma, trattandosi di legge emanata da una (micro)regione con un proprio risalente statuto speciale (di cui alla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4) è evidente come la problematica affrontata si inserisca a pieno titolo nel dibattito sul riparto di compiti fra i diversi livelli di governo esistenti nel nostro Paese e sull’ormai indilazionabile necessità di porvi ordine.
Infatti durante la fase emergenziale si è prepotentemente manifestata quella eccessiva ed artificiosa dispersione di numerose competenze e funzioni pubbliche, diretta conseguenza della richiamata riforma, che costituì l’esito di una esasperata logica autonomistica affermatasi negli anni Novanta del secolo scorso e che ha prodotto una disarticolazione territoriale del potere politico-amministrativo, prigioniero di troppi particolarismi che lo condannano all’immobilismo e soffocano l’interesse pubblico generale, favorendo nel contempo quel fenomeno che ho definito in un recente saggio sull’argomento come “sistema delle nuove signorie” a tal punto ramificatosi da rendere manifesta l’esistenza di una vera e propria questione istituzionale nel nostro Paese .
La problematica risolta dal Giudice delle Leggi con la sentenza n. 37/2021 si inserisce a pieno titolo nel dibattito in essere sulla complessiva funzionalità ed efficienza delle Istituzioni della Repubblica , divenuto di crescente attualità anche in considerazione delle esigenze della società civile, degli impegni assunti in sede europea e delle condizionalità che gli Organismi comunitari opportunamente pongono all’erogazione di fondi per facilitare la ripresa economica, dopo la profonda depressione causata dalla pandemia ( “next generation EU”).
Per avviare a soluzione il problema , un primo – certo non esaustivo- rimedio non può che essere quello dell’introduzione in Costituzione della clausola espressa di supremazia dell’interesse nazionale, quanto mai adatta ad un Paese come il nostro che nel mentre si confronta in un ambito confederale europeo, si caratterizza al suo interno per una intrinseca debolezza conseguente anche ad una guida politica centrale mutevole per il continuo passaggio di governi e di forze politiche che penalizza l’affermarsi di veri uomini di Stato e favorisce eccentriche velleità localistiche.
Una considerazione finale si impone: la legge impugnata era la n. 11 del dicembre 2020 della Valle d’Aosta: ma veramente per una regione che ha una popolazione inferiore ad una media città italiana capoluogo di provincia si può tenere in piedi un “potere legislativo” tanto costoso quanto inefficace ed oggettivamente disgregante?
Nè è un problema esclusivamente di dimensioni dell’ente: ancora la Corte Costituzionale con la successiva sentenza n. 44/20221 ha dovuto dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art.1, co.12 della legge della regione siciliana n. 19 del 28 novembre 2019 (dunque di fine anno) recante “disposizioni per la rideterminazione dei vitalizi” nella parte in cui – a differenza di quanto previsto in sede statale- limitava a soli cinque anni l’operatività dei parametri per la rideterminazione degli assegni vitalizi dei componenti dell’assemblea regionale!
Uno dei massimi giuristi e pensatori italiani del XVIII secolo, Gaetano Filagieri, ebbe ad interrogarsi su cosa fosse la feudalità e la individuò in “una specie di governo che divide lo Stato in tanti piccoli stati, le sovranità in tante piccole sovranità, la giustizia in tante giustizie”: purtroppo sembra una considerazione applicabile ancora oggi al nostro sistema-Paese.