La riforma della dirigenza preconizzata da Renzi (nomine fiduciarie ed abolizione dei segretari comunali)

n. 5/2014 | 25 Maggio 2014 | © Copyright | - Articoli e note, Pubblico impiego | Torna indietro More

RICCARDO NOBILE, Dirigenza pubblica, anelito alla fiduciarietà degli incarichi dirigenziali e precettistica: prime annotazioni sull’índice della riforma*.


RICCARDO NOBILE

Dirigenza pubblica, anelito alla fiduciarietà degli incarichi dirigenziali
e precettistica: prime annotazioni sull’índice della riforma


Eccoci al dunque: la pubblica amministrazione non opera come dovrebbe, dunque bisogna riformarla. In particolare, non piace come funziona la dirigenza, così come pure non piacciono i segretari comunali. Dunque, riformare la prima ed abolire i secondi si impone come un dogma. Detta così siamo in presenza del solito slogan. Per dirla un po’ meglio, delle solite parole-valore, il cui scopo e la funzione delle quali è connotare negativamente il proprio oggetto senza che esso sia definito con precisione. Il tutto con l’unica finalità di orientare negativamente l’uditorio sull’esistente e persuaderlo della bontà della ricetta preordinata alla rivoluzione preannunciata: la modifica nel primo caso e la soppressione nel secondo.

Che un simile modo di impostare il problema non possa piacere ad una mente anche solo un poco raffinata è di tutta evidenza. Che esso sia insufficiente e concettualmente sbagliato è dunque particolarmente evidente: quando si parla di situazioni da modificare occorre porsi in una prospettiva più complessa, alla quale la semplificazione dei termini è impropria ed estranea. Già, perché quando si vuol modificare l’esistente bisogna porsi prima di ogni cosa il problema dell’Essere e non darlo per scontato. Più propriamente, bisogna porsi non tanto il problema dell’Essere (Sein, to Be), quanto piuttosto quello dell’Esserci (Dasein, to Be in a Time). Qui l’Essere-nel-Tempo è davvero cruciale, perché misura l’attualità del proprio argomento e definisce fenomenologicamente l’oggetto di cui si parla e del quale si intende parlare. Il resto è linguaggio persuasivo, vuota retorica o altro [o peggio] ancora.

Noi oggi vogliamo commentare della diffusa propensione alla nomina fiduciaria della dirigenza, perché il ricorso alla fiduciarietà delle nomine deve essere correttamente inteso, a pena di cadere nell’equivoco e nella banalità. Banalità che aiuta solo a fare male. Senza che far presto possa in alcun modo migliorare la situazione.

Prima di investigare i termini della questione è bene e necessario analizzare il contesto ambientale nel quale i nuovi venti di riforma soffiano. Il problema è di ambiente, di perimetrazione temporale e di modalità di intervento. I tre termini non possono essere disgiunti: spazio, tempo e modo del dire le cose si completano a vicenda e dànno senso alla complessa questione in discussione.

Il contesto è noto: le riforme sono un imperativo categorico; senza riforme non si va da nessuna parte: dunque bisogna riformare. Il tempo delle riforme è prossimo alla scadenza: ecco perché bisogna agire con tempestività. Le riforme da attuare sono tante: dunque bisogna preannunciarle, ordinarle e attuarle. Meglio una dietro l’altra; meglio ancóra la successiva prima che la precedente sia stata completata: così, anche solo per mantenere alta la tensione. Di qui la prima conseguenza: l’ansia da riforme, sia in chi le preannuncia [che però è solo apparente perché voluta, talché essa non è ansia purchessia, ma solo strategia], sia nelle persone alle quali se ne parla [che, invece, è indotta, perché è costitutiva della strategia elaborata]. Il che ha una duplicità di conseguenze pratiche: in primo luogo, trasmettere l’idea che le cose stanno peggio di quanto si crede; in secondo luogo, rimarcare costantemente che il tempo incombe e che non può essere frapposto indugio all’attuazione delle riforme perché al peggio deve essere pósto argine e limite. Perché dopo il peggio v’è solo il baratro che già ora si intravvede. Di qui l’evidente tautologicità del riformare per produrre riforme.

Ecco spiegato il ricorso alla logica della tabella-di-marcia, del battere-il-tempo e del senso di incombenza, e dunque del fare-presto. Ed ecco spiegato anche il ripetuto mettere in discussione il proprio ruolo, paventando il tema dell’abbandono da parte del dispensatore di riforme: in fondo prospettare di continuo il proprio farsi da parte corrobora i contorni dello stato di necessità, o meglio, dello stato di eccezione costantemente evocato: riformare per non essere riformati.

Queste sono le ragioni di contesto per cui la riforma della pubblica amministrazione viene presentata come un vangelo, bene suddiviso in scarni versetti, talché chi lo legge impatta non in profondi concetti, ma in semplici didascalie, in una logica della semplificazione preordinata alla persuasione e non alla spiegazione ed alla comprensione. Perché per spiegare e far comprendere occorre rendere i termini della questione e quindi declinare soggetti, predicati e complementi, il che però qui non si dà. Perché per spiegare e far comprendere bisogna parlare di concetti, cosa che qui non è. Questa, in sintesi, è la fenomenologia del riformatore, tutte le volte in cui le riforme devono essere accolte da altri perché asserite non rinunciabili né ulteriormente differibili. Il tutto, ovviamente, senza che di ciò si dia possibilità di reale contraddittorio, per l’ovvia ragione he esso presuppone un pensiero coerente e consistente, che qui non è neppure abbozzato.

Ed ora veniamo ai termini della questione, ossia alla fiduciarietà degli incarichi dirigenziali. A dire il vero, nei 44 versetti in cui la prospettata riforma della pubblica amministrazione si compendia non ne parla esplicitamente. E pur tuttavia se ne sente aleggiare lo spirito leggendo i versetti 3, 9, 10 e 11, rispettivamente intitolati all’”esonero dal servizio” [ma di cosa parla chi ne parla?], all’”introduzione del ruolo unico della dirigenza“, all’”abolizione delle fasce per la dirigenza, carriera basata su incarichi a termine” ed alla “possibilità di licenziamento per il dirigente che rimane privo di incarico, oltre un termine“. Di qui il ragionevole sospetto che la nomina fondata su criterî fiduciarî disordinatamente intesi e con correttamente chiariti piaccia [il sospetto non è un atteggiamento negativo, come sbrigativamente fanno sempre intendere coloro che vogliono evitare lo svelamento di ciò che è retrostante all’apparente. Sono filosofi del sospetto Marx, Nietzsche e Freud, ma nessuno si sogna di non prenderli sul serio!].

Se cosí stanno le cose, sui contenuti della fiduciarietà della nomina dei dirigenti pubblici occorre correttamente intendersi, anche e soprattutto perché dirigenti non si diventa per caso, ma all’esito di un concorso pubblico, il quale è il luogo ed il modo attraverso cui chi ha acceduto al relativo ruolo ha dimostrato di possedere le prescritte competenze senza che null’altro debba ancóra dimostrare ex art. 97, comma 3 Cost..

Ciò detto, di fiduciarietà si parla da sempre, e dunque stupisce che se ne evochi ancóra lo spettro, anche perché parlare di [o anche solo evocare negromanticamente] una questione vecchia in un contesto di novità è una vera e propria contraddizione in termini. Ma cosa significa la parola “nomina fiduciaria”? Anche qui il problema è di contesto ed il contesto è quello che riguarda il dirigente pubblico, meglio il dirigente che opera all’interno della pubblica amministrazione, il che impone qualche riflessione.

Nell’ordinamento vigente opera il principio di separazione fra attività di governo e attività gestionale senza possibilità di commistioni. La prima è prerogativa della politica, e si esprime nella formazione di programmi e nella potestà di indirizzo preordinata alla loro attuazione. La seconda è demandata in via esclusiva alla dirigenza, ed è attività tecnica. Il principio di separazione fra politica e gestione amministrativa è scritto a chiare lettere nella normativa dal 1992, ed è espressione dei principî di legalità dell’azione della pubblica amministrazione e del suo necessario buon andamento ed imparzialità. Di essi si occupa in modo particolarmente eloquente l’art. 97, comma 1 Cost., con la conseguenza che l’azione del legislatore ordinario non ne può provocarne l’infrazione.

Che l’attività di gestione sia un’attività che appartiene al dominio della tecnica ha un’immediata conseguenza sul significato della fiduciarietà quando la si accosta alla scelta del dirigente: la tecnicità dell’azione amministrativa si fonda – né può essere altrimenti – sulle competenze. Sono le competenze tecniche che consentono alla tecnicalità della gestione amministrativa di funzionare, e dunque di essere efficace e quindi di funzionare. Senza competenze tecniche, la gestione non è piú tale: dunque, fra tecnica e competenze v’è un nesso inscindibile che non può essere spezzato. Nesso non di banale possibilità, ma di rigida necessità e di presupposizione ineliminabile. In altri termini, il dirigente è funzionario dell’apparato tecnico cui è preposto se e solo se è realmente competente, e di ciò chi lo nomina è necessario che tenga sempre conto.

Di qui almeno tre conclusioni. In primo luogo, la fiduciarietà della nomina della dirigenza deve essere necessariamente ancorata alle competenze tecniche necessarie per condurre l’azione che essa è chiamata a compiere. In secondo luogo, la fiduciarietà degli incarichi dirigenziali è tale se e solo se chi deve esprimerla la fonda sull’accertamento delle competenze, le quali divengono l’unico paradigma ordinamentalmente valido cui poter fare riferimento. In terzo luogo, la fiduciarietà non può essere definita ai presenti fini in altro modo, perché ogni altra definizione è semplicemente abusiva ed errata.

Le tre proposizioni che precedono generano una questione di cruciale importanza perché fondata su basi logiche ed in particolare sul principio di non contraddizione: una nomina fondata sulla competenza può essere definita fiduciaria? O piuttosto necessità della competenza e fiduciarietà dell’incarico dirigenziale sono concetti che si escludono perché incompatibili?

Si noterà che la definizione fornita della parola “fiduciarietà dell’incarico dirigenziale” attiene a concetti pre o meglio extragiuridici, che hanno a che fare col dominio della tecnica, col legame fra tecnicalità dell’agire e competenze e con la constatazione che il funzionamento della gestione tecnica poggia interamente sul principio di competenza. Ma per gli incarichi dirigenziali nella pubblica amministrazione il dato è sicuramente piú complesso.

Chi conferisce incarichi dirigenziali ha certamente il diritto di misurare la performance tecnica di chi è preposto all’azione gestionale, ed in ciò si esprimono e si circoscrivono i collegamenti con i principî dell’agire aziendale della pubblica amministrazione, con l’avvertenza che la valutazione deve essere fondata esclusivamente sul merito riscontrato e non su altro. Ma la pubblica amministrazione non è un’azienda – o meglio, un’impresa – per l’ovvia ed assorbente ragione che chi la amministra [dunque il politico, il dirigente-gestore] non è titolare del pubblico interesse cui è preordinata la sua azione, perché esso è pubblico, e non di singole persone. Di qui la conseguenza specifica per il caso di specie: l’incarico del dirigente pubblico deve essere preordinato al pubblico interesse, il che si esprime dicendo che esso deve essere improntato al principio di imparzialità, con l’ulteriore conclusione che le sue ragioni devono poter essere sempre verificabili e che l’accesso all’incarico deve essere davvero accessibile.

La scelta del dirigente è attribuita alla politica e, in particolar modo, al titolare dell’organo di governo. Ciò nulla toglie e nulla in piú aggiunge a quanto or ora evidenziato. La politica non può, anzi deve non poter [dunque deve essere vietato che possa], scegliere i dirigenti pubblici seguendo modalità differenti da quelle di cui abbiamo appena discusso. Agire di contrario avviso determina l’avvicinamento della nomina del dirigente pubblico ad un rito tribale, in cui ciò che risalta è solo l’arbitrarietà del decidere, la quale rischia di riverberarsi sulle modalità e sui contenuti dell’azione gestionale, soprattutto quando si intende esplicitamente prevedere la possibilità di risolvere unilateralmente il, o peggio prevedere cause di decadenza ex lege dal, rapporto di impiego pubblico per “il dirigente che rimane privo di incarico, oltre un termine“, come recita il ricordato versetto 11 dell’evangelica proposta di modifica della pubblica amministrazione.

In sintesi, l’imparzialità della nomina del dirigente pubblico esclusivamente fondata sulle competenze tecniche è un presupposto ineludibile per assicurare il buon andamento dell’azione della pubblica amministrazione, con la conclusione, che a noi pare difficilmente scalzabile, che i commi 1 e 3 dell’art. 97 Cost. sono un tutto organico e non parcellizzabile. Sistema organico cui concorrono anche gli artt. 3 e 51, comma 1 Cost., al quale si aggiunge il suo eloquente art. 98, per il quale “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione“.

Queste sono in estrema sintesi le ragioni per cui l’impianto della riforma della dirigenza cosí come didascalicamente perimetrata dai punti 3, 9, 10 e 11 piú volte richiamati non è convincente. Ciò che sembra emergere dalle scarne proposizioni in cui essa si articola è un quadro caratterizzato dalla compressione e dall’appiattimento della dirigenza pubblica su modelli ispirati alla logica della fiduaciarietà della nomina non necessariamente fondata sulla sua derivazione dalle competenze tecniche e forse anche della precarietà del rapporto di impiego sottostante al conferimento dell’incarico. Questo criterio di nomina è del tutto inammissibile in un contesto nel quale il paradigma della costituzionalità dell’azione della pubblica amministrazione si rinviene nel combinato disposto degli artt. 3, 51, comma 1, 97, commi 1 e 3, e 98 Cost. I quali, a questi fini, non sono certamente un optional negoziabile.

A queste succinte, ma emblematiche annotazioni deve essere aggiunto un ulteriore elemento di ponderazione e di giudizio: se la gestione dei dirigenti della pubblica amministrazione [ma ciò accade per tutte le organizzazioni, com’è ben noto] appartiene al dominio della tecnica, la quale, per la pervasività che le è propria, è il suo ambiente naturale, allora il dirigente-gestore deve essere reclutato esclusivamente in base alle competenze possedute e dimostrate in modo riscontrabile attraverso gli appropriati strumenti di conoscenza preventiva.

Nominare il dirigente-gestore in base al principio di competenza, perché esso è il solo in grado costituire la condizione necessaria affinché l’organizzazione funzioni [la tecnica non è né vera, né falsa; la tecnica non è né giusta, né ingiusta; la tecnica funziona o non funziona: per questa ragione il dirigente-gestore è funzionario dell’organizzazione e non altro, né di altri!], significa operare non su base fiduciaria, ma secondo principio di necessità (a necesse ad esse valet consequentia). Ma se cosí è, in cosa la fiduciarietà della nomina risalta? Per rispondere a questa domanda è utile rifarsi all’etimo dei termini: “fiduciarietà”, deriva da “fede” e quindi da “fides“. La fede è argumentum non apparentium [la fede è l’argomento del non apparente, come insegna san Paolo nella I lettera agli Ebrei, con chiarezza difficilmente controvertibile]. La sua funzione è dunque di rendere chiaro, e quindi apparente, ciò che è oscuro, e dunque che non appare, rischiarandolo e portandolo ad incontrovertibile evidenza.

Ma dopo tutto, quando si parla di nomina di un gestore che deve operare nel dominio della tecnica, cos’altro se non il non sense può significare che la sua nomina può [peggio ancóra, deve] avvenire su base fiduciaria, dal momento che fiduciarietà e principio di necessità sono antipodali? La competenza o v’è o non v’è, dunque non può essere oggetto di rischiaramento, per l’ovvia ed assorbente ragione che essa appare, senza bisogno di doversene convincere.

Quando si parla di nomina fiduciaria del dirigente ciò che inquieta è dunque proprio ciò che non appare, che però va rischiarato per non restare nell’ombra. Il quale, è però il suo argomento per definizione, con la conseguenza che l’oggetto di fede [articulum fidei], e quindi anche la ragione della fiduciarietà, deve essere rischiarato ed illuminato di verità. Il che è logicamente impossibile perché altro dalle competenze.

Tutto ciò genera non poche perplessità sull’intera manovra di riforma, perché parlare di nomine fiduciarie in questi contesti è davvero una contraddizione in termini. La quale è in netta antitesi proprio con quella verità illuminante che dovrebbe sovrastare [epi-steme] il proprio oggetto.

A questo punto, può essere utile rammemorare che di tecnicalità della gestione del dirigente discetta, ad esempio, la sentenza della Corte costituzionale23/71993 n. 333. Qui il giudice delle leggi ha sottolineato che “il principio di imparzialità […] si riflette immediatamente in altre norme costituzionali, quali l’art. 51 (tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge) e l’art. 98 (i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione) della Costituzione, attraverso cui si mira a garantire l’amministrazione pubblica e i suoi dipendenti da influenze politiche o, comunque, di parte, in relazione al complesso delle fasi concernenti l’impiego pubblico (accesso all’ufficio e svolgimento della carriera)“.

Ma la Corte costituzionale è andata ben oltre quando ha affermato che “gli artt. 97 e 98 Cost. sono corollari dell’imparzialità, in cui si esprime la distinzione tra politica e amministrazione, e quindi tra l’azione del governo – normalmente legata alle impostazioni di una parte politica, espressione delle forze di maggioranza – e l’azione dell’amministrazione, che, nell’attuazione dell’indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall’ordinamento“.

Il perseguimento dell’interesse connesso alla scelta delle persone più idonee all’esercizio della funzione pubblica deve avvenire “indipendentemente da ogni considerazione per gli orientamenti politici […] dei vari concorrenti“, in modo che “il carattere esclusivamente tecnico del giudizio [risulti] salvaguardato da ogni rischio di deviazione verso interessi di parte“. Solo in tal modo possono essere garantite “scelte finali fondate sull’applicazione di parametri neutrali e determinate soltanto dalla valutazione delle attitudini e della preparazione dei candidati“.

La tecnica ha bisogno di competenze certe, non di altro, proprio come l’azione gestionale della pubblica amministrazione: ecco perché evocare la fiduciarietà delle nomine dei dirigenti nella pubblica amministrazione è particolarmente inquietante. Ecco perché l’unico principio che va affermato è la circostanza che gli incarichi dirigenziali devono essere fondati sul solo principio di necessità: la necessità delle competenze. Il resto è altro da un discorso di senso.

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Documenti correlati:

Lettera ai dipendenti pubblici (diramata dopo il CdM n. 15 del 30 aprile 2014; annuncia, tra l’altro, leggi auto-applicative, l’abolizione della figura del segretario comunale, la modifica del codice degli appalti pubblici, “la fissazione della udienza di merito entro 30 giorni in caso di sospensione cautelare negli appalti pubblici” – già sostanzialmente prevista dal vigente art. 119, 3° comma, c.p.a., asili nido nelle amministrazioni ed un “rigoroso sistema di incompatibilità per i magistrati amministrativi”; invita tutti a scrivere, per commenti o suggerimenti, entro il 30 maggio 2014, alla seguente email: rivoluzione@governo.it); v. anche il testo diramato in formato .pdf.