Limiti del rispetto della libertà religiosa

n. 4/2014 | 1 Aprile 2014 | © Copyright | - Giurisprudenza, Giustizia civile | Torna indietro More

CORTE D’APPELLO DI VENEZIA – sentenza 20 marzo 2014, con commento di IVONE CACCIAVILLANI, Professione di fede religiosa, tutela dell’arte e laicità dello Stato.


CORTE D’APPELLO DI VENEZIA – sentenza 20 marzo 2014 n. 641 – Pres. e Rel. Zanellato – C.I. (Avv. Cacciavillani) c. Fondazione Biennale di Venezia (Avv.ti Rossi, Fusani e Gandolfi) – (conferma la sentenza n. 1763/2010 del Tribunale di Venezia).

Giustizia civile – Libertà religiosa e diritti della personalità – Funzione pubblica di promozione dell’arte – Limiti del rispetto della libertà religiosa – Tutela del sentimento religioso e principio di laicità dello Stato italiano – Dovere di operare un bilanciamento dei valori contrapposti – Necessità – Sussiste – Riconoscimento al singolo cittadino di un potere di censura fondato sulla propria sensibilità religiosa – Impossibilità – Fattispecie.

E’ indubbio che la Costituzione italiana, tutelando la libertà religiosa e i diritti della personalità, tuteli anche il sentimento religioso; la Carta costituzionale afferma peraltro anche la laicità dello Stato, il che esclude il diritto di un singolo cittadino di pretendere che lo Stato impedisca manifestazioni di pensiero contrarie ai principi della religione cristiana (ovviamente purché non si pongano problemi di ordine pubblico o fatti di rilevanza penale). Deve pertanto escludersi che al singolo cittadino possa riconoscersi un potere di censura fondato sulla propria sensibilità religiosa, sentimento necessariamente soggettivo (1).

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(1) Alla stregua del principio è stata confermata la sentenza del Tribunale di Venezia che aveva respinto l’azione proposta da un cittadino italiano nei confronti della Fondazione della Biennale dì Venezia affinché fosse accertato a) se la partecipazione al Festival della Danza 2007 del balletto Messiah Game fosse avvenuta su invito ovvero su istanza del relativo autore/produttore; b) che tale spettacolo era gravemente offensivo del comune sentire medio del cittadino cattolico; c) che tale programmazione costituiva violazione del diritto garantito dall’art. 19 della Costituzione (libertà religiosa); d) che il medesimo spettacolo violava anche il diritto dell’attore, quale cittadino cattolico, al rispetto del suo sentimento religioso. Con la stessa azione era stato chiesto che la Fondazione Biennale di Venezia convenuta fosse condannata al risarcimento dei danni non patrimoniali (morale, all’immagine ed esistenziale), con devoluzione della somma all’associazione che sarebbe stata indicata in sede di precisazione delle conclusioni, e, in via di risarcimento in forma specifica e che la sentenza fosse pubblicata per tre giorni su almeno quattro giornali di diffusione nazionale.


Commento di

IVONE CACCIAVILLANI

Professione di fede religiosa, tutela dell’arte e laicità dello Stato


La sentenza affronta con sorprendente unilateralismo e risolve con incredibile superficialità un problema di grande momento sistematico, che, sia in ragione del livello decisionale – una Corte d’appello – che della delicatezza del tema, meritava ben altra ponderazione ed approfondimento.

1. In linea di fatto la fattispecie era pacifica ed incontroversa: l’Ente convenuto -uno dei più prestigiosi tra quelli operanti in Italia- aveva invitato ad una manifestazione culturale (Rassegna internazionale) uno spettacolo pesantemente irridente le fondamentali verità cristiane. Erano seguite vibrate proteste della Gerarchia Cattolica che avevano indotto il Consiglio di Amministrazioni a verificare, in una seduta straordinaria, l’opportunità di mantenere in programma quello spettacolo, del quale talune rappresentazioni in ambito europeo avevano suscitato vivaci contestazioni. N’era sortito un comunicato stampa che informava come, dopo attenta ponderazione, l’Ente aveva deciso di mantenere in programmazione lo spettacolo con la precisazione che esulava da tale decisione ogni intento di ledere in modo veruno la sensibilità religiosa di chicchessia.

N’erano seguite sia la rappresentazione che le vibrate proteste del “mondo cattolico” (e per vero non solo), ma -ed ecco la peculiarità- anche, da parte d’un cittadino dichiaratosi quivis e populo, la citazione dell’Ente avanti al Tribunale civile per risarcimento del danno da lesione del diritto al rispetto, da parte di Ente gestore di funzione pubblica, delle proprie convinzioni religiose, la cui libera professione è garantita “a tutti” dall’articolo 19 della Costituzione. Il Tribunale adito aveva rigettato la domanda sul presupposto che nessuna norma dà al cittadino quivis e populo il diritto-potere di sindacare le decisioni d’un Ente pubblico “di cultura”, che per funzione istituzionale deve anzi favorire le rappresentazioni artistiche senz’alcuna preclusione “confessionale” in nome del principio di laicità dello Stato; tanto più, nel caso, in nome della libertà dell’arte, garantita a sua volta dall’art. 33 della Costituzione.

L’appello aveva riproposto la stessa domanda, precisando che essa intendeva porsi come difesa del diritto garantito “a tutti” dall’art. 19 e rientrante tra quelli che l’art. 2 Cost. dichiara inviolabili e tutelabili quindi “dall’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. La sentenza della Corte di merito ha “risposto” col passo riportato come massima, ma che costituisce anche il corpo della motivazione, di totale travisamento del thema decidendum.

Quello che l’appellante chiedeva alla Corte era di mettere ordine nell’affastellato coacervo di proposizioni che aveva portato il Tribunale al rigetto della domanda: laicità dello Stato e libertà dell’espressione artistica, in assoluto prevalenti sulla posizione giuridica del singolo cittadino.

L’equivoco di fondo che affligge l’impostazione “ideologica” della soluzione criticata nasce da una vera distrofia sistemica: proposizioni isolate come assiomi autosostentatisi, non coordinati da un filo logico coerente.

2. Non v’ha dubbio che la soluzione debba essere cercata -al di là degli assiomi e delle frasi fatte- nell’individuazione della scelta “di sistema” operata dall’art. 2 della Costituzione.

Il punto a quo era tra l’impostazione ideologica dello Statuto Albertino, il cui art. 5 (“solo al Re appartiene il potere esecutivo”) configurava il rapporto tra “sistema” (ordinamento nel suo complesso) e individuo nella centralizzazione -ma più esatto sarebbe dire nell’assolutizzazione- della figura del Re, con la totale satellitizzazione della posizione del suddito, che in tanto poteva avere rilievo e tutela in quanto fosse compatibile con gl’interessi del Re. Questa è la chiave di volta della soluzione del problema all’esame: l’art. 2 ha radicalmente rovesciato il rapporto “Albertino”, collocando al vertice la posizione del cittadino e dando ai suoi diritti il carattere dell’inviolabilità, della quale vanno sottolineati due tratti caratterizzanti e fondamentali: l’assolutezza e l’universalità.

L’assolutezza deriva dall’incipit dell’articolo, laddove pone il principio-base che la “Repubblica riconosce e garantisce”; non attribuisce (e tanto meno ottria com’era nello spirito Albertino) i diritti, che “vengono prima” del sistema, dell’ordinamento; il quale non li può quindi in assoluto scalfire o conculcare. L’universalità è resa manifesta da quell’endiadi -per vero strana e comunque del tutto ignorata- che ne attribuisce la titolarità al cittadino “sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”. Quel “sia come singolo” assolutizza la posizione dell’individuo, del subjectum juris, il cui rispetto costituisce limite invalicabile da parte di qualsiasi potere esterno, compreso quello pubblico comunque configurato e/o esercitato. Quanto tutto ciò sia lontano sia dalla sentenza annotata sia dalla giurisprudenza generalizzata non è a dire; la loro posizione non è solo cronologicamente ante Costituzione, saldamente ancorata allo spirito Albertino, ma decisamente anti Costituzione, della quale vengono totalmente misconosciuti e conculcati i principi fondamentali e basilari. Si pensi all’anacronismo -ben definibile becero- della giurisprudenza fermamente ottocentesca, che, espungendo dall’art. 2 il “sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”, ammette la tutelabilità dei c.d. interessi diffusi da parte delle sole formazioni “riconosciute”; dove il “timbro” fa aggio sul pur chiaro e perentorio dettato costituzionale.

Problema più complesso è l’individuare i diritti inviolabili garantiti dall’art. 2. Certamente vi rientrano quelli specificamente garantiti dalla stessa Costituzione nella Parte prima, dai Rapporti civili a quelli etico sociali a quelli economici. Degli altri s’impone evidentemente la selezione, condotta peraltro -e questo è punto indubitabile- col discernimento imposto dalla radicale decussazione (capovolgimento) del sistema Albertino, ponendo al centro, in luogo del Re-sistema, il cittadino sovrano ex art. 1.

3. L’impostazione cittadino-centrica dell’attuale assetto costituzionale, così lontana della giurisprudenza prevalente, è invece alla base dell’ordinamento europeo di giustizia, come reso manifesto dall’art. 6 della CEDU, che apparentemente pone lo stesso principio dell’art. 111 della Costituzione novellato dalla L. cost. 2/1999, con peraltro contenuto sistematico tutt’affatto diverso.

Invero il diritto “italiano” al giusto processo (ex art. 111 Cost.) viene affermato come dovere del Giudice, mentre l’art. 6.1 della CEDU garantisce il processo giusto come diritto del soggetto: toute personne a droit à que sa cause soit intendue èquitablement. La differenza è ben marcata ed indicativa della radicalmente diversa ottica sistematica sotto cui la giurisprudenza “interna” legge e applica la normativa di materia rispetto alla giurisprudenza europea: la prima -interna- la legge e applica avendo (o ponendo) come valore-pilota il miglior funzionamento complessivo del “sistema”, dell’ordinamento inteso come “macchina dello Stato”, rispetto al quale la posizione del soggetto individuo è per definizione cedevole; la seconda invece -quella europea- la legge e applica sotto l’assolutamente prevalente profilo-aspetto del diritto dell’individuo, del soggetto agente, com’è reso manifesto dallo stesso incipit dell’art. 6 della CEDU: “toute personne a droit à que sa cause soit entendue”. Sa cause in tutti i suoi elementi o capi del “chiesto”, che devono essere decisi équitablement, con correttezza di motivazione. Questo come diritto della parte.

L’impostazione ideologica della sentenza gravata evidenzia icasticamente tale diversa ottica. Tra i due valori in contrasto, ad avere la preminenza nella tutela è l’esercizio della funzione pubblica (pur essendone totalmente travisate le regole), mentre il diritto di personalità dell’attore viene semplicemente negato, dato per inesistente. In Europa accadrebbe l’esatto contrario: il diritto del cittadino al rispetto delle sue convinzioni anche religiose è il valore-base e l’esercizio della funzione pubblica in tanto è libera (salvo ovviamente condizionamenti cogenti, che qui affatto esulano) in quanto rispetti quel diritto.

4. Venendo al tema in commento, nella fattispecie vengono in rilievo vari valori costituzionali in tesi confliggenti: la libertà di professare la propria fede, garantita dall’art. 19; la libertà dell’espressione artistica (art. 33); il dovere del titolare di funzione pubblica di esercitarla, sul piano soggettivo “con disciplina e onore” (art. 54.2), sul piano oggettivo “in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità” (art. 97).

Poiché -in questa come in poche altre materie- alla base di tante diatribe stanno meri equivoci terminologici, par doveroso precisarne il contenuto di taluno, a cominciare dalla corretta nozione di laicità dello Stato: va intesa come terzietà dello Stato di fronte a qualsiasi fede religiosa. Non esiste più il principio della “religione di Stato” (con tutte le sottospecie di “Stato confessionale” e simili: sostanzialmente è l’esclusione del principio già condannato dalla Pace di Westfalia del 1648 del cuius regio ejus et religio). Ma appunto terzietà, che vieta sia di appoggiare l’una fede, sia di danneggiare un’altra: Stato-terzo per quanto attiene al fenomeno religioso, né appoggio, né denigrazione.

Stato: è termine oggidì quant’altri mai equivoco. Dopo essere stato usato (col Paladin) per decenni come perfetto sinonimo di Repubblica, ora, con la riforma del Titolo V della Costituzione che ne ha riformulato l’art. 114, lo Stato è una componente della Repubblica, collocato al quinto posto della nuova gerarchia, dopo Comune, Provincia, Città metropolitana e Regione. Evidentemente quando si parla di “Stato laico” e di “Stato terzo” non lo s’intende nell’accezione tecnica dell’art. 114; che porterebbe a ritenere limitati solo all’attività soggettivamente statale quei principi di laicità-terzietà, restando quindi libere le altre componenti della Repubblica di comportarsi diversamente. Interpretazione aberrante, che peraltro sostanzialmente sottostà all’impostazione della sentenza gravata: lo Stato è tenuto al rispetto dei principi di laicità e terzietà; non un’istituzione privata, che non vi sarebbe affatto tenuta in quanto privata a prescindere del tipo di attività-funzione che svolga. Va nettamente distinto tra Stato/apparato, ch’è la componente della Repubblica ora regolata dal nuovo art. 114 Cost., da Stato- istituzione, di cui fa istituzionalmente parte ogni ente-soggetto che esercita funzione pubblica.

Nella presente trattazione, il termine Stato-statale va inteso non in senso soggettivo, riferito alla quinta componente dalla Repubblica definita dal nuovo art. 114 Cost. (con esclusione delle altre), ma in senso oggettivo (o funzionale), ad indicare un’attività-funzione oggettivamente pubblica; inquadrabile (nella tripartizione delle funzioni fondamentali legislativa, giudiziaria, amministrativa) nella funzione amministrativa, che dev’essere esercitata secondo i principi fissati dagli artt. 97 e 98 Cost.. Ecco che il principio di laicità, derivazione logica del principio posto dall’art. 19, comporta de plano il dovere dell’applicazione delle regole dell’amministrare fissate dall’art. 97 Cost. nel rispetto dei principi di buon andamento e d’imparzialità, che costituiscono applicazione all’attività amministrativa in genere del principio di uguaglianza posto dall’art. 3. Laico lo Stato- istituzione (“mano pubblica”) perché i cittadini sono uguali avanti alla legge, con diritto al rispetto delle proprie convinzioni anche religiose.

5. Sotto il profilo funzionale il rapporto tra titolare e destinatario/fruitore della pubblica funzione (e nel prosieguo il termine Funzionario sarà usato nell’accezione dell’art. 54 ad indicare l’affidatario, quale che ne il titolo, d’una funzione pubblica) è caratterizzato dalla stretta sinallagmaticità creata ancora dall’art. 2, che, accanto e come contrapposto ai doveri inviolabili, pone “i doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Anche qui equispartiti tra il cittadino, che non può disinteressarsi della “cosa pubblica”, e il Funzionario, astrettovi dall’art. 54.2. È un quadro di grande coralità, che la Costituzione del 1948 traccia, del tutto opposto a quello della piramidalità che ispirava la concezione Albertina dell’ordinamento, quando dal vertice, il Re, sgorgava il potere-funzione che Egli, nella sua alta Maestà, si fosse compiaccio di far arrivare ai sudditi.

Soffermandosi sull’art. 19, il diritto di professare la propria fede si scompone in due elementi ben distinti: nel rapporto intersoggettivo, il professante incontra il limite ben preciso, ma anche unico, del divieto di “riti contrari al buon costume”, ma soggiace al confronto, che può essere anche rude e violento col solo limite del codice penale, con chi professa fede diversa o confliggente con la sua. Nel rapporto con la “mano pubblica” (il complesso dei Funzionari) esso si pone come diritto inviolabile del cittadino (anche se l’art. 19 lo tutela come diritto assoluto col “tutti hanno diritto”), nel cui rapporto il Funzionario deve comportarsi nella modalità impostagli dall’art. 97, “in modo che siano assicurati l’imparzialità e il buon andamento”. È appunto il principio laicità, ben recepito in Costituzione, ma in guisa e con contenuto non solo diverso, ma radicalmente opposto a quello recepito in sentenza, con una superficialità anche di linguaggio consona al Bar Sport, non certo ad un’aula giudiziaria.

Ovviamente il dovere di laicità si pone solo al Funzionario, il quale, nell’esercizio della pubblica funzione che venga comunque in rapporto con la professione di fede religiosa di chicchessia, deve comportarsi con assoluta terzietà: né favorire né danneggiare l’una o l’altra fede, che comunque venga in contatto con altre fedi, di cui sia nota la professione nel contesto sociale. Dove l’elemento d’illiceità del comportamento del Funzionario, come lesione del dovere di laicità, scatta e s’integra quando la professione dell’una fede -quale che ne sia il contenuto, sia di fede professata sia contestativo di fedi altrui- dia luogo a manifestazioni comunque connesse con la funzione da lui esercitata.

Con riferimento alla fattispecie oggetto della decisione annotata, quella manifestazione gravemente irridente una fede praticata nel vissuto sociale (del tutto indipendentemente -ovvio- dalla quantità dei professanti) non poteva essere invitata/ammessa, perché lesiva del diritto anche d’un solo (ecco il “sia come singolo” dell’art. 2) professante la fede irrisa. Un suo diritto inviolabile.

6. Particolare rilievo la sentenza dà al fatto che lo spettacolo, pur pesantemente offensivo del nome cristiano, era stato specificamente invitato alla manifestazione (rassegna internazionale di danza) in quanto espressione d’arte, della quale l’art. 33 Cost. garantisce la libertà non solo di espressione ma anche d’insegnamento; nella cui nozione va certamente compresa anche una rassegna di spettacoli di materia, come fattore promozionale dello sviluppo della disciplina. A qualificare la fattispecie (e con ogni probabilità ad indurre l’attore all’azione) fu il fatto -assolutamente inusitato- che la partecipazione dello spettacolo, incontestabilmente offensivo, venne sollecitata dallo stesso Ente promozionale, non avendola chiesta il relativo produttore.

Non v’ha dubbio che si pose il conflitto tra due principi di rilevanza costituzionale: il diritto inviolabile del cittadino di non vedere offeso il suo sentimento religioso, da una parte; la funzione assegnata alla Repubblica ed esercitata dall’Ente dalla stessa delegato, di favorire l’insegnamento dell’arte, dall’altra.

A quanto consta in linea di fatto, il Consiglio d’Amministrazione, a fronte delle rimostranze del “mondo cattolico” per l’iniziativa dell’invito, si riunì ad hoc; soppesò il tutto e confermò la programmazione, proclamando -secondo il Comunicato stampa- che né l’invito, né la conferma della programmazione intendevano offendere la sensibilità religiosa di chicchessia. Proprio questa decisone così motivata integra l’illecito dedotto in giudizio, imponendo la condanna al risarcimento del danno del cittadino.

Invero ove la Fondazione di Stato avesse ritenuto imposto dalla sua funzione istituzionale dapprima invitare alla manifestazione quello spettacolo; indi -a seguito delle rimostranze- mantenerne la già disposta programmazione, avrebbe dovuto dapprima giustificare, sul piano oggettivo della specifica valenza artistica dello spettacolo, l’invito alla partecipazione; indi, ritenuto che le fosse imposto, dalla specificità della funzione attribuitale dall’ordinamento, il mantenimento dello spettacolo in programmazione, avrebbe dovuto intervenire sulla sua accessibilità da parte del pubblico, limitandone l’accesso a determinate categorie di utenti e non lasciarla indiscriminatamente alla generalità dei frequentatori, dove il rispetto del sentimento religioso di chi avesse ragione di sentirsi offeso dal tenore dello spettacolo, era garantito dalla selettività dell’accesso. Attraverso tale intervento si sarebbe assicurato il bilanciamento tra esigenza di libertà dell’arte e sacrificio imposto al sentimento religioso del cittadino medio. E’ quanto abitualmente si fa in caso di conflitto di valori contrastanti. Per stare la campo dello spettacolo, non è raro che venga preclusa la frequentazione di spettacoli moralmente scabrosi a determinate categorie di possibili utenti; altrettanto si pratica in situazioni analoghe: ad esempio alla fiera delle armi da caccia di Brescia ove vengono offerte in vendita armi di grande sofisticazione, l’ingresso è consentito a chi presenta la fedina penale pulita, precluso ai pregiudicati. Ecco il corretto bilanciamento di valori costituzionali confliggenti, ben lontano dalla mera affermazione della non intenzionalità dell’offesa -per evidente implicito ammessa- al sentimento religioso degli appartenenti al “mondo cattolico”.

Resta con ciò evidenziato il vero sproposito giuridico di sentenza, che rigetta la domanda sul presupposto che “al singolo cittadino non possa riconoscersi un potere di censura fondato sulla propria sensibilità religiosa”: non si tratta di censurare l’operato della “mano pubblica”, ma di difendere un proprio diritto; proprio come “singolo cittadino”, per quel (evidentemente per taluni giudici nefasto) articolo 2 della Costituzione.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

CORTE D’APPELLO DI VENEZIA – Sezione Quarta Civile

Riunita in camera di consiglio in persona di:

Dott. ssa Carla ZANELLATO Presidente relatore

Dott. Giovanni CALLEGARIN Consigliere

Dott.ssa Marina CICOGNANI Consigliere

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nella causa promossa in appello con citazione depositata il 07/10/2010

da:

CACCIAVILLANI IVONE – (c.f.: CCC VNI32C22 L899M)

In proprio, per autodifesa ex art. 86 c.p.c. essendo iscritto all’Ordine degli Avvocati di Venezia, con domicilio eletto presso il proprio studio- residenza professionale in Stra (VE)

appellante

contro:

FONDAZIONE LA BIENNALE DI VENEZIA – (P. Iva: 00330320276)

col proc. dom. in Venezia presso l’Avvocatura della “Fondazione La Biennale di Venezia” dall’Avv. Rossi Debora

e col patrocinio dell’Avv. Risani Mario del foro di Roma e dell’Avv. Gandolfi Fusani Cristina del foro di Milano

giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta del primo grado

appellata

Oggetto: riforma della sentenza n. 1763/2010 del Tribunale di Venezia

In punto: Diritti della personalità (anche della persona giuridica) (es.: identità personale, nome, immagine, onore e reputazione, riservatezza)

Causa decisa il 10.07.2013

CONCLUSIONI:

Il Procuratore dell’Appellante ha così concluso:

1. Accertarsi (a) – previa ammissione delle prove orali proposte ed ingiustamente non ammesse – se la partecipazione al Festival della danza del 2007 del balletto Messiah game sia avvenuta su invito della Biennale o in accoglimento dell’istanza del relativo autore/produttore; (b) che il balletto Messiah game, rappresentato nel corso del detto Festival, è gravemente offensivo, secondo il comune sentire medio, del sentimento religioso del cittadino cristiano;

2. dichiararsi che la programmazione dello spettacolo offensivo del sentimento religioso del cittadino medio e comunque del sottoscritto costituisce violazione del dovere di imparzialità dell’Amministrazione e del diritto del cittadino alla libertà religiosa garantito dall’art. 19 Cost.;

3. condannarsi la Biennale al risarcimento del danno secondo i principi affermati dalle Ss.Uu. della Corte di Cassazione n. 26972 del 2008, da determinarsi con valutazione equitativa;

3.1 – disporsi che la somma determinala sia integralmente assegnata in beneficenza a favore dell’Associazione di volontariato che sarà indicata in sede di precisazione delle conclusioni definitive, disponendo che la relativa quietanza sia pienamente liberatoria per l’Amministrazione solvente;

3.2 – in via di risarcimento in forma specifica, ordinarsi che la sentenza sia pubblicata per almeno tre giorni e con caratteri doppi del normale su almeno quattro Giornali di diffusione nazionale, oltre che per risarcimento, anche come affermazione del dovere generale anche della Biennale al rispetto del sentimento religioso del cittadino; a tutte spese dell’Ente convenuto ed entro venti giorni dal deposito della sentenza, autorizzando in difetto l’attore a provvedervi anticipandone le spese e disponendo che la relativa quietanza costituisca titolo esecutivo contro l’Ente convenuto;

4. con condanna della convenuta alla rifusione delle spese di autopatrocinio di ambedue i gradi di giudizio – ed in ogni caso, in riforma del capo di condanna dall’attore alla loro rifusione a favore della convenuta, con totale compensazione anche di quelle di primo grado -; spese che a loro volta saranno devolute in beneficenza secondo le indicazioni di cui al punto 3.1.

*** Indica come Ente beneficiario del danno libellato e delle spese di soccombenza del doppio grado l’Associazione ambientalistica “La Specola”, con sede a Stra, in persona le legale rappresentante giusta rispettivo statuto.***

II Procuratore dell’Appellata ha così concluso:

Voglia l’Ill.ma Corte d’Appello adita, contrariìs reiectis:

– In via preliminare; accertare e dichiarare la carenza di legitìmatio ad causam dell’Appellante con riferimento alla prima delle domande prospettate.

– In via principale; respingere le domande tutte proposte dall’Appellante in quanto infondate in fatto ed in diritto e, comunque, per i motivi tutti illustrati nella narrativa che precede, confermando integralmente la sentenza impugnata.

– in via istruttoria; ci si oppone alle istanze istruttorie tutte formulate dall’Appellante in quanto irrilevanti ai fini del decidere e, in ogni caso, inammissibili.

– in ogni caso: con vittoria di spese, diritti ed onorari di lite.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione ritualmente notificato l’avv. Ivone Cacciavillani, in proprio, conveniva in giudizio avanti il Tribunale di Venezia la Biennale dì Venezia affinché fosse accertato a) se la partecipazione al Festival della Danza 2007 del balletto Messiah Game fosse avvenuta su invito ovvero su istanza del relativo autore/produttore, b) che tale spettacolo era gravemente offensivo del comune sentire medio del cittadino cattolico, c) che tale programmazione costituiva violazione del diritto garantito dall’art. 19 della Costituzione (libertà religiosa), d) che il medesimo spettacolo violava anche il diritto dell’attore, quale cittadino cattolico, al rispetto del suo sentimento religioso; conseguentemente, chiedeva che la convenuta fosse condannata al risarcimento dei danni non patrimoniali (morale, all’immagine ed esistenziale), con devoluzione della somma all’associazione che sarebbe stata indicata in sede di precisazione delle conclusioni, e, in via di risarcimento in forma specifica, che la sentenza fosse pubblicata per tre giorni su almeno quattro giornali di diffusione nazionale.

La Biennale di Venezia si costituiva eccependo in via preliminare la carenza di legitimatio ad causam dell’attore con riferimento alle domande sub b) e c); in via principale, contestava la fondatezza delle pretese, invocando in particolare che la rappresentazione era avvenuta nell’esercizio della libertà di espressione e sostenendo che il diritto del quale l’attore chiedeva il risarcimento non aveva protezione giuridica.

Con sentenza n. 1763 in data 8.9.2010 il Tribunale di Venezia rigettava le domande dell’attore condannando il medesimo alla rifusione delle spese processuali.

Avverso detta sentenza l’avv. Ivone Cacciavillani proponeva appello avanti questa Corte con atto di citazione ritualmente notificato.

L’appellata si costituiva ritualmente resistendo all’impugnazione di cui chiedeva il rigetto.

All’udienza del 27.3.2013 le parti precisavano le rispettive conclusioni e la Corte tratteneva la causa in decisione assegnando i termini per lo scambio di comparse conclusionali e memorie dì replica ai sensi dell’art. 190 c.p.c.

Motivi della decisione

Con il proprio articolato motivo d’impugnazione, l’appellante censura la sentenza di primo grado sul rilievo che il Tribunale, che pure aveva ritenuto il carattere gravemente offensivo del nome cristiano ad opera della rappresentazione per cui è causa, aveva travisato la causa petendi ritenendo si fondasse sui limiti alla libertà di espressione artistica altrui derivanti dalla di lui fede religiosa mentre si fondava sul fatto che lo spettacolo in questione fosse stato programmato e finanziato da un’istituzione pubblica che doveva esercitare le proprie funzioni nei rispetto dei diritti del cittadino, senza ledere, attraverso la sua attività istituzionale, il sentimento cristiano medio;

sottolineava che nell’esercizio delle sue funzioni lo Stato non poteva comprimere i diritti inviolabili del cittadino tra cui il rispetto del suo sentimento religioso. Affermava ancora che del tutto irrilevante, al contrario di quanto sostenuto dal Tribunale, era la circostanza che l’appellante fosse stato o meno presente allo spettacolo e che il pubblico era libero di decidere se assistervi o meno, ribadendo che la domanda aveva ad oggetto il risarcimento del danno subito non perché lo spettacolo era stato tenuto, ma perché lo spettacolo era stato dato da una istituzione pubblica nell’esercizio di una funzione pubblica.

La censura appare infondata.

E’ indubbio, a parere della Corte, che la Costituzione italiana, tutelando la libertà religiosa e i diritti della personalità, tuteli anche il sentimento religioso; la carta costituzionale afferma peraltro anche la laicità dello Stato il che esclude il diritto di un singolo cittadino di pretendere che lo Stato impedisca manifestazioni di pensiero contrarie ai principi della religione cristiana (ovviamente purché non si pongano problemi di ordine pubblico o fatti di rilevanza penale); deve pertanto concordarsi con il Tribunale escludendo che al singolo cittadino possa riconoscersi un potere di censura fondato sulla propria sensibilità religiosa, sentimento necessariamente soggettivo.

Nel caso di specie, peraltro, va altresì posto in rilievo che la mancata partecipazione dell’appellante allo spettacolo, lungi dall’essere irrilevante, rende impossibile accertare e quantificare un eventuale danno risarcibile: colui che non ha assistito allo spettacolo non può neppure aver subito sentimenti di sgomento, indignazione o sofferenza a causa di atteggiamenti non visti non potendosi ritenere sufficienti le polemiche riportate dalla stampa; affinché sia risarcibile il danno deve essere concretamente subito e provato anche in ipotesi di danni non patrimoniali.

Infine, non va trascurato che, come ha rilevato l’appellata, la stessa è stata trasformata in Fondazione ex art. 12 c.c., ovvero in soggetto giuridico di diritto privato che non può quindi ritenersi emanazione dello Stato, e che lo stesso appellante ha affermato di essere consapevole che la propria domanda non avrebbe potuto essere formulata nei confronti di soggetto privato.

Quanto alle spese processuali, deve rigettarsi la censura relativa alla condanna alla rifusione a carico dell’appellante; la relativa pronuncia è conforme alla norma di cui all’art, 91 c.p.c. secondo la quale la spese processuali vanno poste a carico della parte risultata soccombente.

Per la medesima ragione vanno poste a carico dell’appellante anche le spese del presente grado, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte, definitivamente pronunciando nella causa d’appello n. 2253/10 R.G. promossa da Ivone Cacciavillani nei confronti di Fondazione La Biennale di Venezia:

rigetta l’appello e conferma l’impugnata sentenza;

condanna parte appellante alla rifusione delle spese processuali che liquida in complessivi € 4.000,00 oltre a € 200,00 per spese.

Cosi deciso in Venezia, il giorno 10.7.2013

Il Presidente est.

Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2014.