L’ambigua normativa sui reati ministeriali
PIER GIORGIO LIGNANI, L’ambigua normativa sui reati ministeriali.
PIER GIORGIO LIGNANI
(già Presidente di Sezione del Consiglio di Stato)
L’ambigua normativa sui reati ministeriali
1. Il 12 febbraio 2020 il Senato della Repubblica ha respinto la mozione intesa a negare alla magistratura l’autorizzazione a procedere nei confronti del senatore Matteo Salvini per un fatto commesso nell’esercizio delle funzioni di Ministro dell’Interno. Fatto che, secondo l’accusa, dovrebbe essere perseguito come sequestro di persona.
Le motivazioni del diniego non sono esplicitate in un atto formale, come quelli usuali per le decisioni giudiziarie. Quindi non vi è luogo a discuterne dal punto di vista tecnico-legale. Del resto è verosimile che i singoli senatori che hanno votato per l’autorizzazione siano stati mossi da considerazioni differenziate. Tuttavia si possono fare alcune riflessioni partendo da quanto affermato da taluno di loro: «lasciamo che a decidere se Salvini abbia commesso o no un reato siano i giudici».
Ci si chiede se il concetto così espresso sia pertinente e coerente con la normativa.
2. A prima vista, la frase «lasciamo decidere i giudici» appare coerente con la lettera del disposto della legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1, articolo 9, comma 3.
E’ questa la disposizione che conferisce al Parlamento, o più precisamente a quella delle due Camere che di volta in volta risulta competente (quella di cui occasionalmente sia membro l’inquisito, altrimenti il Senato), il potere di negare e dunque implicitamente quello di concedere alla magistratura l’“autorizzazione a procedere” nei confronti dei membri del Governo per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni (cosiddetti reati ministeriali).
Il termine “autorizzazione a procedere”, usato dalla disposizione, lascia intendere che si tratti di una mera condizione di procedibilità, la rimozione di un ostacolo di natura processuale. Quindi, mentre il diniego dell’autorizzazione paralizza il procedimento penale (definitivamente, come si vedrà), il suo rilascio restituisce alla magistratura la materia del contendere interamente impregiudicata.
Ma è veramente così?
3. Viene naturale il raffronto con l’art. 68, secondo comma, della Costituzione, nel testo anteriore alla modifica apportata dalla legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3.
Quella norma disciplinava l’“autorizzazione a procedere”, allora necessaria per sottoporre a procedimento penale i membri delle due Camere.
L’identità della denominazione suggerisce l’idea che si tratta dello stesso istituto. Ma ad un esame appena approfondito vengono in risalto alcune importanti differenze.
La disciplina dell’art. 68, secondo comma, della Costituzione riguardava tutti gli indagati, o imputati, che fossero attualmente membri del Parlamento, e li riguardava solo fino a che rivestissero tale qualità. Nel momento stesso in cui la perdessero, veniva meno la protezione dell’art. 68, l’autorizzazione a procedere non era più necessaria, e il procedimento penale riprendeva immediatamente corso senza bisogno di ulteriori pronunce da parte del Parlamento.
D’altra parte, la disciplina in parola riguardava tutti i procedimenti penali, anche se il fatto era stato commesso quando il soggetto non faceva parte del Parlamento o comunque non rientrava nell’esercizio delle funzioni (anzi, se vi rientrava si applicava il diverso istituto della immunità di cui all’art. 68, comma primo).
Invece, la disciplina della l. cost. n. 1/1989 riguarda i reati commessi dal Presidente del Consiglio dei Ministri e dai Ministri nell’esercizio delle loro funzioni: ne sono dunque esclusi tutti i reati commessi prima dell’assunzione della carica nonché quelli commessi mentre il soggetto era in carica, ma estranei all’esercizio delle funzioni. D’altra parte, però, la protezione della disciplina in esame non è correlata al fatto che il soggetto sia attualmente membro del Governo. La pronuncia del Parlamento sull’autorizzazione a procedere è necessaria anche se, nel momento in cui si procede, l’indagato, o imputato, non è più in carica. Ciò implica che il diniego ha effetti permanenti anche se l’inquisito cessa dalla carica dopo che esso era stato pronunciato.
4. Una ulteriore, ma non meno importante, differenza fra le due discipline si ravvisa in ciò: che l’art. 68, secondo comma (testo originario) non dettava, almeno esplicitamente, alcun criterio di giudizio a limitazione della discrezionalità del Parlamento; mentre l’art. 9, comma 3, della l. cost. n. 1/1989 lo fa, nel momento in cui dispone che l’assemblea parlamentare «può negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo».
5. Le differenze elencate indicano che nel primo caso (art. 68) il bene giuridico protetto era l’ufficio del parlamentare, o più precisamente il diritto di quest’ultimo di non essere distolto d’ora innanzi dallo svolgimento del suo mandato a causa delle interferenze, sia pur legittime in sé, di un’autorità estranea al Parlamento. Ciò anche a tutela della integrità e della rappresentatività dell’organo collegiale. Non assumevano dunque rilievo – o semmai assumevano un rilievo solo secondario ed eventuale a discrezione dei decidenti – considerazioni relative alla natura ed alla gravità dei reati ascritti all’inquisito, alla serietà degli indizi, e simili.
Invece nel secondo caso (l. cost. 1/1989) il bene giuridico protetto è la “ragion di Stato” – salus rei publicae suprema lex – che in casi eccezionali e a giudizio esclusivo ed “insindacabile” del Parlamento può prevalere sulla legge comune legittimando azioni che altrimenti costituirebbero reato. Si tratta di giudicare correttamente l’azione passata del Governo; non di salvaguardarne l’autonomia nella sua azione futura, tanto è vero che la disciplina viene applicata anche se l’inquisito non fa più parte del Governo. Laddove lo scopo primario del vecchio art. 68 era proprio quello di evitare turbative all’attività futura del Parlamento.
6. Come si vede, quella che, stando alla terminologia usata dalla norma, si presenta come una condizione di procedibilità appare piuttosto una causa di non punibilità, affine alla legittima difesa e allo stato di necessità. Ossia una situazione nella quale l’azione lesiva del bene giuridico protetto dalla norma penale comune risulta giustificabile, in quanto compiuta a tutela di un bene giuridico diverso ma di valore superiore, o comunque non inferiore.
La norma in esame non è formulata a tutela della persona del ministro (o ex ministro) e neppure della funzione governativa; esprime invece una diversa graduazione di interessi anteponendo, in via eccezionale, quello perseguito dall’organo di governo a quello protetto dalla norma penale comune.
Conviene sottolineare che questa previsione eccezionale della legge costituzionale non si riferisce a quei provvedimenti dell’autorità governativa che, pur incidendo su interessi giuridicamente tutelati, sono comunque consentiti dall’ordinamento giuridico positivo in quanto costituiscono esercizio legittimo, o addirittura doveroso, dei pubblici poteri, come molti provvedimenti in materia di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, oppure le ordinanze contingibili e urgenti, eccetera.
7. Posto che si discute di una causa di non punibilità, essa si differenzia dalle altre previste dal codice penale (artt. 50-54) o da altre fonti perché tutte queste sono rimesse alla valutazione dello stesso giudice dell’azione penale; mentre quella prevista dalla disciplina speciale dei reati ministeriali è rimessa alla valutazione “insindacabile” di un ramo del Parlamento.
Questa scelta del legislatore costituzionale ha una sua logica: nella misura in cui la “ragion di Stato” può assurgere a causa della non punibilità di comportamenti che secondo il diritto comune costituirebbero reato, questa è una valutazione più politica che giuridica ed è ragionevole che a compierla non sia il giudice (ordinario) del processo penale, ma il Parlamento.
8. In sintesi, in casi del genere il giudizio penale si articola in due fasi. La prima, pregiudiziale, si svolge nella sede parlamentare e sfocia nel giudizio se il comportamento addebitato all’inquisito, supposto che risulti contrario al diritto penale comune, sia reso tuttavia non punibile in quanto legittimato da un preminente interesse pubblico. La seconda si svolge nella sede giudiziaria, sempreché la fase anteriore non ne abbia precluso lo svolgimento.
Non si ha dunque una “invasione di campo” del Parlamento nella sfera propria dell’autorità giudiziaria. Il Parlamento è investito di una questione pregiudiziale che il legislatore costituzionale gli ha riservato.
Il giudice penale rimane titolare di tutte le altre valutazioni basate sul diritto penale comune, comprese quelle relative ad ogni altra ipotizzabile causa di non punibilità: quali, ad es., il legittimo esercizio di un pubblico potere, o l’adempimento di un dovere.
9. Se tutto questo è vero, ne consegue però che con il rilascio della cosiddetta autorizzazione a procedere il Parlamento non si limita a spogliarsi della controversia per rimetterla totalmente impregiudicata al giudice penale, come sembra pensare chi ha detto «lasciamo che a decidere siano i giudici».
Al contrario, il voto del Parlamento è stato un vero e proprio giudizio, sia pure nei limiti della sua competenza; ed ha definito un profilo della controversia: quello relativo all’ipotesi di considerare il fatto non punibile siccome compiuto «per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di Governo».
10. In conclusione, la disciplina dei reati ministeriali, introdotta con la legge costituzionale n. 1 del 1989, appare formulata in modo impreciso ed ambiguo nella parte in cui qualifica come semplice “autorizzazione a procedere” quello che invece è un giudizio su una causa di non punibilità. E ciò può fuorviare in qualche misura anche coloro che sono chiamati ad esprimere il proprio voto in Parlamento.