FREE: I Presidenti delle Camere nella procedura di scioglimento
FERDINANDO PINTO, I Presidenti delle Camere nella procedura di scioglimento: una dimenticanza fatale.
FERDINANDO PINTO (*)
I Presidenti delle Camere nella procedura di scioglimento:
una dimenticanza fatale
C’è una conferma in questa vicenda della formazione del governo che, da mesi, appassiona opinione pubblica e sistema politico: nessuno legge più le norme. Meglio, le norme si leggono, e si interpretano, solo per quello che servono, non per quello che dicono. Soprattutto, si tirano di qua e di là, con la tipica faciloneria di chi nulla capisce, o fa finta di non capire.
Proviamo ad andare con ordine e a fare qualche brevissima considerazione.
Il dibattito che appassiona tutti, con regole e risposte diverse, è se il Presidente della Repubblica avrebbe potuto fare quello che ha fatto: respingere, cioè, il nome di un ministro proposto da una (sicura) possibile maggioranza di governo. Chi ritiene di dover dare una risposta positiva alla domanda, parte dalla premessa che il Presidente della Repubblica rappresenta l’indirizzo politico costituzionale, garantisce l’intera Nazione (ammesso che il termine si possa usare nel nostro Paese) e, dunque, può esprimere il proprio orientamento per evitare che si possano determinare situazioni capaci di compromettere l’equilibrio complessivo delle istituzioni. Chi risponde negativamente, ritiene che le dinamiche del governo le decidono solo le forze politiche e che il Presidente ne debba, proprio per il suo ruolo, restare totalmente estraneo. Le risposte sono diverse – e forse entrambi possibili – perché diverse sono state, da sempre, le opinioni di chi si ha scritto e si è occupato del problema. Come tutte le norme costituzionale, queste vivono nel tempo in cui sono applicate, e sono dunque suscettibili di attuazioni diversi. Maggioranze forti – intendendo per tali non quelle che lo sono, non solo, numericamente, ma che hanno anche obiettivo riscontro nella realtà oggettiva del paese da cui sono generalmente accettate – hanno sempre imposto i loro nomi al Presidente. Maggioranze deboli hanno sempre dovuto fare i conti con le scelte di chi rappresenta il Paese intero e non solo una sua parte. E’ stato sempre così e sarà sempre così. Non esistono verità assolute e sull’argomento non bisognerebbe neppure tornare, salvo a non voler trasformarsi in avvocati della propria parte, tenuti, per obbligo, e per formazione professionale, a rappresentare i propri clienti e le loro posizioni sempre e comunque costi quel che costi.
Quello che davvero sconcerta viene, però, dopo.
Si sostiene che il Presidente della Repubblica, non avendo ottenuto la risposta che si attendeva dalle forze politiche, rimaste ferme sulle loro posizioni, dovrebbe (sarebbe quasi un obbligo) procedere allo scioglimento delle Camere. Si tratterebbe solo di comprendere quale governo dovrebbe portarci alle nuove elezioni, ma lo scioglimento sarebbe il risultato obbligato finale di questo complesso procedimento.
E’ davvero così?
Qui avviene la singolare dimenticanza. L’articolo di cui tanto si parla è, come è noto, l’art. 92 e la disposizione secondo cui “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”. La disposizione che consente però lo scioglimento (anticipato) delle Camere, e di cui si dovrebbe discutere insieme alla prima, è un’ altra. L’art. 88 dispone: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse”.
Questa è la norma che si dimentica, costruendo un sistema in cui, sembrerebbe, che lo scioglimento delle Camere sia un fatto riservato in via esclusiva al solo Presidente. Sua la scelta, sua la responsabilità, sua la rappresentazione dei presupposti che imporrebbero la scelta. Le forze politiche sarebbero tagliare fuori da questa seconda fase del procedimento che, sbagliando, viene vista come un semplice prosieguo della seconda. Svolgerebbero un ruolo fondamentale nella prima parte, nessuno nella seconda.
Se questo fosse vero, davvero avremmo imboccato una deriva autoritaria. Il Presidente della Repubblica potrebbe sempre impedire la formazione di un governo e sciogliere, anche infinite volte, il Parlamento – con i solo limiti del parzialmente riscritto semestre bianco – fino a quando non riuscisse a formare una maggioranza omogenea ai propria desiderata (al proprio indirizzo politico).
Va ricordato che nel nostro ordinamento non esiste uno scioglimento di maggioranza, sul tipo di quello inglese, in cui è il governo a decidere il momento ritenuto più favorevole per andare alle urne per consolidare la propria posizione. I tempi li decide, in quell’ordinamento, il Governo mentre la Corona, cui spetta il potere (formale) di dichiarare la fine anticipata della legislatura, è obbligata a rispettare il volere del primo. Non sempre al governo va bene, come è accaduto di recente alla signora May, ma la decisione sostanziale spetta al solo capo dell’esecutivo e neppure alla sua maggioranza. La funzione della Corona è solo quella di assicurarsi che siano stati rispettati i profili formali della richiesta, generalmente preceduta, in un paese a costituzione non scritta, dal deliberato del gabinetto, e non altra.
Nel nostro ordinamento uno scioglimento di questo tipo non esiste e lo scioglimento è funzionale. Esso, cioè, è volto non a dare maggiore forza ad una maggioranza, che non c’è, ma, appunto, a consentire che se ne crei una (nuova). Se la maggioranza c’è il Presidente non può procedere a nessuno scioglimento e ciò è disposto soprattutto -questo è un ulteriore profilo che si dimentica – a garanzia delle minoranze. In questo senso l’intervento del Presidente è condizionato da due imprescindibili parametri: il primo il diritto della maggioranza a governare, il secondo il diritto della minoranza a svolgere il proprio ruolo senza il timore di venire schiacciata.
Certo nulla può impedire che la maggioranza voti contro se stessa, provocando artatamente una crisi (apparentemente) irrisolvibile. Questo però non è mai avvenuto a riprova di come la Costituzione viva, inevitabilmente, sulle gambe della sua effettività e di come il meccanismo dello scioglimento sia stato, appunto, sempre inteso come esclusivamente funzionale, alla ricerca di un modo per far determinare le camere nelle loro decisioni. In sostanza, come si è detto, per creare una maggioranza.
In questo quadro si spiegano i pareri dei Presidente delle due Camere, che la Costituzione esplicitamente prevede e richiede, i quali sono i soggetti che certificano al Presidente della Repubblica che, nei rispettivi rami del parlamento, di cui sono espressione, la maggioranza non c’è. La loro è una funzione di accertamento che può essere svolta solo da loro che sono espressione (anche) della maggioranza politica che li ha scelti. Non avrebbe altrimenti senso il loro parere nella procedura di scioglimento – formalizzato dalla costituzione – come non avrebbe senso il loro parere – formalizzato nella prassi costituzionale – durante le consultazioni per la formazione del nuovo governo.
Lo snodo del parere dei presidenti non è, dunque, un mero passaggio formale, che non avrebbe alcun senso, ma la puntuale proiezione delle regole fondanti della democrazia parlamentare rappresentativa, per come costruita dalla nostra carta fondamentale.
Anche il decreto di scioglimento ha bisogno evidentemente della controfirma, ma quello che qui preme sottolineare non è la natura dell’atto su cui in molti si scontrano, nella nota polemica se si tratti o meno di atto duumvirale o esclusivamente presidenziale, ma il ruolo dei Presidenti delle Camere che, evidentemente, nulla hanno a che vedere con il problema della controfirma. Come cioè i pareri si inseriscono nel procedimento.
E’ evidente che si tratta di pareri necessari e obbligatori, ma la vera domanda e se siano anche vincolanti. Così posto, il tema del giorno se per il Presidente della Repubblica le proposte del Presidente del Consiglio, circa la nomina dei ministri, siano o meno vincolanti, si ripropongono con maggior forza per lo scioglimento. Si ripropongono con maggior forza, ma probabilmente con una soluzione diversa o, almeno, con una soluzione notevolmente meno priva di incertezze di quanto non avvenga nel primo caso
Finora – in tutti i casi di scioglimento anticipato – i Presidenti hanno certificato la non esistenza di una maggioranza in parlamento, con la conseguente (unica) strada possibile del ritorno al voto. Il profilo è costante, nel senso che, anche nei casi limite in cui proprio di scioglimento funzionale, in senso stretto è difficile parlare, come nel caso di scioglimenti per evitare il referendum o per consentire il riallineamento degli organi costituzionali, il Presidente della Repubblica non ha mai disatteso il parere dei Presidenti delle Camere.
La vera peculiarità di questa crisi non è dunque il rapporto tra Presidente del Consiglio (incaricato) e Presidente della Repubblica. Come si è detto, questi rapporti sono stati spesso vissuti in maniera dialettica e, come tali, sono ampiamente conosciuti e studiati. La vera peculiarità della crisi è la possibilità che, anche i rapporti tra Presidenti delle Camere e Presidente della Repubblica, possano diventare dialettici se non, addirittura, fortemente conflittuali.
La vera domanda da porsi è, allora, cosa accadrebbe se i Presidenti dei due rami del parlamento dovessero (entrambi) esprimere al Presidente della Repubblica un parere contrario allo scioglimento. I due presidenti possono infatti – nella propria competenza di certificatori delle dinamiche parlamentari che si sostanziano nel voto – dichiarare al presidente che una maggioranza non solo esista ma sia addirittura (relativamente) ampia. Si potrebbero, addirittura, ipotizzare scenari in cui, prima della fiducia, si coalizzi, in entrambi i rami del parlamento, un voto, nella forma per esempio della mozione, che approvi il programma – nella singolare forma del contratto di governo – attorno a cui si realizzi il consenso della maggioranza del parlamento.
In questo caso non pochi dubbi sorgerebbero sulla possibilità che il Presidente della Repubblica possa comunque procedere allo scioglimento. Si ricadrebbe, infatti, in una sorta di scioglimento anomalo in cui nessuna prospettiva di rendere funzionale il parlamento – che già funziona di suo – può essere utilizzato come motivazione dell’atto.
Il Presidente potrebbe procedere comunque allo scioglimento – anche se dovrebbe in queste condizioni ottenere la controfirma e questo non sarebbe di per sé facile – ma i rischi sarebbero assai gravi. Sarebbero gravi soprattutto se i Presidenti delle Camere formalizzassero il proprio parere negativo e se questo fosse esplicitato nel provvedimento finale. Si aprirebbe un conflitto senza precedenti che, in questo caso, sarebbe particolarmente pesante se il Capo dello stato venissero configurato come rappresentante del vecchio (parlamento che lo ha eletto) e i Presidenti delle Camere come rappresentanti del nuovo (parlamento che ha fatto venire meno le precedenti maggioranze)
Cosa potrebbe allora fare il Parlamento sciolto suo malgrado. La strada da non è, evidentemente, quella dell’impeachment che, come tutti i rimedi penali, non solo ha le sue lentezze, ma soprattutto è un valore esclusivamente negativo. Il conflitto di attribuzione tra poteri dello stato attiverebbe, invece, un strumento immediato di emersione del conflitto da cui non è affatto detto che il Presidente della Repubblica uscirebbe vincitore.
Questa sarebbe la vera crisi delle istituzioni e del Paese.
Se qualcuno avesse meglio letto le norme e interpretato il sistema in tutti i suoi aspetti avrebbe subito compreso la sua complessità e, forse, avrebbe posto più attenzione sulla posizione dei Presidenti delle Camere di quanto non abbia ad oggi avuto. Presidenti delle Camere, nella persona degli attuali titolari, ben avvezzi al mondo delle istituzioni politiche e che, quando dovessero parlare, potrebbero fare molto rumore.
Insomma, il Presidente della Repubblica può, forse, evitare di nominare qualche ministro, ma non è affatto detto che possa poi sciogliere le Camere.
Il punto vero è che avremmo bisogno di qualche studio in più e di qualche urlo in meno.
Questa però è un’altra storia.
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(*) Professore Ordinario di Diritto Amministrativo nell’Università Federico II di Napoli.