FREE: I poteri del PdR in materia di nomina dei Ministri
PIER GIORGIO LIGNANI, L’interpretazione dell’art. 92, secondo comma, della Costituzione.
PIER GIORGIO LIGNANI
(già presidente di Sezione del Consiglio di Stato)
L’interpretazione dell’art. 92, secondo comma, della Costituzione
1. L’art. 92, secondo comma, della Costituzione, dispone: «Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri, e, su proposta di questo, i ministri».
Questa disposizione è stata ampiamente citata e discussa, negli ultimi giorni, con particolare riferimento alla questione se la “proposta” ivi menzionata si debba intendere come vincolante o meno; in altre parole, se il Presidente della Repubblica abbia il potere – o addirittura il dovere – di valutarla criticamente per respingerla nonché, in tal caso, di formulare indicazioni alternative. Se ne sono occupati tutti i commentatori politici, e sono state pubblicate anche le opinioni di autorevoli giuristi [1].
In sintesi, appare prevalente la tesi che – alla luce dell’art. 92, secondo comma – la nomina dei ministri sia un atto complesso, frutto dell’incontro di due volontà; con la precisazione che fra le due quella dominante, o comunque preponderante, sia la volontà del Capo dello Stato. Invero, fra la “proposta” di competenza di un soggetto e la “nomina” di competenza dell’altro, appare come più importante e risolutiva la seconda, come quella che definisce il procedimento e produce gli effetti giuridici tipici e rilevanti; mentre la prima avrebbe una rilevanza solo endoprocedimentale e preparatoria.
In questa visione, il Presidente del Consiglio, quanto alla scelta ed alla nomina dei ministri, avrebbe un ruolo ausiliario rispetto alla potestà decisionale del Presidente della Repubblica. La sua posizione sarebbe assimilabile a quella del consulente tecnico d’ufficio rispetto al giudice.
2. A parere di chi scrive non è così.
Analizziamo innanzi tutto il disposto dell’art. 92 per ciò che esso stesso dice, prescindendo momentaneamente dalla sua collocazione nel sistema della Carta costituzionale. Se ne ricava che la “proposta”, ancorché in ipotesi non vincolante, è comunque necessaria e, almeno relativamente, condizionante. Infatti la “nomina” non può avere luogo, né produrre effetto, se non preceduta dalla proposta, e se non conforme ad essa. Anche ammettendo che il Capo dello Stato possa respingere la proposta concernente questo o quello dei candidati ministri, certamente non può di sua iniziativa nominare ministro un candidato diverso. Pertanto il rigetto di una proposta comporta semplicemente la restituzione dell’iniziativa al proponente, con l’invito a formulare una proposta diversa.
3. L’efficacia condizionante della proposta, e il suo peso giuridico e politico, si percepiscono meglio ove si consideri che la nomina dei nuovi ministri, da parte del Capo dello Stato, è un “atto dovuto”, almeno in linea di massima.
In genere, infatti, il problema di procedere alla nomina si pone perché il governo in carica non ha (più) la fiducia delle Camere o comunque è dimissionario; di conseguenza è necessaria, e anche relativamente urgente, la costituzione di un nuovo governo. In altri casi può accadere che sia vacante la titolarità di un singolo ministero: anche in questa ipotesi, la nomina di un nuovo titolare (eventualmente anche con la formula “ad interim”) è necessaria ed urgente.
Solo nell’ipotesi secondaria che si discuta della nomina di uno o più ministri senza portafoglio – vuoi nel contesto della formazione di un nuovo governo, vuoi per un accrescimento del governo già in carica – sarà concepibile che la questione si chiuda con il rigetto della proposta senza che insorga il potere-dovere della sollecita formulazione di una nuova proposta.
In questa situazione, il Presidente del Consiglio incaricato dispone di un “potere negoziale” assai elevato, nei confronti del Presidente della Repubblica.
4. Passando ora alla disamina dell’art. 92 in correlazione con il sistema complessivo dell’ordinamento costituzionale, vengono in rilievo altre due disposizioni: l’art. 89, primo comma («Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità») e l’art. 95, primo comma («Il Presidente del Consiglio dei ministri dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri»).
Non vi è dubbio che il disposto dell’art. 89 valga anche per gli atti di cui all’art. 92. Ciò si dice tanto riguardo alla necessità – formale e sostanziale – della controfirma del proponente, quanto alla inerente assunzione di responsabilità. Dunque non solo è necessario che la nomina di ciascun ministro sia preceduta dalla proposta del Presidente del Consiglio e che sia ad essa conforme, ma è necessario altresì che sia controfirmata. La controfirma peraltro non solo certifica che la nomina è conforme alla proposta, ma vale altresì come assunzione della responsabilità da parte del proponente [2].
Tale responsabilità – che rileva nei rapporti giuridici come su quelli politici – è il perfetto corrispettivo della irresponsabilità del Capo dello Stato. Ed è ben per questo che il decreto presidenziale non si perfeziona, e non ha effetto, che con la controfirma del proponente.
Peraltro l’assunzione della responsabilità, implicita nella controfirma, ha la sua giustificazione logica, prima ancora che giuridica e politica, nel fatto che il provvedimento è imputabile, essenzialmente, alla volontà del proponente. Questa volontà può essere stata anche orientata dai consigli o dalle richieste di altri soggetti – un segretario di partito o, perché no, il Capo dello Stato – ma nel momento cruciale della controfirma non può che appartenere genuinamente a chi se ne assume la responsabilità.
La responsabilità può essere – come è – piena ed esclusiva, solo in quanto altrettanto piena ed esclusiva sia la capacità di scelta.
5. Questi princìpi appartengono, prima ancora che al sistema di diritto positivo della Costituzione repubblicana, al sistema concettuale degli ordinamenti costituzionali moderni.
Conviene ricordare che lo Statuto albertino del 1848 all’art. 5 disponeva che «Al Re solo appartiene il potere esecutivo» e all’art. 65 che «Il Re nomina e revoca i suoi ministri»; peraltro all’art. 67 aggiungeva che «I ministri sono responsabili» e che «Le leggi e gli atti del governo non hanno vigore, se non sono muniti della firma di un ministro». Non faceva alcun cenno al Consiglio dei ministri, tanto meno al suo Presidente.
Tuttavia già il regolamento approvato con r.d. 21 dicembre 1850, n. 1122, su proposta di D’Azeglio, oltre ad enumerare le competenze specifiche dei singoli ministeri (otto) riservava alcune materie alla competenza collegiale del Consiglio [3] e, sia pure senza disciplinarne esplicitamente i poteri, conteneva riferimenti alla figura del Presidente del Consiglio, dandone per scontate l’esistenza e la supremazia sugli altri membri del governo.
6. Nondimeno, vigente lo Statuto, e ben prima che quell’ordinamento venisse modificato dal fascismo [4], Vittorio Emanuele Orlando, nel 1888, scriveva che «[nel] momento della formazione del nuovo Ministero (…) la consuetudine ha fatto un’importante applicazione del principio dell’unità politica del Gabinetto. Difatti la scelta della Corona, che determina la formazione nel nuovo Ministero, non si riferisce alla designazione dei singoli ministri, ma bensì solo a quella del primo ministro. Esso rappresenta l’indirizzo generale del nuovo governo, ed esso qualificherà politicamente il nuovo Gabinetto. Dunque la soluzione della crisi dipenderà essenzialmente da questa scelta. Quanto ai capi dei singoli Ministeri è meglio lasciarne la scelta a colui che dovrà averli compagni nell’opera governativa» [5].
Come si vede, i concetti essenziali del ragionamento di Orlando – la necessaria unitarietà dell’azione politica del governo e il ruolo del Presidente del Consiglio quale promotore e garante di tale unitarietà – non erano desunti dal diritto statutario positivo, bensì dalla logica intrinseca di un sistema costituzionale basato sui princìpi liberali della divisione dei poteri, della rappresentanza parlamentare e dello Stato di diritto. A riprova della validità del concetto che l’interprete non si può mai limitare al dettato letterale della legge, ma deve ricomporre la disciplina desumendo dalla sistematica complessiva dell’ordinamento i princìpi generali e i precetti sottintesi. In questo quadro peraltro il legislatore, nel momento in cui detta singole disposizioni, è tenuto a sua volta a rispettare la coerenza sistematica e logica dell’ordinamento, senza introdurvi elementi dissonanti che, con una perversa eterogenesi dei fini, rendano incerta l’interpretazione, anteriormente pacifica, delle norme già esistenti.
7. Analogamente a Vittorio Emanuele Orlando, nel 1905 Ippolito Santangelo Spoto [6] scriveva che negli Stati costituzionali e rappresentativi la nomina dei ministri è riservata al Capo dello Stato quale «espressione affermata e concreta della sovranità della nazione» ma che tuttavia tale diritto di nomina concerne «non persone scelte direttamente da lui, ma quelle a lui indicate, come espressione della volontà nazionale, dal primo ministro. Il ius nominandi formalmente si è convertito in ius confirmandi».
Aggiungeva, riguardo alle funzioni del primo ministro, che egli «riunisce in sé il carattere di capo della maggioranza parlamentare, e di uomo in cui la corona ha risposto la sua fiducia… Come “premier” egli è il primo consigliere della corona…Come “leader” della maggioranza parlamentare… compone le forze a unità… E’ naturale quindi che la nomina dei ministri non costituisca più un’esclusiva ed assoluta facoltà della corona, ma sia effetto della “scelta” del primo scelto a ministro, che deve assumere il governo e dividerne, coi ministri che sceglierà, l’azione e le responsabilità».
8. Sin qui, le univoche indicazioni della dottrina del periodo monarchico prefascista.
Gli storici, peraltro, riferiscono che nello stesso periodo i sovrani Savoia si rimettevano, di massima, alle proposte del Presidente del Consiglio, ma si riservavano la facoltà di scelta quanto al titolare degli Affari Esteri e a quelli dei ministeri militari. Questo profilo meriterebbe di essere approfondito in altra sede; qui è sufficiente prendere atto che questa specifica potestà di intervento del Re nella formazione del governo era percepita, all’epoca, come una eccezione rispetto alla regola (sia pure non scritta) che era quella dell’autonomia del Presidente del Consiglio.
Anche in seguito, è rimasto fermo nella coscienza degli uomini politici interessati il principio che la scelta dei ministri è una delle prerogative proprie ed essenziali del Presidente del Consiglio. Luigi Einaudi, cessato il suo mandato, scriveva nel 1956: «(…) nello spirito della Costituzione italiana, sarebbe fuor di luogo che il Presidente della Repubblica pensasse al governo (…) come al “suo governo”: solo il Presidente del Consiglio è scelto da lui, ma i ministri sono nominati “su proposta” del designato Presidente del Consiglio» [7].
9. Sino a tempi recenti, l’attenzione degli studiosi in merito al disposto dell’art. 92 non è stata rivolta tanto al problema della distribuzione dei compiti fra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio – apparendo chiaro che al primo spetta dare sanzione giuridica e formale alle scelte politiche espresse dal secondo mediante la proposta – ma piuttosto al problema dei condizionamenti che il Presidente del Consiglio subisce da parte delle forze politiche di maggioranza [8]. Condizionamenti, questi ultimi, generalmente ritenuti in contrasto con l’art. 92, ma nondimeno inevitabili per forza di cose.
Un testo non recente [9], ma prezioso in quanto intessuto di notizie riguardo a prassi ed episodi del primo decennio della Repubblica, riporta fra l’altro il testo integrale di una dichiarazione del Presidente Einaudi del gennaio 1954, evocata nel maggio 2018 anche dal Presidente Mattarella, relativa ad un “veto” opposto da un gruppo parlamentare all’ipotesi che un determinato soggetto venisse proposto per la nomina a ministro.
Einaudi ribadiva che nella fase di formazione del governo il Presidente incaricato può e deve ascoltare ogni fonte politica capace di dargli indicazioni utili all’assolvimento del suo compito, ma censurava che in quel caso fosse stata formulata una indicazione imperativa e tassativa, di tal che «la proposta che il primo ministro avrebbe poi presentato al Presidente della Repubblica non era più la “sua” proposta, ma una proposta pronunciata da chi la costituzione non delega a siffatto ufficio».
Quindi, secondo il pensiero di Einaudi, fatto proprio dal Capo dello Stato ora in carica, il valore da salvaguardare nell’art. 92 non è tanto la supposta facoltà del Presidente della Repubblica di rigettare questo o quello dei nomi proposti dal Presidente del Consiglio, quanto il diritto di quest’ultimo di formulare le proposte in piena autonomia – a garanzia, s’intende, della coesione della futura compagine governativa e della unitarietà della sua azione politica.
10. Con tutto ciò, si vuol forse dire che il Capo dello Stato non abbia alcun margine di autonomia e di discrezionalità che gli consenta di discutere e di orientare le proposte di nomina formulate dal Presidente del Consiglio?
Direi che la questione si pone per la nomina dei ministri negli stessi termini in cui si pone per la generalità degli atti di competenza del Presidente della Repubblica per i quali sia prevista la proposta governativa – gli atti cioè diversi dalla promulgazione delle leggi, per la quale vi è una disciplina specifica nell’art. 74, Cost., e diversi da quegli atti che comunemente si ritengono costituire una prerogativa propria ed esclusiva del Presidente e rimessi alla sua piena discrezione, ancorché formalmente soggetti alla necessità della controfirma.
Posta la questione in questi termini, non pare sostenibile che il Capo dello Stato sia tenuto, sempre e comunque, a sottoscrivere tutti gli atti che, nelle dovute forme, vengono portati alla sua firma. Si dovrebbero quanto meno eccettuare le proposte di contenuto manifestamente illegittimo, ovvero affette da palesi vizi di ordine formale o procedurale. D’altra parte, dato e non concesso che sussista un obbligo tassativo ed inderogabile in tal senso, mancherebbero nell’ordinamento i rimedi per assicurarne il rispetto e per consentire al proponente di portare ad effetto la propria iniziativa.
Se non fosse altro che per quest’ultima considerazione, è dunque giocoforza ammettere che il Presidente della Repubblica, per la generalità degli atti di sua competenza, abbia il potere di rinviare le singole proposte al proponente, con una richiesta di riesame ed eventualmente per la formulazione di una proposta diversa.
11. Riconducendo ora la disamina nei limiti del procedimento disciplinato dall’art. 92, ci si chiede quali siano i possibili effetti del dissenso insorto fra i due protagonisti.
Si è già detto che il Presidente della Repubblica non può in alcun caso effettuare una nomina difforme (quanto alla persona del nominato e quanto al ministero assegnatagli) rispetto alla proposta ricevuta. Il rigetto della proposta equivale dunque necessariamente all’invito a formulare una proposta diversa. Se il Presidente del Consiglio aderisce a questo invito, e se la nuova proposta è accolta, si rientra nella normalità e l’incidente è chiuso.
Se, invece, il Presidente del Consiglio non aderisce all’invito, e conferma la sua proposta, si aprono due possibilità. La prima è che il Presidente della Repubblica ritiri il suo diniego e proceda alla nomina: in tal caso, di nuovo, si rientra nella normalità e l’incidente è chiuso. Ma se il dissenso permane, e nessuno dei due protagonisti recede dalla sua posizione, allora non c’è altra via d’uscita che l’abbandono del tentativo di formare un nuovo governo: vuoi con la revoca dell’incarico da parte del Capo dello Stato, vuoi con la rinuncia dell’incaricato; la forma dell’atto non è importante, ciò che rileva è la sostanza della crisi che torna al suo punto di partenza.
12. Rimane da fare qualche notazione di contorno.
La prima è che in questa materia è difficile riferirsi alla prassi, o alle convenzioni, giacché per intuibili ragioni il dialogo fra il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio, in occasione della formazione della lista dei ministri, è circondato dal massimo riserbo. Tanto è vero che usualmente chi vuole invocare l’autorità dei precedenti richiama, di fatto, un unico episodio [10] , talvolta anche un secondo [11]. Il che ovviamente non esclude che ve ne siano stati altri, ma fa intendere che, se pure ve ne sono stati, non sono di comune dominio.
In effetti, va considerato che il nostro ordinamento, pur attribuendo, come si è visto, la massima rilevanza alla “proposta” governativa preordinata ai decreti presidenziali, non tipizza in alcun modo il relativo atto, né lo sottopone ad alcun requisito di forma.
In sostanza si può dire che la proposta si concretizza per il solo fatto che – e nel momento in cui – il provvedimento, scritto in bella forma, viene materialmente presentato alla firma del Capo dello Stato. Operazione che, com’è noto, nel periodo monarchico, e ancora qualche tempo dopo, veniva eseguita personalmente dal Capo del Governo o dal ministro interessato [12].
Tanto è vero che, come abbiamo già detto, la sola prova che una proposta vi è stata, e che il provvedimento presidenziale è conforme ad essa, è costituita dalla controfirma ministeriale.
Pertanto, se la proposta viene formulata personalmente dal proponente in sede di un colloquio riservato con il Capo dello Stato, poi viene respinta nella stessa sede e con le stesse modalità, e infine sostituita seduta stante da una nuova proposta, di tutto ciò non rimane traccia, almeno sul piano formale; resta solo il dato di fatto che conclusivamente il Presidente della Repubblica ha firmato un certo decreto e il proponente lo ha controfirmato. Tutto il resto sono illazioni o indiscrezioni, giuridicamente non rilevanti.
13. Peraltro, nella misura in cui si possa ritenere che una dialettica collaborativa e fruttuosa fra i due protagonisti sia di giovamento alla Repubblica, è chiaro che ciò può avvenire solo nella più rigorosa riservatezza – da osservare prima, durante e dopo lo svolgimento della trattativa. A dispetto delle ideologie secondo le quali la pubblicità, altrimenti detta trasparenza, è una condizione imprescindibile della legittimità, anzi della moralità, dell’esercizio del potere. Invero, se vi ha essere una trattativa, ciò significa che per il raggiungimento dello scopo è necessario che l’una o l’altra delle parti faccia qualche concessione alla controparte, o meglio che vi sia qualche concessione reciproca (aliquid datum, aliquid retentum). Ma le concessioni diventano impossibili se le parti sanno che esse – per quanto utili e opportune – possono essere biasimate dai rispettivi sostenitori.
14. Una ultima notazione da fare è che l’intervento attivo del Presidente della Repubblica sulla lista dei ministri presentatagli dal Presidente del Consiglio in tanto sarà compatibile con il sistema – e accettabile dal proponente – in quanto si mantenga nei limiti della eccezionalità.
Ossia riguardi un solo nominativo, o comunque un numero limitatissimo; non risulti tale da incidere in modo determinante sulla fisionomia del nuovo governo e sul suo orientamento politico complessivo; non preluda all’instaurarsi di una sorta di diarchia nella conduzione politica del governo.
I suddetti limiti, per quanto importanti, sono tuttavia relativamente elastici. Saranno più o meno stringenti, a seconda dell’atteggiamento del Presidente del Consiglio designato, ossia della sua disponibilità ad accogliere i suggerimenti del Capo dello Stato, assumendone formalmente la paternità, e la responsabilità, mediante la controfirma. Queste considerazioni confermano ancora una volta, se ve ne fosse bisogno, che nella materia costituzionale, e in particolare nei rapporti fra i poteri dello Stato, non possono esservi regole troppo minuziose e rigide, mentre ciò che prevale è l’idem sentire de re publica.
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[1] Le riflessioni esposte in questo scritto sono state stimolate dalle cronache dello svolgimento della crisi di governo della primavera del 2018, ma si pongono esclusivamente sul piano teorico e non implicano alcun giudizio dell’autore sul merito giuridico e politico di quegli avvenimenti e delle posizioni assunte dai loro protagonisti.
[2] Sull’istituto della controfirma in generale, v. CHELI, Commento all’art. 89 in CARLASSARE-CHELI, Il Presidente della Repubblica – Tomo II, Bologna, 1983 (nella collana Commentario della Costituzione a cura di G. Branca). La trattazione è ampia e accurata ma non tocca specificamente la tematica dell’art. 92.
[3] Questioni di ordine pubblico e di alta amministrazione; progetti di legge, di decreti organici e di trattati; conflitti di attribuzione fra ministeri; nomine alle alte cariche civili, giudiziarie, militari, ed ecclesiastiche; conferimento di onorificenze e di titoli nobiliari.
[4] La legge 24 dicembre 1925, n. 2263, sulle attribuzioni e prerogative del Capo del Governo, disponeva che questi fosse nominato e revocato dal Re, e che fosse responsabile verso il Re dell’indirizzo politico generale del Governo. Disponeva altresì che i ministri fossero nominati e revocati dal Re su proposta del Capo del Governo. Non conteneva alcun cenno alla fiducia del Parlamento, così come del resto non ve ne era cenno nello Statuto albertino. Ma nel periodo prefascista si dava per scontato che il sistema costituzionale fosse basato proprio su quel rapporto di fiducia.
[5] ORLANDO, Princìpi di diritto costituzionale, a pag. 230 della IV edizione, Firenze, 1905.
[6] SANTANGELO SPOTO, voce Ministero e Ministri, in Digesto Italiano, vol. XV-2, Torino 1904-1911, pag. 484-485. La “voce” è datata dall’Autore 31 dicembre 1905. Come la generalità delle altre voci del monumentale Digesto, questo scritto si caratterizza per la sua sorprendente minuziosità di analisi. Basti dire, a titolo di curiosità, che riguardo ai procedimenti di nomina dei ministri contiene cenni di diritto comparato con riferimenti, fra l’altro, alla normativa di stati quali il Wyoming, il Dakota, l’Idaho, il Montana e il Washington. Contiene anche approfondite – e abbastanza attuali – dissertazioni riguardo alle limitazioni che il Capo dello Stato incontra nella scelta del Capo del Governo, per effetto della necessità che questi ottenga l’approvazione del Parlamento, e quindi delle forze politiche che vi sono rappresentate.
[7] EINAUDI, Di alcune usanze non protocollari attinenti alla Presidenza della Repubblica Italiana, in Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei, marzo-aprile 1956; scritto nuovamente pubblicato in EINAUDI, Scritti economici, storici e civili, Milano, 1973, pagg. 741 ss..
[8] VIRGA P., Diritto costituzionale, IX ed., Milano, 1979, in particolare a pag. 206; RESCIGNO G.U., Corso di diritto pubblico, Bologna, 1979, in particolare a pag. 414- 415; MERLINI, Il governo, in Manuale di diritto pubblico a cura di G. Amato e A. Barbera, Bologna, 1984, in particolare a pag. 513.
[9] PERGOLESI, Diritto costituzionale, XIII ed. con note di aggiornamento, Padova, 1959, pagg. 382-392 e 806-810. La dichiarazione di Einaudi è a pagg. 387-388
[10] Quello della formazione del primo governo Berlusconi, nel maggio 1994, quando il Presidente Scalfaro avrebbe respinto la proposta di nominare l’on. Previti ministro della Giustizia, accettando tuttavia la nomina del medesimo a ministro della Difesa.
[11] La mancata nomina del magistrato Gratteri a ministro della Giustizia nel governo Renzi (febbraio 2014).
[12] Fino alla presidenza di Luigi Einaudi, vi era la consuetudine di un appuntamento settimanale, ogni giovedì, al quale si presentavano tutti i ministri, per il rito della firma degli atti di routine. Riferisce lo stesso Einaudi che «poiché le settimane utili alle firme non sono praticamente superiori alla trentina, e poiché i decreti e i provvedimenti sottoposti alla firma presidenziale si aggirarono sui dieci-dodicimila all’anno, la firma settimanale di 300-400 decreti, in presenza dei ministri, non poteva non ridursi ad un rito senza contenuto sostanziale». Di conseguenza Einaudi abolì l’uso di quel convegno settimanale dei ministri (che a suo giudizio rischiava di apparire come una irrituale ed impropria seduta del Consiglio dei Ministri) e dispose che invece gli atti venissero trasmessi dai ministeri al Quirinale con opportuno anticipo, in modo da consentirne la revisione da parte di quel Segretariato generale (EINAUDI, Di alcune usanze …, cit.). Conviene notare che successivamente la legge 12 gennaio 1991, n. 13, ha drasticamente ridotto il numero degli atti amministrativi che debbono essere formalizzati con decreto del Presidente della Repubblica.