FREE – Trascrizione del matrimonio tra soggetti dello stesso sesso

n. 7/2015 | 14 Luglio 2015 | © Copyright | - Articoli e note, Stato civile | Torna indietro | Commenta More

MARCELLO FRACANZANI, Status civile e riparto di competenze: a proposito del potere e della responsabilità (nota a TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I, sentenza 21 maggio 2015, n. 228).



MARCELLO FRACANZANI
(Ordinario di diritto amministrativo
nell’Università di Udine)

Status civile e riparto di competenze:
a proposito del potere e della responsabilità

(nota a TAR Friuli Venezia Giulia, Sez. I – sentenza 21 maggio 2015, n. 228)



La sentenza che si annota merita sicuramente attenzione per diversi profili, non foss’altro perché dice assai più di quel che è stato ritenuto a primo commento, staccandosi dal filone delle trascrizioni di matrimoni contratti all’estero: se è vero che, da un lato, fulmina il provvedimento prefettizio di annullamento della trascrizione dell’ufficiale di stato civile, dall’altro non si limita a smentire – ancora una volta – il sistema divenuto noto come “circolare Alfano”, ma spegne i facili entusiasmi, svolgendo argomentazioni che hanno allarmato alcuni sostenitori dei ricorrenti, pure sostanzialmente vittoriosi.

In questo senso è una sentenza innovativa, perché traccia il solco di un nuovo percorso che potrebbe trovare seguito nei prossimi arresti giurisprudenziali dalla sempre più abbondante casistica, ma anche costituire spunto per un legislatore meno distratto, per risolvere – finalmente – l’annosa (e sempre più pretestuosa) questione. Dalla robusta trama e vigoroso ordito argomentativo che innervano la motivazione, raccogliamo due fra le molte suggestioni che ci vengono, una sul riparto delle competenze, l’altra sul concetto di unione civile ed assonanza alla famiglia.

A livello nazionale è ormai noto il caso che ha dato scaturigine anche alla pronuncia che ci occupa: il sindaco quale ufficiale d’anagrafe procede alla trascrizione nel registro dello stato civile cittadino di un unione matrimoniale contratta all’estero da persone dello stesso sesso, con la precisazione – peraltro non dirimente ai fini del decidere – che in quell’ordinamento si tratta di matrimonio proprio iure.

In ossequio alle disposizioni ricevute con lettera circolare 10863 del 7 ottobre 2014 (profilo su cui si tornerà in prosieguo) diramata dal Ministro dell’Interno, il Prefetto sedente ha adottato provvedimento di annullamento della trascrizione, prontamente impugnato dai “coniugi”, con l’intervento ad adiuvandum del Comune di Udine.

Come si diceva, se l’esito del giudizio poteva da alcuni ritenersi scontato, non così i profili che apre alla riflessione scientifica, alla prassi amministrativa, alla responsabilità politica.

Alla ricostruzione in fatto che segue la numerazione romana, l’estensore fa seguire in numerazione araba la parte motiva della sentenza, riprendendo un meritorio stilema che è in larga parte ancora novità nelle sentenze: il § 17 si divide in paragrafi, ciascuno contenente la sintesi dei passaggi logici motivi, con una sorta quindi di massimazione “in coda”, quasi un “indice sommario” che consenta al lettore di individuare il punto dove è approfondito il tema che gli interessa di più.

In questo senso, la sentenza dichiara apertamente di porre la propria cognizione solo sull’atto prefettizio di annullamento della trascrizione, giudicandolo illegittimo, perché in contrasto con l’art. 95 del d.lgs. n 396/2000 sull’ordinamento dello stato civile che riserva alla legge o ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria (ordinaria) l’intervento sulle annotazioni dello stato civile. In tale prospettiva, il prefetto non avrebbe potere di intervenire concretamente per “rettificare” un’iscrizione: se si tratta di errore materiale, la correzione è consentita al medesimo ufficiale che ha svolto l’annotazione e, solo in caso di sua inerzia, al prefetto; ma non così nei casi diversi dall’errore materiale.

I poteri ministeriale di “indirizzo” e prefettizio di “vigilanza” non posso essere piegati per annullare in via di autotutela il provvedimento di annotazione ritenuto illegittimo, poiché per tali necessità il legislatore ha disciplinato un’apposita procedura, quella di cui all’art. 95 e ss d.lgs. n. 396/2000 che prevede l’intervento – officioso o su istanza – della Procura della Repubblica presso il Tribunale competente (cfr § 8.1.).

Rispondendo quindi a preciso capo di domanda del ricorrente, l’estensore si spinge a distinguere tra nullità e annullabilità del provvedimento prefettizio impugnato. Non viene negato così un potere dell’Ufficio territoriale del Governo prefettizio di generale sorveglianza, con funzione sussidiaria di intervento anche negli atti di stato civile, ove l’ufficiale d’anagrafe sia inerte, ma si afferma che tali poteri non possano essere declinati per adottare un provvedimento di secondo grado che riformi in tutto o in parte un provvedimento contra legem comunque assunto dall’ufficiale. Da un tanto si deduce che l’intervento prefettizio non è assunto in difetto assoluto di attribuzione e quindi colpito da nullità, quanto piuttosto integra ipotesi classica di sviamento di potere, che porta all’annullabilità.

Ma per arrivare a questa conclusione, il collegio giuliano deve scrutinare anche l’atto dell’ufficiale di stato civile, che il prefetto pretende di annullare: solo verificando l’atto originario che ha dato scaturigine al provvedimento impugnato, si potrà vedere se la reazione prefettizia fosse più o meno adeguata alla situazione creatasi. Ed in questo senso l’estensore respinge una funzione meramente notarile dell’ufficiale di stato civile propinata dai ricorrenti: lungi dall’essere atto dovuto, mera attestazione di quanto accaduto all’estero con funzione di pubblicità – notizia (§.4.2. e §.5), la trascrizione è vero e proprio provvedimento amministrativo, cioè sindacato di conformità di quanto avvenuto all’estero con l’ordinamento italiano, da scrutinarsi attraverso il prisma del diritto internazionale privato (§.6 e §.6.2).

Ripercorrendo così l’iter dell’ufficiale di stato civile, il giudicante ne stigmatizza l’illegittimità, affermando che nessuna norma, legislativa o di introduzione giurisprudenziale (costituzionale, comunitaria o CEDU), autorizza in Italia la trascrizione sui registri dello stato civile del matrimonio fra persone dello stesso sesso, contratto in un Paese che pur lo ammetta.

Di qui la già riferita conclusione cui perviene la sentenza in commento: il provvedimento sindacale di trascrizione dell’unione civile è illegittimo, perché frutto di viziato esercizio del potere/dovere amministrativo di controllo di conformità dell’atto straniero con l’ordinamento nazionale attraverso il filtro dei criteri di collegamento fissati dal diritto internazionale privato; in quanto atto illegittimo dev’essere annullato e rimosso dall’ordinamento giuridico con resezione chirurgica retroattiva, ma non con atto del prefetto che nello specifico ha un mero potere di vigilanza e sostituzione limitato a casi specifici, potere non certo costituito o ampliato da una circolare ministeriale; l’annullamento deve avvenire secondo la particolare procedura prevista dalla citata norma speciale che disciplina la materia dello stato civile, con provvedimento dell’autorità giudiziaria (ordinaria) assunto a conclusione di processo di c.d. volontaria giurisdizione, su istanza di parte che ne abbia interesse o del Procuratore della Repubblica, parte pubblica legittimata ope legis perché portatrice dell’interesse pubblico, che in tale materia matrimoniale si riverbera.

Qual è la portata della sentenza, sotto il profilo strettamente processuale? Sicuramente contiene un effetto caducatorio, annullando il provvedimento prefettizio; ma produce anche un effetto conformativo, perché la motivazione è stringente nell’individuare il percorso obbligato che deve portare all’annullamento della trascrizione (considerata) illegittima. Di primo acchito viene da chiedersi se la Procura sia tenuta ad agire a fronte della trasmissione degli atti, rectius della sentenza del TAR FVG.

Siamo abituati a ritenere quell’ufficio retto dalla discrezionalità, pure quanto il precetto costituzionale sancisce che ha l’obbligo di esercitare l’azione penale: la carenza di risorse è tralatizia quanto suggestiva giustificazione ad operare delle scelte sul dove e quando agire. Si potrebbe riprendere la distinzione tra Pubblico ministero e Procura della Repubblica, ove la seconda comprende, ma non esaurisce quelle funzioni e ritenere che la puntualità argomentativa della sentenza TAR, nel riconoscere l’illegittimità dell’atto di trascrizione, costituisca essa stessa istanza di emendazione che la Procura deve proporre al tribunale ordinario (collegiale) in sede di volontaria giurisdizione.

Tuttavia appare più coerente ritenere che la pronuncia TAR accerti in un capo di sentenza (dichiaratamente in via incidentale) l’illegittimità di un provvedimento dell’ufficiale di stato civile, ma non contiene essa stessa l’interesse –processualmente necessario- che è l’innesco per avviare il giudizio di volontaria giurisdizione: tale interesse -meglio: la valutazione della sua sussistenza- è riservato dalla legge alla Procura della Repubblica, che anche di fronte ad una stringente sentenza del giudice amministrativo circa l’illegittimità dell’atto, resta arbitro nella misurazione dell’interesse pubblico all’esperimento dell’azione; sicché, se anche l’illegittimità del provvedimento di trascrizione è conclamata dalla sentenza in commento, permane la discrezione dell’organo requirente nella valutazione dell’interesse pubblico all’annullamento di quell’atto; interesse che, peraltro, dev’essere affermato dalla Procura (come da qualsiasi altro istante che si ritenga leso dalla trascrizione), ma che deve’essere comunque vagliato e riconosciuto dal Tribunale civile in composizione collegiale.

La bontà di questa conclusione è dimostrata per assurdo, poiché il carattere vincolante dell’accertamento (incidentale) del TAR, se vogliamo una sorta di “pregiudiziale” del giudice amministrativo , finirebbe per trasportare sostanzialmente in capo a quest’ultimo la competenza ed il vaglio sugli atti dello stato civile che la legge prevede (e lo stesso TAR riconosce) in capo al giudice ordinario.

E la questione ci porta alla delibazione del Tribunale di Grosseto del 17/20 febbraio 2015, ove afferma che «l’intrascrivibilità degli atti stranieri costituisce un’eccezione e che, dunque, non può che essere interpretata restrittivamente, in particolar modo quando gli atti o provvedimenti incidano sullo status o sulla capacità delle persone, stante la necessità di garantire la più ampia circolazione degli stessi al di là dei confini entro i quali si sono formati i relativi atti o provvedimenti».

Riprendendo la concezione dell’ordinamento italiano come “multilivello”, richiamando l’insegnamento CEDU, il collegio maremmano afferma come da una ricostruzione del quadro normativo interno si desuma “che non sussistono norme del nostro ordinamento che consentono di concludere per la sussistenza di un divieto ne implicito nè esplicito [di matrimonio] tra persone dello stesso sesso».

Di particolare rilievo, con riguardo all’interpretazione dell’articolo 29 della Costituzione, appare l’argomentazione del Collegio per cui la locuzione «”società naturale” non può ritenersi certamente riferita a medievali e discriminatorie concezioni secondo cui l’unione omosessuale sarebbe “contro natura” o secondo cui i diritti di famiglia possano essere riconosciuti soltanto a coniugi astrattamente idonei alla procreazione, ma va correttamente intesa come “formazione sociale spontanea” (ed in questo senso dunque naturale)», formalmente suggellata dal matrimonio che attribuisce rilevanza sociale giuridica alla detta “società naturale”.

Se la Corte costituzionale italiana ha letto l’articolo 29 della Carta come paradigma eterosessuale del matrimonio, il tribunale nella motivazione del provvedimento evidenzia che «non ignora questo Collegio quelle letture storiche della norma costituzionale che ritengono implicitamente richiamato il modello di matrimonio eterosessuale del preesistente codice civile (fatte proprie da ultimo anche da C. Cost. 170/2014), ciononostante ritiene che nemmeno nell’interpretazione più restrittiva» e fatta salva una «una auspicabile interpretazione evolutiva, possa ritenersi che tale norma impedisca il riconoscimento nel nostro ordinamento del matrimonio celebrato tra persone appartenenti al medesimo genere».

Il Collegio giuliano dimostra di conoscere quest’argomento, come l’arresto giurisprudenziale della Corte di cassazione n. 4184/2012 (cui si affianca la più recente n. 2400/2015), replicando che nella giurisprudenza CEDU non si rinviene il riconoscimento di alcun diritto, quanto semmai il riconoscimento della competenza degli Stati nel disciplinare –in modo argomentato- questa materia.

In verità, crediamo che la petizione di principio stia nell’equiparazione fra “spontaneo” e “naturale”, che maschera la teoria del fatto compiuto: per la sola circostanza che un fatto avvenga sarebbe anche naturale e legittimo [1].

Che però su questo terreno siano stati evocati i massimi organi giudicanti internazionali e nazionali e le più diverse autorità amministrative denota la colpevolezza del silenzio del legislatore, che sembra sfuggire a quello che da più parti risulta un intervento non più rinviabile: nello stabilire che la materia è rimessa ai singoli Stati la CEDU non riconosce il diritto a forme particolari di unione civili, ma semmai il diritto/dovere ad avere una legislazione nazionale coerente che lo stesso collegio giuliano sembra suggerire nel distinguere il matrimonio “tradizionale” da nuove e diverse forme di unione e convivenza meritevoli di protezione con l’evoluzione ragionata della società, criterio diverso dalla spontaneità: da quella dell’anziana con la badante a quella dei lavoratori immigrati, non dissimile dagli italici Gastarbaiter negli stabilimenti di Stoccarda ancora negli anni ‘Settanta.

In questo senso coraggiosamente la sentenza in commento scuote il legislatore nazionale dal torpore pastorale che lo pervade, richiamando quelli che sono i rudimenti di un medio studente del prim’anno di giurisprudenza: la distinzione tra il dicere ius e ponere legem, germe di quella tripartizione dei poteri che è presupposto logico, prima che giuridico, di una forma di governo razionale e (quindi) autenticamente democratica.

Ma quale l’interesse reale alla trascrizione? Da qui si snodano due interessanti capi di sentenza.

Da un lato infatti, il collegio smentisce l’interesse dei ricorrenti alla trascrizione come forma di pubblicità notizia, poiché insuscettibile di effetti giuridici apprezzabili o comunque tali da integrare l’interesse ad agire, inteso come aspirazione ad un vantaggio personale, attuale ed economicamente valutabile in capo al ricorrente (§.4.2 e §.5). Dall’altro si espunge dal contraddittorio processuale il Comune di Udine, negandone la legittimazione di interveniente ad adiuvandum, non rinvenendovi l’interesse né del sindaco come ufficiale di stato civile, né tantomeno come interesse degli uffici a difendere i propri atti. Donde l’inusitata trasmissione degli atti alla Procura erariale per l’ipotesi di danno erariale nelle spese processuali sostenute.

Convincente o meno che possa essere (avendo cura che le nostre convinzioni non ci facciano velo) alla sentenza che ci ha occupato va in ogni caso riconosciuto il coraggio di aver chiamato ciascuno ai suoi poteri ed alle sue responsabilità, perché non si usino le cariche solo come occasione di visibilità per altre cariche e perché non si lascino risolvere nei modi più disparati e (quindi) ingiusti questioni che si teme di affrontare: potere e (sinallagmatica) responsabilità, appunto. Ma il diritto è anche (se non soprattutto) questo.


[1] L’argomento, pur suggestivo, non può essere qui affrontato: sia consentito il rinvio a M. M. Fracanzani e S. Baroncelli (a cura di), Quale religione per l’Europa?, ESI, Napoli, 2014.

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