Matrimoni gay all’italiana

n. 3/2015 | 10 Marzo 2015 | © Copyright | - Giurisprudenza, Stato civile | Torna indietro | Commenta More

TAR LAZIO – ROMA – sentenza 9 marzo 2015 (pur affermando che  l’attuale ordinamento italiano non consente di celebrare matrimoni tra persone dello stesso sesso o di trascrivere matrimoni di tale tipo celebrati all’estero, afferma altresì che, una volta che sia stato trascritto un matrimonio gay celebrato all’estero, solo l’Autorità giudiziaria – e non quella amministrativa – può annullare la trascrizione illegittima), con 4 documenti correlati.


TAR LAZIO – ROMA, SEZ. I TER – sentenza 9 marzo 2015 n. 3912 – Pres. Savo Amodio, Est. Proietti – Omissis (Avv.ti Masini e Di Carlo) c. Ministero dell’Interno ed altri (Avv.ra Stato) e Sindaco di Roma Capitale (Avvocatura Comunale) – (accoglie il ricorso, nei limiti indicati in motivazione).

1-2. Stato civile – Matrimonio – Disciplina prevista dall’ordinamento italiano – Non consente la celebrazione di matrimoni tra persone dello stesso sesso o la trascrizione di matrimoni di tale tipo celebrati all’estero – Conformità di tale disciplina con le norme della Costituzione italiana  e non contrasto con le norme dell’Unione europea – Sussiste.

3. Stato civile – Matrimonio – Disciplina prevista dall’ordinamento italiano – Trascrizione dei matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero – Potere di operare rettifiche od annotazioni – Una volta che siano stati trascritti – Compete alla Autorità giudiziaria – Circolare del Ministro dell’Interno del 7 ottobre 2014 – Nella parte in cui afferma la sussistenza del potere di intervento diretto del Prefetto sui registri dello stato civile e provvedimenti attuativi di detta circolare – Sono illegittimi.

1. In base alle vigenti norme (articoli 108, 143 e 143 bis del codice civile ed art. 64, comma 1, lett. e del d.P.R. n. 396/2000), la diversità di sesso dei nubendi costituisce un requisito sostanziale necessario affinché il matrimonio produca effetti giuridici nell’ordinamento interno, posto che, allo stato, l’istituto del matrimonio si fonda sulla diversità di sesso dei coniugi, come si evince dall’art. 107 c.c., il quale stabilisce che l’ufficiale dello stato civile “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie, e di seguito dichiara che esse sono unite in matrimonio”. Tale normativa nazionale, che non consente la celebrazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso e la sua trascrizione nei registri dello stato civile, è da ritenere costituzionalmente legittima (1).

2. Allo stato dell’attuale normativa nazionale italiana, il matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso risulta privo dei requisiti sostanziali necessari per procedere alla sua trascrizione, ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 396/2000. La disciplina nazionale, peraltro, non risulta in aperto contrasto con la normativa europea, se si considera quanto stabilito dagli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cd. “Carta di Nizza”) (2). Quindi, allo stato dell’attuale normativa e fatto salvo un intervento legislativo al riguardo, che ponga la legislazione del nostro Paese in linea con quella di altri Stati, europei e non -, le coppie omosessuali non vantano in Italia né un diritto a contrarre matrimonio, né la pretesa alla trascrizione di unioni celebrate all’estero, anche se le unioni tra persone dello stesso sesso non possono essere considerate contrarie all’ordine pubblico (3).

3. L’attuale ordinamento italiano non prevede competenze o poteri di annullamento o di autotutela aventi ad oggetto la trascrizione di matrimoni, ma solo la possibilità di disporre l’annotazione di rettificazioni operate dall’Autorità giudiziaria (ex art. 69, comma 1, lett. i, del DPR n. 396/2000), come si evince dal D.M. 5 aprile 2002. Quindi, una trascrizione nel Registro degli atti di matrimonio può essere espunta e/o rettificata solo in forza di un provvedimento dell’Autorità giudiziaria e non anche adottando un provvedimento amministrativo da parte dell’Amministrazione centrale, neanche esercitando il potere di sovraordinazione che, effettivamente, il Ministro dell’Interno vanta sul Sindaco in tema di stato civile. Sono pertanto illegittimi sia la circolare del Ministro dell’Interno del 7 ottobre 2014, nella parte in cui afferma la sussistenza del potere di intervento diretto del Prefetto sui registri dello stato civile, sia i provvedimenti, adottati sulla scorta di detta circolare, con i quali il Prefetto di Roma ha annullato le trascrizioni nel registro dello stato civile di Roma Capitale dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero (4).

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(1) La sentenza in rassegna ricorda che con sentenza n. 138 del 2010 la Corte Costituzionale, pag. http://www.lexitalia.it/p/10/ccost_2010-04-15-3.htm ha affermato che l’art. 29 Cost. si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso e questo significato del precetto costituzionale non può essere superato con un’interpretazione creativa né, peraltro, con specifico riferimento all’art. 3, comma 1, Cost., le unioni omosessuali possono essere ritenute tout court omogenee al matrimonio.

Con sentenza n. 170 dell’11 giugno 2014, pag. http://www.lexitalia.it/a/2014/11453, la Consulta è intervenuta sulla normativa che prevede l’automatica cessazione degli effetti civili del matrimonio in caso di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei due coniugi, affermando che “la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela l’art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942 che stabiliva e tuttora stabilisce che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso (sentenza n. 138 del 2010” pag. http://www.lexitalia.it/p/10/ccost_2010-04-15-3.htm, (punto 5.2. del Considerato in diritto), e segnalando il requisito dell’eterosessualità del matrimonio (punto 5.1. del Considerato in diritto).

La Consulta ha stabilito che tra le formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., in grado di favorire il pieno sviluppo della persona umana nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico, rientra anche l’unione omosessuale ma, ha evidenziato che spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità politica, individuare con atto di rango legislativo le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, scegliendo, in particolare, se equiparare tout court il matrimonio omosessuale a quello eterosessuale, ovvero introdurre forme diverse di riconoscimento giuridico della stabile convivenza della coppia omosessuale.

In tale contesto, la Corte costituzionale ha ritenuto di poter intervenire solo per tutelare specifiche situazioni, come avvenuto con le sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988, in materia di locazioni e di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale per le convivenze more uxorio.

(2) Ha ricordato la sentenza in rassegna che l’articolo 12 della CEDU, stabilisce che “uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto” e, quindi, fa riferimento alla nozione tradizionale di matrimonio fondato sulla diversità di sesso dei nubendi, rinviando alla legislazione dei singoli Stati per la disciplina delle condizioni che regolano l’esercizio del diritto.

L’articolo 9 della Carta di Nizza, invece, prevede che “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”, omettendo il riferimento alla diversità di sesso dei nubendi e lasciando, così, al legislatore nazionale la possibilità di riconoscere le unioni tra persone dello stesso sesso.

In tale contesto normativo europeo, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, con pronuncia del 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria: in un caso analogo a quello oggetto del presente giudizio), ha affermato che il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di adempiere le formalità richieste per la celebrazione di un matrimonio tra persone dello stesso sesso non contrasta con la CEDU, osservando che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra sicché, va rimessa ai legislatori nazionali di ciascuno Stato aderente la decisione di permettere o meno il matrimonio omosessuale e la conseguente decisione in merito alla trascrivibilità o meno dello stesso (cfr. Corte di giustizia UE nella sentenza 31.5.2001, cause riunite C-122/99 P e C-125/99 P, circa la nozione di matrimonio come “unione di due persone di sesso diverso”).

(3) Cfr. Corte di Cassazione, sent. n. 4184 del 2012.

Ha aggiunto la sentenza in rassegna che, in tale contesto, la circolare del 7 ottobre 2014 del Ministro dell’Interno non risulta illegittima nella parte in cui si afferma l’intrascrivibilità dei matrimoni tra persone dello stesso sesso derivante “dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano”, in considerazione del difetto di un requisito sostanziale richiesto dalla normativa vigente in materia di stato e capacità delle persone (la diversità di sesso dei nubendi) che non può essere superato dalla mera circostanza dell’esistenza di una celebrazione valida secondo la lex loci ma priva dei requisiti sostanziali prescritti dalla legge italiana relativamente allo stato e alla capacità delle persone.

(4) Ha ricordato la sentenza in rassegna che la disciplina dello stato civile prevede che “Nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già iscritto nei registri se non è disposta per legge ovvero non è ordinata dall’autorità giudiziaria” (art. 453 c.c.).

In sostanza, da tale norma si evince che un intervento quale quello posto in essere nel caso di specie dall’Amministrazione centrale, compete solo all’Autorità giudiziaria.

In sostanza, l’ufficiale di stato civile ha solo il potere di aggiornare i Registri e di correggere gli eventuali errori materiali.

Questo conferma che spetta solo all’Autorità giudiziaria disporre la cancellazione di un atto indebitamente registrato nel Registro degli atti di matrimonio, posto che: le registrazioni dello stato civile non possono subire variazioni se non nei limitati casi descritti e normativamente previsti in modo espresso; l’ufficiale di stato civile ha solo il potere di aggiornare i registri e di correggere gli errori materiali; ogni rettificazione o cancellazione è attribuita alla competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria; fra le annotazioni possibili nel registro dei matrimoni non è previsto alcun atto di annullamento o di autotutela ma, solo l’annotazione della rettificazione giudiziaria.

Una volta eseguita la trascrizione di un atto nel registro degli atti di matrimonio (ai sensi dell’art. 63 del Regolamento), la stessa può subire modificazioni o cancellazioni solo forza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria e non anche a causa dell’adozione di un provvedimento amministrativo.

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Documenti correlati:

CORTE COSTITUZIONALE – sentenza 15 aprile 2010, n. 138,  pag.  http://www.lexitalia.it/p/10/ccost_2010-04-15-3.htm (sulla q.l.c. delle disposizioni del codice civile che disciplinano il matrimonio, nella parte in cui non consentono che le persone di orientamento omosessuale possano contrarre matrimonio con persone dello stesso sesso).

TRIBUNALE DI GROSSETO – decreto 26 febbraio 2015, pag. http://www.lexitalia.it/a/2015/47008 (ritiene illegittimo il diniego dell’Ufficiale di stato civile di trascrivere un matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso).

MINISTERO DELL’INTERNO – circolare 7 ottobre 2014, pag. http://www.lexitalia.it/a/2014/22459 – Oggetto: trascrizione nei registri dello stato civile dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero.

SINDACO DI BOLOGNA – direttiva all’Ufficio dello Stato civile del 21 luglio 2014* (da attuare il 15 settembre 2014) circa la possibilità di trascrivere nei registri dello stato civile i matrimoni contratti all’estero tra persone dello stesso sesso, pag. http://www.lexitalia.it/a/2014/22459


FATTO

Con il ricorso introduttivo del giudizio è stato rappresentato che in data 18 ottobre 2014 il Sindaco del Comune di Roma ha provveduto alla trascrizione nel registro dei matrimoni presso l’ufficio di stato civile del Comune di Roma, del matrimonio contratto dalle ricorrenti a Barcellona (Spagna) il 18 settembre 2010.

Con decreto del 31 ottobre 2014, prot. n. 247747/2014, il Prefetto della Provincia di Roma ha “disposto” che: “sono annullate e seguenti trascrizioni nel registro dello stato civile di Roma Capitale, Parte II, serie C10, anno 2014, atti dal n. 1 al n. 16, dei matrimoni tra persone dello stesso sesso celebrati all’estero … -OMISSIS-: -OMISSIS- e -OMISSIS-¬Matrimonio celebrato a Barcellona (Spagna) il 18.09.2010”.

Il Prefetto, inoltre, ha ordinato “All’Ufficiale di stato civile di Roma Capitale, Sindaco o altro funzionario da questi delegato, di provvedere a tutti i conseguenti adempimenti materiali, compresa l’annotazione del presente provvedimento nei registri dello stato civile”.

Ritenendo erronee ed illegittime le determinazioni assunte dall’Amministrazione resistente, le ricorrenti le hanno impugnate dinanzi al TAR del Lazio, avanzando le domande indicate in epigrafe e deducendo i seguenti motivi di ricorso.

I) – Nullità del decreto prefettizio per difetto assoluto di attribuzione ed incompetenza assoluta, rilevante ai sensi dell’art. 21 septies della l.n. 241/90 e dell’art. 31, comma 4, D.Lgs. 104/2010; violazione dell’art. 453 c.c., dell’art. 95 D.P.R. 396/2000 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile); violazione del D.P.R. 396/2000 negli artt. 12, comma 6; 11, comma 3; 5, comma 1, lettera a); 12, comma 1; 69, comma 1, lettera i); 100; violazione del D.M. 5 aprile 2002 (Approvazione delle formule per la redazione degli atti dello stato civile).

1.1. Secondo quanto si legge nella motivazione del decreto prefettizio, l’annullamento in via gerarchica della trascrizione andrebbe effettuato ai sensi del combinato disposto degli artt. 9 D.P.R. n. 396/2000, 7, 21-octies e 21-nonies legge n. 241/1990, e 54, comma 11, D.Lgs. n. 267/2000 “rilevato che nel caso in questione la mancata osservanza delle direttive impartite dall’autorità di vigilanza configura l’ipotesi di inerzia di cui all’art. 54 comma 11 del d.lgs n. 267/2000 e, pertanto, ricorrono i presupposti per l’adozione del provvedimento del Prefetto ivi previsto”.

A parere delle ricorrenti, invece, tale atto è viziato da difetto assoluto di attribuzione in quanto, in primo luogo, la possibilità di applicare l’art. 21-nonies della legge n. 241/90 appare preclusa dalla circostanza che la trascrizione dell’atto di matrimonio non è un provvedimento amministrativo bensì un atto pubblico formale con effetto dichiarativo e di certificazione, in quanto la trascrizione del matrimonio non ha “natura costitutiva ma meramente certificativa e di pubblicità”, poiché gli effetti discendono dalla celebrazione del matrimonio e non dalla sua trascrizione.

Pertanto, la trascrizione nel registro degli atti di matrimonio non è da considerare un provvedimento amministrativo e non è soggetto alla disciplina della L.n. 241/90.

Conseguentemente, il “decreto di annullamento della trascrizione” emesso dal Prefetto, in quanto provvedimento e non atto pubblico formale, non costituisce contrarius actus della trascrizione ed è essenzialmente e strutturalmente diverso dall’atto che si vorrebbe annullare.

In secondo luogo, parte ricorrente ha rilevato che l’ordinamento dello stato civile costituisce un sistema chiuso e tassativo, ¬con puntuali strumenti ed istituti non derogabili dall’autorità prefettizia né in relazione al procedimento da seguire, né quanto alla competenza esclusiva a provvedere che è prevista in capo all’autorità giudiziaria, come stabilito dagli artt. 449 e ss. c.c. e dal D.P.R. n. 396/2000 (“Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile”).

La presenza di uno specifico ordinamento settoriale e di una speciale e specifica disciplina relativa alla cancellazione delle trascrizioni, rende inapplicabile in via analogica gli istituti generali relativi al procedimento ed al provvedimento amministrativo, per il principio per cui lex specialis derogat legi generali (TAR Liguria, 16 dicembre 2010, n. 10874).

La disciplina applicabile alla fattispecie induce a ritenere che, una volta chiusa la trascrizione di un atto nel registro degli atti di matrimonio (ai sensi dell’art. 63 del Regolamento), tale trascrizione possa essere espunta dai medesimi registri esclusivamente in virtù di un provvedimento dell’autorità giudiziaria e non di un provvedimento amministrativo.

Ciò è tanto vero che perfino la sentenza che accerti la falsità del riconoscimento di paternità non può essere annotata sul relativo registro di stato civile in assenza di un decreto che su richiesta del PM ciò ordini (cfr. Cass. 2 ottobre 2009, n. 21094).

In tal senso è la prassi dell’Amministrazione dell’Interno, posto che nel Massimario per l’ufficiale di stato civile del Ministero dell’Interno, si legge, al par. 15.1.1 pag. 166: “Cancellazione di un atto. // Quando si voglia procedere alla “cancellazione di un atto indebitamente registrato” negli archivi dello stato civile, considerato che non può esserne effettuata la materiale cancellazione, la legge prescrive che si faccia ricorso a iniziativa del pubblico ministero (eventualmente su segnalazione dello stesso ufficiale di stato civile) alla procedura di rettificazione di cui agli artt. 95 e 96 del DPR 396/2000 rimettendo la competenza a decidere esclusivamente all’autorità giudiziaria. Il relativo decreto deve essere opportunamente annotato sui registri dello stato civile”.

Allo stesso modo la circolare del Ministero dell’Interno prot. 5999 del 04/06/2008 precisa l’estensione del potere di correzione degli errori materiali e chiarisce che “l’ufficiale dello stato civile può provvedere ex art. 98 c. 1 a correggere l’errore rilevato solo nei casi in cui l’adeguamento del contenuto dell’atto alla realtà di fatto si renda possibile a seguito di una mera valutazione oggettiva e un riscontro documentale dell’errore materiale. Diversamente, sarà necessario seguire la procedura del ricorso all’autorità giudiziaria al procedimento giudiziale di fine della rettificazione, ai sensi dell’art. 95 del D.P.R. n. 396/2000. (….) la correzione non può mai modificare il contenuto sostanziale dell’atto”.

In conclusione, spetta in via esclusiva all’autorità giudiziaria disporre la cancellazione di un atto che si assuma indebitamente trascritto nel registro degli atti di matrimonio.

2. Violazione e falsa interpretazione degli artt. 9 D.P.R. n. 396/2000, e 54, commi 3 e 11, D.Lgs. n. 267/2000.

Il decreto prefettizio è da considerare illegittimo perché non sussiste in capo al Prefetto una posizione di generale sovraordinazione al Sindaco quale Ufficiale di stato civile, che gli consenta di sostituirsi al titolare della funzione.

L’art. 9 del D.P.R. 396/2000 conferisce al Ministro il potere di indirizzo ed al Prefetto il potere di vigilanza.

Il potere di vigilanza è declinato dal medesimo decreto presidenziale indicando di quali atti si debba dare comunicazione al Prefetto e prevedendo al Titolo XIII, art. 104, le verificazioni che il Prefetto deve compiere presso gli uffici di stato civile; verificazioni che per l’art. 105 del Regolamento si concludono con la redazione di un verbale e non con la manomissione dei registri di stato civile. Nessun potere di annullamento è invece conferito al Prefetto.

L’art. 54, commi 3 ed 11, del TUEL, richiamato dal decreto prefettizio, prevede il potere del Prefetto di sostituirsi al Sindaco in caso di inerzia di quest’ultimo nel sovrintendere agli uffici di stato civile.

Anche ove il Prefetto si sostituisse al Sindaco, non potrebbe avere più poteri di quanti non ne abbia il secondo. E poiché il Sindaco non può annullare le trascrizioni, non potrebbe farlo neanche il Prefetto.

Inoltre, l’art. 54, comma 11, del D.Lgs. 267/2000, attribuisce al Prefetto un potere sostitutivo generale “nel caso di inerzia del sindaco” e non nel caso di esercizio della funzione da parte del Sindaco stesso (come avvenuto nel caso di specie).

3. Illegittimità dell’ordine di annotare; violazione dell’art. 453 c.c.; violazione degli artt. 69, 11, comma 3, 12, comma 1, del D.P.R. 396/2000; violazione del D.M. 5 aprile 2002.

L’ordine del Prefetto al Sindaco di annotare nel registro degli atti di matrimonio il decreto del 31 ottobre 2014 è viziato per l’illegittimità derivata dall’invalidità del decreto prefettizio impugnato.

Il Prefetto, infatti, ha compiuto un surrettizio sdoppiamento fra decreto ed annotazione dello stesso, per “creare” un atto da annotare (non previsto dal Regolamento).

Ma, all’Ufficiale di stato civile (e, quindi, al Prefetto che volesse sostituirsi a questi), non è attribuito il potere di adottare decreti di trascrizione.

L’attività dell’Ufficiale di stato civile, infatti, si esplica e si esaurisce nel compimento dell’iscrizione, o trascrizione, o annotazione, nel registro, unitamente alle connesse attività di documentazione. L’annotazione, però, in quanto atto tipico e tassativo, da qualificarsi come atto pubblico formale, non è suscettibile di essere “ordinata” in maniera creativa o anche solo mediante applicazione analogica.

L’ordine di annotazione impugnato, quindi, è da considerare viziato e non eseguibile.

4. Violazione del procedimento ed, in particolare, degli artt. 7 e 10 L.n. 241/90; violazione del diritto di difesa e dell’art. 24 Cost.

Il decreto prefettizio dà atto che non è intervenuta comunicazione di avvio del procedimento alle parti interessate, “considerato che sussistono ragioni di celerità del procedimento derivanti dall’esigenza di evitare che le trascrizioni effettuate producano ulteriori effetti pregiudizievoli per l’unitarietà dell’ordinamento giuridico e che, in ogni caso, il presente provvedimento riveste natura vincolata e l’eventuale partecipazione degli interessati non potrebbe incidere sul suo contenuto dispositivo”.

Tale circostanza induce a ritenere viziato il decreto prefettizio anche perché adottato senza sentire la parte privata, nell’assunto che si tratti di atto vincolato, posto che il Prefetto non può disporre dello status giuridico delle persone senza che le stesse siano neppure informate dell’avvio di un siffatto procedimento.

Sotto tale profilo, il procedimento seguito dal Prefetto ha violato il diritto alla difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione.

Con memoria da valere anche quale motivi aggiunti, le ricorrenti hanno impugnato – deducendo vizi di illegittimità derivata, in relazione agli atti contestati con il ricorso introduttivo del giudizio – il decreto del Prefetto di Roma del 4 dicembre 2014, con il quale è stato nominato un delegato per l’esecuzione dell’annotazione del decreto di annullamento della trascrizione de quo nonché, il relativo verbale di annotazione nei registri dello stato civile del 5 dicembre 2014 (prodotti in giudizio).

L’Amministrazione resistente, costituitasi in giudizio, ha sostenuto l’infondatezza del ricorso e ne ha chiesto il rigetto.

A sostegno delle proprie ragioni, l’Amministrazione ha prodotto note, memorie e documenti per sostenere la correttezza del proprio operato e l’infondatezza delle censure proposte dalle ricorrenti.

Le odierne ricorrenti, ritenendo di essere state lese dal provvedimento indicato e temendo che il Prefetto di Roma procedesse ad horas ad annullare le trascrizioni senza nemmeno attendere i tempi necessari per la proposizione del ricorso in sede giurisdizionale, hanno notificato via fax e via pec (il 31 ottobre 2014) e successivamente depositato (il 3 novembre 2014) una istanza cautelare ai sensi dell’art. 61 c.p.a. chiedendo di inibire al Prefetto ed al Sindaco di procedere all’annotazione sul registro dello stato civile del decreto contestato nelle more del giudizio di impugnazione.

Con decreto presidenziale del 4 novembre 2014, n. 5554/2014, è stata respinta la richiesta di misure cautelari provvisorie ante causam, ritenendo carente il requisito del periculum in mora.

All’udienza del 27 novembre 2011 la parte ricorrente ha rinunciato alla domanda cautelare e la causa è stata rinviata all’udienza pubblica del 12 febbraio 2015, all’esito della quale è stata trattenuta dal Collegio per la decisione.

DIRITTO

1. Il Collegio, prima di procedere all’esame delle censure proposte dalla parte ricorrente, ritiene opportuno prendere in considerazione il quadro normativo e giurisprudenziale relativo alla celebrazione ed alla trascrizione dei matrimoni celebrati in Italia e all’estero.

L’art. 27, comma 1, della legge n. 218/1995 (recante la riforma del diritto internazionale privato), stabilisce che “la capacità matrimoniale e le altre condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio”.

Tale disposizione va letta in combinato disposto con l’art. 115 del codice civile, secondo cui “il cittadino è soggetto alle disposizioni contenute nella sezione prima di questo capo, anche quando contrae matrimonio in paese straniero secondo le forme ivi stabilite”.

Da tali disposizioni deriva che – a prescindere della validità formale del matrimonio celebrato applicando una legge straniera -, all’ufficiale di stato civile italiano spetta, ai fini della trascrizione, il potere/dovere di verificare la sussistenza dei requisiti sostanziali necessari (avuto riguardo alla normativa nazionale) per celebrare un matrimonio che possa avere effetti giuridicamente rilevanti.

Sotto questo profilo, ai sensi del codice civile, la diversità di sesso dei nubendi costituisce un requisito sostanziale necessario affinché il matrimonio produca effetti giuridici nell’ordinamento interno, posto che, allo stato, l’istituto del matrimonio si fonda sulla diversità di sesso dei coniugi, come si evince dall’art. 107 c.c., il quale stabilisce che l’ufficiale dello stato civile “riceve da ciascuna delle parti personalmente, l’una dopo l’altra, la dichiarazione che esse si vogliono prendere rispettivamente in marito e in moglie, e di seguito dichiara che esse sono unite in matrimonio”.

In linea con tale assunto si pongono gli articoli 108, 143 e 143 bis del codice civile, e l’art. 64, comma 1, lett. e) del d.P.R. n. 396/2000.

La normativa nazionale che non consente la celebrazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso e la sua trascrizione nei registri dello stato civile, è stata ritenuta costituzionalmente legittima.

Con sentenza n. 138 del 2010 la Corte Costituzionale ha, infatti, affermato che l’art. 29 Cost. si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso e questo significato del precetto costituzionale non può essere superato con un’interpretazione creativa né, peraltro, con specifico riferimento all’art. 3, comma 1, Cost., le unioni omosessuali possono essere ritenute tout court omogenee al matrimonio.

Con sentenza n. 170 dell’11 giugno 2014, la Consulta è intervenuta sulla normativa che prevede l’automatica cessazione degli effetti civili del matrimonio in caso di rettificazione di attribuzione di sesso di uno dei due coniugi, affermando che “la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela l’art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942 che stabiliva e tuttora stabilisce che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso (sentenza n. 138 del 2010”, (punto 5.2. del Considerato in diritto), e segnalando il requisito dell’eterosessualità del matrimonio (punto 5.1. del Considerato in diritto).

La Consulta ha stabilito che tra le formazioni sociali di cui all’art. 2 Cost., in grado di favorire il pieno sviluppo della persona umana nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico, rientra anche l’unione omosessuale ma, ha evidenziato che spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua piena discrezionalità politica, individuare con atto di rango legislativo le forme di garanzia e di riconoscimento per le unioni suddette, scegliendo, in particolare, se equiparare tout court il matrimonio omosessuale a quello eterosessuale, ovvero introdurre forme diverse di riconoscimento giuridico della stabile convivenza della coppia omosessuale.

In tale contesto, la Corte costituzionale ha ritenuto di poter intervenire solo per tutelare specifiche situazioni, come avvenuto con le sentenze n. 559 del 1989 e n. 404 del 1988, in materia di locazioni e di assegnazione di alloggi di edilizia residenziale per le convivenze more uxorio.

In sostanza, allo stato dell’attuale normativa nazionale italiana, il matrimonio celebrato all’estero tra persone dello stesso sesso risulta privo dei requisiti sostanziali necessari per procedere alla sua trascrizione, ai sensi dell’art. 10 del d.P.R. n. 396/2000, come confermato dalla giurisprudenza, la quale ha affermato che “l’intrascrivibilità delle unioni omosessuali dipende non più dalla loro inesistenza e neppure dalla invalidità, ma dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano” (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 4184 del 2012, richiamata da entrambe le parti in causa, la quale ha ad oggetto una vicenda analoga a quella oggetto del presente giudizio, relativa ad una richiesta di trascrizione di un matrimonio contratto all’estero da due cittadini italiani dello stesso sesso, rifiutata dall’ufficiale di stato civile del Comune di Latina. Sul punto, cfr. anche Corte di Cassazione, sentenze n. 1808 del 1976, n. 1304 del 1990, n. 1739 del 1999, n. 7877 del 2000).

A tale riguardo, come correttamente rilevato dall’Amministrazione resistente, non assume particolare rilievo, in senso contrario, l’art. 65 della legge n. 218/1995, considerato che l’atto di matrimonio celebrato all’estero, sebbene soggetto a determinate forme solenni che prevedono la ricezione della volontà dei nubendi da parte dei soggetti investiti di un pubblico ufficio, non risulta assimilabile ad un provvedimento proveniente dall’autorità amministrativa o giurisdizionale, costituendo un atto negoziale che non incide sull’individuazione della normativa che disciplina gli effetti del matrimonio nell’ordinamento interno (cfr. la richiamata sentenza della Corte di Cassazione n. 4184 del 2012, che va condivisa a prescindere dall’isolato precedente contrario del Tribunale di Grosseto del 3-9 aprile 2014, annullato in sede di reclamo della Corte d’appello di Firenze con decreto del 19 settembre 2014).

La disciplina nazionale non risulta in aperto contrasto con la normativa europea, se si considera quanto stabilito dagli articoli 12 della CEDU e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cd. “Carta di Nizza”).

L’articolo 12 della CEDU, infatti, stabilisce che “uomini e donne in età adatta hanno diritto di sposarsi e di fondare una famiglia secondo le leggi nazionali regolanti l’esercizio di tale diritto”, e, quindi, fa riferimento alla nozione tradizionale di matrimonio fondato sulla diversità di sesso dei nubendi, rinviando alla legislazione dei singoli Stati per la disciplina delle condizioni che regolano l’esercizio del diritto.

L’articolo 9 della Carta di Nizza, invece, prevede che “il diritto di sposarsi e il diritto di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”, omettendo il riferimento alla diversità di sesso dei nubendi e lasciando, così, al legislatore nazionale la possibilità di riconoscere le unioni tra persone dello stesso sesso.

In tale contesto normativo europeo, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, con pronuncia del 24 giugno 2010 (Prima Sezione, caso Schalk e Kopf contro Austria: in un caso analogo a quello oggetto del presente giudizio), ha affermato che il rifiuto dell’ufficiale di stato civile di adempiere le formalità richieste per la celebrazione di un matrimonio tra persone dello stesso sesso non contrasta con la CEDU, osservando che il matrimonio ha connotazioni sociali e culturali radicate che possono differire molto da una società all’altra sicché, va rimessa ai legislatori nazionali di ciascuno Stato aderente la decisione di permettere o meno il matrimonio omosessuale e la conseguente decisione in merito alla trascrivibilità o meno dello stesso (cfr. Corte di giustizia UE nella sentenza 31.5.2001, cause riunite C-122/99 P e C-125/99 P, circa la nozione di matrimonio come “unione di due persone di sesso diverso”).

Concludendo sul punto, va detto che, allo stato dell’attuale normativa e fatto salvo un intervento legislativo al riguardo, che ponga la legislazione del nostro Paese in linea con quella di altri Stati, europei e non -, le coppie omosessuali non vantano in Italia né un diritto a contrarre matrimonio, né la pretesa alla trascrizione di unioni celebrate all’estero, anche se le unioni tra persone dello stesso sesso non possono essere considerate contrarie all’ordine pubblico (cfr. la richiamata sentenza della Corte di Cassazione n. 4184 del 2012).

2. In tale contesto, la circolare del 7 ottobre 2014 del Ministro dell’Interno non risulta illegittima nella parte in cui si afferma l’intrascrivibilità dei matrimoni tra persone dello stesso sesso derivante “dalla loro inidoneità a produrre, quali atti di matrimonio, qualsiasi effetto giuridico nell’ordinamento italiano”, in considerazione del difetto di un requisito sostanziale richiesto dalla normativa vigente in materia di stato e capacità delle persone (la diversità di sesso dei nubendi) che non può essere superato dalla mera circostanza dell’esistenza di una celebrazione valida secondo la lex loci ma priva dei requisiti sostanziali prescritti dalla legge italiana relativamente allo stato e alla capacità delle persone.

Tuttavia, va esaminata la legittimità dell’ultima parte della medesima circolare, avente ad oggetto il potere di intervento diretto del Prefetto sui registri dello stato civile, sulla base del quale sono stati adottati i decreti prefettizi impugnati.

3. Al riguardo, va rilevato che – come correttamente osservato dall’Amministrazione resistente -, l’attività di tenuta dei registri dello stato civile rientra nell’ambito delle competenze statali, svolte in via delegata, secondo le previsioni dell’art. 1 comma 2 del D.P.R. 396/2000, dal sindaco quale ufficiale del Governo o da chi lo sostituisce a norma di legge, ai sensi dell’art. 54 del TUEL (attinente alle “attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale”) il cui comma 3 prevede che il sindaco sovrintende alla tenuta dei registri dello stato civile in qualità di ufficiale di Governo.

A parere della parte resistente, in tale ambito rientra un potere di sovraordinazione dell’amministrazione dello Stato rispetto all’attività svolta dal sindaco, posto che in questa veste il sindaco non rappresenta la comunità locale ma attua la legge nazionale ed è, perciò, tenuto, ai sensi dell’art. 9 del d.P.R. 396/2000, “… ad uniformarsi alle istruzioni che vengono impartite dal Ministero dell’interno”.

Da ciò, il Ministero dell’Interno desume una relazione gerarchica intercorrente con il potere esecutivo rispetto ai servizi di competenza statale, posto che il citato articolo 9 del d.P.R. n. 396/2000 prevede anche che “la vigilanza sugli uffici dello stato civile spetta al Prefetto”.

In sostanza, al Prefetto, quale organo territoriale del Governo (e, quindi, titolare della funzione di stato civile in ambito provinciale) spetterebbe il potere di annullare atti non conformi al quadro normativo vigente, adottati dal sindaco (o da un suo delegato) nell’esercizio di una funzione statale.

Il potere di annullamento d’ufficio in via gerarchica costituirebbe espressione del medesimo interesse pubblico alla regolare ed uniforme tenuta dei registri dello stato civile garantito con il riconoscimento del potere di indirizzo e di vigilanza sugli uffici dello stato civile (citato art. 9) e di intervento sostitutivo in caso di inerzia da parte degli ufficiali di stato civile (citato art. 54, comma 11).

Sul punto, l’Amministrazione resistente ha osservato che anche la giurisprudenza ha affermato che nelle materie di competenza statale nelle quali il Sindaco agisce nella veste di ufficiale del Governo, spetta al Prefetto promuovere ogni misura idonea a garantire l’unità di indirizzo e di coordinamento, promuovendo le misure occorrenti e svolgendo, così, una fondamentale funzione di garante dell’unità dell’ordinamento in materia, anche esercitando “il potere di annullamento d’ufficio degli atti adottati dal sindaco quale ufficiale di governo, che risultano essere illegittimi o che comunque minano la menzionata unità di indirizzo” (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19 giugno 2008, n. 3076).

Per completezza, va rilevato che la parte resistente ha anche negato la violazione dell’art. 95 del d.P.R. n. 396/2000 (“Delle procedure giudiziali di rettificazione relative agli atti dello stato civile e delle correzioni”), osservando che detta norma sarebbe applicabile al singolo che intenda ottenere la rettificazione di un atto dello stato civile che lo riguarda e non al Ministro dell’interno (e, per esso, al Prefetto) che, in quanto titolare della funzione di stato civile, si proponga di rimuovere gli effetti di atti illegittimamente posti in essere, in contrasto con una sua precisa direttiva, da parte del sindaco in veste di ufficiale del Governo, in spregio alla propria posizione di subordinazione rispetto ad esso.

Quanto all’annotazione a margine dei registri dello stato civile del decreto prefettizio, è stato precisato che si tratta di una operazione materiale, conseguente al provvedimento di annullamento, resa necessaria dalla particolare natura della trascrizione e dalla necessità di rimuovere gli effetti di un atto illegittimamente posto in essere e non consentito dall’attuale ordinamento dello stato civile: quindi, tale adempimento non sarebbe in contrasto con l’art. 453 c.c., che riguarda le ipotesi di ulteriori annotazioni in calce a quelle correttamente eseguite e non (come nel caso di specie) una mera operazione esecutiva del decreto prefettizio, conseguente all’esercizio del potere di annullamento d’ufficio di un atto illegittimamente trascritto, che si fonda sulla sovraordinazione del Prefetto rispetto all’Ufficiale di stato civile.

Riguardo, infine, alla correttezza della procedura seguita per l’annullamento d’ufficio, l’Amministrazione resistente ha affermato di aver correttamente applicato la legge n. 241 del 1990, omettendo (per le ragioni espressamente evidenziate nel provvedimento impugnato: gravi ragioni di urgenza consistenti nell’esigenza di evitare il grave vulnus per la certezza del diritto e l’unitarietà dell’ordinamento) di comunicare agli interessati l’avvio del procedimento, ed applicando il principio del contrarius actus il quale impone che, in sede di ritiro di un precedente provvedimento, vengano rispettate le medesime formalità previste per l’atto annullato, ponendo in essere tutte le conseguenti attività necessarie, tra le quali rientra l’annotazione del decreto prefettizio di annullamento delle trascrizioni matrimoniali, sicché l’annotazione non viola l’art. 453 del codice civile.

Sempre sotto il profilo della disciplina del potere di annullamento d’ufficio, l’Amministrazione resistente ha affermato l’applicabilità dell’art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990, in quanto – contrariamente a quanto sostenuto dalla parte ricorrente -, la trascrizione nel registro dell’atto di matrimonio integra un provvedimento amministrativo e, quindi, è soggetto alla disciplina della legge n. 241 del 1990.

4. Il Collegio ritiene che le censure di parte ricorrente aventi ad oggetto i poteri dell’Amministrazione centrale in materia di stato civile siano fondate e debbano essere accolte, nei limiti di seguito indicati.

4.1. La disciplina dello stato civile prevede che “Nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già iscritto nei registri se non è disposta per legge ovvero non è ordinata dall’autorità giudiziaria” (art. 453 c.c.).

Il DPR n. 396/2000 (recante il Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), prevede che “Gli atti dello stato civile sono redatti secondo le formule e le modalità stabilite con decreto del Ministro dell’interno” (art. 12, comma 1); “L’ufficiale dello stato civile non può enunciare, negli atti di cui è richiesto, dichiarazioni e indicazioni diverse da quelle che sono stabilite o permesse per ciascun atto” (art. 11, comma 3); ‘Le annotazioni disposte per legge od ordinate dall’autorità giudiziaria si eseguono per l’atto al quale si riferiscono, registrato negli archivi di cui all’articolo 10, direttamente e senza altra formalità dall’ufficiale dello stato civile di ufficio o su istanza di parte” (art. 102, comma 1); “Gli atti dello stato civile sono chiusi con la firma dell’ufficiale dello stato civile competente. Successivamente alla chiusura gli atti non possono subire variazioni” (art. 12, comma 6).

Dal tenore dell’insieme di tali disposizioni si evince che il sistema dello stato civile prevede puntuali possibilità di intervento sui registri dello stato civile, tra cui non è compresa quella posta in essere dal Prefetto di Roma.

In sostanza, dalle norme richiamate si evince che un intervento quale quello posto in essere nel caso di specie dall’Amministrazione centrale, compete solo all’Autorità giudiziaria.

Conferme in tal senso si traggono anche dalle ulteriori norme di seguito indicate.

L’art. 5, comma 1, lettera a), del D.P.R. 396/2000, prevede che “L’ufficiale dello stato civile, nel dare attuazione ai principi generali sul servizio dello stato civile di cui agli articoli da 449 a 453 del codice civile e nel rispetto della legge 31 dicembre 1996, n. 675, espleta i seguenti compiti: a) forma, archivia, conserva e aggiorna tutti gli atti concernenti lo stato civile” mentre, l’art. 98, del D.P.R. n. 396/2000, prevede che “L’ufficiale dello stato civile, d’ufficio o su istanza di chiunque ne abbia interesse, corregge gli errori materiali di scrittura in cui egli sia incorso nella redazione degli atti mediante annotazione dandone contestualmente avviso al prefetto, al procuratore della Repubblica del luogo dove è stato registrato l’atto nonché agli interessati.”.

In sostanza, l’ufficiale di stato civile ha solo il potere di aggiornare i Registri e di correggere gli eventuali errori materiali.

L’art. 95, comma 1, del D.P.R. n. 396/2000, stabilisce che “Chi intende promuovere la rettificazione di un atto dello stato civile o la ricostituzione di un atto distrutto o smarrito o la formazione di un atto omesso o la cancellazione di un atto indebitamente registrato, o intende opporsi a un rifiuto dell’ufficiale dello stato civile di ricevere in tutto o in parte una dichiarazione o di eseguire una trascrizione, una annotazione o altro adempimento, deve proporre ricorso al tribunale nel cui circondario si trova l’ufficio dello stato civile presso il quale è registrato l’atto di cui si tratta o presso il quale si chiede che sia eseguito l’adempimento”, mentre l’art. 109, del D.P.R. n. 396/2000, specifica che “I tribunali della Repubblica sono competenti a disporre le rettificazioni e le correzioni di cui ai precedenti articoli anche per gli atti dello stato civile ricevuti da autorità straniere, trascritti in Italia, ed a provvedere per la cancellazione di quelli indebitamente trascritti”.

In definitiva, tali disposizioni non prevedono competenze o poteri di annullamento o di autotutela aventi ad oggetto la trascrizione di matrimoni, ma solo la possibilità di disporre l’annotazione di rettificazioni operate dall’Autorità giudiziaria (ex art. 69, comma 1, lett. i, del DPR n. 396/2000), come si evince dal D.M. 5 aprile 2002, il quale nel prescrivere le formule tassative di annotazione (cfr. artt. 11, comma 3, e 102, comma 1, del D.P.R. n. 396/2000), all’Allegato A) formula n. 190, stabilisce quanto segue: “Annotazione di provvedimento di rettificazione (artt. 49, 69 e 81 del D.P.R. 3 novembre 2000, n. 396). Con provvedimento del Tribunale di … n. … in data … l’atto di cui sopra è stato cosi rettificato (inserire specificamente le rettificazioni così come sono state disposte) …”. Non si rinvengono altre previsioni contenute nel citato articolo 69 che dispongano l’annotazione di qualche diverso provvedimento del genere, ovvero formule di cui al DM 5 aprile 2002 che si riferiscano ad atti del genere adottati dall’Autorità amministrativa.

Quindi, una trascrizione nel Registro degli atti di matrimonio può essere espunta e/o rettificata solo in forza di un provvedimento dell’Autorità giudiziaria e non anche adottando un provvedimento amministrativo da parte dell’Amministrazione centrale, neanche esercitando il potere di sovraordinazione che, effettivamente, il Ministro dell’Interno vanta sul Sindaco in tema di stato civile.

L’art. 9 del D.P.R. n. 396/2000, infatti, conferisce al Ministro dell’Interno il potere di “indirizzo” ed al Prefetto il potere di “vigilanza” sugli Uffici. Tale potere trova specificazione nel medesimo decreto presidenziale ove si indicano quali sono gli atti dei quali si deve dare comunicazione al Prefetto prevedendo, all’articolo 104, le verificazioni che egli deve compiere presso gli uffici di stato civile che (ex articolo 105) si concludono con la redazione di un verbale e non con la modifica delle risultanze dei registri di stato civile o con l’adozione di provvedimenti destinati a tal fine.

In sostanza, anche sotto questo profilo, la normativa di riferimento non prevede un potere di annullamento o di intervento diretto dell’Amministrazione centrale sugli atti dello stato civile.

Ad una diversa conclusione il Collegio, a fronte della normativa sopra descritta, ritiene che non si possa giungere neanche seguendo il precedente giurisprudenziale segnalato dalla difesa erariale (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 19 giugno 2008, n. 3076), peraltro attinente ad una fattispecie e ad un caso non omogenei all’oggetto del presente giudizio.

La decisione invocata dall’Amministrazione ha esaminato i rapporti esistenti tra Prefetto e Sindaco in materia di pubblica sicurezza, così come disciplinati dalla legge 1° aprile 1981 n. 121, individuando fra le due autorità la sussistenza di un rapporto di dipendenza funzionale, configurato dalla normativa primaria e, in particolare, dall’art. 15 della legge n. 121 cit., che attribuisce al Prefetto (e al Questore su delega del primo) il potere di assumere temporaneamente la direzione dei servizi di pubblica sicurezza nei Comuni, con la conseguenza che rimane sospesa la competenza dell’autorità locale in materia.

Ciò porta a concludere per l’esercizio congiunto delle competenze amministrative in materia di pubblica sicurezza, frutto di un assetto che, come condivisibilmente rileva la sentenza, su di un rapporto di gerarchia, sia pure “funzionale”, fra i due organi.

Tale situazione non è dato di riscontrare nella fattispecie in esame, nella quale non vi è alcuna cogestione della materia. In particolare, la normativa:

– da un lato, esclude qualsivoglia intervento sostitutivo del Prefetto (se non quello, espressamente previsto, per il caso di inerzia del Sindaco);

– dall’altro, attribuisce ad un organo terzo, in via esclusiva, il potere di incidere sui registri dello stato civile, così come risultano gestiti dal Sindaco.

E’ forse solo il caso di ribadire che la particolarità dell’intervento dell’autorità giudiziaria trova fondamento nel diverso rilievo che l’ordinamento attribuisce alla materia dello stato civile rispetto alla gestione della pubblica sicurezza, che si caratterizza più per l’aspetto tecnico-operativo, che ben giustifica l’esistenza di un rapporto di dipendenza gerarchic-funzionale fra Prefetto e Sindaco.

Né un potere del genere può evincersi dall’art. 54, commi 3 ed 11, del TUEL (richiamato nel decreto prefettizio), posto che tali disposizioni prevedono il potere del Prefetto di sostituirsi al Sindaco in caso di inerzia di quest’ultimo nel sovrintendere agli uffici di stato civile.

Al riguardo, va rilevato, da una parte, che il potere sostitutivo può essere esercitato solo “nel caso di inerzia del Sindaco” (e non, come nel caso di specie, nell’ipotesi in cui il Sindaco abbia esercitato le funzioni) e, dall’altro, che il Prefetto ¬sostituendosi al Sindaco (come detto, solo in caso di inerzia) non potrebbe esercitare poteri maggiori di quelli vantati da questo ultimo il quale non può annullare le trascrizioni sicché, atti del genere non può assumerli neanche il Prefetto. Tale facoltà risulta inibita dovendo il Sindaco (e, quindi, anche l’Amministrazione centrale) ricorrere al giudice in casi del genere, fatta salva l’ipotesi della rettifica di meri errori materiali (ex art. 98, del D.P.R. n. n. 396/2099). Solo questo (e non altri) costituisce oggetto di un potere di intervento successivo permesso all’Ufficiale dello stato civile.

Questo conferma che spetta solo all’Autorità giudiziaria disporre la cancellazione di un atto indebitamente registrato nel Registro degli atti di matrimonio, posto che: le registrazioni dello stato civile non possono subire variazioni se non nei limitati casi descritti e normativamente previsti in modo espresso; l’ufficiale di stato civile ha solo il potere di aggiornare i registri e di correggere gli errori materiali; ogni rettificazione o cancellazione è attribuita alla competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria; fra le annotazioni possibili nel registro dei matrimoni non è previsto alcun atto di annullamento o di autotutela ma, solo l’annotazione della rettificazione giudiziaria.

Come detto, una volta eseguita la trascrizione di un atto nel registro degli atti di matrimonio (ai sensi dell’art. 63 del Regolamento), la stessa possa subire modificazioni o cancellazioni solo forza di un provvedimento dell’autorità giudiziaria e non anche a causa dell’adozione di un provvedimento amministrativo.

Del resto, se fosse configurabile un potere di sovraordinazione del Prefetto rispetto al Sindaco (quale quello descritto dall’Amministrazione resistente), esercitabile attraverso un potere di annullamento da parte dell’autorità amministrativa centrale (omettendo di applicare il citato articolo 95 del D.P.R. n. 396/2000), tale potere non sarebbe configurabile solo in capo al Ministero dell’Interno ma anche in capo all’Ufficiale di stato civile. Il Sindaco non vanterebbe solo il potere di aggiornamento (ex art. 5 del Regolamento) e correzione di errori materiali (ex art. 98 del Regolamento) ma, un vero e proprio potere di revisione degli atti di stato civile.

Tuttavia, l’esistenza di tale potere e la possibilità di adottare i relativi provvedimenti conseguenti dovrebbe trovare espressione e previsione nella disciplina dello stato civile ed, invece, non si fa menzione di tutto ciò né all’art. 69 del D.P.R. 396/2000, che disciplina le annotazioni, né nel D.M. 5 aprile 2002, che (come detto) contiene le formule tassative delle annotazioni stesse.

Inoltre, se tale potere esistesse non ci sarebbe bisogno di prevedere espressamente ed in maniera puntuale, all’art. 98, il potere per l’Ufficiale di stato civile di procedere alle correzioni di errore materiale.

Infine, se (come sostiene l’Amministrazione resistente) il Titolo XI del D.P.R. n. 396/2000 non fosse destinato a disciplinare anche le iniziative dell’autorità amministrativa, ma solo quelle dei terzi, non si spiegherebbe perché nel medesimo titolo sono disciplinate le ipotesi di “rettificazione” e “cancellazione” all’art. 95 e le ipotesi di “correzione di errore materiale” all’art. 98, rimettendosi le prime alla decisione dell’autorità giudiziaria e solo le seconde all’autorità amministrativa.

Tali conclusioni non mutano neanche prendendo in considerazione ed applicando la disciplina generale sul procedimento amministrativo contenuta nella legge n. 241 del 1990, la quale, all’articolo 21-nonies stabilisce che “Il provvedimento amministrativo illegittimo … può essere annullato d’ufficio, …, dall’organo che lo ha emanato, ovvero da altro organo previsto dalla legge.”.

In sostanza, in base al principio della riserva di legge dettato in materia (cfr. art. 97. co. 3, Cost.), affinché ad un organo amministrativo possa annullare d’ufficio un provvedimento adottato da un altro organo, occorre una espressa previsione di legge.

Nel caso di specie, come detto, manca una norma di rango primario che, espressamente, conferisca all’Amministrazione centrale il potere di adottare, in casi del genere, un atto di annullamento d’ufficio.

Quindi, i provvedimenti impugnati, sotto questo profilo, risultano illegittimi e vanno annullati.

4.2. Quanto sopra induce a disattendere le censure aventi ad oggetto l’asserita violazione delle norme procedimentali di cui agli artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990.

Per completezza, però, va rilevato che è condivisibile l’orientamento secondo il quale la trascrizione nel registro dell’atto di matrimonio deve intendersi quale atto avente natura amministrativa, e non (come sostenuto dalla parte ricorrente) un mero “un atto pubblico formale” con effetto dichiarativo e di certificazione, sottratto alla disciplina pubblicistica.

Come correttamente osservato dall’Amministrazione resistente, infatti, costituiscono atti amministrativi gli atti giuridici di diritto pubblico compiuti dai soggetti attivi della pubblica amministrazione nell’esercizio di una potestà amministrativa.

Tra tali atti, che possono concretizzarsi in atti di accertamento consistenti nella constatazione obiettiva di fatti o situazioni, rientrano i certificati che integrano dichiarazioni di conoscenza di qualità personali di un soggetto o della titolarità di status, capacità o diritti o dell’esistenza di rapporti giuridici.

I certificati sono rilasciati in base a constatazioni dirette della pubblica amministrazione o alle risultanze di atti in suo possesso e, ai fini che interessano in questa sede, il fatto che gli atti in questione abbiano natura certificativa non induce a negare che la trascrizione del matrimonio debba essere considerata un provvedimento amministrativo e non “un atto pubblico formale” con effetto meramente dichiarativo e di certificazione, perché anche atti del genere vanno considerati atti amministrativi.

5. Alla luce delle considerazioni che precedono il Collegio ritiene che il ricorso sia fondato e debba essere accolto.

6. Sussistono gravi ed eccezionali motivi – legati alla particolarità della vicenda e delle questioni trattate – per compensare le spese di giudizio tra le parti in causa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Ter), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto,

– accoglie il ricorso, nei limiti indicati in motivazione, e per l’effetto annulla i provvedimenti impugnati;

– dispone la integrale compensazione delle spese di giudizio fra le parti in causa;

– ordina che la presente sentenza sia eseguita dalla competente Autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1 D. Lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, per procedere all’oscuramento delle generalità degli altri dati identificativi dei soggetti ricorrenti manda alla Segreteria di procedere all’annotazione di cui ai commi 1 e 2 della medesima disposizione, nei termini indicati.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 febbraio 2015 con l’intervento dei magistrati:

Antonino Savo Amodio, Presidente

Stefania Santoleri, Consigliere

Roberto Proietti, Consigliere, Estensore

DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 09/03/2015.

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