Sulla proposta di abolire il potere cautelare del G.A. in materia di appalti pubblici
FRANCESCO VOLPE, Perché è sbagliato abolire o ridurre la fase cautelare nel processo amministrativo.
FRANCESCO VOLPE (*)
Perché è sbagliato abolire o ridurre la fase cautelare nel processo amministrativo
1. – La questione, in linea astratta, non meriterebbe neppure di essere posta.
Tuttavia, vi sono ragioni che rendono estremamente concreta l’urgenza di affrontarla.
Alcuni mesi fa, vari organi di stampa riportarono la tesi, sostenuta da un ancien Presidente del Consiglio, secondo la quale la giustizia amministrativa dovrebbe essere abolita.
Per la verità, l’idea non è nuova ed è anzi sostenuta da alcuni autorevoli studiosi, oltre che da me (che autorevole non sono).
Rispetto alle tesi diffuse, in tal senso, in seno all’Accademia, quell’idea aveva però un tratto di sicura originalità. Mentre, tra gli studiosi, chi propugna l’abolizione del giudice speciale amministrativo sostiene anche che le relative controversie siano trasferite al giudice ordinario (in favore di una effettiva unicità della giurisdizione), quell’esponente politico proponeva, invece, di abolire tout court la tutela contro l’Amministrazione o, per lo meno, di ridurla.
In gioco, dunque, non sarebbe la riforma degli artt. 100 e 103 della Costituzione, ma quella, assai più radicale, dell’art. 113.
In effetti, la «Politica» ha spesso avuto in uggia l’art. 113, che invece è uno dei più luminosi esempi di virtù costituzionale, allorché vi si stabilisce che «contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi» e che tale «tutela giurisdizionale non può essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti».
Le ragioni della sua introduzione, nel testo costituzionale, sono risapute: troppi erano gli esempi, nella previgente legislazione (non solo del ventennio), che escludevano l’impugnabilità di taluni tipi di atti amministrativi, ove fossero dedotti certi vizi di legittimità.
Ed è proprio a questo che, secondo certe impostazioni, si vorrebbe tornare e, in parte, si è già tornati con il secondo comma dell’art. 21 – octies della legge sul procedimento. La possibilità che esista un giudice – quale esso sia – in grado di annullare gli atti amministrativi è vista come un ostacolo all’efficienza dell’azione amministrativa. L’annullamento dovrebbe dunque essere una misura riservata alle questioni di minor conto, alle questioni che non possono incidere sulle magnifiche e progressive sorti della cosa pubblica: de minimis t a n t u m curat praetor.
Non è d’altra parte un caso se, nella passata legislatura, fosse stato presentato un disegno di legge (a firma dei deputati Zeller e Brugger) di revisione costituzionale che prevedeva, tra le altre cose, l’abrogazione del secondo comma dell’art. 113 Cost. (proposta di legge costituzionale n. 2288, presentata in data 12 marzo 2009).
2. – In questa medesima prospettiva, sembra collocarsi anche l’idea che in questi giorni è riportata dalla stampa in merito al progetto, che sembrerebbe essere sostenuto dal Governo, di eliminare o ridurre la tutela cautelare, con riguardo alle controversie in materia di gare ad evidenza pubblica.
Anche qui, nulla di nuovo, se è vero che già l’art. 13, legge 22 ottobre 1971, n. 865, stabiliva che, in materia di procedimenti ablativi, «in caso di ricorso giurisdizionale, da presentare nei termini di legge, l’esecuzione dei provvedimenti di dichiarazione di pubblica utilità, di occupazione temporanea e d’urgenza e di espropriazione impugnati può essere sospesa, ai sensi dell’art. 36 del R.D. 17 agosto 1907, n. 642 , nei soli casi di errore grave ed evidente nell’individuazione degli immobili ovvero nell’individuazione delle persone dei Proprietari». Non troppo diversamente stabiliva il successivo art. 7, d.l. 2 maggio 1974, n. 115.
Entrambe le disposizioni, però, non superarono il vaglio di legittimità: la prima con la sentenza Corte cost., 19 – 27 dicembre 1974, n. 284, la seconda con la sentenza Corte cost., 17 luglio 1975, n. 227.
La sentenza Corte cost. 14 gennaio – 1 febbraio 1982, n. 8, ha poi dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 5 della legge 3 gennaio 1978, nella parte in cui esso escludeva non tanto la tutela cautelare in sé, quanto l’appellabilità dei provvedimenti cautelari di primo grado resi, ancora una volta, nelle liti in materia di opere pubbliche.
La contrarietà agli artt. 3, 24 e 113 Cost. venne ravvisata, in quei frangenti, perché una limitazione della difesa cautelare appariva irragionevole se sostenuta sulla base di una indifferenziata urgenza e indifferibilità dell’esecuzione delle opere pubbliche.
Vi è da pensare che analoghe considerazioni debbano valere anche per il caso in cui si volesse escludere o limitare la tutela cautelare all’intera materia dei procedimenti ad evidenza pubblica, se, a sostenere questa prospettiva, fosse l’indifferibile e urgente, ma generica, necessità di procedere all’esecuzione dell’appalto.
Oggi, peraltro, non si pone solo un problema di contrarietà alla Costituzione, ma anche al sistema comunitario. A tutti è noto, infatti, quel che la direttiva «ricorsi», 11 dicembre 2007, n. 2007/66/CE, al suo art. 1 stabilisce. E la circostanza che, nel medesimo articolo (riformando l’art. 2 della direttiva 2004/18/CE), si consenta agli Stati membri di prevedere che l’impugnazione non sortisca effetti automaticamente sospensivi del provvedimento impugnato non vuol certo significare che sia consentito escludere radicalmente ogni forma di tutela cautelare.
Vi sono, dunque, ben gravi ragioni che portano a dubitare sia della legittimità costituzionale sia della conformità al diritto sovranazionale delle iniziative che, almeno stando alla stampa, sembrano prospettarsi all’orizzonte.
3. – Ma lo scopo di questo mio intervento non è solo quello di avvertire, per quel che può valere, dei rischi di invalidità della preconizzata normativa, quanto, soprattutto, di evidenziare sia la erroneità di taluni presupposti di fatto da cui sembra muoversi chi questi interventi invoca, sia l’incoerenza delle valutazioni che ne sono fatte discendere, sia la stessa inopportunità delle soluzioni proposte.
Il punto di partenza, si è detto, è dato dal constatare che le iniziative pubbliche, le grandi opere soprattutto, sarebbero troppo spesso ostacolate dalle pronunce del giudice amministrativo che disporrebbero l’inefficacia o l’annullamento dei propedeutici provvedimenti amministrativi.
Qui è l’e r r o n e i t à i n f a t t o.
Chiunque abbia esperienza di diritto amministrativo applicato potrà dar testimonianza di una tendenza, in via generale, rigettista da parte sia dei giudici territoriali sia del giudice che siede a Palazzo Spada.
Non è, dunque, affatto vero che la macchina amministrativa è del tutto incapace di muoversi «perché poi i T.A.R. annullano».
È vero, invece, che qualche volta i T.A.R. effettivamente annullano, ma riversare su quei non molti accoglimenti dei ricorsi le colpe del mancato raggiungimento dei propri obiettivi altro non è, da parte di chi sostiene queste tesi, se non cercare un alibi.
Del resto, le limitazioni all’esperimento dell’azione nel processo amministrativo in generale sono tali e di così tanto rilievo – per limitarsi alle solite questioni che tutti noi ricordiamo: termini dimezzati, contributo unificato manifestamente incongruo, preclusioni, necessità di integrare il processo con motivi aggiunti per ogni atto che sopravvenga, limitazioni alla fase istruttoria del processo, perenzioni per inadempimento del giudice nel fissar l’udienza di merito, indeducibilità dei c.d. «vizi formali» – che affermare la responsabilità univoca del giudice amministrativo per il mancato raggiungimento degli obiettivi pubblici è cosa che, a chi abbia un minimo di conoscenza del settore, non può che apparire del tutto insincera.
4. – L’erroneità dei presupposti di fatto trascende poi in incoerenza delle valutazioni che su tali presupposti, pur inesatti, sono compiute.
Quello che non si comprende infatti, è quale sia l’effettivo valore di una accusa, riferita al giudice amministrativo, di accogliere troppi ricorsi.
Una tale affermazione, infatti, potrebbe essere spiegata in due diversi modi.
Il primo è quello di reputare che i giudici amministrativi accoglierebbero troppi ricorsi perché mal li valuterebbero; in altri termini perché essi accoglierebbero delle impugnazioni che dovrebbero invece essere respinte. Tutto questo, però, non è sostenuto, almeno palesemente, da nessuno; nessuno critica i giudici amministrativi per il fatto di riconoscere una benevolenza ingiustificata nei riguardi dei ricorrenti e chi oggi chiede l’eliminazione della fase cautelare non afferma che il giudice amministrativo «giudica male».
Escluso, pertanto, questo primo modo di intendere l’accusa rivolta all’apparato di giustizia amministrativa, allora non resta che un secondo modo di intenderla.
Se, infatti, i giudici amministrativi, quando accolgono il ricorso, non pronunciano sentenze erronee, è allora evidente che i provvedimenti vengono annullati perché sono oggettivamente illegittimi. Eppure si vorrebbe che, nonostante tutto ciò, i giudici non li cassassero.
Vale a questo punto ritornare ai c.d. «fondamentali» e rammentarci che l’illegittimità di un provvedimento esprime, innanzitutto, la contrarietà dell’atto alla legge; contrarietà dell’atto, come si dice, al paradigma normativo.
Ora, tutti si è consapevoli che quel paradigma normativo è, sempre più spesso, confuso, rattoppato, indecifrabile, arruffato e confusionario. Si è tutti consapevoli che emanare un atto perfettamente legittimo è, sovente, quasi impossibile, giacché questa è opera che – attraverso un infinito procedere per normative di reciproco richiamo in secondo, terzo e quarto grado – richiede sempre più di frequente una sopraffina esegesi sul rapporto tra le norme nel tempo, sul riparto di competenze legislative, sulla gerarchia delle fonti, oltre che sui troppo diffusi problemi di concertazione tra le miriadi di autorità pubbliche tra le quali, per ragioni non sempre commendevolissime, si è voluto frazionare le funzioni amministrative.
Tuttavia, quel modello normativo così difficile da rispettare non discende dal giudice, ma dalla legge e, quindi, dalla volontà di chi è titolare, direttamente o indirettamente, del potere legislativo.
Il che sta a significare che la difficoltà di emanare atti amministrativi legittimi va addebitata proprio a quel soggetto istituzionale che chiede oggi di abolire il giudice a causa del fatto che costui applicherebbe le conseguenze dell’illegittimità.
Confondere i piani di valutazione significa confondere la causa con l’effetto e, insieme, le relative responsabilità.
Perciò, se si vuole che gli atti amministrativi non siano annullati, si operi sulla normativa che li regola, rendendola davvero più semplice.
È del tutto inconcepibile (ed è anzi insincero oltre che assai poco leale) introdurre, invece, una normativa di azione complicata, salvo poi pretendere che il giudice non ne tenga conto.
5. – Resta, infine, da considerare l’inopportunità in sé delle soluzioni proposte e, a tal riguardo, ci si chiede se eliminare la tutela cautelare per le procedure ad evidenza pubblica davvero possa facilitare l’azione amministrativa.
Io reputo il contrario.
Impedire la sospensione dell’aggiudicazione significa accettare che, nella pendenza del processo, l’appalto possa essere eseguito da chi non ne sia stato il legittimo aggiudicatario.
In tal caso, nonostante le recenti previsioni di diritto positivo sull’inefficacia del contratto medio tempore stipulato, un annullamento tardivo dell’aggiudicazione ben difficilmente consentirà al ricorrente di ripetere l’esecuzione di un’opera, di una fornitura o di un servizio che già sono stati attuati.
La tutela del ricorrente, di fatto, cesserà così di essere reintegratoria per ridursi a una tutela meramente risarcitoria.
Questo, però, non significa che le Stazioni appaltanti possano, a quel punto, sottrarsi all’obbligo di risarcire il danno. Vero è, però, che gli obblighi risarcitori verranno a sommarsi ai costi che le Stazioni nel frattempo già avranno sostenuto a titolo di corrispettivo nei confronti dell’aggiudicatario illegittimo, il quale, pur sempre, ha eseguito il lavoro, la fornitura o il servizio.
In definitiva, il conto economico derivante dall’eliminazione della fase cautelare è controproducente per le stesse Stazioni appaltante, perché finisce per essere causa di maggiori e, soprattutto, imprevisti costi d’appalto. Tale maggior costo, a sua volta, si rifletterà sulla impossibilità, per il futuro, di bandire nuove gare e di continuare nel regolare esercizio dell’attività amministrativa.
6. – Tutte le considerazioni che ho svolto, è pur vero, si giustificano su poche e scarne notizie che la stampa diffonde in questi giorni.
Ritengo, tuttavia, ugualmente utile che sulle stesse si prenda posizione. Ciò servirà, almeno, a due scopi. Il primo è quello di illustrare, a chi forse non è stato pienamente informato, quali siano le conseguenze di alcune decisioni che si vorrebbero prendere e di far questo prima che le medesime decisioni non possano essere più rimediate. Il secondo scopo, pur minimo e personale, è quello di riconoscere a se stessi di essersi almeno adoperati per evitare che tanto di dannoso possa attuarsi.
(*) Ordinario di diritto amministrativo nell’Università di Padova.