L’Avvocatura dello Stato tra carenze dell’organico e tagli retributivi

GIUSEPPE DELL’AIRA, Da Leopoldo alla Leopolda: ovvero, l’involuzione acritica della scuola giuridica fiorentina.


GIUSEPPE DELL’AIRA
(Avvocato distrettuale dello Stato)

Da Leopoldo alla Leopolda: ovvero, l’involuzione
acritica della scuola giuridica fiorentina


SOMMARIO: 1. L’Avvocato dello Stato e la sua indipendenza. 2. Le origini storiche dell’Istituto e l’intuizione di Pietro Leopoldo di Toscana: solo il tiranno non ha bisogno di un Avvocato – Dall’Avvocatura regia all’Avvocatura erariale. 3. Il ruolo professionale e la retribuzione – Magistrati, ministeriali ed incentivazione. 4. I costi reali dell’operazione: un risparmio solo di facciata. 5. Le informazioni che mancano alla pubblica opinione: l’incomparabile carico di lavoro della categoria. 6. Il dubbio sugli obiettivi: cui prodest?

1. L’Avvocato dello Stato e il suo patrocinio indipendente.

Quando, nella sua conferenza stampa in streaming, l’attuale Presidente del Consiglio, anticipando quanto non è di pubblico dominio neanche mentre scrivo (anzi, le notizie diffuse su internet erano di ben altro tenore), ha ridacchiato compiaciuto sullo zero – mostrato ai cronisti che vedeva contenti, perché vogliosi del sangue altrui (ma restii a donare il proprio!) – pari all’onorario di chi, da un secolo e mezzo, si danna per sanare gli effetti di legislazioni spesso inadeguate, mi ha colto un irriverente, ma incontenibile, senso di sconcerto.

Il lettore penserà all’isterica contestazione dell’appartenente ad una casta privilegiata e irredimibile. Ma sono costretto a deluderlo.

Si trattava di reazione istintiva al semplicismo con cui chi dovrebbe applicare i fondamenti della democrazia, specie quando si avventura in riforme epocali e affronta un delicatissimo momento storico, indulgendo in verbosi e populistici proclami.

Parlare qui di giacobinismo suonerebbe quasi offensivo per l’irripetibile fucina di uguaglianza che comunque fu, nel bene e nel male, la rivoluzione francese.

Ma il richiamo può giovare, perché nel messaggio plurisecolare di quegli eventi ancora oggi è dato cogliere la centralità del pubblico interesse, e la strumentalità a quell’obiettivo di ogni altra misura, più o meno utile che fosse alla conquista del consenso delle masse.

Invero, così dovrebbe essere per tutte le decisioni e le scelte dell’Amministratore, che solo al benessere dei cittadini, non al loro disinformato consenso, dovrebbe mirare. E invece, quanto quotidianamente constatiamo dimostra gli anni luce che ci separano da quelle essenziali regole di condotta.

Ciascuno dei tanti, compiaciuti sostenitori del vecchio adagio su feste, farina e forca, con indifferenza sembra oggi accantonare le regole dello Stato democratico, ignorando la storia, e talvolta offendendo con irriverenza chi, dopo anni di studio e notti insonni, ha sacrificato svago e affetti all’idea, ormai peregrina, di contribuire al meglio nella realizzazione degli interessi dell’Amministrazione pubblica, ovvero della collettività intera.

Probabilmente una dimensione municipale degli orizzonti non contribuisce a chiarire che l’apertura alle auto dei diversamente abili degli accessi alle Z.T.L. rappresenta garanzia di fondamentale interesse generale, non immotivato privilegio per chi dispone della deroga, salvo che la coscienza non rimorda sui criteri che hanno guidato il rilascio dei permessi. E nella medesima dimensione può risultare problematico percepire la differenza tra il vincolo di immedesimazione organica, che lega un Avvocato dello Stato alla Presidenza del Consiglio, e quello, più intenso e diretto, che dal Vertice politico di un Ente viene imposto al Dirigente, incaricato, con riserva di spoil system, di guidare l’Ufficio legale dello stesso Ente (o peggio, a chi, per i nepotismi più deprecabili, è assegnato a quell’attività contenziosa con qualifiche non pertinenti).

Non intendo mettere in dubbio la professionalità e l’indipendenza di alcuno.

Ma di certo a connotare il ruolo del difensore di una parte pubblica dovrebbe sempre essere l’incondizionata autonomia di chi lo svolge, perchè chiamato non a tutelare l’amministratore, ma l’Amministrazione, e così i pubblici interessi di cui per definizione è tenuta a farsi portatrice.

Un Avvocato che, per organizzazione e carriera, contrappone la sua totale autonomia operativa al volere del Capo dell’esecutivo è l’archetipo dello “Stato di diritto”, principio ancora oggi garantito dalla parità, davanti al Giudice terzo, tra titolare dell’interesse qualificato, e Amministrazione, che quell’interesse può pretendere di sacrificare solo se opera in conformità alla legge.

Sembra tuttavia che simili criteri, propri del nostro sistema, ma anche di quello che l’Europa vuole realizzare, non dissuadano dal proposito di sopprimere il Giudice degli interessi, solo perchè ha osato annullare provvedimenti dei Sindaci. E non convincano, invece, della necessità, a tutela della generalità, che siano piuttosto quei Sindaci ad impegnarsi nell’adozione di provvedimenti quanto più possibile legittimi (conformi, cioè, alle regole imposte dal diritto vigente in una società democratica!).

2. Le origini storiche dell’Istituto e l’intuizione di Pietro Leopoldo di Toscana: “solo il tiranno non ha bisogno di un Avvocato” – Dall’Avvocatura regia della Toscana all’Avvocatura erariale dell’unificazione.

Fin qui alcuni dei principi fondanti della democrazia.

Quanto alla storia, se anche in questo campo qualcuno avesse tempo e voglia di addentrarsi, potrebbe constatare che l’idea di un corpo unico di difensori pubblici si debba – nientemeno – all’illuminato governo di Pietro Leopoldo di Toscana (è il primo sintomo delle singolari coincidenze astrali che convergono sulla sorte degli avvocati pubblici), il cui lungimirante (per l’epoca) concetto di organizzazione democratica si esprimeva già nella considerazione che “solo i tiranni non hanno bisogno di un avvocato” (cui oggi è lecito aggiungere “libero”).

Invero, in quella felice enclave italiana era attivo, addirittura nel 1282, un “Archivio delle Riformazioni della Toscana”, cui veniva richiesto parere sulle controversie giurisdizionali, e che si ergeva a massimo tutore delle prerogative sovrane.

Ai tempi della Repubblica fiorentina (arriviamo alla metà del XVI secolo) di quell’organo furono celebratissimi segretari Niccolò Machiavelli e Donato Giannotti, nonchè, nei secoli a venire, altre illustri personalità, fino all’istituzione, ad opera di Pietro Leopoldo e con motuproprio del 27/5/1787, di un’Avvocatura regia.

L’ufficio, temporaneamente soppresso dal Governo francese nel 1804, fu significativamente ripristinato nel 1814, e mantenne le sue prerogative fino a quando il titolare della funzione, grazie alle leggi del neonato Stato Nazionale, mutò la sua denominazione da Avvocato regio della Toscana a primo Avvocato Erariale del Regno.

Ebbene, Pietro Leopoldo aveva istituito l’Avvocatura regia “perché le cause del Fisco, della regalia e del patrimonio regio fossero trattate e difese con puro spirito di verità e di giustizia, né l’interesse del Fisco mai prevalesse alla ragione dei privati”. Per questa illuminata ragione aveva affidato all’Avvocato regio il compito esclusivo di promuovere o sopire le liti, e di patrocinare le cause dello Stato, non solo davanti al Magistrato supremo di Firenze, ma anche in ogni altro Tribunale, davanti al quale era abilitato ad avvalersi di delegati residenti, chiamati ad agire secondo le sue istruzioni.

Nessuna lite cioè poteva iniziarsi se non consigliata dall’Avvocato regio, così come nessuna transazione poteva concludersi senza il suo assenso, essendo quell’Avvocato il consulente primo dell’Amministrazione, oltre che il vero e unico dirigente addetto al contenzioso e al consultivo.

Risale invece al 1862 la costituzione delle prime Direzioni del contenzioso finanziario del Regno, inizialmente modellate sull’inefficiente sistema borbonico, proprio delle Agenzie del contenzioso, che si limitavano a distribuire a liberi avvocati i patrocini delle liti dell’Amministrazione.

Continua però ad essere sintomaticamente rilevante che dal 1866 alcune Direzioni, compresa, nel 1870, la Direzione di Roma, si accorparono a quella di Firenze (ancora!); e fu per via delle radicali innovazioni sul contenzioso pubblico, introdotte dalle ancor oggi basilari leggi del 1865, che al Direttore di Firenze venne conferita per la prima volta la qualifica di “Generale”.

Questi, nonostante fosse fiorentino, nelle sue relazioni annuali si doleva della noncuranza per quelle funzioni mostrata dall’Italia unificata. E allo scopo, nella relazione per l’anno 1874, riferiva di 8335 cause, incrementate di ulteriori 478 nel 1875, ma del successo conseguito su 3470 il primo anno, e salito ad oltre 5000 in quello successivo.

Soprattutto, quel Direttore Generale riferiva che i costi di gestione delle liti fossero in costante e ingiustificato aumento, e, più direttamente, che quel lievitare andasse imputato al fatto che i Magistrati di province diverse da quelle lombarde e venete “procedono con una certa larghezza nella liquidazione delle spese a carico dell’erario”.

Non mancava di citare, a mo’ d’esempio, le vicende di una controversia con la società ferroviaria dell’Alta Italia, vinta in prime cure davanti al Tribunale di Firenze con favorevole liquidazione di L. 54 per spese. La Corte d’Appello, cui aveva fatto ricorso la società, aveva riformato la decisione di primo grado, liquidando le spese a carico dell’Erario nella evidentemente sproporzionata misura di L. 2.055,50, somma questa che la parte pubblica sarebbe stata costretta a pagare se non fosse intervenuta una successiva pronuncia favorevole della Cassazione.

E’ forse ai contenuti di quella relazione che si debbono le successive iniziative del legislatore statale, il quale, fallito il progetto di affidare il patrocinio all’Ufficio del Pubblico Ministero, istituì, dal 1876 e nelle città del regno “più popolate di cause e d’affari”, tante Avvocature regie “di tipo toscano” (sic!), sotto la direzione di un unico Avvocato generale, affinchè, come Ufficio, “difendessero le liti dell’Amministrazione, le componessero, le rinunziassero, consigliassero su ogni negozio di essa amministrazione, ne sciogliessero i quesiti, accudissero alle contrattazioni”,

Nascevano cioè Uffici chiamati, si legge nelle cronache del tempo, a “dirigere per davvero” il contenzioso, non già a trasmettere note, a delegare patrocini e a liquidare compensi. E con decreto reale del 16/1/1876 venivano istituite otto regie avvocature (Roma, Firenze, Genova, Milano, Napoli, Palermo, Torino e Venezia).

Con l’art. 15 di quel decreto reale fu altresì assegnato alle neo istituite Avvocature il compito di riscuotere i compensi di patrocinio, posti a carico delle controparti, e ripartire le somme riscosse tra i titolari, secondo i criteri fissati da un decreto ministeriale che, e non è poco, portò la firma del Ministro Depretis.

“Si volle interessare alla vittoria gli Avvocati regi e i sostituti – recitano sempre le sagge cronache del tempo – la qual molla va toccata con delicato accorgimento, e fu solo dopo gli effetti che ha persuaso i più restii a mantenerla”, in aggiunta al trattamento economico che, sin dal 1880, veniva “classato” in due separate fasce “retributive”, rispettivamente di 8 e 9 mila lire (prebende consistenti per quei tempi, ma rispettose della severa selezione cui l’accesso alla funzione era già allora condizionato).

A dettare le regole fondamentali fu infine il primo, grande preposto alla funzione di Avvocato Generale Erariale, quel Giuseppe Mantellini – neanche a dirlo anche lui toscano! – che, recependo a motto e modello dell’Istituto il “fortiter in re et suaviter in modis”, suggerì ad ogni Avvocato dello Stato la concisione di Demostene, unita alla prudenza e sapienza di Papiniano, advocatus fisci e procuratore di Cesare.

3. Il ruolo professionale e la retribuzione – Magistrati, ministeriali e incentivazione.

Oggi è sempre a Firenze, e paradossalmente per mano di chi nella “Leopolda” avrebbe formato i suoi orientamenti di riforma, che si decreta la fine di un’Istituzione, e soprattutto si rinnega, dopo due secoli e mezzo di storia, la professionalità dei suoi componenti, non più Avvocati indipendenti ma semplici travets.

L’idea, invero, non è affatto nuova.

Personaggi di grande spessore politico, come Giovanni Giolitti, ci tentarono sul finire del XIX secolo.

Ma furono costretti a ricredersi sull’utilità di simili misure dalla difesa plebiscitaria che della categoria spontaneamente assunsero le componenti intellettuali e professionali del Diritto, fossero Avvocati liberi professionisti (che non temevano la concorrenza, non confidavano in potenti amicizie, e testimoniavano lealmente la capacità dei loro contraddittori in giudizio) o docenti universitari, più attenti ai principi fondanti della scienza pubblicistica pura che a quelli di altra, allora ancora sconosciuta, branca, come il diritto municipale.

Nei resoconti parlamentare del 19 Giugno 1889 (gli eventi testimoniano le coincidenze astrali di inopportune iniziative) si legge l’intenzione di Giovanni Giolitti, all’epoca Ministro del Tesoro, ed eccezionalmente di origini piemontesi, non toscane, di annullare stanziamenti per “quote dovute ai funzionari delle Avvocature erariali per competenze di avvocati e procuratori nei giudizi sostenuti dalle Avvocatura stesse”.

Il proponente, già in quei tempi e come oggi, intendeva “incamerare a beneficio dello Stato le quote che fino ad allora i funzionari riscuotevano sulle somme versate dalle controparti per competenze di avvocati e procuratori poste a loro carico nei giudizi sostenuti dalle avvocature erariali”.

Altrettanto singolare è che il proposito si motivasse con la parità di trattamento economico di base tra Avvocati Erariali e Magistrati, e prospettasse un risparmio di spesa pari a 110mila lire del tempo.

Il che, sempre per le strane correlazioni di tempo e luogo che nei secoli hanno caratterizzato la vicenda, ciclicamente, ma a sproposito, giudicata di decisivo rilievo per le pubbliche finanze, sembra potersi motivare, con pari singolarità parallela, dall’esser stato, Giolitti, un caposezione del Ministero delle Finanze, dal dichiararsi impegnato al pareggio di bilancio, e dal proporsi, come Ministro già Magistrato, in contrapposizione a Depretis, il contenimento della spesa pubblica, all’epoca fuori controllo (dopo quasi 150 anni non sembra che qualcosa sia cambiata!).

Allora, come oggi, a sostenere l’iniziativa era il medesimo equivoco sulla titolarità del credito, espropriato ai titolari per avvantaggiare la voracità di guerrafondai, a suo tempo, o dei salvatori delle città coperte dalle acque, oggi.

Tuttavia, diversamente da quanto sta accadendo, il problema venne allora democraticamente dibattuto in Assemblea, nell’ovvio presupposto che nessuna improrogabile urgenza imponesse l’utilizzo di strumenti di normazione eccezionale, all’attualità dichiarato in tale prospettiva illegittimo dai costanti moniti dei Giudici Costituzionali.

Ebbene, i resoconti parlamentari dell’epoca, oltre a testimoniare l’attenzione dei (veri) rappresentanti del popolo per quello che l’Istituto rappresenta, concordano sulla funzione, giudicata decisiva, degli Avvocati dello Stato; saggiamente riconoscono che le “differenze stipendiali” con altre magistrature possono al più riguardare l’incongruità dei trattamenti altrui, e non l’eccesso di quelli riconosciuti agli Avvocati dello Stato; e confermano che i proventi “aggiuntivi” costituiscono compenso per “certe cause abbastanza gravi, per le quali non basta il tempo di ufficio, e per le quali l’avvocato erariale, per istudiarle, ha bisogno di un lavoro indefesso, accurato, indipendente da quello a cui sarebbe tenuto per ragione di orario”.

Senza qui voler ribadire, con quei, saggi, politici del tempo, che “se togliete la speranza di maggior guadagno, toglierete il maggiore stimolo all’azione umana, in fatto di lavoro, perché il lavoro stesso sia compiuto nel modo migliore”.

4. Chi si onererà dei veri costi dell’operazione: un risparmio di facciata.

A supportare le unanimi opposizioni al disegno ministeriale era la constatazione che l’avvocato erariale “non è un impiegato, né un magistrato, né un avvocato: ma è ad un tempo impiegato, magistrato e avvocato. E soprattutto egli non ha spezzato i suoi legami con il foro: lo che è dovuto appunto a quella disposizione per la quale l’avvocato erariale ha diritto a prendere egli il compenso cui è condannata la parte soccombente”.

Onde, si legge sempre in quel resoconto parlamentare, se “sopprimete questo, l’avvocato erariale diventerà assolutamente un impiegato dello Stato e voi avrete mutato i cardini della istituzione”, considerato che “vi sono nei bilanci dello Stato parecchi milioni (oggi miliardi di Euro! N.d.r.), ed un Ministro del Tesoro non avendo quella istituzione avrà bisogno di ricorrere ad Avvocati liberi”.

“Quali potrebbero essere gli effetti di questo sistema – si interrogava al tempo il qualificato interveniente – io, avvocato, non lo dico (a interloquire era l’on. Grimaldi n.d.r.); lo lascio alle considerazioni della Camera. Non veniamo però a colpire una istituzione che è proficua, e soprattutto onesta”.

La Camera, ovviamente, smentì Giolitti e approvò lo stanziamento, che dal 1876, e cioè da quasi un secolo e mezzo, concorre a riconoscere la professionalità propria della funzione riservata agli Avvocati Erariali.

Ad indurre alla riflessione, allora dovrebbero essere, innanzitutto, le testimonianze del passato, da coniugare alla constatazione che altre Avvocature pubbliche, comprese le regionali e comunali, nei decenni hanno pure garantito, modellandosi, per struttura e, parzialmente, per funzione, su quella dello Stato, forti risparmi sul costo del contenzioso.

Analoghi effetti non potranno essere garantiti, per qualità dei risultati e quantità degli esborsi, da scelte “in via d’urgenza”, cui, per alleviare in apparenza qualche mal di pancia, seguirà l’irreversibile perdita, a breve, di tante professionalità la cui esperienza non sarà possibile, con la stessa urgenza, sostituire.

D’altra parte, chi di pubblica funzione intenderebbe occuparsi dovrebbe cogliere con attenzione il senso dei dati sulla, ormai sporadica, collocazione nel mercato del lavoro dei giovani e più preparati dottori in giurisprudenza.

Orbene, a difficoltà e complessità di selezione astrattamente pari (assunto oggettivamente opinabile, perché gli Avvocati dello Stato sostengono, unici fra gli appartenenti a carriere magistratuali, due successive e severissime selezioni pubbliche, contraddistinte dal limite ristrettissimo di disponibilità nei ruoli organici, pure separati, di procuratore e Avvocato dello Stato), è nei fatti conclamato che chi, avendone i titoli e le capacità ha superato entrambi i concorsi, per procuratore dello Stato e per magistratura ordinaria, ha prevalentemente optato per la prima delle due alternative, confidando, com’è logico presumere, su un trattamento economico più favorevole, e nonostante l’inumano carico di lavoro da sostenere.

Altrettanto, ma in senso “inverso”, frequentemente accade per il concorso di secondo grado.

I più giovani e preparati dei procuratori dello Stato propendono alla partecipazione, anche qui con riscontrato e significativo ampio successo, ai concorsi per magistrato del TAR, della Corte dei Conti o del Consiglio di Stato; optano poi prevalentemente per quelle diverse carriere, che, nonostante la teorica minor redditività della funzione, garantiscono però carichi di lavoro gestibili e contenuti, e soprattutto, quanto a possibili decadenze e responsabilità, direttamente governabili.

Per restare in tema, particolarmente significativo è al riguardo anche un articolo di stampa, apparso sul quotidiano La Repubblica del 7/6/1989 e a firma del grande costituzionalista prof. Paolo Barile.

Si era appena tenuto, neanche a dirlo a Firenze (!), il primo congresso nazionale degli Avvocati e Procuratori dello Stato, e in quella sede erano stati resi pubblici i dati sui carichi di lavoro della categoria, giudicati insostenibili dai più perché lievitati da 27.000 affari annui di media nel 1950 alla “iperbolica cifra” di 130.000 nel 1988 (oggi siamo oltre i 170.000!).

Sicchè, nell’illustrare ai lettori, con il titolo “l’Italia difesa da 300 avvocati”, il ruolo di chi, come testimoniato dall’Avvocato Generale Giorgio Azzariti, vede “il bello e il difficile” del proprio mestiere nel “non esercitare alcun potere che non sia quello del ragionamento e del dibattito svolto in condizione di assoluta parità e di assenza di ogni privilegio, condizioni indispensabili per garantire la piena realizzazione del principio di legalità, attraverso il retto esercizio del controllo giurisdizionale”, l’autore certificava, ai massimi livelli della sua Scienza, che, insieme alla Corte Costituzionale, alla Banca d’Italia e a pochissime altre istituzioni, l’Avvocatura dello Stato “ha conservato la propria indipendenza, interna ed esterna, e resta uno dei pochi baluardi del nostro Stato di diritto”

Tutto questo non può che avere riscontri certi e indiscutibili, rinvenibili nell’abnorme impegno preteso dagli Avvocati dello Stato, e dagli stessi materialmente profuso, come provano i dati che, nella loro oggettività, è ora doveroso fornire a chi legge.

5. Le informazioni negate alla pubblica opinione e l’inumano peso sull’intera categoria.

L’organico nazionale complessivo, suddiviso nei due ruoli degli Avvocati e Procuratori dello Stato, è pari a 370 unità ( si pensi che i Magistrati in Italia sono più di 9.000, e che è insensato giudicare i trattamenti economici delle categorie senza conoscerne le dimensioni, mentre una sana politica economica non può prescindere dalla valutazione del rapporto costo-benefici, estremamente attivo per l’Avvocatura).

Attualmente l’organico è coperto solo per 340 posti. Gli altri 30 – che una governance attenta ai risultati, economici e non politici, dovrebbe invece impegnarsi a coprire in via d’urgenza – sono disponibili nel ruolo dei procuratori, e restano vacanti, grazie ad improvvide disposizioni di “taglio orizzontale” sulle nuove assunzioni e sullo stesso turn over.

Al concorso pubblico per procuratore dello Stato (tre prove scritte e nove orali) si accede con la laurea in giurisprudenza.

A quello per Avvocato dello Stato, che si articola in quattro prove scritte, e sedici orali, concluse da una pubblica discussione su temi in prevalenza vergini per la giurisprudenza di legittimità, e predisposta dal candidato nel termine di 24 ore, può invece partecipare sia chi, da almeno un triennio, è nel ruolo dei procuratori, sia il magistrato amministrativo e ordinario, sia il docente universitario, il dirigente pubblico e l’avvocato libero professionista in possesso di qualificate anzianità.

L’Istituto cura in via esclusiva il patrocinio di tutte (dicesi tutte, centrali e periferiche!) le Amministrazioni statali, nonchè delle altre, regionali o autonome, che hanno deliberato di avvalersene.

Fa eccezione la Regione Siciliana, che per norma di attuazione del suo Statuto fruisce da decenni di un patrocinio pubblico in tutto e per tutto identico a quello dello Stato.

Se ne trae che su quelle 340 unità professionali piovono ogni anno oltre 170.000 nuovi affari contenziosi, i quali, comprese le giurisdizioni internazionali, causano un incremento annuo costante del carico individuale, pari, in media, a 500 nuove cause.

Visto che la durata media minima di un grado di giudizio è, in Italia, di tre anni, se ne deduce, sempre in via di approssimazione media e per difetto, che quel carico individuale va stimato in 4.000 cause attive, cui vanno aggiunte le fasi di legittimità, le controversie internazionali, e i giudizi di costituzionalità.

Il valore economico di simile contenzioso, sempre per approssimato difetto, può stimarsi pari a 25/26 miliardi di Euro annui, mentre il costo sostenuto dallo Stato per il funzionamento dell’intera struttura, comprensivo cioè di tutti gli oneri per il personale e dei costi di gestione per mezzi e sedi (non vengono computati né i vantaggi per le Regioni, né quelli per gli altri soggetti pubblici, che del patrocinio fruiscono in forma del tutto gratuita!) non supera i 150 €/M.ni annui.

Da qui, un costo stimato, per ciascuna causa, ma per tutti i possibili gradi di giudizio, che non raggiunge i 900 Euro, e che, secondo comune esperienza, è di gran lunga inferiore non solo agli ordinari valori di mercato, ma allo stesso costo puro di qualunque attività di difesa e consulenza legale, anche se fornita in altre amministrazioni pubbliche.

Una rapida verifica delle omologhe causali di spesa, sostenute da soggetti pubblici già fruitori del patrocinio e, nel tempo, transitati a regime di diritto privato, può provare l’illogicità dell’odierno procedere.

Come necessaria premessa, si consideri che sono prese in considerazione solo oche componenti dell’enorme complesso “pubblica Amministrazione”, la cui articolazione si estende a centinaia di attuali “fruitori” del patrocinio di cui si discute.

Ebbene, S.p.A. Poste Italiane, pur disponendo di un proprio Ufficio legale interno, ha speso nel 2012 per “consulenze varie e assistenze legali” quasi 42 milioni di Euro, contro i circa 30 del 2013 (i dati si leggono a pag. 232 dell’ultimo bilancio). Da sola, ha cioè erogato, a carico di finanze sostanzialmente e solo pubbliche, il 20% di quanto costa l’intera struttura dell’Avvocatura dello Stato.

S.p.a. Ferrovie dello Stato già nel corso del primo anno in cui – come ente pubblico economico – declinò il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, spese oltre 10 miliardi delle vecchie lire per la difesa legale. Oggi, il consolidato 2012, alla voce prestazioni professionali e consulenze, denuncia una spesa di 36 milioni di Euro (altro 20%, che sommato al precedente raggiunge, ma per due sole entità pubbliche, il 40% della spesa complessiva per l’Avvocatura dello Stato).

Ancora: il bilancio di ANAS s.p.a. (altro soggetto sostanzialmente pubblico, che, pur avendo creato una sua struttura legale interna, con costi non scorporabili da quelli sostenuti per tutto il personale, si avvale frequentemente di legali esterni, affidando alla facoltatività del patrocinio pubblico quanto l’una struttura e gli altri professionisti scelgono di non fare) denuncia oneri per il contenzioso pari nel 2011 ad oltre 15 milioni di euro, superando i 16,5 nel 2013 (somma così un altro 10%, e si raggiunge la metà del costo complessivo per la difesa di tutti i Ministeri, della Regione Siciliana e di ogni altro Ente pubblico, che dell’Avvocatura dello Stato si avvale!).

Ma la ciliegina sulla torta la mette AGEA, Agenzia per le erogazioni in Agricoltura.

Sul quotidiano Italia Oggi del 4 Dicembre scorso ciascuno ha potuto leggere di un contenzioso tra detta Agenzia e l’Agenzia delle Entrate per un rimborso IVA del valore di circa 100 milioni di Euro.

Questo contenzioso, quanto a difesa davanti alle Commissioni Tributarie competenti, affidata ad un commercialista libero professionista, sarebbe costato alle finanze pubbliche ben 5,5 milioni di Euro. E qui non è neanche immaginabile una proporzionalità percentuale ai tanto vituperati costi delle pubbliche difese!

Per ulteriore informazione, è poi verificabile che nel 1997 la Giunta della Regione Lazio avviò un contenzioso con altro Ente pubblico, per il tramite dell’Avvocatura dello Stato, decidendo di avvalersi di quel patrocinio facoltativo.

La causa, del valore di un centinaio di milioni di Euro, proseguì fino a quando la stessa Giunta Regionale, mutatane presidenza e composizione, deliberò di affidare la difesa a professionista privato, costituitosi in prosecuzione all’impronta, per forza di cose data alla causa dal precedente difensore pubblico. La conclusione del giudizio, nel quale è stata già emessa sentenza di parziale accoglimento della domanda regionale, è ancora di là da venire; ma a quanto si riferisce il difensore “libero” avrebbe depositato una nota spese, relativa al solo primo grado, per 2,3 Milioni di Euro!

Nel numero del 4/10/2006 è di contro il Sole 24 Ore a tessere giustamente le lodi di un Avvocato dello Stato, definito “difensore dell’IRAP”, cui riconosce l’esclusivo merito di avere salvato in extremis l’Erario italiano da un esborso di oltre 100 miliardi di Euro (!!!), grazie all’esito favorevole di una controversia davanti alla Corte di Giustizia Europea (causa C-475/03).

Ovviamente, quel difensore, come l’intera Avvocatura dello Stato, non ha percepito un solo centesimo “in più” per siffatto, incomparabile risultato: ma di questo, a quanto pare, non è lecito parlare!

6. Il legittimo dubbio sui veri obiettivi: cui prodest?

Si può definire notorio, tanto da indurre ad urgente riforma di sistema, e da motivare l’inserimento nel decreto legge che dovrà salvare il Paese, che ciascun Avvocato dello Stato fruisce di una retribuzione fissa, ragguagliata, per fasce di equipollenza ed anzianità, a quella dei magistrati, ma senza incremento alcuno per lo svolgimento di funzioni direttive, e di una componente variabile, non pensionabile (caso unico nei trattamenti retributivi corrisposti con regolare periodicità al lavoratore dipendente!), costituita dalle quote onorari per il caso di incondizionato esito favorevole del giudizio.

Quest’ultima voce è legata a riscontri oggettivi sui risultati, perchè trattasi di spese legali in cause a esito del tutto favorevole all’Amministrazione (basta il rigetto di una riconvenzionale, o una condanna minima, a dispetto di originarie richieste milionarie, per escludere il titolo al riparto, nonostante il risultato complessivo può garantire grossi risparmi all’Ufficio patrocinato!).

Trattasi, cioè, di compenso tipico della professione forense, legato ad esiti che, incondizionatamente (in toto favorevoli) e oggettivamente (il riconoscimento su qualità e rilevanza proviene da soggetto terzo, qual’è il Giudice) esprimono il merito di chi ha prestato la sua opera professionale.

D’altra parte, ed è quanto non solo giustifica, ma rende significativa la “contestata” entità rilevante delle somme liquidate, entità che pure essa indirettamente certifica le doti professionali di tutti gli Avvocati dello Stato, l’Istituto, che pure espleta tanta attività consultiva, può vantare una percentuale di successi nel 70% delle controversie, così garantendo alla parte pubblica la salvaguardia di risorse in contestazione che si stimano in oltre 18 miliardi di Euro.

Impegnarsi ad azzerare l’unico vero compenso incentivante esistente, realmente legato, con criteri oggettivi, ai risultati conseguiti è allora frutto di miope superficialità, se non altro perché fortissimo è il rischio che all’indifferenza per l’esito corrispondano una minore tensione all’utilità finale e, soprattutto, un illogico disincentivo al merito, che potrà negativamente incidere sull’ambizione all’accesso ai ruoli dell’Istituto che tante professionalità qualificate, offerte dallo scarno mercato del lavoro attuale, certamente nutrono.

Il sospetto, a fronte di tanta palese incoerenza, è che si perseguano obiettivi i quali non hanno nulla a che vedere con il contenimento della spesa e con la redistribuzione delle risorse.

Piuttosto, sulla falsariga della costosa designazione, poco conosciuta, di un difensore di nazionalità inglese per i due marò, che detenuti erano e tali continuano a restare nella lontana India (dalla lettura del curriculum si apprende che sir Daniel Bethlehem è cresciuto in Sudafrica, è stato consigliere legale esterno del Foreign Office, ma sembra essere più noto come manager di scuba diving, esperto di trekking e scalatore di alte vette) è naturale il sospetto che l’attenzione ai risparmi di spesa sia il più remoto, anche se il più pubblicizzato, degli obiettivi.

Ecco perchè con preoccupazione si guarda al percorso da Leopoldo alla Leopolda: si vuole esprimere con questa sintesi non un facile gioco di parole, o un ininfluente cambiamento di genere, ma una preoccupante differenza di attenzione nella gestione del sistema secondo fondanti regole della democrazia. E qui, passi il paradosso, l’impronta maschile dell’ispirazione, pur risalente nei secoli, finisce purtroppo per prevalere sulla convinta, per chi scrive, supremazia qualitativa dell’amministrare al femminile.