Illecito utilizzo dei finanziamenti destinati ai gruppi politici dei Consigli regionali

n. 5/2014 | 6 Maggio 2014 | © Copyright | - Articoli e note, Giustizia contabile | Torna indietro More

ANTONIO VETRO, Problematica sui finanziamenti dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali, con particolare riguardo alla giurisdizione del giudice contabile per le ipotesi di danno erariale.


ANTONIO VETRO (*)

Problematica sui finanziamenti dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali, con particolare riguardo alla giurisdizione del giudice contabile per le ipotesi di danno erariale.


1) Premessa.

L’argomento trattato è divenuto di rilevante attualità, a seguito delle numerose inchieste che hanno contestato fenomeni diffusi di mala gestio nell’utilizzazione dei finanziamenti previsti a favore dei gruppi consiliari.

Da tali inchieste è emersa una serie impressionante di abusi, con condotte appropriative, o finalizzate a conseguire interessi meramente privatistici, ovvero ancora a perseguire scopi del tutto estranei alla destinazione rigorosamente vincolata prevista nell’erogazione dei fondi.

Al momento attuale molte inchieste sono in pieno svolgimento, sia in campo penalistico che in quello della responsabilità amministrativo-contabile, per cui le risultanze attualmente disponibili sono ancora limitate, ma di già risultano significative per delineare una situazione di inaudita gravità nella quale risultano calpestati i più elementari principi di correttezza e di buona amministrazione.

A fronte di un così allarmante quadro di sperpero delle pubbliche risorse, tanto più deprecabile in un periodo di diffuso impoverimento di larga parte della popolazione e della riduzione di essenziali misure a favore dello stato sociale, si è pervenuti alla drastica decisione – nel disegno di legge costituzionale riguardante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione” (Bozza del 12 marzo 2014), art. 122, ultimo comma – di stabilire che “non possono essere corrisposti rimborsi o analoghi trasferimenti monetari recanti oneri a carico della finanza pubblica in favore dei gruppi politici presenti nei Consigli regionali”.

2) Natura giuridica dei gruppi consiliari.

La problematica è stata affrontata in sede giurisprudenziale in più occasioni, ma le soluzioni prospettate non sono univoche.

La Corte costituzionale, con sentenza n. 1130/1988, ha precisato che i gruppi sono organi nei quali si raccolgono e si organizzano all’interno dell’assemblea i consiglieri eletti al fine di elaborare congiuntamente le iniziative da intraprendere e di trovare in essi gli adeguati supporti organizzativi per poter svolgere adeguatamente i propri compiti.

Con sentenza n. 187/1990 ha ulteriormente chiarito che i gruppi consiliari sono organi del Consiglio regionale, caratterizzati da una peculiare autonomia in quanto espressione, nell’ambito del Consiglio stesso, dei partiti o delle correnti politiche che hanno presentato liste di candidati al corpo elettorale, ottenendone i suffragi necessari alla elezione dei consiglieri. Essi pertanto contribuiscono in modo determinante al funzionamento e all’attività dell’assemblea, assicurando l’elaborazione di proposte, il confronto dialettico fra le diverse posizioni politiche e programmatiche, realizzando in una parola quel pluralismo che costituisce uno dei requisiti essenziali della vita democratica.

Con la recente sentenza n. 39/2014 ha ribadito che i gruppi consiliari vanno qualificati come organi del Consiglio e proiezioni dei partiti politici in assemblea regionale, ovvero come uffici comunque necessari e strumentali alla formazione degli organi interni del Consiglio.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 932/1992, ha invece affermato che i gruppi consiliari regionali, al pari dei gruppi parlamentari, si propongono come formazioni associative a carattere politico e temporaneo (il gruppo cessa con la legislatura), proiezioni nell’ambito del Consiglio regionale dei partiti politici, il cui apparato organizzativo interno, ove esistente, è del tutto distinto e avulso dalle strutture burocratico-amministrative di supporto del Consiglio regionale e della Regione nel suo complesso, per cui ha escluso che il rapporto lavorativo nell’ambito del gruppo consiliare regionale potesse essere considerato di pubblico impiego con la Regione.

Di opposto avviso la Cassazione, SS.UU. civ., la quale, con sentenza n. 609/1999, ha considerato i gruppi consiliari regionali organi delle Regioni, per cui il rapporto di lavoro al loro interno riveste la natura di pubblico impiego, salvo che non risulti che la normativa regionale abbia inteso qualificarlo di diritto privato. In particolare, “i gruppi consiliari sono organi del Consiglio regionale, espressione dei partiti o delle correnti politiche in esso rappresentati e che, in quanto tali, godono di una particolare autonomia in funzione dell’attività dell’ assemblea”.

In conclusione, va ricordata l’opinione espressa, con sentenza n. 49976/2012, dalla Cassazione penale, la quale, nell’individuazione della natura giuridica dei gruppi consiliari, ha lumeggiato una realtà complessa e multiforme di aspetti coesistenti di natura pubblica e privata per cui potrebbe anche affermarsi una natura bivalente, fermo restando che trattasi di “problematica, a lungo dibattuta in dottrina e in giurisprudenza, senza essersi ancor oggi risolta in una definitiva reductio ad unum“.

La tesi che afferma la presenza di “aspetti coesistenti di natura pubblica e privata” sembra quella più aderente alla realtà, in quanto, a prescindere dai casi minoritari dei gruppi misti o addirittura uninominali, di norma i gruppi, nella veste rappresentativa dei partiti, mutuano da questi la natura privatistica, ma nello stesso tempo, quando partecipano all’attività assembleare dei Consigli regionali, svolgono sicuramente una funzione pubblicistica.

3) Cenni sul controllo della Corte dei conti sui finanziamenti dei gruppi consiliari.

Il d.l. n. 174/2012, convertito nella legge n. 213/2012, prescrive l’invio dei rendiconti delle singole Regioni, ivi compresi quelli dei gruppi consiliari, entro sessanta giorni dalla chiusura dell’esercizio, alla competente Sezione regionale di controllo la quale, entro trenta giorni, deve deliberare sulla loro regolarità; decorso tale termine si applica il principio del silenzio-assenso. Nel caso di riscontrate irregolarità la Sezione, sempre entro trenta giorni, chiede la regolarizzazione del rendiconto, fissando un termine non superiore a trenta giorni, fermo restando che la mancata regolarizzazione comporterà l’obbligo di restituzione delle somme contestate.

La Sezione delle autonomie della Corte, con deliberazione n. 12/2013, sulla questione di massima dell’applicazione dell’art. 1, commi 9-12, del d.l. n. 174/2012, relativamente ai rendiconti dei gruppi consiliari per l’esercizio 2012, ha stabilito i seguenti principi di diritto: a) il controllo predetto investe anche i rendiconti riguardanti l’esercizio 2012; b) il controllo concerne la regolarità della gestione finanziaria rendicontata sulla base delle regole all’epoca vigenti presso ciascuna Regione a statuto ordinario; c) il termine per la presentazione del rendiconto alla Sezione regionale di controllo, nell’esercizio 2012, decorre dalla scadenza di quello previsto per la presentazione del rendiconto al Consiglio regionale, secondo le norme regionali e/o i regolamenti consiliari all’epoca vigenti.

Le Regioni autonome Friuli-Venezia Giulia e Sardegna hanno impugnato dinanzi alla Corte costituzionale l’art. 1, commi 9, 10, 11 e 12, del decreto-legge in esame.

La Consulta, nella relativa sentenza n. 39/2014, ha preliminarmente chiarito che, con i commi impugnati, il legislatore statale ha inteso adeguare il controllo della Corte dei conti sulla gestione finanziaria delle Regioni, al duplice fine del rafforzamento del coordinamento della finanza pubblica e della garanzia del rispetto dei vincoli finanziari derivanti dall’appartenenza del nostro Paese all’Unione europea, contestando il presupposto errato delle ricorrenti che i parametri costituzionali (art. 116 Cost.), statutari e delle relative norme di attuazione evocati rappresentassero le uniche fonti normative per la disciplina dei controlli in parola.

Quanto agli altri parametri richiamati dalle ricorrenti, (artt. 117, 119, 127 della Costituzione, norme statutarie e regolamentari), al fine di dimostrare un titolo di competenza esclusivo delle Regioni per la disciplina dei gruppi consiliari regionali e dei relativi controlli, desumibile dai parametri relativi all’autonomia legislativa, amministrativa e finanziaria della Regione, la Corte ha ribadito la diversità di posizione e funzioni degli organi del Parlamento nazionale rispetto a quelli delle altre assemblee elettive sotto molteplici profili, fra cui, in tema di controlli, l’impossibilità di estendere ai Consigli regionali la eccezionale deroga, rispetto alla generale sottoposizione alla giurisdizione contabile, vigente nei confronti delle Camere parlamentari, della Presidenza della Repubblica e della Corte costituzionale.

In particolare, non è stato ritenuto lesivo dell’autonomia regionale il comma 9 dell’art. 1 del citato decreto-legge – il quale prevede che ciascun gruppo consiliare approvi un rendiconto di esercizio annuale, strutturato secondo le linee-guida deliberate in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano e recepite con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 21 dicembre 2012, al fine di assicurare la corretta rilevazione dei fatti di gestione e la regolare tenuta della contabilità – tenuto conto che il rendiconto delle spese dei gruppi consiliari costituisce parte integrante del rendiconto regionale e che il sindacato esterno della Corte dei conti assume, come parametro, la conformità del rendiconto al modello predisposto in sede di Conferenza attraverso una analisi obbligatoria di tipo documentale, sull’effettivo impiego dei fondi, che non entra nel merito delle scelte discrezionali rimesse all’autonomia politica dei gruppi.

La Corte ha invece dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 10, primo e secondo periodo,. e del comma 11, primo periodo, dell’art. 1 del d.l, nella parte in cui prevede il coinvolgimento del presidente della Giunta e non nel presidente del Consiglio regionale nelle procedure ivi previste.

Di particolare rilievo è l’affermazione della Corte secondo cui il comma 11, ultimo periodo, dell’art. 1 del d.l., nella parte in cui introduce l’obbligo di restituzione delle somme ricevute, in caso di accertate irregolarità in esito ai controlli sui rendiconti, sfugge alle censure delle ricorrenti. Infatti – contrariamente alla sanzione della decadenza dal diritto all’erogazione delle risorse per il successivo esercizio annuale, di cui è stata sancita l’illegittimità costituzionale – secondo la Corte “l’obbligo di restituzione può ritenersi principio generale delle norme di contabilità pubblica. Esso risulta strettamente correlato al dovere di dare conto delle modalità di impiego del denaro pubblico in conformità alle regole di gestione dei fondi e alla loro attinenza alle funzioni istituzionali svolte dai gruppi consiliari”.

4) Possibili interferenze fra il principio costituzionale di autonomia dei Consigli regionali ed il sindacato giurisdizionale sull’illecita utilizzazione dei fondi erogati ai gruppi consiliari.

L’art. 122, comma 4, della Costituzione stabilisce che “i consiglieri regionali non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni”.

Si premette che, secondo quanto chiarito dalla Consulta nella sentenza n. 200/2008, la disposizione in esame, rimasta invariata dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, ha natura derogatoria ed è quindi di stretta interpretazione, per cui ogni sua dilatazione al di là dei limiti precisi voluti dalla Costituzione costituisce una violazione dell’integrità della funzione giurisdizionale, posta a presidio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, la cui disciplina è riservata alla competenza esclusiva del legislatore statale, ai sensi dell’ art. 117, secondo comma, Cost.

Tanto precisato, il primo problema da risolvere è quello dell’individuazione delle funzioni coperte da immunità espletate dai consiglieri e, per quanto qui interessa, anche dai gruppi consiliari.

Con sentenza n. 70/1985, la Corte costituzionale ha statuito che, anche se il nucleo caratterizzante delle funzioni consiliari, quale definito dall’art. 121, secondo comma, della Costituzione, induca a considerare ad esso estranee, in via di principio, le funzioni di amministrazione attiva, tuttavia può ritenersi che le attribuzioni costituzionalmente previste per i Consigli regionali, coperte da immunità, non si esauriscano in quelle legislative, ma ricomprendano anche quelle di indirizzo politico, di controllo e di autorganizzazione, con richiamo alle “altre funzioni” conferite al Consiglio dalla Costituzione e dalle leggi, secondo la locuzione accolta dall’art. 121 Cost.

Con le sentenza nn. 289/1997 e 392/1999, è affermato il fondamentale principio che l’immunità garantita anche per le funzioni di natura amministrativa, assegnate al Consiglio regionale in via immediata e diretta dalle leggi dello Stato, non è volta ad assicurare una posizione di privilegio per i consiglieri regionali, ma si giustifica solo in quanto intesa a preservare da interferenze e condizionamenti esterni le determinazioni inerenti alla sfera di autonomia dell’organo.

Con sentenza n. 292/2001 la Consulta, premessa la piena estensione della giurisdizione contabile nei confronti degli apparati regionali e provinciali, ha precisato che l’autonomia organizzativa e contabile di cui i Consigli godono all’interno dell’ordinamento regionale non può implicare di per sé che l’amministrazione consiliare sfugga alla disciplina generale, prevista dalle leggi dello Stato, in ordine ai controlli giurisdizionali. In particolare, il giudizio di conto si configura essenzialmente come una procedura giudiziale, a carattere necessario, volta a verificare se chi ha avuto maneggio di denaro pubblico sia in grado di rendere conto del modo legale in cui lo ha speso, e dunque non risulti gravato da obbligazioni di restituzione (in ciò consiste la pronuncia di discarico). L’obbligo di resa del conto e le eventuali responsabilità per mancata o irregolare resa del conto non concernono necessariamente attività deliberative, come talune di quelle compiute dagli organi cui sono attribuite funzioni di ordinatori della spesa, ma semplici operazioni finanziarie e contabili che non si sostanziano nell’espressione di voti e di opinioni, e quindi, anche se facessero capo a componenti del Consiglio, non ricadrebbero nell’ambito della prerogativa di insindacabilità.

Di particolare rilievo è la già citata sentenza della Cassazione penale, Sez. VI, n. 49976/2012 secondo cui il presidente di un gruppo consiliare riveste la qualità di pubblico ufficiale, esercitando una pubblica funzione, che lo istituisce, tra l’altro, come partecipe diretto della procedura di controllo del vincolo di destinazione dei contribuiti erogati al gruppo consiliare dall’ente regionale, con l’obbligo di rendicontazione (cfr. Cass. Sez. 6, n. 41178/2005) e risponde penalmente per l’utilizzazione dei fondi per finalità estranee a tale vincolo, con particolare riguardo a quelle di natura privatistica.

In conclusione, dalla breve panoramica giurisprudenziale suindicata, possono trarsi i seguenti principi sui limiti delle immunità previste per le attività dei consiglieri regionali e dei relativi gruppi consiliari:

A) L’art. 122, quarto comma, della Costituzione ha natura derogatoria ed è quindi di stretta interpretazione.

B) L’immunità si giustifica solo in quanto intesa a preservare da interferenze e condizionamenti esterni le determinazioni inerenti alla sfera di autonomia dell’organo.

C) Detta disposizione, nell’ambito delle attività di gestione dei fondi stanziati in bilancio per le esigenze funzionali regionali, non prevede una immunità assoluta, in quanto essa non copre gli atti non riconducibili, secondo criteri di ragionevolezza, all’autonomia ed alle esigenze ad essa sottese (v. sent. Corte cost. n. 289/1997).

D )Funzioni diverse da quelle legislative, di indirizzo politico, di controllo e di autorganizzazione e le ulteriori funzioni disciplinate da leggi regionali non possono ricadere sotto l’ombrello protettivo della insindacabilità, con conseguenti indebite limitazioni al normale controllo giurisdizionale. Ciò si evince, a contrario, dalla statuizione contenuta nella sentenza n. 70/1985 della Consulta.

E) Le Regioni non possono disciplinare la materia delle immunità: infatti, con sentenza 200/2008, la Corte cost. ha dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 2/2007, istitutiva della “Consulta statutaria”, la quale poneva limitazioni alla giurisdizione per responsabilità penale, civile o contabile nei confronti dei componenti di tale organo.

F) L’autonomia organizzativa e contabile dei Consigli regionali non può implicare di per sé che l’amministrazione consiliare sfugga alla disciplina generale, prevista dalle leggi dello Stato, in ordine ai controlli giurisdizionali, con particolare riguardo al giudizio di conto, volto ad accertare che il maneggio di denaro pubblico sia conforme alle norme di settore.

G) Il principio dell’autonomia dell’Organo regionale non incide sull’obbligo di rispettare il vincolo di destinazione dei contribuiti erogati, la cui violazione può essere accertata in sede giurisdizionale nei confronti del responsabile, non essendo ravvisabile alcun profilo di immunità.

5) La giurisdizione del giudice contabile sull’utilizzazione dei finanziamenti a favore dei gruppi consiliari.

I) Giudizi di conto.

Si è già visto che la Consulta, con sentenza n. 292/2001, ha precisato che l’autonomia organizzativa e contabile delle Regioni non è di ostacolo all’obbligo della resa del conto giudiziale dinanzi alla Corte dei conti.

Con decreto n. 1/2012 la Sezione Lazio ha premesso che, per garantire il funzionamento dei gruppi consiliari, il legislatore nazionale è intervenuto in materia con la legge n. 853/1973, concernente la Autonomia contabile e funzionale dei consigli regionali delle regioni a statuto ordinario, classificando, nell’ambito delle spese generali del Consiglio, i contributi per il funzionamento dei gruppi consiliari quali uscite per “Servizi degli organi statutari“, prevedendo, inoltre, negli artt. 1-3 che tale tipologia di stanziamenti deve essere sorretta da leggi regionali; che il legislatore regionale ha previsto agli artt. 3 e 3-bis della l.r. n. 6/1973, la disciplina del finanziamento, nelle forme del contributo, delle spese di funzionamento dei gruppi consiliari della Regione Lazio, individuando specifiche finalità ed oggetti di spesa. Tanto premesso, la Sezione ha accolto l’istanza di resa di conto, nel periodo giugno 2010- giugno 2012, presentata dalla Procura regionale nei confronti di un gruppo consiliare della Regione Lazio, in persona del presidente pro-tempore, sussistendo i presupposti giuridici per i quali il soggetto che maneggi denaro pubblico è tenuto alla resa del conto della sua gestione, con particolare riguardo alla natura pubblica del gruppo stesso, delle risorse finanziarie gestite e dell’effettiva loro disponibilità, nonché all’obbligo di destinazione dei contributi percepiti alle finalità fissate dalla legge.

Al contrario, con ordinanza n. 17/2013, la Sezione Piemonte ha respinto l’istanza per resa di conto per gli esercizi dal 2003 al 2008 del procuratore regionale – secondo cui i presidenti pro tempore di ciascun gruppo consiliare della Regione Piemonte ed i  singoli consiglieri del gruppo misto andavano considerati, in relazione ai contributi economici erogati a loro favore ai sensi della legge regionale Piemonte nr. 12/1972, agenti contabili della Regione in parola – “per difetto di attribuzione in merito ai presupposti funzionali attinenti al suddetto giudizio di conto e carenza della figura imprescindibile dell’agente contabile”.

In accoglimento del reclamo del procuratore regionale, la Sez. III d’appello, con decreto n. 14/2013, ha annullato tale ordinanza. La Sezione ha premesso che l’obbligo di resa del conto giudiziale sussiste in ogni caso in cui vi sia maneggio di denaro pubblico: più in particolare, sussiste quando, come si verifica nel caso di specie, pubblici siano l’ente per il quale il soggetto agisce, il denaro utilizzato e le finalità perseguite. In particolare, poiché il denaro oggetto del pubblico contributo veniva erogato personalmente al presidente di ciascun gruppo ed ai singoli componenti del gruppo misto, i predetti soggetti, come osservato dalla Procura, avevano la diretta, immediata e personale disponibilità delle somme e quindi il relativo maneggio, assumendo così la qualifica di agenti contabili, non inficiata dall’addotta sussistenza dell’istituto dell’immunità ex art. 122, comma quarto della Costituzione.

Come ricordato nella sentenza d’appello, il presidente pro tempore della Corte dei conti ha deferito alle Sezioni riunite in sede giurisdizionale, in data 18 giugno 2013, l’esame della questione di massima sui seguenti quesiti: “a) se sia attivabile, anche alla luce dei principi recati dall’art. 122 Cost. e delle nuove disposizioni dettate dall’art. 1, commi 9 e seguenti, del d.l. n. 174/2012, convertito con legge 7 dicembre 2012, n. 213, il giudizio di conto relativamente alla gestione dei fondi pubblici erogati ai gruppi consiliari regionali secondo le norme regionali attuative della legge 6 dicembre 1973, n. 853; b) per l’eventualità di risposta positiva al quesito sub a, quali siano, anche dal punto di vista procedimentale, i rapporti intercorrenti tra il giudizio di conto innanzi la Sezione giurisdizionale e l’esame del rendiconto innanzi la Sezione di controllo, di cui all’art. 1, comma 9 e segg. del d.l. n. 174/2012, convertito con legge 7 dicembre 2012, n. 213 “.

In realtà, i quesiti posti alle Sezioni riunite trovano già adeguata risposta nella normativa vigente e nella giurisprudenza costituzionale, che non lasciano adito a dubbi di sorta, e quindi tali quesiti sono scarsamente comprensibili. Infatti, come giustamente osservato dalla Sezione d’appello, i rendiconti amministrativi della gestione di denaro pubblico, che costituiscono uno strumento di controllo interno all’Amministrazione, hanno natura totalmente diversa dai conti giudiziali, disciplinati dagli articoli 44 del t.u. n. 1214/1934, 74 della legge di contabilità dello Stato n. 2440/1923, 178 e 610 del r.d. n. 827/1924. Tanto meno è proponibile l’ipotesi di interferenze tra il giudizio di conto innanzi la Sezione giurisdizionale e l’esame del rendiconto innanzi la Sezione di controllo, di cui all’art. 1, comma 9 e segg. del d.l. n. 174/2012, convertito in legge 7 dicembre 2012, n. 213/2012, non essendo ravvisabile alcun nesso fra due procedimenti svolti nell’esercizio delle diverse funzioni del controllo e della giurisdizione. Infine il presunto dubbio se sia attivabile il giudizio di conto anche alla luce dei principi recati dall’art. 122 Cost.non ha motivo di esistere, essendo già stato risolto in senso affermativo dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 292/2001.

II) Giudizi di responsabilità amministrativo-contabili.

Con sentenza n. 154/2014 la Sezione Lazio, nel giudizio avverso un presidente di gruppo consiliare cui era stata contestata l’illecita utilizzazione dei fondi destinati al gruppo, ha affermato la giurisdizione della Corte dei conti che trova il suo presupposto legittimante nella natura pubblica delle funzioni rivestite dal convenuto, nella natura pubblica dei contributi erogati dalla Regione con destinazione vincolata al funzionamento dello stesso gruppo, nella natura amministrativa e organizzativa dell’attività svolta dallo stesso convenuto che ha determinato la costituzione di un rapporto di servizio con il Consiglio regionale nel quale, come presidente del predetto gruppo, era stabilmente inserito. Ha quindi confermato il proprio orientamento secondo il quale le somme erogate ai partiti, gruppi o movimenti politici, destinate ad una finalità istituzionale vincolata, hanno natura pubblica, per cui la loro utilizzazione per uno scopo diverso da quello previsto dalla legge costituisce uno sviamento illegale generatore di responsabilità e di danno erariale la cui valutazione è soggetta alla giurisdizione della Corte dei conti (Sez. Lazio n. 914/13). Nel merito, la Sezione ha condannato il convenuto al risarcimento del danno nella misura di euro 1.200.784,31.

Con sentenza n. 25/2014 la Sezione Friuli – Venezia Giulia ha condannato al risarcimento del danno pari ad euro 20.771,91 un consigliere regionale indipendente del gruppo misto, per spese indebitamente imputate a “spese di rappresentanza”, in sede di consuntivo della gestione dei fondi erogati nel 2011, destinate al funzionamento del gruppo consiliare. Secondo la Sezione, la giurisdizione della Corte viene a radicarsi in virtù di più indici concorrenti: il rapporto di servizio onorario di consigliere regionale, l’accesso ai contributi, il diretto maneggio di denaro pubblico proveniente dal bilancio del Consiglio regionale avente una specifica destinazione funzionale. Né la contestazione della Procura sull’attività di spesa dei contributi pubblici può essere intesa come violazione della particolare tutela prevista dalla Costituzione (art. 122, co. 4) e dallo Statuto della Regione (art. 16), né come esercizio di un sindacato sull’attività politica dei consiglieri regionali e tanto meno su profili di discrezionalità delle attività gestorie, in quanto la Procura regionale si è limitata a prospettare un’illiceità correlata all’assenza di elementi giustificativi sulla corretta, specifica destinazione funzionale nell’utilizzo del denaro pubblico. Parimenti non è ravvisabile un sindacato sul voto espresso dal Consiglio in sede di approvazione del bilancio consuntivo regionale, il quale costituisce un mero documento di sintesi delle risultanze contabili e non determina affatto l’insindacabilità della sottostante attività di gestione del bilancio (ivi compresa quella di spesa di contributi in favore dei gruppi consiliari): tesi aberrante che implicherebbe la prefigurazione di un’area di totale irresponsabilità civile, contabile e penale, in violazione degli artt. 3, 24 e 101 e ss. della Costituzione. Riguardo alla incombenze a carico del consigliere indipendente nel gruppo consiliare misto, questi aveva l’onere di  predisporre la nota concernente le spese effettuate e l’attestazione relativa alla conservazione dei relativi titoli di spesa nonché di provvedere alla tenuta di un registro sul quale il Presidente del gruppo misto doveva trascrivere gli importi accreditati oltre a trasmettere all’Ufficio di Presidenza la nota e l’attestazione compilate dal consigliere indipendente. L’allegazione di idonei elementi giustificativi costituiva un onere che doveva essere assolto dal consigliere convenuto già in sede di rendicontazione amministrativa, oltre che in sede di giudizio, mediante una sintetica indicazione del contesto che aveva determinato la necessità della spesa di rappresentanza e dei soggetti che avevano beneficiato della stessa, mentre non gravava alcun onere a carico della Procura di provare l’irregolarità delle spese essendo sufficiente l’allegazione della mancanza della prova atta a verificare il corretto impiego delle risorse. Costituiva, peraltro, un dato pacificamente acquisito che le spese di rappresentanza, per essere giustificate, dovevano porsi in relazione ad eventi connotati da eccezionalità ed ufficialità, atti a promuovere all’esterno l’immagine dell’Ente e non nell’ambito di normali occasioni di incontro con soggetti non rappresentativi delle Istituzioni di riferimento.

Con sentenza n. 11/2014 la stessa Sezione ha giudicato su analoga questione, conclusasi con la condanna del convenuto al risarcimento del danno erariale di euro 60.098,48, per la quale sono formulati, in punto di giurisdizione, le tesi già riportate. La differenza, in punto di fatto, consiste nella circostanza che le spese di rappresentanza ritenute illegittime, per la carente indicazione delle circostanze e dei motivi che le rendevano necessarie, riguardavano sia le spese effettuate personalmente dal convenuto, presidente di un gruppo consiliare, sia quelle riferibili al gruppo, effettuate da singoli componenti. Al convenuto è stato contestato che, oltre all’obbligo di rendicontazione e di tenuta documentale delle ricevute di spesa imputate a spese di rappresentanza, era tenuto, soprattutto, a verificare che le spese da lui personalmente sostenute e quelle affrontate dai suoi colleghi di gruppo avessero effettivamente la destinazione richiesta dalla normativa di settore, certificata mediante esplicita indicazione delle circostanze nelle quali la spesa era stata effettuata, “a vantaggio di personalità o situazioni esterne per le quali vi fosse un particolare interesse comunicativo giustificato dall’attività pubblicistica del gruppo medesimo”. Nella concreta quantificazione del danno il Collegio ha tenuto conto del concorso causale dei componenti dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale per non aver correttamente esercitato i loro compiti di verifica sull’operato del capogruppo, pur dovendo attestare la rispondenza della nota riepilogativa delle spese effettuate alle disposizioni disciplinanti la materia: “un più accurato controllo nel concreto dell’Ufficio di Presidenza avrebbe potuto evitare le distorsioni nella procedura di attestazione e rimborso delle spese dei gruppi consiliari”.

Sulle anzidette sentenze in materia che, come preannunziato. sono assai limitate nel numero, possono essere formulate le seguenti osservazioni.

Le condanne comminate sono del tutto condivisibili, fondate come sono sull’ineccepibile interpretazione delle norme di settore e della giurisprudenza in materia. Può solo aggiungersi il richiamo alla sentenza n. 190/2013 della Sezione I d’appello sull’estensione della sfera di immunità dei Consigli regionali. Dopo aver illustrato la giurisprudenza costituzionale, già ricordata nel presente articolo, la Sezione ha puntualizzato che la stessa legge statale n. 853/1973, nell’attribuire poteri di spesa ai Consigli regionali, ha determinato una sfera di immunità per le sole spese riconducibili alle previsioni legali (artt. 1, 2 e 4), sempre che i relativi atti siano riconducibili, secondo ragionevolezza, all’autonomia ed alle esigenze ad essa sottese. Viceversa, ove l’atto esorbiti dalle attribuzioni proprie del Consiglio, ovvero esorbiti dal potere di autorganizzazione suo proprio, non può affermarsi che vi sia immunità: in tal senso cfr. Sezione I app., n. 79/1999 e Cassazione n. 200/2001 che ha confermato la giurisdizione della Corte dei conti.

Al contrario, non si condivide affatto la mancata chiamata in giudizio di soggetti corresponsabili nella produzione del danno erariale.

I) Come si è visto, con sentenza n. 11/2014, la Sezione ha considerato, solo astrattamente, il concorso causale dei componenti dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale per non aver correttamente esercitato i loro compiti di verifica sull’operato del capogruppo.

Sul punto, occorre sottolineare l’incongruente effetto che ne deriva: la Sezione riconosce la corresponsabilità di altri soggetti e addirittura quantifica esattamente il danno erariale loro imputabile, ma il relativo risarcimento rimane a carico della collettività e non di tali responsabili, ciò che non è assolutamente accettabile.

Nell’articolo dello scrivente in data 2 marzo 2011 (Il “potere sindacatorio” della Corte dei conti: l’integrazione del contraddittorio su disposizione del giudice contabile) sono svolte sul tema le seguenti considerazioni che è opportuno richiamare:

L’art. 47 del regolamento per la procedura nei giudizi innanzi alla Corte dei conti, approvato con r.d. n. 1038/1933, prevede che “chiunque abbia interesse nella controversia può intervenire in causa con atto notificato alle parti e depositato nella segreteria della Sezione. L’intervento può essere anche ordinato dalla Sezione, d’ufficio, o anche su richiesta del procuratore generale o di una delle parti”. La disposizione – come l’analoga norma contenuta nell’art. 107 c.p.c. – è perfettamente in linea con i principi del giusto processo. Non sembra logico affermare – sia pure in via ipotetica, ma in ultima analisi con caratteri di concretezza, dal momento che si quantifica il danno presunto – la responsabilità di un soggetto senza prima aver sentito le proprie ragioni giustificative che avrebbero anche potuto portare ad un diverso convincimento sull’esistenza o sul grado della responsabilità stessa.Inoltre, si osserva una manifesta violazione del diritto di difesa: un soggetto, cui non viene notificato alcun avviso di discussione di una causa che può interessare il suo onore e la sua reputazione, si trova coinvolto in giudizi di presunta colpevolezza, sia pure solo astrattamente sanzionata, per fatti che possono anche essere di natura infamante, senza avere la minima possibilità di difendersi. Anche se il p.m. ha comunque la possibilità di procedere alla citazione in giudizio di tali soggetti in un secondo momento, questi avranno comunque una possibilità di difesa che potrebbe essere pregiudicata dal fatto che, sulla contestata vicenda, il giudice che dovrebbe esprimersi si è già pronunziato, sia pure nei confronti degli altri soggetti coinvolti. Devesi quindi aderire a quanto statuito dalla Sez. I App. con sentenza n. 407/08, che ha sottolineato “l’interesse di ottenere l’economia dei giudizi ed evitare i rischi di giudicati contraddittori in relazione a cause caratterizzate da elementi comuni, decise separatamente”.

Nel caso deciso, i componenti dell’Ufficio di presidenza del Consiglio regionale si sono visti imputare una condotta illecita senza avere alcuna possibilità di difesa, ed una corresponsabilità nella produzione del danno erariale in una percentuale determinata senza che si sia tenuto conto degli eventuali elementi probatori che le parti interessate, ma non chiamate in giudizio, avrebbero potuto produrre e che avrebbero potuto comportare una diversa decisione.

Indubbiamente è molto più rapido e sbrigativo un giudizio limitato alle sole parti chiamate in giudizio dalla Procura, ma questo non risponde ad esigenze di giustizia sostanziale, quando il giudice revvisa ulteriori corresponsabilità che dovrebbero essere perseguite e non chiama in giudizio i presunti responsabili, ai sensi del citato art. 47 del regolamento approvato con r.d. n. 1038/1933, con la conseguenza paradossale già sottolineata che il contribuente e non il corresponsabile del danno erariale viene gravato dell’onere relativo alla quota a lui imputata.

II)Sempre dalla sentenza n. 11/2014 si evince che “le somme erano poste a disposizione del gruppo consiliare mese per mese, venivano poi assegnate ai singoli consiglieri, in forza della documentazione di spesa esibita”; “dette somme sarebbero state utilizzate per liquidare in contanti ricevute e pezze giustificative che i singoli consiglieri raggruppavano e consegnavano a seconda delle esigenze”; “le relative quote non venivano preventivamente anticipate ai consiglieri, bensì rimborsate a seguito della presentazione dei giustificativi di spesa”. Sulla base di tali osservazioni la difesa del convenuto ha chiesto, in subordine, “la riduzione delle richieste con detrazione delle somme riferibili a ciascun consigliere del gruppo previa l’accertamento virtuale della corresponsabilità di terzi nella determinazione del danno”.

In sentenza non viene presa in nessuna considerazione la possibile corresponsabilità dei singoli consiglieri, i quali avevano effettuato spese rimborsate che, ictu oculi, risultavano estranee a qualsiasi finalità pubblicistica o, comunque, non erano assistite da idonei documenti comprovanti tali finalità. Ciò lascia estremamente perplessi, perché, se (giustamente) si contesta il difetto di controllo delle spese a carico del presidente del gruppo, a maggior ragione deve contestarsi l’illecita condotta di chi ha effettuato tali spese per finalità privatistiche.

In realtà sussistono tutti i presupposti per la chiamata in giudizio dei singoli consiglieri cui sono imputabili i denunziati abusi:

A) Il rapporto di servizio con il Consiglio nell’ambito dell’Ente regionale.

B) La circostanza che i consiglieri non rivestono la qualifica di semplici percettori di somme indebitamente corrisposte, ma partecipano alla procedura che si conclude con il rimborso, attraverso la presentazione della relativa domanda autocertificata riguardo alla finalità pubblicistica della spesa e l’allegazione documentale.

C) La condotta, da qualificare come dolosa, in quanto è palese la coscienza e volontà di conseguire interessi totalmente estranei rispetto alla destinazione vincolata imposta dalla legge. Nella sentenza è elencata una casistica di spese, a carico dei contribuenti, che ha dell’incredibile: acquisti di calzature, di pelletterie, di boccioni d’acqua, di bigiotteria, di generi alimentari, oltre a spese per numerosi pasti consumati presso ristoranti, anche d’eccellenza, addirittura interni a circoli velistici, prive di qualsiasi riferimento sull’identità dei partecipanti conviviali e sulle circostanze di fatto che hanno determinato l’esborso.

D) Il danno erariale, per spese ingiustificate di rilevante ammontare.

E) Il nesso eziologico fra condotta illegale ed evento dannoso.

Sul punto della responsabilità dei singoli consiglieri, appartenenti a gruppi consiliari, anche se mancano specifici precedenti giurisprudenziali, può essere utile il richiamo alla giurisprudenza che riconosce la responsabilità amministrativo-contabile a carico dei percettori di pubbliche contribuzioni che si inseriscono nel procedimento previsto per l’erogazione del contributo.

Così, nella sentenza della Sezione Campania n. 1041/2008, nei riguardi di un soggetto che aveva partecipato ad un programma di pubblici interventi finanziari, avanzando domanda per il finanziamento di un progetto, il Collegio ha affermato la propria giurisdizione tenuto conto che l’attività autocertificativa del beneficiario ne ha determinato l’ingresso, con funzione partecipativa, nel procedimento amministrativo volto all’erogazione del contributo, assumendo l’obbligo di realizzare gli interventi previsti dalla legge e risultando in tal modo legato all’Amm.ne da un rapporto di servizio.

Analogamente la Cassazione, con sentenza n. 4511/2006, ha affermato che ove il soggetto, per sue scelte, incida negativamente sul modo d’essere del programma imposto dalla p.a., alla cui realizzazione egli è chiamato a partecipare, e la incidenza sia tale da poter determinare uno sviamento dalle finalità perseguite, egli realizza un danno per l’ente pubblico.

6) Brevi considerazioni conclusive

Gli episodi descritti concorrono ad incrementare in modo esponenziale la sfiducia generalizzata della collettività nelle pubbliche istituzioni e rappresentano un gravissimo vulnus per la democrazia.

Se si è convinti sulla necessità di salvaguardare gli istituti democratici, profondamente erosi da continui episodi di malcostume, occorre reagire con tempestività ed efficacia a tale stato di cose.

In primo luogo deve essere messa in discussione l’inusitata ampiezza dell’istituto dell’immunità, specie in sede regionale, ormai di “sapore medioevale”. L’immunità dovrebbe essere ristretta al campo legislativo, limitatamente alla libertà di opinione e di voto, mentre non avrebbe motivo di esistere negli altri settori, tenuto conto che, di fatto, è sovente utilizzata per garantire sacche di irresponsabilità in situazioni di dubbia legalità, in violazione del fondamentale principio di uguaglianza. Il primo compito spetta quindi al legislatore, che dovrebbe rimettere mano alla materia, nella sede dell’attuale progetto di revisione costituzionale.

Nell’attesa di una riforma radicale, spetta alla magistratura competente interpretare tale normativa nel modo più restrittivo possibile, al fine di evitare che norme di salvaguardia della funzione finiscano per coprire abusi di ogni sorta. Infine, dati l’ampiezza del fenomeno, l’allarme sociale derivatone, la necessità impellente di salvaguardare le finanze pubbliche in un momento di diffuso impoverimento, l’impulso verso derive antidemocratiche cagionate dalla sfiducia generata dal malcostume, tenuto conto di tutti questi fattori risulta assolutamente necessario procedere con la massima severità nei giudizi a carico di chi utilizza la pubblica funzioni per propri interessi personali, con l’irrogazione di sanzioni giuste ed esemplari.


(*) Presidente on. Corte dei conti.