Il legislatore pedagogo

PIETRO QUINTO, La funzione salvifica della legge.



PIETRO QUINTO (*)

La funzione salvifica della legge



Nella legge di stabilità 2016, articolata in 999 commi e testi collegati (più precisamente nel c.d. collegato ambientale alla legge di stabilità 2016), è stata introdotta una specifica sanzione (v. art. 40) per la violazione del divieto di gettare a terra o in acqua gomme da masticare, mozziconi di sigaretta, scontrini e fazzolettini di carta. La disciplina normativa, nel quadro di un accordo europeo, è finalizzato alla difesa della green economy. La sanzione pecuniaria è sino a centocinquanta euro, che raddoppia a trecento nel caso dei mozziconi di sigaretta.

In disparte le usuali considerazioni sui meccanismi di formazione dei testi normativi e sulla loro leggibilità atteso che una pluralità di disposizioni i cui contenuti sono i più disparati impediscono di fatto la presunzione di conoscenza e, quindi, la loro osservanza, merita qualche riflessione il constatare che si è reso necessario ricorrere alla forza imperativa della legge per tentare di obbligare il cittadino ad osservare regole di convivenza civile nella comunità in cui vive.

La questione apparentemente semplice è invece piuttosto complessa. Dai tempi delle Istituzioni di Gaio – come ricorda Zagrebelsky nel suo «Diritto mite» – ciò che è davvero fondamentale è la polarità del diritto: il diritto come forma sono le leges; il diritto come sostanza sono i mores. Ciò che è davvero fondamentale, per ciò stesso non può mai essere posto ma deve essere presupposto. Le regole più autentiche della convivenza civile non possono essere imposte, ma presuppongono una presa di coscienza ed una responsabilità di tutti i membri di una comunità. Un proverbio cinese recita: tieni pulito innanzi casa tua e tutta la città sarà pulita.

Quando viene meno la polarità del diritto ed il diritto assume una sola dimensione, la società è in pericolo e «il sistema giuridico-politico si può trasformare in una macchina letale», secondo l’espressione di Giorgio Agamben.

Una educazione alla legalità deve pertanto trascendere il limite dell’obbedienza alle leggi per realizzare le regole della convivenza civile anche fuori dai modelli prescrittivi. E forse gioverebbe alla coscienza civile della modernità – afferma l’ex Presidente della Corte Costituzionale F. Paolo Casavola – ricordare sempre i tre precetti dei giureconsulti romani che fondono diritto e giustizia e realizzano i fini delle leggi con la virtù personale dell’uomo giusto: neminem laedere, suum cuique tribuere, honeste vivere.

La necessità di ricorrere all’imperativo della lex per ricordare una regola elementare di comportamento è di per sé una ammissione di fallimento.

Chi scrive – anche per la sua esperienza professionale – non è tanto ingenuo da non aver consapevolezza che, purtroppo, lo stato attuale della società rende imprescindibile tradurre in comandi, cum iussu, tutto ciò che dovrebbe essere frutto di responsabilità individuale, per rendere possibile una convivenza civile. E, tuttavia, il fallimento delle scorciatoie è in re ipsa.

Ciò che dovrebbe essere condiviso ed è imposto con l’autorità del precetto non porta ad alcun risultato utile. Non tanto e non solo per quello che, con un significato più nobile, scriveva nello Zibaldone Giacomo Leopardi: nessuna legge mi può imporre di rispettare la legge. Ma per il semplice fatto che il livello della organizzazione amministrativa è tale che manca la necessaria capacità di far rispettare (e quindi sanzionare) l’obbligo di comportamenti che rientrano nei mores.

Gli esempi sono molteplici e sono sotto gli occhi di tutti. In città, oltre che sulle strade a scorrimento veloce, gli automobilisti guidano a vista perché le mani non impugnano il volante bensì il cellulare per i messaggini ed altre operazioni; v’è poi il gusto diffuso di imbrattare con segni d’autore i beni pubblici, privatizzandoli; oppure lasciare gli escrementi degli animali domestici sui marciapiedi sconnessi; produrre emissioni ed immissioni moleste in termini di rumorosità o di inquinamento atmosferico, ecc.. Si tratta di comportamenti talmente diffusi da indurre il legislatore a emanare innumerevoli e specifiche leggi con sanzioni, che rimangono inosservate, v’è quindi la plastica dimostrazione dell’inutilità di un precetto imposto cum iussu.

Platone insegnava che le leggi devono essere amate (cosa più importante della loro comprensione e della conoscenza), e, essendo amate, saranno obbedite. Altri tempi ed altra filosofia.

Sta in fatto però che se la norma posta serve per correggere un comportamento non condiviso, tanto meno sarà amata, e, quindi, rispettata.

Per spiegare questa diffusa patologia, propria del tempo che viviamo e della nostra società, illustri giuristi e sociologi (Benjamin Constant) hanno introdotto la dicotomia tra la Libertà degli Antichi e la Libertà dei Moderni, che difende l’individuo dalla società e dalle sue leggi. La lotta che domina l’epoca attuale – è il tema centrale di due saggi di autori francesi, citati da Alain Touraine – è quella del soggetto contro la comunità: un individualismo egoista che mira al riconoscimento dei propri desideri come diritti, a scapito «di quella civiltà fondata su un concetto di civismo che spinse Socrate ad accettare la condanna a morte pur considerandola ingiusta».

Molto più semplicemente, tra le molteplici cause che si possono ricercare nella disgregazione della società, con il venir meno del concetto di civismo e del sentimento di appartenenza ad una comunità, v’è l’esempio che offrono i governanti e la scarsa affidabilità delle Istituzioni, che dovrebbero confermare e garantire l’utilità e la convenienza per tutti i cittadini del rispetto dell’antico patto (John Locke), posto a fondamento della moderna società. Se viene meno la fiducia del cittadino nei propri delegati, al di là dei profili di interessi individuali e categoriali che influenzano (negativamente) i meccanismi di formazione del consenso, e se le Istituzioni abdicano al proprio ruolo, si crea inevitabilmente un alibi o una scusante per venire meno alla doverosità dei comportamenti, espressione di quel patto.

Ed è questa la vera criticità del tempo in cui viviamo, che registra il circolo vizioso di una imposizione ex lege di ciò che non richiederebbe una norma posta, che, a sua volta, rimane inosservata e non sanzionata.

La dimostrazione del discredito e della incapacità di una classe politica si evidenzia plasticamente nel sempre più diffuso ricorso ai c.d. “tecnici”, al fine di fronteggiare fallimenti politici e amministrativi, o alla utilizzazione di appartenenti ad altro ordine costituzionale (la giurisdizione) per recuperare una qualche credibilità nei riguardi dell’opinione pubblica. Con ciò però compromettendo anche la credibilità di quei magistrati, «prestati» alla politica, che entrano nel gioco, divenendo attori nell’esercizio di una funzione che dovrebbe essere nettamente distinta e diversa (anche epidermicamente) da quella di cui hanno la titolarità.

Ed alla fine sono tutti perdenti perché politica, attività legislativa ed esecutiva si autoaccusano di inefficienza ed incapacità, nel mentre i rappresentanti del «potere giudiziario» finiscono per svolgere un ruolo improprio, peraltro privo di una effettiva legittimazione, che, talvolta, li portano ad essere contigui a quel potere che dovrebbero controllare.

Non sorprende, quindi, che, oggi, come ieri ai tempi di tangentopoli, si attribuisca ad un Magistrato il ruolo improprio di «salvatore» della Patria, invocato come la classica foglia di fico in tutte le vicende di crisi della politica. Con l’ulteriore aggravante che alcuni dei titolari della funzione giudiziaria diventano attori protagonisti e finiscono per giocare in proprio. Sicchè la confusione è davvero grande, ma tutto va male (a differenza della conclusione della citazione di Mao).

Sullo sfondo di questa sceneggiatura v’è poi l’assurdo istituzionale e politico di un Parlamento che si attribuisce il merito di aver realizzato una incisiva riforma costituzionale, dimenticando di essere espressione di una legge elettorale, dichiarata incostituzionale per plurime violazioni dei precetti di rappresentanza della sovranità popolare. Ed il fatto che la Corte Costituzionale non abbia potuto annullare gli atti di nomina degli eletti, divenuti definitivi, e, per il principio di continuità degli organi costituzionali, abbia riconosciuto la funzionalità del Parlamento, comunque eletto, non significa che le attuali Camere, così come formate, abbiano una autentica legittimazione politica e siano espressione della libera manifestazione di volontà dei cittadini.

Sicchè costituisce davvero un monstrum giuridico il fatto che un Parlamento, composto da rappresentanti che non rappresentano effettivamente il corpo elettorale, non solo continui a legiferare senza alcuna limitazione, ma addirittura abbia ritenuto di poter riformare la Carta Costituzionale, espressione di una Assemblea Costituente, democraticamente eletta dal popolo italiano, con uno specifico mandato. E’ questa una giustificazione per i comportamenti individuali privi di senso civico e di un sentimento di appartenenza ad una comunità? Certamente no. Ma, può anche essere una chiave di lettura in termini pragmatici del progressivo disfacimento dello stare insieme e dell’affermazione dell’individualismo imperante,

Ha scritto D’Ormesson: «viviamo un medioevo senza cattedrali perché mancano profondità ed altezza. L’uomo è sempre più potente e sempre più smarrito». E Violante ha rilevato («Il dovere di avere doveri») che la democrazia attraversa una delle fasi più contraddittorie della sua storia. Non c’è mai stato un numero così alto di paesi con un regime democratico. Eppure, all’interno del sistema si manifesta il formarsi di un dissenso da parte dei cittadini. Non è rifiuto della democrazia, ma la crescente distanza tra società e politica. Distanza che non può essere colmata – per ritornare al tema iniziale di questa nota – con una ipertrofia normativa, frutto della «casualità del volere» (N. Irti), e destinata solo ad incrementare il numero delle leggi inosservate.

—————————————
(*) Avvocato del Foro di Lecce.

Commenti (1)

Trackback URL | Comments RSS Feed

  1. Giovanni Virga ha detto:

    L’argomento trattato dall’Avv. Quinto è praticamente sconfinato, dato che, a ben vedere, in ciascuna norma giuridica, con il suo apparato di sanzioni di vario tipo, si cela più o meno scopertamente un intento pedagogico o molto più prosaicamente educativo.

    Il fatto non deve sorprendere o scandalizzare, dato che, rifacendosi alla filosofia greca, scopo dello Stato è anche quello di essere pedagogo.

    L’ottima sintesi presente nell’Enciclopedia Treccani alla voce “pedagogia” ricorda infatti che “nei suoi sforzi di restaurare lo Stato su basi razionali, Platone lo ha concepito come un immenso paedagogium, in cui la filosofia non deve soltanto indicare nel Bene lo scopo supremo della vita sociale, ma dirigere e regolamentare anche le manifestazioni più particolari, dai matrimoni alla proprietà privata. Così Platone si oppone consapevolmente ed energicamente al nuovo principio, cui risale la responsabilità della crisi della polis, il soggettivismo sofistico.

    Per Aristotele, il processo educativo consiste nel fare acquisire l’abitudine alla virtù, ciò che è compito, oltre che dell’educatore, anche del buon legislatore, poiché lo Stato per Aristotele è il supremo educatore.

    Con Epicuro, ideale dell’educazione diventano l’aponia e l’atarassia, la liberazione dal dolore e dal turbamento. Così l’epicureismo si avvicina al suo antagonista, lo stoicismo, che poneva come fine dell’educazione l’apatia, l’assenza di desiderio”.

    Posto quindi che, sia pure con varie accezioni e finalità, il legislatore è anche pedagogo, il vero problema è non solo se egli sia legittimato ad impartire precetti morali (questione giustamente posta dall’Avv. Quinto, con riferimento agli attuali governanti, che non sono stati eletti da nessuno e con riferimento anche all’attuale Parlamento, formatosi su di un sistema elettorale dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale), ma soprattutto quale sia l’ampiezza del suo potere in merito.

    E’ evidente che una disciplina troppo minuziosa e dettagliata dei comportamenti “prescritti” a colpi di maggioranza in Parlamento o, peggio, unilateralmente dal Governo, finisce per svilire del tutto gli ambiti di libertà e soprattutto di libera determinazione che spettano ad ogni individuo che dovrebbe nascere e vivere libero e che tuttavia si tenta di imbrigliare con una serie di lacci e lacciuoli non solo burocratici ma anche comportamentali ed in senso lato morali. In tal modo si rischia di trasformare i cittadini in androidi, programmati dallo Stato.

    Io personalmente sono per la dottrina liberale classica, secondo cui non solo tutto ciò che non è vietato è permesso, ma anche occorre vietare il meno possibile; se fosse per me, i divieti dovrebbero essere limitati a quelli previsti nelle tavole della legge di Mosè. Mi preoccupa invece non poco lo Stato moralizzatore.

    Il problema evidenziato dall’Avv. Quinto, si è posto anche in democrazie evolute (tra le quali, è d’uopo precisare, l’Italia ancora non rientra), quali gli Stati Uniti, nelle quali si è aperto un grande dibattito ad es. circa la legittimità o meno del divieto di fumare nelle spiagge e negli spazi pubblici aperti.

    Divieti non imposti da ragioni di sicurezza pubblica o di lotta all’inquinamento, ma dettati da una filosofia di fondo, estremamente perniciosa, che tende a trasformare ciascuno di noi in un “uomo standard” i cui comportamenti, anche minimi, sono dettati dalla legge o dai regolamenti. Anche qui soccorrono gli antichi: basti citare il detto di Tacito secondo cui “Corruptissima re publica plurimae leges”.

    Gli Stati Uniti, nel dopoguerra, propagandavano il fumo, distribuendo addirittura gratuitamente le sigarette, ora tendono a vietarne l’uso perfino negli spazi liberi, nei quali il fumo non dà fastidio ad alcuno. Si tratta di due eccessi opposti, che non vanno ovviamente seguiti.

    Il legislatore nostrano, scimmiottando (more solito, malamente) quello statunitense, ha inserito non già tra i 999 commi della legge di stabilità, ma nel c.d. “collegato ambientale” (a proposito: anche io, come l’Avv. Quinto, mi chiedo come sia possibile utilizzare la presunzione di conoscenza se una singola legge si compone di 999 commi ed entra in vigore dopo un paio di giorni dalla sua pubblicazione), anche alcuni commi che sanzionano coloro che gettano gomme, scontrini fiscalo, carte e perfino i mozziconi di sigaretta per strada. E la sanzione non è lieve (fino a 150 euro, raddoppiata a 300 nel caso di prodotti da fumo, alias mozziconi: v. l’art. 40 del collegato ambientale).

    Ci sono anche nuove misure che suonano perfino ridicole, come ad esempio quella (v. art. 77 del collegato ambientale) che prevede il divieto di pignoramento per gli animali d’affezione, da compagnia o quelli utilizzati a fini terapeutici e assistenziali (chi si è mai spinto a pignorare un cane od un gatto? Solo il cervello di un legislatore malato e demagogico poteva spingersi fino a tanto).

    Come al solito (v. ad es. quanto già successo con la vicenda degli autovelox, imposti come uno strumento per la sicurezza stradale, ma utilizzati per rimpinguare le sempre esangui casse comunali, provinciali o regionali) si prescrivono comportamenti minuziosi, la cui mancata osservanza dà luogo all’applicazione di sanzioni pecuniarie, senza peraltro mettere in grado il cittadino di adeguarsi (tanto per dirne una: un cittadino che finisce di fumare una sigaretta, in mancanza di portacenere pubblici, dovrà mettersi in tasca il mozzicone ancora acceso per evitare la sanzione pecuniaria o dovrà buttarlo – ammesso che esistano – nei cestini dei rifiuti con il rischio di provocare incendi?). Vero è che la stessa disposizione prevede che i Comuni provvederanno a posizionare appositi portacenere – si presume ad ogni angolo di strada, per rendere effettiva la previsione – ma nelle nostre città non esistono spesso nemmeno i contenitori per rifiuti, figuriamoci cosa accadrà con i c.d. portacenere pubblici. Nè vengono stanziati appositi fondi: e dire che con le imposte sulle sigarette lo Stato incassa diversi miliardi di euro.

    E così il cittadino rimane esposto ad una serie di sanzioni e non è neppure in grado perennemente di essere in regola. Lo Stato, prima di imporre comportamenti sempre più minuziosi e cervellotici ai cittadini, dovrebbe imporre a sè stesso, in via preliminare, una serie di misure che consentano ai cittadini di osservare la legge. Altrimenti le nuove prescrizioni si traducono nell’introduzione di un nuovo balzello e spingono comunque i cittadini a non osservarle.

    Considerazioni analoghe, del resto, possono essere espresse per ciò che concerne le recenti preannunciate misure per combattere l’inquinamento nelle città (come ad es. sanzioni per coloro che vanno ad una velocità superiore a 30 Km orari in città; misure queste cherischiano paradossalmente – come evidenziato dagli esperti – di aumentare l’inquinamento e creare, se realmente osservate, degli ingorghi paurosi). Anche in questo caso le sanzioni preannunciate, come già detto cervellotiche e controproducenti, ma adatte solo a fare incassare ai Comuni ulteriori soldi, non sono state accompagnate da adeguati fondi per migliorare e potenziare i trasporti pubblici.

    In tal modo la legge “pseudo-educativa” serve solo come occasione di business per i Comuni e soprattutto, con l’intento dichiarato di “educare” i cittadini, per “diseducare” la P.A., alla quale non è richiesto o comunque consentito (tramite appositi stanziamenti) alcun intervento attivo.

    Rimane comunque sempre preferibile, come giustamente suggerisce l’Avv. Quinto, educare (anche dando l’esempio) i cittadini piuttosto che, sbrigativamente, punirli, nemmeno ponendoli nelle condizioni di osservare le varie leggi. Ripeterò fino alla noia quanto ho in precedenza avuto molte volte modo di scrivere: non c’è forma migliore di autorità dell’esempio. Ma gli esempi che ci danno quotidianamente i nostri governanti sono pessimi e quindi loro non hanno nemmeno l’autorità morale per impartire precetti pedagogici.

    Forse il fine degli attuali governanti è quello di indurci tutti, con tutte le loro minuziose prescrizioni “pseudo-pedagogiche”, a diventare epicurei o stoici, per i quali – come sopra ricordato – il fine della pedagogia è quello di indurre “all’apatia ed all’assenza di desiderio” (nei confronti dello Stato, aggiungo io). Un ulteriore esempio, nella legislazione più recente, di eterogenesi dei fini.

    Giovanni Virga, 1° gennaio 2016.

Inserisci un commento