Un referendum costituzionale pieno di insidie e trabocchetti

n. 11/2016 | 11 Novembre 2016 | © Copyright | - Articoli e note, Parlamento | Torna indietro More

VINCENZO CAPUTI IAMBRENGHI, Referendum costituzionale: variante chiusa per motivi tecnici.



VINCENZO CAPUTI IAMBRENGHI
(Ordinario di diritto amministrativo)

Referendum costituzionale:
variante chiusa per motivi tecnici



Vedremo mai, dopo Aldo Moro, un premier che, come il “principe buono” di Seneca, mediante continue testimonianze concrete del suo pensiero, dimostra che non è la res publica ad appartenergli, ma è lui ad appartenere alla res publica? (De clementia, 1.198)

Non credo, non per ora, non con la classe politica che governa oggi: è inutile ammettere che vi siano eccezioni, quelle non mancano, ma non bastano perché prive della forza per invertire la rotta della grande barca nella quale si trovano e che naviga in acque agitate verso una terra sinora ignota nel dopoguerra italiano, quella dove manca anche la democrazia cosiddetta formale.

1. Non si vota è la nuova parola d’ordine.

O, almeno, meno si volta meglio è nell’interesse della rapidità ed efficacia dell’azione di governo.

Perciò le votazioni utili sono quelle di secondo grado, certamente preferibili rispetto ai comizi elettorali, alle urne riempite dalle schede del popolo elettore (votazioni “bulgare”, come si diceva nell’Unione delle repubbliche socialiste sovietiche, bisogna ricordarlo a chi non ha memoria di sé), in liste di candidati sollecitati da gruppi di cittadini, non “dipendenti” da partiti politici.

2. Nella variante Boschi – come l’ha definita Alessandro Pace – alla nostra lodatissima Costituzione repubblicana di Mortati, Calamandrei, Moro, La Pira, Bozzi, Dossetti, Tosato, Anselmi, Togliatti, ecc., che, com’è noto, è tuttora presa in considerazione e studiata in tutto il mondo, si configura un Senato di yes-men, perché voluto dalla schiera di consiglieri regionali che, per il momento, sono, in 17 su 20 Regioni, amministratori pubblici iscritti allo stesso partito.

La gratuità della collaborazione dei senatori alla soluzione dei problemi della cosa pubblica non regge: a parte il rimborso delle spese di consiglieri regionali e sindaci, che, quale secondo lavoro, devono soggiornare in Roma Capitale, viaggiare spesso molto a lungo per raggiungerla e lasciarla, per molto tempo abitarvi e nutrirsi, organizzando quindi una seconda vita in una seconda sede di lavoro politico, essi hanno diritto ad un’indennità commisurata analogicamente ad altri casi di doppio esercizio di munus publicum.

Che la norma non la riconosca è scarsamente rilevante: contro il principio cardine della civiltà repubblicana fondata sul lavoro dell’inammissibile gratuità dell’esercizio di funzione pubblica nessuna norma, nemmeno costituzionale, resisterebbe a lungo.

Quel Senato, ciò che più rileva, offende il principio di rappresentatività sul quale poggia la democrazia contemporanea: quella democrazia c.d. formale, venendo meno la quale nessuna sostanza di libertà e socialità è possibile pretendere nell’azione di un governo autocratico.

3. Le norme costituzionali – soprattutto l’art. 117 Cost. – sul rapporto tra Stato e Regioni (Titolo V), regalo, nel 2001, della sinistra politica intellettuale, hanno offerto al popolo italiano lo spettacolo di una commedia giornaliera di litigi, a volte esasperati, tra Stato e Regioni (a quale costo, economico e sociale, tanti processi?): ma la confusione aumenta nella variante Boschi.

Infatti, la potestà legislativa parallela – non più concorrente – tra Stato e Regione è lungi dall’essere abolita, come dimostra la conferma del “sanguinoso” rapporto tra governo del territorio devoluto allo Stato e disciplina urbanistica che resta tutta regionale: la fonte maggiore di conflitti di attribuzione e di cause per l’incostituzionalità di leggi statali o regionali, proprio come accade oggi.

Del resto, non è necessariamente con l’antiregionalismo di Renzi, germoglio della radice antica del centralismo democratico del PCI, che si danneggiano immediatamente i cittadini, la loro prospettiva di vita serena nella fiducia verso le istituzioni elettive e nella speranza di un benessere stabile che derivi in parte cospicua dal buon andamento dell’amministrazione: ma è nella difesa del potere permanente ad ogni costo, che trasforma l’esercizio di un servizio pubblico in una potestà, il munus nella potestas il cui esercizio è raramente giustiziabile perché si moltiplicano le soluzioni costantemente politiche nell’ordinamento per risolvere i singoli problemi, ampi o limitati, dell’amministrazione pubblica che incontra diritti ed interessi dei cittadini (si pensi all’ennesima riforma della conferenza di servizi: alla fine -in caso di dissenso tra i partecipanti- decide non più il Consiglio dei ministri, ma il Premier, o suo delegato, per qualsiasi opera o attività pubblica che debba svolgersi nel territorio mediante la conferenza).

4. L’articolo 70 fissa le competenze del nuovo Senato: anzitutto, sono troppe, dunque il bicameralismo è ridotto ma tutt’altro che abolito: se si pensa che su ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati un terzo del Senato può decidere, nei 10 gg. dalla ricezione, di esaminarlo e, nei 30 gg. successivi, può ripristinare il bicameralismo perfetto, modificando il testo approvato dalla Camera (siamo a 40 giorni da quest’ultima approvazione, salvo la pronuncia definitiva della Camera).

Ogni legge, dunque, potrebbe subire sempre un ritardo di oltre due mesi, dopo la sua formazione sostanziale, per la sua entrata in vigore, ciò che in precedenza accadeva soltanto nel caso -raro- di aperto contrasto tra Camera e Senato.

Tuttavia, per conoscere queste competenze il cittadino dovrà procurarsi molti testi di legge, in quanto l’art. 70 della variante Boschi, piuttosto che raggruppare ed illustrare le nuove competenze, contiene ben undici rinvii ad altre norme, svuotando il nuovo testo mediante una serie di richiami ad articoli della Costituzione, che a loro volta contengono norme concernenti leggi ordinarie (l’art. 80, 2° periodo crea, ad es., un vero guazzabuglio): semplice ineleganza?

Sembra, piuttosto, di poter registrare scarso rispetto per le regole di scrittura di una legge, assai peggio per una legge costituzionale: come potrebbe Roberto Benigni esaltare in piazza, suscitando ondate oceaniche di consensi, le competenze del nuovo Senato nell’art. 70 della Costituzione nascoste negli undici rinvii ad altre norme costituzionali ed in queste ultime leggi ordinarie?

5. Non più cinquantamila, ma centocinquantamila firme di cittadini sono necessarie per presentare validamente una proposta di legge d’iniziativa popolare.

Si tratta di un oggettivo appesantimento per i cittadini che intendano farla votare al di fuori della linea del Governo.

Alle critiche suscitate dalla triplicazione del numero delle firme, si risponde -maldestramente- con due argomenti: il primo è che sinora nessuna proposta di legge d’iniziativa popolare è stata mai discussa; il secondo è che “in compenso”, rispetto al freno della triplicazione delle firme imposto dalla variante Boschi al popolo che vuol far votare una “sua” legge, c’è la compensazione con un obbligo della Camera o del Senato di esaminare la proposta di legge.

Anzitutto, anche se è stata trascurata dal Parlamento, l’iniziativa popolare è tuttavia sempre servita sinora ad evidenziale alla classe politica ed all’opinione pubblica insoddisfazioni sociali, necessità di nuova spinta legislativa, ecc.

In ogni caso, non si possono censurare precedenti prassi certamente non soddisfacenti se nel contempo si renda paradossalmente assai più difficile l’accesso all’iniziativa popolare.

Sul secondo argomento avanzato da chi è soddisfatto della riforma, (a) non c’è alcuna garanzia costituzionale su tempi brevi delle due Camere, perché tutto è rinviato “ai regolamenti”; (b) né è prevista alcuna controiniziativa se la Camera o il Senato non provvedano in tempo utile a porre in discussione la legge popolare, in tal modo facendole perdere il significato principale: può immaginarsi che i regolamenti non potranno offrire alcuna effettività ad una norma volutamente vaga e di aperta negoziazione di garanzia costituzionale dell’esame parlamentare della legge “popolare”, nel frattempo, tuttavia, aggravata nel numero dei suoi proponenti, con una triplicazione, questa sì, fissata chiaramente dal testo dell’art. 71 della variante costituzionale.

Lo stesso fenomeno si verifica nel caso della “legge a data certa”: una proposta di legge del Senato con la maggioranza dei suoi componenti rivolta alla Camera che “si pronuncia” entro sei mesi dalla deliberazione del Senato.

Nulla è previsto se la Camera disattenda il suo dovere costituzionale o violi il termine.

In particolare, mai sarà discussa ed approvata una legge popolare, salvo forse nell’ipotesi che essa venga proposta da soli elettori della maggioranza, caso nel quale potrebbe tornar utile al Governo mostrare la sua democraticità spingendo la proposta fino al risultato dell’emanazione della legge.

6. Dunque, la variante costituzionale si presenta nel suo complesso come tentativo di alterare anzitutto, in favore del Premier, l’equilibrio tra gli organi costituzionali, Presidenza della Repubblica, Camera e Senato, Presidenza e Consiglio dei ministri, e Corte costituzionale, travolgendo il sistema normativo check and balance della tradizione istituzionale anglosassone, così come mirabilmente trasfuso nella nostra Costituzione, per instaurare una monocrazia di nuovo conio.

Del resto, come può rilevarsi dagli esempi fugacemente analizzati in questo scritto, troppe sono le norme messe in campo con la trasparente consapevolezza della loro assoluta inidoneità a garantire, anche in modesta misura, un progresso di efficienza democratica nel nostro Paese: si tratta, dunque, di una variante da considerare “chiusa per motivi tecnici”, come per un percorso stradale pieno di insidie e trabocchetti, a tutela dell’incolumità degli utenti.

—————————————-

Il Tribunale di Milano (con ordinanza in LexItalia.it, pag. http://www.lexitalia.it/a/2016/84031) ha respinto il ricorso del presidente emerito della Corte costituzionale, prof. Onida, ritenendo sufficientemente tutelati i cittadini dalla chiarezza, pur nella molteplicità, del quesito referendario e, implicitamente, dell’articolazione delle nuove norme. Con questo viatico, sembra che la data della votazione referendaria possa ritenersi confermata per il 4 dicembre.