Le ambiguità della legislazione anticorruzione
CLAUDIA GIACCHETTI, La guerra infinita alla corruzione nella pubblica amministrazione: un legislatore diversamente abile o un legislatore abilmente diverso?
CLAUDIA GIACCHETTI*
La guerra infinita alla corruzione nella pubblica amministrazione:
un legislatore diversamente abile o un legislatore abilmente diverso
1- Sempre più frequentemente gli italiani si chiedono: abbiamo le leggi anticorruzione e le leggi tributarie più severe d’Europa; abbiamo ottimi servizi di intelligence; da tutte le parti si tuona contro la corruzione nella pubblica amministrazione e contro gli evasori. Ma allora com’è mai possibile che l’Italia risulti in coda nella classifica europea sia del contrasto alla corruzione sia del contrasto – che di regola viaggia in parallelo – all’evasione fiscale? Com’è mai possibile che per stanare la corruzione occorrano le iniziative della Procura della Repubblica o delle inchieste televisive? Com’è mai possibile che il controllo gerarchico e/o interno della pubblica amministrazione non si accorga né dei concorsi da dirigente truccati né dei furbetti del cartellino che timbrano in desabillé né delle “ciliegie” (alias tangenti) dell’ANAS né di “Roma capitale”?
Una possibile risposta agli indicati interrogativi è che la severità delle leggi penali e delle leggi tributarie sia neutralizzata da varchi legislativi che sono stati lasciati aperti quando dovevano essere chiusi o che sono rimasti chiusi quando dovevano essere aperti. I principali di questi varchi sono: l’art. 1, comma 51, della legge anticorruzione n.190/2012, che ha introdotto nel decreto delegato n. 165/2001 l’art. 54 bis, recante la tutela del pubblico dipendente che denuncia condotte illecite; il decreto delegato n. 33/2013, che ha introdotto il principio della trasparenza totale di una pubblica amministrazione posta formalmente “al servizio dei cittadini”, ai quali è pertanto attribuito un controllo diffuso su di essa; e la mancata estensione dei principi enunciati nelle prime due anche alla legislazione tributaria.
2- L’art. 54 bis partiva da un’idea del legislatore che, una volta tanto, era buona, almeno in partenza: quella di importare nell’ordinamento italiano l’istituto anglosassone del whistleblowing.
L’idea cioè era: dal momento che la corruzione ha assunto un carattere pervasivo e capillare, e non è possibile mettere un carabiniere dietro ogni corrotto ed ogni corruttibile, perché non cercare di mobilitare in massa la maggioranza sana dei pubblici dipendenti, inducendoli a segnalare gli illeciti rilevati nel proprio ambito lavorativo? Una collaborazione di tali soggetti avrebbe potuto dare un contributo molto significativo alla lotta alla corruzione, attesa la provenienza delle notizie da persone che di regola ben conoscono le magagne della propria Amministrazione.
E’ nato così l’art. 54 bis del decreto legislativo n. 165/2001, che, considerato che un pubblico dipendente può ragionevolmente segnalare condotte illecite della propria Amministrazione solo se gli venga poi garantita una adeguata protezione contro un’eventuale ritorsione dell’Amministrazione stessa, ha previsto espressamente la “Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”.
Ma la realizzazione dell’idea è stata pessima: perché l’intitolazione dell’articolo, che sintetizza la volontà del legislatore, è completamente scollegata dal testo, che reca un ginepraio di norme generiche e prive di sanzione, che non sono immediatamente inseribili in un sistema operativo logico, coerente e soprattutto non decettivo. Ne è conseguito che la prevista “tutela” non è mai entrata a regime; è rimasta nel limbo delle buone intenzioni (ammesso che ci fossero davvero).
E’ bene ricordare il testo in questione.
Il comma 1 recita: “Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’art. 2043 del codice civile, il pubblico dipendente che denuncia all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti, ovvero riferisce al proprio superiore gerarchico condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, non può essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia”. In seguito, al pubblico dipendente è stata data facoltà di presentare la propria denuncia anche all’ANAC, autorità regolatrice della lotta alla corruzione.
Il successivo comma 3 aggiunge: “L’adozione di misure discriminatorie è segnalata al Dipartimento della funzione pubblica, per i provvedimenti di competenza, dall’interessato o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere.”
Un disposto del genere fa sorgere evidenti problemi interpretativi.
a) Si regola promiscuamente l’attività di chi denuncia – mettendosi in chiaro – all’autorità giudiziaria o alla Corte dei conti e di chi, invece, semplicemente segnala – la cui identità resta riservata – all’ANAC, agli organi di anticorruzione interna, al superiore gerarchico. Ma le situazioni sono diverse ed hanno effetti diversi.
Denunciare condotte illecite della propria amministrazione alla Procura della Repubblica (o a volte anche agli organi di polizia giudiziaria) o alla Corte dei conti postula – di massima – un almeno potenziale conflitto tra chi presenta la denuncia e la relativa Amministrazione, che di regola non ne è stata preavvisata. Ciò comporta che le autorità giurisdizionali adite dal denunciante, nell’ambito delle rispettive competenze istituzionali, debbano provvedere direttamente ad accertare la fondatezza della denuncia; e che l’ANAC, medio tempore, ove informato dalle autorità giurisdizionali o richiesto dal denunciante, debba assicurare la tutela a quest’ultimo, limitandosi a verificare esclusivamente la qualità di dipendente pubblico dell’interessato e il nesso di causalità tra denuncia e sanzione o discriminazione (diretta o indiretta) da lui subita. Il tutto in tempi brevissimi, anche per l’alto rischio di non sanabili ripercussioni negative sulla situazione di lavoro del denunciante. Precisa l’ANAC che “La disposizione richiamata delinea esclusivamente una protezione generale e astratta: essa per più versi deve essere completata con concrete misure di tutela del dipendente, il quale – per effettuare la propria segnalazione – deve poter fare affidamento su una protezione effettiva ed efficace che gli eviti una esposizione a misure discriminatorie. Questa tutela è, poi, nell’interesse oggettivo dell’ordinamento, funzionale all’emersione dei fenomeni di corruzione e di mala gestio. La tutela deve essere fornita da parte di tutti i soggetti che ricevono le segnalazioni: in primo luogo da parte dell’amministrazione di appartenenza del segnalante, in secondo luogo da parte delle altre autorità che, attraverso la segnalazione, possono attivare i propri poteri di accertamento e sanzione, ovvero l’Autorità nazionale anticorruzione (A.N.AC.), l’Autorità giudiziaria e la Corte dei conti” (determinazione n. 6/2015).
A differenza della denuncia, la segnalazione invece non è presentata agli organi giurisdizionali o alla polizia giudiziaria ma è presentata in via riservata all’ANAC o agli organi di anticorruzione interna o al superiore gerarchico, i quali sono tenuti a garantire l’anonimato del segnalante e a verificarne esclusivamente la non manifesta inattendibilità.
In ogni caso, tutti gli organi riceventi la segnalazione sono obbligati, in virtù del combinato disposto degli artt. 361 e 362 del codice penale e 331 del codice di procedura penale , a presentare formale denuncia all’autorità giudiziaria nel caso che detta segnalazione contenga elementi descrittivi di un reato, ferma restando la tutela interinale del segnalante nei confronti della sua amministrazione.
b) Il fatto obiettivo della segnalazione – e, a maggior ragione, della denuncia di cui si sia si stata data notizia – deve assicurare automaticamente ed immediatamente il diritto alla tutela.
Al riguardo l’ANAC (cit.) “consapevole della lacuna normativa, tenuto conto della delicatezza della questione e della necessità di fornire indicazioni interpretative per consentire l’applicazione della norma”, ha ritenuto che “solo in presenza di una sentenza di primo grado sfavorevole al segnalante cessino le condizioni di tutela dello stesso”. Va comunque tenuto presente che il segnalante o il denunciante, attesa la loro sostanziale natura di collaboratori di giustizia, dovrebbero essere sanzionabili solo se la segnalazione o la denuncia siano risultate inficiate da dolo o malafede; e che “considerato lo spirito della norma – che è quello di incentivare la collaborazione di chi lavora all’interno delle pubbliche amministrazioni per l’emersione dei fenomeni corruttivi – ad avviso dell’Autorità non è necessario che il dipendente sia certo dell’effettivo avvenimento dei fatti denunciati e dell’autore degli stessi, essendo invece sufficiente che il dipendente, in base alle proprie conoscenze, ritenga altamente probabile che si sia verificato un fatto illecito nel senso sopra indicato” (ANAC, cit.).
c) In ogni caso, che significa quel “Fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell’art. 2043 del codice civile”? La responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione sorge soltanto in un secondo momento, qualora un giudice abbia riconosciuta la sussistenza di uno dei suddetti reati. Sicché è impossibile l’ipotesi normativa di una segnalazione o di una denuncia di condotta illecita che, al momento in cui viene presentata, si trovi già in una situazione di accertata responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione; né la situazione cambia qualora si verta in tema di risarcimento del danno ai sensi dell’art. 2043 c.c.
d) L’eventuale adozione di misure ritorsive nei confronti del denunciante o del segnalante di aver subito discriminazioni va prontamente portata a conoscenza dell’ANAC, e va dall’ANAC comunicata al Dipartimento della funzione pubblica, che dovrebbe adottare misure atte ad inibire la prosecuzione delle attività sanzionatorie o discriminatorie.
e) Quali siano però gli interventi che il Dipartimento della funzione pubblica è tenuto ad adottare resta il punto più misterioso dell’art. 54 bis. Il legislatore si è limitato a porre a carico del Dipartimento “i provvedimenti di competenza” senza precisare quali fossero e come e in che termini dovessero essere adottati. Ed il Dipartimento non ha, almeno formalmente, alcun potere diretto sull’Amministrazione autrice di eventuali sanzioni o discriminazioni; né ha alcuna specifica potestà provvedimentale su di essa.
L’unica cosa chiara (ma in concreto non operativa) è che il dovere di provvedere sulle misure discriminatorie è di esclusiva competenza del Dipartimento, salve restando ovviamente le eventuali responsabilità penali e civili dell’Amministrazione che abbia adottato tali misure.
f) La violazione del dovere dell’amministrazione denunciata di non adottare misure sanzionatore o discriminatorie nei confronti del denunciante comporta automaticamente la configurabilità del reato – quanto meno – di abuso d’ufficio, con eventuale concorso di persone nel reato. Al riguardo va segnalato che la Corte di Cassazione, VI sezione penale, con sentenza 6665 del 18 febbraio 2016, ha di recente ribadito che:” l’articolo 54-bis stesso decreto del 2001 prevede una specifica tutela del dipendente pubblico che segnali condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro, prevedendo che questi non possa essere sanzionato, licenziato o sottoposto ad una misura discriminatoria, diretta o indiretta, avente effetti sulle condizioni di lavoro per motivi collegati direttamente o indirettamente alla denuncia…..e’ certamente suscettibile di integrare la violazione di legge rilevante ai fini dell’articolo 323 cod. pen. l’inosservanza alle disposizioni fissate in materia di procedimento disciplinare dalla legge (appunto dall’articolo 2106 cod. civ. e dal Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 come modificato con Decreto Legislativo 27 ottobre 2009, n. 150), allorché il potere disciplinare sia esercitato – almeno secondo l’ipotesi accusatoria da sottoporre al vaglio giurisdizionale – non in funzione dell’interesse pubblico, ma da motivi pretestuosi e sorretti da un intento ritorsivo. [1]…..Ed invero, secondo i principi generali in tema di concorso di persone nel reato cristallizzati nell’articolo 110 cod. pen., il contributo concorsuale acquista rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell’evento illecito, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore e di rafforzamento del proposito criminoso già esistente nei concorrenti, in modo da aumentare la possibilità di commissione del reato (Fattispecie in tema di abuso di ufficio) (Sez. 6, n. 36125 del 13/05/2014 – dep. 25/08/2014)…Ne discende che, almeno in linea ipotetica, non può essere escluso che l’imputata, a prescindere dalla mancata apposizione della firma sotto il provvedimento di licenziamento e senza dover ipotizzare una responsabilità oggettiva discendente dalla posizione apicale ricoperta in seno all’ufficio, possa comunque avere assicurato il proprio contributo, morale o materiale, anche di natura meramente agevolatrice, al prodursi dell’evento.”
g) La facoltà di segnalazione di misure discriminatorie è attribuita all’interessato e alle “organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative”. Ma qui si tratta non di prendere una decisione ma semplicemente di trasmettere una segnalazione; e quindi che motivo c’è di escludere le organizzazioni sindacali minoritarie, che pur tali potrebbero dare un’adeguata assistenza all’interessato? L’unico motivo ipotizzabile è la contrarietà antisindacale dei sindacati maggiori, per basse esigenza di bottega.
In questo mare di problemi interpretativi l’ombrello dei “provvedimenti di competenza”, che avrebbe potuto e dovuto riparare i denuncianti, è rimasto – di fatto – chiuso, dato che – a quanto risulta – si sarebbe instaurata una prassi praeter legem secondo cui:
– l’autorità giudiziaria, la Corte dei conti e l’ANAC trasmettono le denunce ad esse pervenute al Dipartimento per la funzione pubblica;
– il Dipartimento delle funzione pubblica, ricevuta la denuncia, si limita a chiedere su di essa il parere dell’Amministrazione interessata;
– l’Amministrazione risponde – ovviamente – che il denunciante è un fuori di testa con mania di persecuzione o un esaltato che non capisce quello che dice (non risultano casi di Amministrazioni che abbiano lealmente ammesso di aver adottato condotte illecite);
– il Dipartimento della funzione pubblica, su tale base e senza consentire al denunciante di prendere visione della risposta dell’Amministrazione, e quindi senza che si sia instaurato un effettivo contraddittorio (e quindi senza rispettare il principio generale discendente dall’art. 111 della Costituzione), dà senz’altro ragione a quest’ultima, abbandonando così il denunciante all’inevitabile ritorsione dell’Amministrazione.
In una situazione del genere chi è chiamato ad applicare la l’art. 54 bis si può comportare in due modi: o da burocrate o da interprete.
Il burocrate applica la legge secondo il suo testo: quello che non c’è scritto per lui non esiste e neanche gli interessa; e non gli interessa neppure quali saranno le conseguenze del suo operato. Non è affar suo se si tratta di norme insensate e se la sedicente “tutela” in realtà non tutela nessuno. E quindi si attiene meccanicamente al testo da persona informata ed informatizzata ma disumanizzata, che agisce come terminale di un terminale.
L’interprete, il vero interprete, sa che esistono norme insensate; ma sa anche che il suo compito più alto è quello di dare alle norme insensate senso e passione civile: e quindi, se necessario, si impegna al massimo – anche senza un’esplicita indicazione della legge – per ricavare dai principi generali gli strumenti e le procedure necessarie per dare concreta attuazione alle finalità dichiarate dal legislatore.
E’ quindi augurabile che tutti i soggetti interessati vogliano comportarsi da interpreti, e vogliano colmare di loro iniziativa le lacune dell’articolo 54 bis. L’ANAC ha da tempo segnalato (cit.): “L’Autorità non può non sottolineare l’incertezza del dettato normativo che caratterizza la materia. A questo proposito si auspica un intervento del legislatore volto a chiarire le questioni interpretative ancora aperte, alcune delle quali sono di seguito puntualmente segnalate”. Ma nulla si è mosso.
3- Attualmente sarebbero circa duemila i pubblici dipendenti che hanno ingenuamente fatto affidamento sulla promessa legislativa, e che a seguito della loro denuncia sono stati o estromessi o ghettizzati. La loro denuncia si è trasformata in un suicidio: e non solo in un suicidio burocratico ma anche in un suicidio di una democrazia fondata costituzionalmente anche sul buon andamento della pubblica amministrazione. E così due milioni di pubblici dipendenti hanno dovuto rendersi conto di poter trovarsi alla mercé di amministrazioni che nei loro procedimenti disciplinari affermano di aver posto sui propri dipendenti un pieno ed insindacabile “vincolo di sottomissione gerarchica”: locuzione che, si badi bene, è contenuta testualmente in atti disciplinari, e sembra ipotizzare un nuovo tipo di schiavitù ben lontana dal cd. vincolo di subordinazione gerarchica di universitaria memoria. Si tratta, evidentemente, di amministrazioni che non intendono fare prigionieri ma che intendono senz’altro sbarazzarsi di chi non si allinea, contando anche sulla circostanza che almeno alcuni vertici sindacali nazionali svolgono di fatto il ruolo di ruota di scorta dell’amministrazione. Il che fa comprendere che non ci si deve poi meravigliare troppo dell’esito del referendum.
L’acquisita consapevolezza del disastroso esito della promessa di tutela sancita dall’art. 54 bis ormai dissuade quasi tutti i pubblici dipendenti dal denunciare condotte illecite di cui siano venuti a conoscenza; il che – com’è ovvio – preclude alle forze sane di sfruttare il potente effetto psicologico anticorruzione che si verificherebbe se gli amministratori inclini alla corruzione fossero consapevoli dei rischi reali in cui potrebbero incorrere già nel loro stesso ambiente.
A questo punto qualsiasi persona di normale intelligenza potrebbe pensare: ma il legislatore come ha potuto non rendersi conto che l’articolo 54 bis costituiva una induzione al suicidio dell’aspirante collaboratore di giustizia, presumibilmente onesto e in buona fede, ed un’inammissibile parzialità in favore di una pubblica amministrazione asseritamente corrotta e in mala fede? E non trovando altre logiche risposte dovrebbe concludere che il nostro legislatore sia – per usare un termine politicamente corretto – diversamente abile, come del resto farebbero desumere le recenti disavventure del nuovo codice dei contratti pubblici e del decreto di riforma della pubblica amministrazione. A meno che …
4- Considerazioni sostanzialmente analoghe possono farsi per il decreto delegato n. 33/2013.
Visto l’interesse suscitato, almeno inizialmente, dal citato art. 54 bis il governo pensò di generalizzare il sistema, e di inquadrare, in qualità di forze ausiliarie, non solo i pubblici dipendenti ma anche la generalità dei cittadini (il che richiedeva di assicurare ad essi la massima conoscibilità dell’attività amministrativa e quindi la massima trasparenza di essa), da utilizzare in qualità di antenne diffuse su tutto il territorio per raccogliere notizie utili per eventuali interventi anticorruzione. E così con l’art. 1 del decreto legislativo n. 33/2013, al comma 1 è stata affermata l’esistenza di un principio generale di “trasparenza….intesa come accessibilità totale delle informazioni concernenti l’organizzazione e l’attività delle pubbliche amministrazioni, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo sul perseguimento delle funzioni istituzionali e sull’utilizzo delle risorse pubbliche”; ed è stato precisato al comma 2 che la trasparenza “integra il diritto ad una buona amministrazione e concorre alla realizzazione di una amministrazione aperta, al servizio del cittadino”.
Ora, a prescindere dalla considerazione che allo stesso comma 2 viene anche precisato che la trasparenza è assicurata “nel rispetto delle disposizioni in materia di segreto di Stato, di segreto d’ufficio, di segreto statistico e di protezioni dei dati personali” (il che, in pratica, vuol dire che la trasparenza proclamata “totale” tale non è), per quanto riguarda la mobilitazione dei semplici cittadini, con invito ad esercitare le neonate “forme diffuse di controllo” sull’operato della pubblica amministrazione, non è stato considerato che esercitare facoltà del genere richiede tempo, impegno, pazienza ed inevitabili spese.
Questo faceva già in partenza pronosticare una risposta molto tiepida all’invito di collaborazione in nome di un generico interesse comune; ed il pronostico si è puntualmente avverato: un apprezzabile controllo diffuso, di fatto, non si è avuto.
La riposta avrebbe potuto essere invece forte se – nell’eventualità di un apporto collaborativo utile – il collaboratore avesse potuto contare quanto meno su un riconoscimento morale in termini di visibilità (utile soprattutto ad incentivare la collaborazione di associazioni, comitati, persone desiderose di farsi conoscere, ecc.) o su un riconoscimento anche pratico, ad esempio il conseguimento di un attestato da poter far valere nei pubblici concorsi (utile soprattutto a canalizzare in senso positivo almeno parte dello scontento giovanile). Il tutto a costo zero.
Ma ciò non è avvenuto.
A questo punto qualsiasi persona di normale intelligenza potrebbe pensare: ma il legislatore come ha potuto non rendersi conto che, nei termini concreti in cui è stato messo, l’invito al controllo diffuso sarebbe caduto nel vuoto? E, riflettendoci bene su, potrebbe aggiungere: e come mai non è stato considerato che, nei termini in cui era stato messo, l’invito avrebbe avuto l’unico effetto di rafforzare nei cittadini – al cui servizio la norma pone (teoricamente) la pubblica amministrazione – la convinzione che le leggi, e soprattutto quelle che danno diritti civili e politici ai cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, non siano una cosa seria ma innocue leggi manifesto che lasciano il tempo che trovano, perché in sede tecnica la buona idea di partenza viene sempre opportunamente devitalizzata in itinere da burocrazie che non si rassegnano a prendere atto che il loro è un servizio e non un potere?
Insomma anche qui sorge l’inquietante dubbio che si abbia a che fare con un legislatore diversamente abile. A meno che ….
5- Quanto infine all’omessa applicazione alla materia tributaria dei principi dell’art. 54 bis e del decreto n. 33/2013, sempre la stessa persona di normale intelligenza potrebbe pensare: ma come mai lo Stato sollecita il cittadino, dichiarato titolare del diritto alla buona amministrazione ed al controllo sull’utilizzo delle risorse pubbliche, a denunciare l’apertura di una finestra abusiva ma non lo sollecita a denunciare un’evasione tributaria di milioni di euro?
In un paese che presenta un’evasione stimata intorno ai duecento miliardi di euro, che se recuperata porrebbe l’Italia al vertice economico europeo del wellfare, non sarebbe questo il contributo più utile che i cittadini, la società civile, potrebbe dare alla tanto desiderata e tanto necessaria ripresa dell’economia nazionale?
Certo nessuno si muove per niente, specie se c’è il timore di possibili ritorsioni. Ma, soprattutto nell’attuale momento di scarsità del lavoro, molti sarebbero disposti ad improvvisarsi 007 nell’interesse dell’erario; basterebbe un minimo incentivo. Nella manifesta insufficienza dell’attività delle Agenzie fiscali nel contrasto all’evasione perché mai non si è pensato di integrare tale attività riconoscendo un premio anche minimo (1-2% dell’accertamento) a chi, collaborando con le Agenzie, consenta di recuperare effettivamente (riscuotere) somme evase? E comunque, perché, non tener conto delle somme effettivamente recuperate (e non del solo numero dei maggiori accertamenti effettuati, com’è adesso) nel premio di risultato dei dipendenti delle Agenzie fiscali?
Anche in questo caso sorgono dubbi sulla sagacia del legislatore. A meno che…
6- … A meno che non si voglia dare ai casi esaminati un’interpretazione diversa. L’ipotesi di un legislatore diversamente abile può essere attendibile in qualche caso isolato; ma non è credibile come regola generale. Quindi nelle fattispecie in esame l’esistenza di indizi gravi, precisi e concordanti nel senso di detta ipotesi va probabilmente letta in una chiave diversa: in chiave – più preoccupante – di un legislatore abilmente diverso, che cioè dichiara di volere una cosa ma in realtà ne vuole una diversa.
Va infatti tenuto presente che l’attuale situazione generale è caratterizzata da un indebolimento del governo, sia per l’instabilità politica interna sia per lo straripamento dell’Europa negli ordinamenti nazionali, e da un correlativo rafforzamento dei vertici delle pubbliche amministrazioni, che tendono sempre più ad organizzarsi in autorità indipendenti. Per raggiungere l’indipendenza piena – spesso camuffata come “privatizzazione” – tali vertici hanno però bisogno da una parte dell’appoggio del governo e dall’altra di avere il pieno controllo dei propri dipendenti. Ma anche il governo ha, da una parte, bisogno dell’appoggio dei vertici delle pubbliche amministrazioni, dato che ha molti sostenitori da dover contentare e, dall’altro, ha bisogno di non scontentare troppo l’opinione pubblica. Ci sono quindi le condizioni obiettive perché di fatto, sotto l’occhio vigile dei poteri forti, si realizzi tra governo e vertici amministrativi una intesa sulla base di un reciproco scambio di favori.
Gli unici ostacoli a tale eventuale intesa sono costituiti dai cittadini, che resterebbero defraudati dei loro diritti costituzionali, e dai dipendenti pubblici, che potrebbero ribellarsi al citato inquietante “vincolo di sottomissione gerarchica”.
Ma i normali cittadini possono essere tenuti a bada concedendo loro a piene mani diritti immaginari, quali quelli previsti dall’art. 54 bis o dall’art. 1 del decreto delegato n. 33/2013, e curando nel contempo che essi evitino di impicciarsi dell’operato delle pubbliche amministrazioni.
E i dipendenti pubblici possono essere tenuti a freno dall’inesistenza di una reale tutela di chi denuncia condotte illecite. Ed è chiaro che in questo clima andare a pretendere che l’Amministrazione rispetti l’art. 54 bis o allontani un dirigente incriminato di pesanti reati dalla Procura della Repubblica è una chimera. E potrebbe addirittura ipotizzarsi, quanto all’art. 54 bis, una premeditata volontà di far uscire allo scoperto, con l’illusione di una tutela legislativa, i potenziali futuri denuncianti di condotte illecite per neutralizzarli preventivamente, rendendo così impermeabile la pubblica amministrazione.
Fantapolitica?
C’è da augurarsi di sì.
Ma una smentita reale potrà darla solo il conferimento di una efficienza operativa reale e non immaginaria agli articoli citati. L’attuale rinvio di un formale aggiornamento dell’ordinamento costituzionale – pur ritenuto da tutti necessario – dovrebbe indurre qualsiasi governo, qualunque sia il suo colore, a creare quanto meno un humus che costituisca un attendibile banco di prova di un rafforzamento democratico del Paese.
Se si riuscirà a modificare in tal senso l’art. 54 bis oltre due milioni di funzionari pubblici usciranno dal loro attuale stato di “sottomissione gerarchica” espressione il cui uso formale da parte di certa dirigenza pubblica è indicativo di un potere amministrativo inteso come potere assoluto al servizio e nell’interesse della singola amministrazione e non già nel senso di pubblica funzione al servizio e nell’interesse della collettività itera, come stabilito dalla Costituzione; e riacquisteranno così la loro dignità di servitori dello Stato e di uomini liberi.
Se si riuscirà a modificare nei sensi suindicati il decreto delegato n. 33/2013 gli italiani si sentiranno realmente controllori e non semplici spettatori dell’attività amministrativa; e la corruzione diventerà molto più difficile.
Se si riuscirà a modificare nel senso suindicato le leggi tributarie diventerà molto più difficile evadere il fisco.
Tutto questo a costo zero.
Sarà quindi su questo limitato ma significativo banco di prova, che prescinde da ogni etichetta politica ed attiene a pressanti contingenti esigenze della vita reale di tutti noi, che il nuovo governo verrà valutato.
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(*) Dirigente sindacale DIRPUBBLICA – Federazione del Pubblico Impiego.
[1] La sentenza specifica: “Per altro verso, si deve ribadire che, anche dopo la privatizzazione del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, non è mutata la natura pubblicistica della funzione svolta e dei poteri esercitati dai dirigenti amministrativi e, con essa, la qualifica di pubblico ufficiale rilevante ai fini dell’articolo 357 cod. pen. (Sez. 6, n. 19135 del 02/04/2009 – dep. 07/05/2009, Palascino, Rv. 243535). 5.2. Per altro verso, il Giudice ha comunque errato la’ dove ha escluso il concorso della (OMISSIS) nella condotta di abuso sub capo M) sulla scorta della considerazione che l’imputata, non avendo apposto la propria firma in calce al provvedimento di licenziamento disciplinare non potrebbe rispondere della condotta a mero titolo di responsabilita’ oggettiva, tenuto conto della sua posizione e della conseguente titolarita’ del potere d’iniziativa per l’applicazione delle sanzioni disciplinari.”