La riforma del Senato
MICHELE ORICCHIO, Riforme costituzionali: urge un Senatus consultum ultimum.
MICHELE ORICCHIO*
Riforme costituzionali: urge
un Senatus consultum ultimum
Il Senatus consultum ultimum (cioè “Ultimo decreto del Senato”), o anche Senatus consultum de re publica defendenda (cioè “Decreto del Senato per la difesa dello stato”) è la locuzione utilizzata per descrivere un decreto senatorio (il Senatus consultum) emesso come extrema ratio in caso di emergenza che fu tipico dell’ultima fase della Repubblica. Si trattava di una delibera del senato della antica Roma repubblicana con cui, dai tempi dei Gracchi, la fazione aristocratica aveva di fatto emendato la costituzione romana, introducendovi una clausola di stato di emergenza («videant consules ne quid res publica detrimenti capiat»: provvedano i consoli affinchè lo Stato non soffra danno).
Probabilmente, di fronte al confuso tentativo in atto di riforme costituzionali pervicacemente perseguito, dovremmo invocare uno scatto d’orgoglio del Senato per evitare che la Repubblica possa subire danni irreparabili da tale iniziativa ancora più pericolosa della mai sufficientemente deplorata riforma del Titolo V della Costituzione in quanto diretta ad incidere estesamente su alcuni meccanismi essenziali al corretto funzionamento delle Istituzioni repubblicane.
Sia ben chiaro che è assolutamente condivisibile l’intento di migliorare l’efficienza complessiva del nostro sistema pubblico, gravato da insostenibili costi palesi ed occulti che vengono in emersione periodicamente allo scoppiare di scandali e di migliorare il rapporto costi-benefici per i cittadini/contribuenti ma le soluzioni proposte sono a tal punto pasticciate ed insoddisfacenti da rendere necessaria una ferma opposizione civile ed intellettuale, appunto “ne res publica detrimenti accipiat”.
Si spera, così, di poter dare un tempestivo contributo costruttivo ad una riforma che diviene auspicabile solo ove sia in grado di migliorare il nostro sistema istituzionale senza smontare e distruggere quel poco di “fonction publique” che ancora resiste.
I tempi sono maturi : infatti giovedì 8 gennaio è ripreso in Aula alla Camera dei deputati l’esame del disegno di legge costituzionale C. 2613-A e abb. (recante “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione“), già approvato, in prima lettura dal Senato.
Ci si soffermerà, dunque, su tre aspetti fondamentali della prospettata riforma e cioè: a) il superamento del bicameralismo perfetto con la modifica del Senato; b) il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni; c) le modifiche del titolo V della Costituzione.
Non merita particolare attenzione la soppressione del CNEL , di cui – da tempo – nessuno sentiva più l’esigenza e che è servito solo come paradigma per dar vita, negli anni delle “vacche grasse” dell’autonomismo, ad altrettanti mini-consigli in ogni regione (i CREL).
Preliminarmente però non può non effettuarsi una considerazione: laddove ben tre Commissioni bicamerali avevano fallito, sembra ben avviato il tentativo governativo di modificare rapidamente ed estensivamente la Costituzione in modo da poter portare in Europa – si è detto – un esempio di riforme concrete tali da favorire la ripresa economica.
Orbene a prescindere dal fatto che in Europa non credo siano in molti a sapere o a interessarsi da quante camere è composto il nostro Parlamento e che i problemi maggiori non sono quelli relativi al procedimento legislativo, ma quelli relativi all’emanazione dei decreti attuativi (che lo stesso Governo ci informa essere oltre 500 in attesa di emanazione, che è cosa ben diversa), un rilevante problema è quello delle legittimazione di questo Parlamento ad incidere in maniera così profonda sull’ordito costituzionale vigente.
Infatti sembra caduta nell’oblio la rilevantissima circostanza che esso è stato eletto con una legge elettorale (il famoso “porcellum”) dichiarato incostituzionale dall’Alta Corte con sentenza n. 1 del 13.1.2014 per due motivazioni: il premio di maggioranza viene definito ”distorsivo” perche’ ”foriero di una eccessiva sovra-rappresentazione in quanto non impone il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista”; le liste completamente bloccate, “impediscono all’elettore di scegliere chi eleggere con apposita preferenza”.
Le motivazioni della sentenza – si legge in un documento che è stato presentato dal relatore Giuseppe Tesauro – prendono posizione sul problema della legittimità del Parlamento che, a giudizio della Consulta, non viene a mancare: ”Il principio fondamentale della continuità dello Stato, non è un’astrazione e dunque si realizza in concreto attraverso la continuità in particolare dei suoi organi costituzionali: di tutti gli organi costituzionali, a cominciare dal Parlamento”.
Da qui un’importante valutazione: ”E’ evidente che la decisione che si assume, di annullamento delle norme censurate, avendo modificato in parte la normativa che disciplina le elezioni per la Camera e per il Senato, produrrà i suoi effetti esclusivamente in occasione di una nuova consultazione elettorale’‘. Si sottolinea ulteriormente: ”Le elezioni che si sono svolte in applicazione anche delle norme elettorali dichiarate costituzionalmente illegittime costituiscono in definitiva e con ogni evidenza un fatto concluso, posto che il processo di composizione delle Camere si compie con la proclamazione degli eletti’‘.
Di fronte a tale autorevole ricostruzione, mi sembra possa senz’altro sostenersi che un Parlamento così eletto può certamente svolgere le sue funzioni provvedendo innanzitutto a modificare la legge elettorale per consentire nuove consultazioni popolari, può gestire – nel frattempo – una sorta di “ordinaria amministrazione” dei procedimenti legislativi ma non può certo spingersi fino a incidere profondamente nella stessa Costituzione, i cui principi sono stati violati con la sua elezione !
Ora, anche a voler considerare superabile tale insuperabile argomentazione, che marchia come affetta da peccato originale l’iniziativa riformista de quo, possiamo passare ad esaminare i tre elementi qualificanti della riforma per metterne in immediata evidenza le forti criticità da cui sono affetti e i deludenti risultati di cui potrebbero essere portatori:
a) il superamento del bicameralismo perfetto con la modifica del Senato: partiti dall’idea di sopprimere la Camera Alta, il Senato ha licenziato un testo in cui esso sopravvive ma muta geneticamente: significativo è – a tal proposito – l’art. 1 che, riscrivendo l’art. 55 della Costituzione, così detta: “Il Senato della Repubblica rappresenta le istituzioni territoriali. Concorre, paritariamente, nelle materie di cui agli articoli 29 e 32, secondo comma, nonché, nei casi e secondo modalità stabilite dalla Costituzione, alla funzione legislativa ed esercita funzioni di raccordo tra l’Unione europea, lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica. Partecipa alle decisioni dirette alla formazione e all’attuazione degli atti normativi e delle politiche dell’Unione europea e ne valuta l’impatto. Valuta l’attività delle pubbliche amministrazioni, verifica l’attuazione delle leggi dello Stato, controlla e valuta le politiche pubbliche. Concorre a esprimere pareri sulle nomine di competenza del Governo nei casi previsti dalla legge.” Inoltre l’art. 10 , riscrivendo l’art.70 della Carta così detta in tema di procedimento legislativo :” La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche, di referendum popolare, per le leggi che danno attuazione all’articolo 117, secondo comma, lettera p), per la legge di cui all’articolo 122, primo comma, e negli altri casi previsti dalla Costituzione. Le altre leggi sono approvate dalla Camera dei deputati.
Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata.
Per i disegni di legge che dispongono nelle materie di cui agli articoli 114, terzo comma, 117,commi secondo, lettera u), quarto, quinto e nono, 118, quarto comma , 119 , terzo, quarto, limitatamente agli indicatori di riferimento, quinto e sesto comma,120,secondo comma e 132, secondo comma, nonché per la legge di cui all’art.81,sesto comma, e per la legge che stabilisce le forme e i termini per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea la Camera dei deputati può non conformarsi alle modificazioni proposte dal Senato della Repubblica solo pronunciandosi nella votazione finale a maggioranza assoluta dei suoi componenti .
I disegni di legge di cui all’art.81, quarto comma, approvati dalla Camera dei Deputati, sono esaminati dal Senato della Repubblica che può deliberare proposte di modificazione entro quindici giorni dalla data di trasmissione . Per tali disegni di legge le disposizioni di cui al comma precedente si applicano nelle medesime materie e solo qualora il Senato della Repubblica abbia deliberato a maggioranza assoluta dei suoi componenti .”
Già la mera lettura dei testi evidenzia la mostruosa farraginosità del sistema che ne deriverebbe, ma prima di esprimerci più compiutamente in merito, occorre completare il quadro normativo di riferimento con il richiamo all’art. 2 che così disciplina la composizione del Senato: “Il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica.
I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori tra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori.
Nessuna Regione può avere un numero di senatori inferiore a due; ciascuna delle Province autonome di Trento e di Bolzano ne ha due.”
E’ agevole osservare come la preannunciata “epocale riforma” del Parlamento perpetui un copione “gattopardesco” già visto con la riforma delle Province e si risolva in un bicameralismo, imperfetto e complicato, affidato un Senato composto in maniera approssimata prevalentemente da politici provenienti dai consigli regionali, cioè dalle istituzioni territoriali più squalificate degli ultimi anni (oltre 500 consiglieri indagati per peculato ed affini).
Quanto ai risparmi di spesa – rimanendo l’apparato sostanzialmente intonso, essi si ridurrebbero a circa 50 milioni di euro (pari all’attuale esborso per le indennità dei Senatori) e sarebbero, dunque, di entità talmente ridotta da non potere certamente giustificare una riforma del sistema legislativo italiano tanto devastante quanto inutile e inefficace ad esaltarne effettivamente la funzione .
Ma v’è di più: la maggioranza dei costituzionalisti è unanime nell’evidenziare che un Senato non elettivo non può avere funzioni così altamente costituzionali come quelle riservate ad esso dalla riforma in esame; esso potrebbe essere solo un CNEL riveduto e corretto, ma non certo una camera con funzioni legislative. Viene dunque da chiedersi se non fosse stato molto più semplice ridurre equanimemente il numero dei parlamentari fra Camera e Senato e fare di quest’ultimo – sempre eletto dai cittadini – una Camera di garanzia!
b) Altro aspetto affrontato nel disegno di legge è quello del contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni: sotto tale profilo le scelte effettuate riguardano essenzialmente la soppressione delle province e il tetto retributivo per i parlamentari; ma anche qui le soluzioni prospettate non vanno esenti da critiche.
Per quanto attiene alle province, storici “anelli di congiunzione fra il decentramento statale e le autonomie locali”, ne viene disposta la soppressione ma delle relative funzioni e del personale non si parla mentre vengono espressamente mantenute le città metropolitane e, all’art.39 comma 4 si parla di “enti di area vasta” la cui disciplina è rimessa alla legge statale o regionale.
Orbene le province, veri e propri “vasi di coccio fra vasi di ferro” sembrano essere gli agnelli sacrificali sull’altare del riformismo più ipocrita che vuole ignorare che il grosso problema della finanza pubblica italiana è costituito dalla miriade di agenzie, consorzi, autorità e società partecipate da regioni ed enti locali che hanno dato vita ad un costoso sistema affaristico-clientelare tale da far impallidire le vecchie “partecipazioni statali”. Inoltre vi sono funzioni amministrative che non possono ontologicamente essere esercitate dai comuni per ragioni di dimensioni (smaltimento rifiuti, trasporti, acqua pubblica, etc.) e che esigono appunto “enti di area vasta”: non si comprende , dunque, perché si debbano abolire gli enti di area vasta per antonomasia cioè le province (si poteva tornare alle 93 storiche) e rimettere alle regioni la creazioni di centinaia di altri enti intermedi privi di genuini legami con il territorio da amministrare.
Peraltro numerosi sondaggi evidenziano che il 58% degli italiani si dice favorevole all’eliminazione delle Province ma questa percentuale crolla al 43% se si chiede di abolire anche la propria Provincia e precipita addirittura al 38 per cento se si chiede di abolirle tutte o solo quelle inefficienti. In tutti i Paesi europei di media e grande dimensione, tra l’altro, esiste un livello di governo intermedio tra i Comuni e le regioni le quali ultime ben potrebbero essere riconfigurate come consorzi di province per la programmazione e gestione di funzioni amministrative.
Dall’analisi comparata delle Costituzioni degli altri Paesi europei a noi simili per dimensioni (Francia, Germania, Spagna..) emerge chiaramente che esistono precise garanzie costituzionali per gli enti di area vasta di livello provinciale. Tali garanzie ci sono anche nell’unico caso in cui, in Spagna, è prevista l’elezione di secondo grado degli organi di governo, previsione che si sposa con un’espressa garanzia costituzionale delle Province spagnole come enti associativi comunali e non come enti esponenziali delle loro comunità territoriali.
Le sollecitazioni europee verso un contenimento della spesa pubblica implicano sicuramente un ripensamento di tutta la pubblica amministrazione ma un riesame strutturale della spesa degli apparati pubblici può realizzarsi solo attraverso un’accurata azione legislativa ordinaria che avvii una vera spending review dell’amministrazione centrale, un riordino dell’amministrazione statale periferica (che ha visto proliferare anche un livello regionale fino a pochi anni fa sconosciuto), e una vera semplificazione degli enti presenti sul territorio che oggi, sovrappongono spesso competenze e funzioni, nel mentre potrebbero essere soppressi e le relative funzioni ricondotte ad un solo ente di area vasta, che lo si voglia chiamare o meno provincia, con indubbia efficientizzazione del sistema ed eliminazione in radice di molti dannosi “conflitti di amministrazione”.
Altra disposizione inserita nel contesto della riduzione della spesa è recata dall’art. 34 del disegno di legge in commento secondo la quale i consiglieri regionali non possono guadagnare più del sindaco del capoluogo di regione e tale trattamento si applica anche a quelli che andrebbero a comporre il Senato.
Dunque circa tre/quattromila euro per svolgere anche le funzioni di Senatore in omaggio ad un malcelato senso di “pauperismo” che dovrebbe caratterizzare anche l’esercizio di rilevanti funzioni istituzionali dimenticando che non è attraverso lo svilimento economico di chi ricopre importanti cariche pubbliche – anche elettive – che si raggiunge una qualificazione della spesa pubblica e un serio ostacolo alla corruzione! Anche in tal caso manca una ponderata riflessione sulla direzione da seguire per raggiungere il dichiarato obiettivo di “contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni”: ad esempio non vi è alcuna risposta all’interrogativo – recentemente opportunamente diffusosi – sulla reale utilità del costoso sistema legislativo regionale divenuto ormai anacronistico all’alba del terzo millennio: nei circa cinquant’anni di esistenza, esso ha solo incentivato uno scadente particolarismo, mentre la globalizzazione economica corre verso ordini di grandezze molto maggiori e sovranazionali sicché le regioni sono rimaste troppo piccole per legiferare seriamente e troppo grandi per svolgere efficacemente funzioni amministrative, non comprendendo realtà omogenee tanto da essere efficacemente definite “conchiglie vuote sul piano identitario”!
Tale situazione è francamente insostenibile nell’ambito di un sistema di gerarchia delle fonti che vede già accanto alla legge statale, quale fonte primaria, una sempre più ampia normativa comunitaria tesa a creare uno ” spazio giuridico comune europeo.
c) E’ solo nell’evidente opacità di tale disegno riformistico che possono comprendersi le deludenti proposte di modifica del titolo V° della Costituzione : la grande esplosione del fenomeno corruttivo nelle regioni avvenuta nel corso del 2011 aveva fatto sperare in un meditato ripensamento sull’utilità delle regioni o, comunque, sui poteri ad esse conferibili essendo ormai conclamata la dannosità del sistema frettolosamente disegnato con la riforma del titolo V° avvenuta nel 2001 .
Tant’è che il governo Monti, autore del d.l. 174/2012 – che aveva cercato di tamponare le numerose falle apertesi nel sistema con la mai sufficientemente deplorata riforma del 2001- aveva presentato un disegno di legge (A.S.3520) di revisione del titolo V° della Costituzione. L’intervento riformatore si incentrava anzitutto sul principio dell’unità giuridica ed economica della Repubblica come valore fondamentale dell’ordinamento, prevedendo che la sua garanzia, assieme a quella dei diritti costituzionali, costituisse compito primario della legge dello Stato, anche a prescindere dal riparto delle materie fra legge statale e legge regionale.
E’ la cosiddetta clausola di supremazia presente anche in gran parte degli ordinamenti federali. Si tendeva, inoltre, ad impostare il rapporto fra leggi statali e leggi regionali secondo una logica di complementarietà e di non conflittualità, con alcune innovazioni particolarmente incisive. La chiusura anticipata della legislatura aveva impedito l’esame di questo primo fondamentale intervento , al quale ha fatto seguito nella legislatura in corso quello proposto dal Ministro Boschi ed approvato sin qui dal Senato e che appare subito piuttosto debole e contraddittorio: il nuovo art. 117 conferma che “la potestà legislativa è esercitata dallo stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione , nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento dell’unione europea e dagli obblighi internazionali”.
La novità fondamentale è costituita dall’eliminazione della legislazione concorrente con riattribuzione alla competenza legislativa esclusiva dello Stato di diverse materie quali quelle relative alla regolamentazione del procedimento amministrativo, della disciplina giuridica del lavoro alle dipendenze delle Pubbliche amministrazioni, della previdenza complementare ed integrativa, del commercio con l’estero, della valorizzazione (oltrechè tutela) dei beni culturali e paesaggistici , dell’ordinamento delle professioni e della comunicazione, della produzione, trasporto e distribuzione nazionali dell’energia, delle infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse nazionale e relative norme di sicurezza; dei porti ed aeroporti di interesse nazionale ed internazionale .
Tuttavia una sorta di legislazione di fatto “concorrente” riaffiora nella previsione di una competenza legislativa statale relativa a disposizioni generali e comuni per la tutela della salute ; per la sicurezza alimentare e per la tutela e sicurezza sul lavoro; sull’istruzione; sulle attività culturali e sul turismo; sul governo del territorio nonché disposizioni di principio sulle forme associative dei comuni.
Ex averso alle regioni resta confermata una potestà legislativa residuale in ogni materia non espressamente riservata alla competenza esclusiva dello Stato ma anche “in materia di rappresentanza in Parlamento delle minoranze linguistiche, di pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, di dotazione infrastrutturale di programmazione ed organizzazione dei servizi sanitari e sociali, di promozione dello sviluppo economico locale ed organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese; salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche , in materia di servizi scolastici, di istruzione e formazione professionale, di promozione del diritto allo studio, anche universitario, di disciplina, per quanto di interesse regionale, delle attività culturali, della promozione dei beni ambientali, culturali e paesaggistici, di valorizzazione ed organizzazione regionale del turismo..”.
Viene poi sì positivizzata la “clausola di interesse nazionale” secondo cui “Su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica od economica della Repubblica , ovvero la tutela dell’interesse nazionale”, ma si apprende dall’art.38, co.11 che detta disposizione ( in uno a quelle del capo quarto, recante modifiche al titolo quinto della Costituzione) non si applicano alle regioni a statuto speciale “ fino all’adeguamento dei rispettivi statuti sulla base di intese con le medesime regioni e provincie autonome” (!)
Davvero poco dopo tutti gli scandali degli ultimi anni ; verrebbe da dire molto fumo e poco arrosto: lungi dal realizzare un sistema istituzionale snello ed efficiente, la riforma attualmente all’esame della Camera introduce meccanismi legislativi complessi , mantiene in vita sul territorio l’intero costoso apparato multilivello di governo e la diarchia fra stato e regioni, non consente anche per l’avvenire alcuna seria spending review nei confronti delle autonomie locali e regionali e dei rispettivi enti strumentali che rimangono sostanzialmente intonsi dimenticando che solo nel 2014 con un D.M. emanato il 10 luglio recante “ la ristrutturazione dei debiti delle regioni” lo Stato si è accollato oltre 16 miliardi di debiti ordinari e oltre due miliardi di dollari in derivati.
Allora se le cose stanno come testè descritte (si attendono smentite) senza voler passare per “gufi” forse vale la pena di attendere tempi migliori per dare vita ad un’importante riforma della Costituzione che, certo, non può essere modificata ad ogni cambio di maggioranza!
Probabilmente si potrebbe parafrasare il pensiero espresso nell’articolo “Torniamo allo Statuto” pubblicato il 1º gennaio 1897 nella rivista Nuova Antologia. Ne fu autore il deputato della Destra storica Sidney Sonnino (già ministro e futuro Presidente del Consiglio del Regno d’Italia) che con tale scritto denunciò l’inefficienza delle istituzioni e le reciproche ingerenze dei poteri fra governo e Parlamento.
Abbiamo visto, infatti, negli ultimi anni troppe riforme indecorose delle Istituzioni e dell’amministrazione per non invocare una pax augustea e un ritorno alla Costituzione del 1948 non perché essa non necessiti di qualche aggiustamento, ma perché nell’attuale momento storico e culturale è meglio evitare di intaccare maldestramente preziosi e delicati meccanismi istituzionali.
La storia ultracentenaria della Costituzione americana dovrebbe insegnare qualcosa!
(*) Procuratore regionale della Corte dei Conti.