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Articoli e note

n. 7-8/2006

FRANCESCO VOLPE
(Straordinario di diritto amministrativo nella
Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Padova)

Nuove riflessioni sul regime del contributo
unificato nel processo amministrativo

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La legge 4 agosto 2006, n. 248, di conversione del d.l. 2 luglio 2006, n. 223, ha portato alcune modificazioni alla nuova disciplina del contributo unificato, qual è dovuto per le controversie amministrative.

Questo è dunque il nuovo regime, così come stabilito dall'art. 21, comma IV, del citato decreto: «Per i ricorsi proposti davanti ai Tribunali amministrativi regionali e al Consiglio di Stato il contributo dovuto è di euro 500; per i ricorsi previsti dall'articolo 21-bis della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, per quelli previsti dall'articolo 25, comma 5, della legge 7 agosto 1990, n. 241, per i ricorsi aventi ad oggetto il diritto di cittadinanza, di residenza, di soggiorno e di ingresso nel territorio dello Stato e per i ricorsi di esecuzione della sentenza o di ottemperanza del giudicato il contributo dovuto è di euro 250. L'onere relativo al pagamento dei suddetti contributi è dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si è costituita in giudizio. Ai fini predetti, la soccombenza si determina con il passaggio in giudicato della sentenza. Non è dovuto alcun contributo per i ricorsi previsti dall'articolo 25 della citata legge n. 241 del 1990 avverso il diniego di accesso alle informazioni di cui al decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 195, di attuazione della direttiva 2003/4/CE sull'accesso del pubblico all'informazione ambientale».

La più significativa novità è senza dubbio l'abolizione dell'ulteriore balzello, pari a 250 euro, originariamente previsto per le domande cautelari. Per alcune tipologie di controversie, il contributo dovuto è dimezzato. Il legislatore ha così inteso favorire l'accesso alla giustizia amministrativa da parte di alcuni soggetti ritenuti «deboli».

Restano, non di meno, immutati i dubbi di fondo che già erano sorti in occasione dell'emanazione del decreto legge. Al di fuori delle eccezioni indicate dal nuovo testo di legge, il contributo, infatti, rimane indifferenziato e costante, indipendentemente dal tipo di controversia. Sicché ci si continua a chiedere perché mai una controversia di carattere patrimoniale, dal valore facilmente individuabile (come potrebbe essere ad esempio quella relativa alla quantificazione degli oneri di urbanizzazione) debba essere assoggettata ad un contributo fisso, sol per il fatto che essa ricade nella giurisdizione esclusiva e non è devoluta, invece, al giudice ordinario.

Ma queste considerazioni sono già state ampiamente affrontate in altre sedi. È, dunque, inutile tornarvi.

In questa sede, invece, vorrei richiamare l'attenzione su altra novità del testo convertito.

Nello stabilire infatti che «l'onere relativo al pagamento dei suddetti contributi è dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si è costituita in giudizio. Ai fini predetti, la soccombenza si determina con il passaggio in giudicato della sentenza» sembra che la legge di conversione abbia derogato alla regola espressa dagli artt. 91 e 92 del codice di procedura. Vi sarebbe cioè una parte delle spese giudiziali, quella relativa al pagamento del contributo unificato, che segue rigidamente e automaticamente il criterio della soccombenza, anche quando il giudice ritenga equo compensare le restanti.

In un certo senso, occorre riconoscere che il legislatore ha cercato di rimediare ad una sostanziale iniquità che si era verificata al momento in cui si era passati dal sistema della bollatura (calcolata sul numero delle pagine, delle righe per pagina e delle sillabe per riga) a quello del contributo unificato.

Infatti, vigendo il precedente sistema e in caso di compensazione delle spese di giudizio, venivano compensate anche le spese di bollo, perché già anticipate da ciascuna delle parti nei limiti in cui essa riteneva sufficiente la propria attività defensionale. Così, alla parte che aveva introdotto il giudizio restavano accollate (per il caso della compensazione) solo i bolli dovuti per l'iscrizione a ruolo della causa.

Una tale soluzione è stata sovvertita con il passaggio al contributo unificato, perché con esso (e in ipotesi di compensazione) tutte le spese erariali di giustizia hanno finito per gravare sulla sola parte che agisce.

Il che non è cosa giusta, giacché se vi è compensazione vuol dire (o dovrebbe voler dire) che la ha presentato oggettivi aspetti d'incertezza, di talché l'instaurazione della controversia si dimostra cosa non evitabile al fine di risolvere la lite. Perché, dunque, gravare dei costi del contributo unificato solo una delle due parti, quando la fattispecie sostanziale denota aspetti di incertezza tali che solo un giudice ha potuto chiarirli?

Tuttavia, la soluzione al problema, resa dalla legge di conversione, lascia spazio ad ulteriori, non favorevoli, considerazioni.

Innanzitutto, ci si potrebbe chiedere: perché limitare tale previsione al solo giudizio amministrativo? Se l'automatico aggravio del contributo unificato sulla parte soccombente trova spiegazione nei rilievi appena esposti, la misura dovrebbe essere estesa anche al processo civile. Se, invece, la previsione vuole essere una sorta di ristoro per la maggiorazione (e la indifferenziazione) del contributo unificato dovuto per le sole controversie amministrative, allora si torna daccapo: perché solo per le cause al T.A.R. è previsto tale, più oneroso, regime?

In secondo luogo, se era ingiusto prima, in caso di compensazione delle spese, addossare l'intero contributo unificato al ricorrente vittorioso, allo stesso modo oggi è ingiusto, in uguale ipotesi, imporlo per intero alla parte soccombente. Infatti, tale compensazione dimostra che tutte le parti hanno avuto buone ragioni per affrontare un giudizio o per resistervi. Non sarebbe più giusto, allora, ripartire il valore del contributo unificato tra tutte costoro?

Questi, tuttavia, possono ancora essere considerati rilievi di dettaglio. Si sa, d'altronde, che la giustizia umana non può essere sempre precisissima.

Vengo invece a considerare gli aspetti che a me sembrano più discutibili della novità normativa.

In primo luogo, il diritto della parte vittoriosa al rimborso del contributo versato, dove trova la propria fonte? Intendo dire, la sentenza amministrativa contiene un precetto di condanna (ancorché implicito) sul punto e questa stessa sentenza può, dunque, valere come titolo esecutivo, sì da consentire i rimedi dell'esecuzione civile?

A me pare di no, dal momento che il diritto al rimborso non è conseguenza diretta della sentenza, quanto del suo passaggio in giudicato formale. Di talché tale diritto può essere considerato come un effetto secondario (neppure della sentenza, quanto) dello stesso giudicato formale.

Ciò comporta che il ricorrente vittorioso per far valere il proprio diritto al rimborso del contributo unificato sarà costretto a promuovere un nuovo giudizio, diretto questa volta all'accertamento del medesimo diritto. A tale conclusione non vale opporre che il ricorrente dispone già di un giudicato in tal senso. Infatti, l'oggetto del giudicato (sostanziale) amministrativo non riguarda, in tal caso, la debenza del diritto al rimborso, quanto la controversia a suo tempo introdotta, che è cosa diversa.

Cominciano a questo punto i primi problemi: davanti a quale giudice il ricorrente vittorioso chiederà l'accertamento di tale diritto? Davanti al giudice ordinario (come dovrebbe essere, trattandosi di rapporti patrimoniali) o davanti a quello amministrativo dell'ottemperanza, aderendo all'idea che quest'ultimo sia chiamato a conoscere anche gli effetti secondari e riflessi della sentenza?

Lascio al lettore immaginare la soluzione al problema. Temo, in ogni caso, che essa non potrà essere suggerita dalla giurisprudenza: dubito, infatti, che qualcuno si prenderà l'affanno (che comporta il versamento di un nuovo contributo unificato) d'instaurare un nuovo giudizio per ottenere la restituzione del contributo versato nella precedente causa proposta avanti al T.A.R. Ma proprio questo dimostra come la disposizione sia priva di effettiva applicabilità e, dunque, discutibile nei suoi contenuti.

Né potrebbe sostenersi che una tale, seconda, controversia sia ad esito certo. Questo, infatti, è l'aspetto più marcatamente grossolano del testo di legge: esso ci dice, ai propri effetti, quando si verifica la soccombenza, ma non ci dice in che cosa essa consista.

Non tiene conto, infatti, delle ipotesi di accoglimento (o, all'inverso, di reiezione) parziale del ricorso: perché ad esempio sono annullati solo alcuni degli atti impugnati; oppure perché sono accolti solo alcuni motivi d'impugnazione e respinti gli altri; perché il giudice annulla l'atto ma respinge l'istanza risarcitoria; perché il giudice amministrativo condanna al pagamento di una somma di denaro inferiore a quella richiesta dal ricorrente.

In queste ipotesi, in cui vi è reciproca soccombenza, chi sopporta il costo del contributo unificato? La legge non lo dice, perché neppure considera il caso.

E quando, ai sensi dell'art. 23, legge T.A.R., il giudice amministrativo dichiara il sopravvenuto difetto d'interesse (perché l'Amministrazione ha annullato o riformato l'atto in modo pienamente conforme alle istanze del ricorrente) e provvede sulle spese compensandole, chi ha promosso il ricorso ha diritto al rimborso del contributo? A rigore, il ricorso viene rigettato e dunque il ricorrente risulta essere soccombente; eppure tutte le sue istanze sono state accolte, in sede di formazione della fattispecie sostanziale, ad opera della stessa Amministrazione resistente. Di talché egli si trova in posizione simile a quella in cui egli si sarebbe trovato se il ricorso avesse avuto esito integralmente positivo (Capaccioli, anzi, avrebbe addirittura detto: nella stessa posizione).

Infine, vi è la posizione dei controinteressati: in caso di accoglimento del ricorso, costoro debbono essere considerati soccombenti oppure no? È pacifico che il controinteressato possa impugnare la sentenza di primo grado. Perciò egli va considerato, a questi specifici fini, parte soccombente. Ma ai fini del dovere di rimborsare il contributo unificato, nel giudizio instaurato per ottenere l'annullamento di un atto amministrativo emesso da altri (cioè dall'Amministrazione resistente), egli può dirsi ugualmente «soccombente»? E se si, entro che limiti e in che modo egli sarà tenuto a tale rimborso? In via solidale con l'Amministrazione resistente oppure per la sua parte? E in quest'ultimo caso, come determinare questa parte? Anche a questo proposito la legge in esame nulla dice.

Si potrebbe continuare a lungo, esercitandosi in questa ricerca sui problemi applicativi della nuova norma: non sarebbe un compito troppo difficile. Ma a quel punto qualcuno opporrebbe che un tale dispendio di energie dovrebbe essere dedicato a miglior Perciò a tanto mi limito.

A mio parere, tuttavia, quanto illustrato è già sufficiente a dimostrare l'inadeguatezza della norma che, modificando altra disposizione essa stessa già mal fatta, convince che meglio sarebbe stato non toccare nulla sin dall'inizio.

 

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Documenti correlati:

LEGGE 4 agosto 2006, n. 248 (in G.U. n. 186 dell'11 agosto 2006 - Suppl. Ord. n. 183) - Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 ... (con in calce il testo coordinato).

DECRETO-LEGGE 4 luglio 2006, n. 223 (in G.U. n. 153 del 4 luglio 2006) - Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale.

Per un commento dell'art. 21 del d.l., che prevede un contributo di 500 euro per i ricorsi al TAR ed al CdS e di 250 euro per le istanze di sospensione, clicca qui.

F. VOLPE, Un contributo per una giustizia che spesso non c'è.


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