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GIOVANNI VIRGA

Prime considerazioni sulle modifiche che il d.d.l. approvato 
dal C.d.M. il 15.11.1999 intende apportare alla legge n. 241/90

1.- Le modifiche che si intendono apportare alla L. n. 241/1990.

Dopo alcune anticipazioni apparse nei quotidiani, finalmente è noto il testo del disegno di legge contenente norme in materia di semplificazione varato dal Consiglio dei Ministri il 15 novembre 1999 e trasmesso il successivo 1° dicembre alla Camera dei Deputati per l’esame.

Il disegno di legge in questione, oltre ad introdurre varie modifiche alle recenti norme in materia di autocertificazione, estendendo in particolare l'applicazione delle norme stesse anche al settore privato (v. art. 2 del ddl), contiene alcune norme che intendono modificare ed integrare la legge n. 241/90.

Più precisamente le modifiche ed integrazioni della legge n. 241/90 riguardano:

a) la disciplina in atto prevista in materia di motivazione dei provvedimenti amministrativi (art. 6 del ddl);

b) le norme in materia di partecipazione al procedimento amministrativo (art. 7);

c) le modalità di svolgimento della conferenza di servizi (artt. 8-11);

d) i mezzi di tutela del diritto di accesso agli atti amministrativi (art. 13).

Si tratta di modifiche di non poco momento, che vanno adeguatamente esaminate. Se è vero infatti che la legge n. 241/90 è da concepire come lo “Statuto fondamentale dei cittadini” [1]  e se è vero anche che, mediante essa, si è attuata una vera e propria “rivoluzione copernicana” nei rapporti tra cittadini e amministrazioni [2] che ha configurato il diritto di partecipazione alla funzione amministrativa quale contenuto di una “nuova cittadinanza sociale” [3], e che, addirittura, la legge n. 241/1990 sarà tra cent’anni ricordata nei manuali di diritto amministrativo così come oggi noi ricordiamo la Costituzione e lo Statuto Albertino [4], le modifiche che si intendono ora apportare, a dieci anni di distanza,  non possono sottrarsi ad un attento vaglio preventivo non solo da parte del Consiglio di Stato, ma anche dei cultori di diritto amministrativo.

La velocità con la quale viaggiano le informazioni tramite Internet consente infatti di formulare alcuni primi rilievi sulle norme che si intendono approvare, sui quali spero si animerà presto un dibattito.

Il compito dei giuristi, grazie alle moderne tecnologie telematiche, viene infatti a mutare; questi ultimi non sono sono più costretti - come in passato accadeva, per il ritardo con il quale i tradizionali strumenti di informazione cartacei  davano le notizie -  a commentare norme ormai pubblicate nella Gazzetta Ufficiale, ma possono fattivamente contribuire, con le loro osservazioni, anche alla discussione (e magari al perfezionamento) di norme che debbono ancora essere approvate nelle competenti sedi parlamentari.

La disamina  nella specie si limiterà alle modifiche che si intendono apportare alla disciplina della motivazione dei provvedimenti, a quelle concernenti la disciplina della partecipazione, nonché alla norma che intenderebbe introdurre una nuova forma di tutela del diritto di accesso, mentre - per motivi di tempo - non si occuperà delle profonde modifiche che si intendono introdurre in materia di conferenze di servizi, sulle quali spero che interverrà presto qualche lettore.

 

2.- Le modifiche alla disciplina della motivazione dei provvedimenti amministrativi.

Per ciò che concerne la motivazione dei provvedimenti amministrativi, l’art. 6 del ddl prevede  che il comma 3° dell'articolo 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241, dovrà essere sostituito dal seguente: "3. L'obbligo della motivazione è assolto quando la finalità perseguita dall'atto e le ragioni che ne hanno determinato l'adozione sono chiaramente desumibili dal contesto dell'atto stesso o da altro atto richiamato. In tale ultimo caso, insieme alla comunicazione del provvedimento, deve essere indicato e reso disponibile anche l’atto cui il provvedimento si richiama".

Si tratta di una disposizione che finisce per ricalcare in parte il dettato originario del comma 3°, stabilendo in particolare che, nell’ipotesi di motivazione ob relationem, assieme alla comunicazione del provvedimento, deve essere “indicato e reso disponibile” anche l’atto al quale il provvedimento fa rinvio.

Dall’esame del dettato letterale della disposizione - specie nella parte in cui, da un lato, parla di “comunicazione del provvedimento” finale e, dall’altro, per ciò che concerne gli atti richiamati, stabilisce che gli atti stessi debbono essere solo “indicati” - sembrerebbe che nell’ipotesi considerata l’Amministrazione possa limitarsi ad indicare l’atto richiamato, mentre l’interessato, per conoscere la motivazione, debba presentare una domanda di accesso all’atto stesso, che dovrà solo essere reso “disponibile” dall’Amministrazione stessa.

La disposizione in parola finisce così per avallare ancora un discutibile modus procedendi di molte amministrazioni, le quali, nel fare rinvio a pareri o ad altri atti dai quali si ricava la motivazione, non comunicano gli atti richiamati assieme al provvedimento finale [5]; di guisa che il cittadino interessato deve presentare domanda di accesso agli atti in questione per comprendere le ragioni giuridiche e, talvolta, gli stessi presupposti di fatto, che hanno indotto l’Amministrazione ad adottare una certa determinazione finale. 

Né la previsione di un obbligo per la P.A. non solo di indicare, ma anche di rendere disponibile l’atto richiamato, ove la si intenda nel senso di impossibilità di opporsi alla domanda di accesso che dovrà presentare il privato, è particolarmente innovativa. Anche in atto, senza alcuna modifica legislativa, non si dubita del fatto che, nel caso di motivazione ob relationem, la P.A. sia tenuta a rilasciare copia del provvedimento richiamato, il quale, per effetto del richiamo, non può considerarsi segreto.

Piuttosto che continuare ad avallare la corrente prassi con una norma di legge, sarebbe stato preferibile stabilire chiaramente che, tutte le volte in cui un provvedimento amministrativo recettizio faccia rinvio, per ciò che concerne la motivazione, ad alcuni atti del procedimento, questi ultimi debbono essere comunicati (e non semplicemente “indicati”) all’interessato stesso, assieme al provvedimento finale.

L’art. 6 del ddl, inoltre, non si occupa del  problema connesso alla decorrenza dei termini d’impugnazione. Secondo l’orientamento tradizionale della giurisprudenza, infatti, perché  decorra tale termine è sufficiente che il provvedimento finale sia comunicato all’interessato e quest’ultimo sia in grado di apprezzarne la portata lesiva, non essendo necessario che abbia conosciuto anche gli atti ai quali sia stato fatto rinvio, anche per ciò che concerne la motivazione [6].

Ora, l’art. 6 del ddl, nel limitarsi a prevedere che nel caso di motivazione ob relationem la P.A. è tenuta ad “indicare e rendere disponibili” gli atti richiamati, senza nulla prevedere in ordine alla decorrenza del termine d’impugnazione, finisce per continuare a costringere il ricorrente a proporre il ricorso “al buio”, dato che nel breve lasso di tempo concesso per la proposizione del ricorso, l’interessato molto spesso non ha modo di ottenere copia degli atti richiamati (specie nelle materie dell’espropriazione per p.u. e degli appalti di oo.pp., nelle quali ormai i termini per ricorrere sono dimezzati e finiscono per coincidere col termine ordinariamente previsto per il rilascio di copia dei documenti). Si continuano così a produrre i perversi effetti di quel che è stato efficacemente definito [7] come il frazionamento “improprio” della domanda.

La situazione odierna non sembra molto cambiata rispetto a quella già descritta da Sorrentino nel 1963, nella relazione introduttiva che quest’ultimo tenne in occasione del IX Convegno di Varenna sui «problemi del processo amministrativo» [8]; nella relazione si evidenziava infatti «l’abitudine di molte pubbliche amministrazioni di non dare comunicazione alle parti, quanto meno integrale, dei provvedimenti che pure direttamente le riguardano. Non parliamo poi degli atti del procedimento che, salve rare eccezioni ... restano circondati dal più geloso segreto di ufficio».

Se il legislatore deciderà di avallare la ricordata prassi della semplice “indicazione” degli atti ai quali la motivazione fa rinvio per relationem, sarebbe opportuno almeno precisare che il termine d’impugnazione, in tali ipotesi, decorrerà solo dal momento in cui verranno rilasciati (rectius: verranno effettivamente “resi disponibili”) gli atti “indicati” nel provvedimento finale attraverso i quali è possibile individuare la motivazione.

La trasparenza dell’Amministrazione pubblica non consiste infatti solo nel rendere accessibili gli atti, ma anche nel rendere possibile all’interessato di comprendere - entro i termini fissati per l’impugnazione - i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno indotto l’Amministrazione ad adottare una certa determinazione finale [9]. In mancanza di tale possibilità, il termine d’impugnazione (anche ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost.) non può evidentemente decorrere.

Interessante infine notare che, per ciò che concerne la individuazione della nozione di motivazione, si fa riferimento alla “finalità perseguita dall'atto e le ragioni che ne hanno determinato l'adozione”, seguendo un criterio finalistico che, come vedremo, trova maggiori applicazioni nelle successive disposizioni.

In particolare, il riferimento solo alle “ragioni” (giuridiche) ed alle “finalità” dell’atto, sembra scarsamente coordinato con la definizione che l’art. 3, 2° comma, della L. n. 241/90 dà alla motivazione, la quale, com’è noto è costituita non solo dalle ragioni giuridiche ma anche dai presupposti di fatto del provvedimento finale, in relazione alle risultanze dell’istruttoria; e tali presupposti di fatto possono risultare, a loro volta, da vari atti sinteticamente richiamati nel contesto del provvedimento finale.

Onde non si comprende come possa prevedersi che “l'obbligo della motivazione è assolto quando la finalità perseguita dall'atto e le ragioni che ne hanno determinato l'adozione sono chiaramente desumibili dal contesto dell'atto stesso o da altro atto richiamato” senza fare riferimento anche ai presupposti di fatto che, ai sensi del 2° comma dello stesso art. 3, costituiscono parte integrante della motivazione.

 

3.- La novella riguardante la disciplina in materia di partecipazione al procedimento.

Per ciò che concerne invece le norme di cui al Capo III della L. n. 241/90, l’articolo 7 del ddl prevede che all'articolo 7 della legge 7 agosto 1990, n. 241, dovrà essere aggiunto in fine il seguente comma: "2.bis- La mancata comunicazione dell'avvio del procedimento, di cui al comma 1, non determina l'illegittimità del provvedimento adottato in esito a detto procedimento se quest'ultimo è stato avviato su istanza del destinatario della comunicazione e non vi sono altri titolari del diritto alla comunicazione medesima, ovvero se detti titolari hanno comunque avuto conoscenza del procedimento e dei suoi contenuti essenziali, ovvero se l'amministrazione è vincolata, in presenza di determinate circostanze, ad adottare il provvedimento ed è accertato che i destinatari della comunicazione non avrebbero comunque potuto fornire alcun utile contributo all'istruttoria, neppure con riguardo all'esatta rappresentazione dei fatti”.

La disposizione finisce per recepire alcuni degli orientamenti espressi dalla giurisprudenza in materia di partecipazione, tutti tesi a limitare i casi  in cui è necessaria la comunicazione di avvio del procedimento e ad evitare, in tal modo, l’annullamento del provvedimento finale per l'omissione di detta comunicazione [10].

In particolare, la disposizione in parola, stabilendo che la mancata comunicazione dell’avvio del procedimento “non determina l'illegittimità del provvedimento adottato in esito a detto procedimento se quest'ultimo è stato avviato su istanza del destinatario della comunicazione e non vi sono altri titolari del diritto alla comunicazione medesima …”; finisce per recepire in parte l'orientamento più volte espresso in giurisprudenza in base al quale non occorre di regola avviso nel caso di procedimento iniziato ad istanza di parte.

L'orientamento in discorso, per la verità, si basa su una semplice (e direi anche semplicistica) considerazione: se l’interessato ha presentato una domanda sulla base della quale viene poi iniziato il procedimento, non c’è bisogno ed è superfluo avvisarlo dell’inizio del procedimento stesso, dato che - attraverso la sua domanda - già è in grado di prevederne l’inizio.  Ma, come chi scrive ha già avuto modo di osservare [11], molto spesso l’inizio del procedimento non sempre è così automatico e, comunque, il procedimento iniziato prendendo spunto della istanza dell’interessato può anche avere un oggetto più ristretto o più lato di quello proposto con l’istanza stessa.

La norma, così com’è formulata, potrebbe inoltre essere intesa nel senso che l’avviso di inizio del procedimento può essere omesso nei confronti di colui che ha presentato la istanza solo nel caso in cui non ci siano altri interessati coinvolti dal procedimento. Nel caso invece in cui tale ipotesi non si realizzi (e cioè ci siano degli altri interventori necessari ai quali l’avviso di inizio del procedimento si debba comunicare), l’avviso stesso deve essere inviato, oltre che agli interventori necessari, anche a colui che ha presentato l’istanza. Il che dà luogo a risultati incongrui rispetto alla finalità che sembra ispirare la norma e rende necessaria una modifica della sua formulazione.

Interessante è la previsione che non occorre comunicazione dell’inizio del procedimento nel caso in cui i c.d. interventori necessari (rectius: i “titolari del diritto alla comunicazione”) “hanno comunque avuto conoscenza del procedimento e dei suoi contenuti essenziali”.

Si finisce così per recepire l’orientamento che utilizza il criterio del raggiungimento dello scopo per determinare i casi in cui è necessario l’avviso di inizio del procedimento.

Quella del raggiungimento dello scopo è una regola già presente da tempo in varie norme del nostro ordinamento (v. per tutte l’art. 156, 3° comma, c.p.c., il quale stabilisce in generale che la nullità dell’atto non può essere pronunciata se l’atto stesso ha comunque raggiunto lo scopo a cui è destinato), che è stata impiegata specie negli ultimi tempi dalla giurisprudenza amministrativa in svariate occasioni [12] e che, con la previsione in discorso, verrebbe esplicitamente estesa al procedimento amministrativo.

Sotto questo profilo, la previsione stessa è innovativa e sembra anche pienamente condivisibile, consentendo di evitare l’annullamento dell’atto finale nei casi in cui l’interessato che ha denunciato l’omissione della comunicazione di avvio, abbia dimostrato, attraverso il proprio comportamento concludente (ad esempio nel caso in cui l'interventore necessario abbia partecipato ad un sopralluogo indetto nel corso del procedimento), di avere comunque avuto conoscenza dell’inizio del procedimento e “dei suoi contenuti essenziali”.

Rimane da chiarire se i contenuti essenziali ai quali fa riferimento la disposizione in parola sono tutti quelli elencati dall’art. 8 della L. n. 241/90 per l'avviso di inizio del procedimento, ovvero se  sia sufficiente ritenere che essi siano costituiti solo dalla conoscenza dell’oggetto del procedimento e dell’Autorità procedente, non essendo altresì necessaria la conoscenza anche del nominativo del responsabile del procedimento e dell’ufficio in cui si può prendere visione degli atti; quest’ultima soluzione esegetica sembra preferibile, dato che la conoscenza degli ultimi due elementi indicati non appare essenziale, potendo ben essere acquisita dell’interessato impiegando l’ordinaria diligenza.

Essenziale appare invece la esistenza di atti univoci e concludenti dai quali comunque si possa logicamente desumere che l’interessato ha avuto conoscenza dell’oggetto del procedimento e del suo oggetto; occorre inoltre, com’è ovvio, che tale conoscenza risalga ad un momento in cui era possibile partecipare effettivamente al procedimento.

E’ da notare infine che, con la disposizione in parola, si intende utilizzare il criterio del raggiungimento dello scopo nella accezione più semplice (e cioè ritenendo che non occorre  avviso di inizio del procedimento nel caso in cui l’interessato abbia avuto comunque conoscenza dell’avvio del procedimento), mentre non si è ritenuto di utilizzarlo nella versione più complessa (e cioè affermando che comunque non può farsi luogo all’annullamento del provvedimento finale nel caso in cui l’interventore necessario pretermesso non dimostri il tipo di interesse che intendeva far valere nel procedimento e che nel procedimento stesso comunque non è stato valutato).

Se scopo infatti delle norme in materia di partecipazione è quello di consentire all’interessato non solo di avere notizia del procedimento, ma soprattutto quello di partecipare ad esso fattivamente, facendo valere un interesse che va adeguatamente valutato in concorso con tutti gli altri interessi pubblici e privati coinvolti, non si vede perché non debba essere prevista una regola che impedisca di ottenere l’annullamento del provvedimento finale in assenza anche di una dimostrazione dell’interesse che si sarebbe voluto far valere nel procedimento.

Non a caso in altri ordinamenti (come ad esempio quello tedesco) in cui la disciplina del procedimento è più articolata e completa, è stato previsto che non può essere pronunciato l’annullamento di un atto affetto da vizi procedimentali nell’ipotesi in cui nessun’altra statuizione di merito, diversa da quella in concreto adottata, sarebbe stata possibile nella specie (v. in tal senso il paragrafo 46 della legge tedesca sul procedimento del 25 maggio 1976 [13].

Le modifiche che si intendono apportare alla legge sul procedimento italiana potrebbero quindi costituire l’occasione per l’introduzione di una simile regola, sia pur riferita alla determinazione delle ipotesi in cui l’omissione dell’avviso di inizio del procedimento può dar luogo all’annullamento dell’atto.

Un primo passo in questo senso sembra essere costituito dalla regola, contenuta nella norma in discorso ma riferita solo ai procedimenti di carattere vincolato, secondo cui l’omissione di avviso del procedimento non può dar luogo all’annullamento dell’atto “se …è accertato che i destinatari della comunicazione non avrebbero comunque potuto fornire alcun utile contributo all'istruttoria, neppure con riguardo all'esatta rappresentazione dei fatti”.

Non si vede perché tale regola (prevista esplicitamente per i procedimenti tendenti all’adozione di atti vincolati) non possa essere estesa, con gli opportuni adattamenti, anche i procedimenti finalizzati all’adozione di atti discrezionali, prevedendo in tal caso che l’annullamento dell’atto finale non potrà essere pronunciato nel caso in cui l’interventore necessario pretermesso non alleghi anche il tipo di interesse che avrebbe fatto valere nel procedimento e che comunque non è stato preso in considerazione dall'Amministrazione procedente.

Non ha senso prevedere per i soli procedimenti di carattere vincolato che l’omissione non può essere disposta “se …è accertato che i destinatari della comunicazione non avrebbero comunque potuto fornire alcun utile contributo all'istruttoria, neppure con riguardo all'esatta rappresentazione dei fatti” e non stabilire analoga regola per i procedimenti di carattere discrezionale, sia pur con i necessari adattamenti che derivano dalla diversa natura del procedimento.

E’ comunque motivo di soddisfazione constatare che alcuni orientamenti espressi dalla giurisprudenza ed in dottrina (v. per tutti A. Romano Tassone, Contributo in materia di regolarità degli atti amministrativi), tendenti a limitare la rilevanza dei vizi formali del procedimento, comincino adesso, sia pure parzialmente, a farsi strada nella legislazione.

 

4. La previsione di una nuova forma di tutela del diritto di accesso.

Omettendo, per i motivi prima detti, l'esame delle rilevanti modifiche che si intendono apportare alla disciplina della conferenza di servizi (con gli artt. 8-11 del ddl), rimangono le modifiche che ci si propone di introdurre in materia di tutela del diritto di accesso.

Dispone in proposito l’art.  13 del d.d.l. che: Il comma 4 dall'articolo 25 della legge 7 agosto 1990, n. 241 è sostituito dal seguente: "4. Trascorsi inutilmente trenta giorni dalla richiesta, questa si intende respinta. In caso di rifiuto, espresso o tacito, o di differimento ai sensi dell'articolo 24, comma 6, dell'accesso, il richiedente può presentare ricorso al TAR ai sensi del comma 5, ovvero chiedere, nello stesso termine, al Difensore civico competente che sia riesaminata la suddetta determinazione. Se il Difensore civico ritiene illegittimo il diniego o il differimento, lo comunica a chi l'ha disposto. Se questi non emana il provvedimento confermativo motivato entro trenta giorni dal ricevimento della comunicazione dei difensore civico, l'accesso è consentito. Qualora il richiedente l'accesso si sia rivolto al Difensore civico, il termine di cui al comma 5 decorre dalla data del ricevimento, da parte del richiedente, dell'esito della sua istanza al Difensore civico.".

Si prevede quindi, in alternativa al ricorso al TAR già disciplinato dall’art. 25, comma 5°, della L. n. 241/90, un ricorso al Difensore civico; quest'ultimo, se riterrà illegittimo il diniego o il differimento di accesso, lo comunicherà a chi l'ha disposto; si prevede altresì una sorta di silenzio-assenso, disponendosi che, decorsi 30 giorni dalla data di comunicazione della decisione del Difensore civico di accoglimento del ricorso senza che l’Amministrazione emetta un “provvedimento confermativo motivato”, “l'accesso è consentito”.

La disposizione tuttavia suscita perplessità nella parte in cui finisce per non prevedere forme di coercizione per assicurare l’esecuzione del silenzio-assenso, ma soprattutto nel prevedere che la decisione di accoglimento del Difensore civico può essere facilmente posta nel nulla con la emissione di un provvedimento confermativo motivato da parte dell’Amministrazione interessata.

Preferibile sarebbe invece prevedere, nel caso in cui il Difensore civico ritenga fondata la pretesa del ricorrente, l'onere dell’Amministrazione  di proporre ricorso ex art. 25, 5° comma al TAR, ove ritenga di non doversi conformare alla decisione del Difensore.

Il vizio di fondo della disposizione è, a ben vedere, quello di rimettere la decisione del ricorso del privato ad un organo, qual è il difensore civico, che la disposizione stessa finisce implicitamente per con considerare imparziale.

Qui, infatti, le alternative sono due: o il Difensore è da considerare un arbitro tra le parti, ed in tal caso la sua decisione non dovrebbe essere messa di nuovo in discussione dall’Amministrazione con un mero provvedimento confermativo, sia pure motivato, ma andrebbe più propriamente impugnata da quest’ultima nelle competenti sedi giudiziarie; ovvero il Difensore civico non è arbitro e comunque non è imparziale, ed allora non si vede a quale titolo emetterà la decisione.

L’attuale disposizione del d.d.l., così com’è congegnata, finisce comunque per prevedere una procedura abbastanza complessa e che, proprio per tale sua complessità, probabilmente sarà scarsamente utilizzata, dato che nel caso di diniego di accesso l’interessato preferirà adire direttamente il TAR ex art. 25, 5° comma, piuttosto che affidarsi alla decisione del Difensore civico, che può essere messa nel nulla da un semplice provvedimento confermativo motivato dell’Amministrazione. Inoltre, anche nell’ipotesi in cui tale provvedimento non venga emesso e si sia quindi formato il silenzio-assenso, per ottenere l’esecuzione della decisione del Difensore civico occorrerà sempre rivolgersi al TAR.  Tanto vale, quindi, proporre direttamente ricorso al TAR.

Se, viceversa, si vuole creare uno strumento di tutela preventiva agile e non costoso, il cui utilizzo non comporta il patrocinio di un avvocato, si dovrebbe prevedere invece che la decisione dell’organo a cui spetta emetterla (che nella specie è stato individuato nel Difensore civico, ma che potrebbe essere anche altro organo che, per funzioni e mentalità, sia ritenuto eventualmente più imparziale di quest’ultimo) non può essere messa nel nulla con un semplice provvedimento confermativo, sia pur motivato, ma deve essere eseguita dall’Autorità amministrativa interessata, la quale può rifiutarsi di ottemperare ad essa solo proponendo avverso di essa un ricorso al TAR.

Per assecondare sempre più sentite tendenze deflattive del contenzioso innanzi agli organi giurisdizionali, potrebbe essere altresì previsto che il ricorso al TAR ex art. 25, 5° comma, è proponibile solo dopo aver adito il Difensore civico od altro organo chiamato a dirimere in via preventiva le controversie in materia di diritto di accesso.

La disposizione in parola, inoltre, continua ad ignorare il problema della decorrenza dei termini di impugnazione.

La previsione di uno strumento amministrativo di risoluzione delle controversie in tema di accesso agli atti amministrativi non può essere disgiunta infatti da una adeguata disciplina in materia di decorrenza dei termini d’impugnazione; in caso contrario l’interessato, il quale magari ha presentato la domanda di accesso non solo per curare ma anche per difendere i propri interessi, e cioè per valutare l'eventuale fondatezza di una impugnativa del provvedimento finale, si trova nella seguente alternativa: o proporre comunque ricorso “al buio”, perpetuando la pratica già descritta da Sorrentino  nella richiamata relazione del 1963 ed analizzata da Mignone nel 1984 del frazionamento "improprio" della domanda, ovvero attendere fiducioso la conclusione della articolata procedura prevista per la tutela del diritto di accesso dalla nuova disposizione, con il rischio molto reale di vedere trascorrere inutilmente il termine d’impugnazione. 

E’ una alternativa questa che imponendo all’interessato, per ragioni di cautela, la scelta della prima opzione (e cioè la proposizione del ricorso “al buio”), sembra addirittura anacronistica alle soglie del 2000 e non tiene conto né della posizione del titolare dell'interesse legittimo eventualmente leso, il quale ha diritto di valutare preventivamente ed in modo pieno la eventuale fondatezza della sua pretesa, anche attraverso la tempestiva conoscenza degli atti del procedimento,  né dell’interesse pubblico ad una riduzione dell’ormai imponente contenzioso, che richiede l'adozione di adeguati mezzi preventivi di tutela, i quali finiscono per avere un effetto deflattivo solo se sono ben congegnati. 

Così non è avvenuto nei fatti per ciò che concerne le controversie in materia di pubblico impiego (dato che il tentativo preventivo di conciliazione, così come in atto è previsto, non funziona) e così sembra che non avverrà (salve eventuali modifiche che verranno introdotte in sede parlamentare) per ciò che concerne il ricorso al Difensore civico previsto dal ddl in esame in materia di accesso. 

 

 

[1] Cfr. sul punto F. Patroni Griffi, La l. 7 agosto 1990 n. 241 a due anni dalla data di entrata in vigore. Termini e responsabile del procedimento; partecipazione procedimentale, in Foro It. 1993, III, 65 ss.

[2] V. in questo senso G. Alpa, La persona tra cittadinanza e mercato, Milano 1992, p. 39 e F. Frattini, Una rivoluzione normativa ormai quasi compiuta, ma resta il problema dell’applicazione reale, in Guida Normativa, ottobre 1995, p. 4.

[3] Sul punto in questo senso v. Dalfino e Pacione, Basi per il diritto soggettivo di partecipazione, in Foro it. 1992,V, 378 ss. nonchè in AA.VV., Le trasformazioni del diritto amministrativo, Milano 1995, p. 111 ss., spec. a p. 112.

[4] N. Rongari, Le tappe della deregulation, in Il Sole 24 Ore, 30 settembre 1991, che attribuisce la paternità della affermazione a S. Cassese.

[5]  Su tale prassi ed in generale sulla generale problematica della motivazione ob relationem dei provvedimenti amministrativi v. la fondamentale monografia di A. ROMANO TASSONE, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, Milano 1987.

[6]  Secondo l'orientamento ormai prevalente, perché la conoscenza possa considerarsi adeguata per la decorrenza del termine d’impugnazione è sufficiente che l’interessato abbia avuto comunicazione o comunque abbia acquisito conoscenza dei semplici estremi dell'atto e della sua lesività, potendo la successiva completa conoscenza dell'atto stesso giustificare al più la proposizione di un ricorso per motivi aggiunti. Secondo questo orientamento, quindi, tra gli «elementi essenziali» dell’atto non figurano nè i motivi in base ai quali l’atto stesso è stato emanato, nè comunque tutti gli altri atti ai quali il provvedimento fa espresso rinvio, di guisa che il termine d’impugnazione finisce per decorrere anche nel caso in cui sia stato comunicato all’interessato un provvedimento che fa rinvio ob relationem ad altri atti che contengono la motivazione dello stesso (v. sul punto, in senso fortemente critico, E. Cannada Bartoli, Decorrenza dei termini e possibilità di conoscenza dei vizi, in Foro amm., 1961, I, p. 1086 ss.; M. Colacito, Osservazioni sulla c.d. motivazione per relationem, ivi, 1963, I, p. 665 ss.; P. Stella Richter, L’inoppugnabilità, Milano, 1970, p. 200 ss.; per un giudizio nettamente negativo sulla prassi «larghissimamente ed anzi generalmente ammessa dalla giurisprudenza» della c.d. motivazione ob relationem, v. in particolare A. Romano Tassone, Motivazione dei provvedimenti amministrativi e sindacato di legittimità, cit., p. 387).

Un orientamento minoritario ritiene invece necessaria la conoscenza del contenuto dell'atto stesso e delle sue concrete determinazioni (v. in particolare C.G.A., 25 giugno 1990, n. 212, in Rass. Cons. Stato, 1990, I, p. 917 ed in Giur. amm. sic., 1990, p. 234; Cons. Stato, VI, 20 febbraio 1987, n. 68, in Rass. Cons. Stato, 1987, I, p. 202; V, 28 febbraio 1987, n. 136, ivi, 1987, I, 161; 4 agosto 1986, n. 386, 14 luglio 1986, n. 364; 24 febbraio 1986, n. 132 e 6 novembre 1985, n. 379, ivi, 1986, I, p. 1151, 869, e 181; 1985, I, 1414; per ulteriori riferimenti v. Mignone, I motivi aggiunti nel processo amministrativo, 1984, p. 65 e ss., in part. alle note nn. 55 e 56, nonchè Cassarino, Il processo amministrativo, vol. I, p. 978.), non essendo in particolare sufficiente, per dimostrare l'avvenuta conoscenza di un determinato atto, che in un'esposto siano indicati gli estremi dell'atto, essendo necessario altresì che dal contesto dell'esposto stesso sia possibile desumere che è stato conosciuto anche il contenuto dell'atto lesivo (cfr. T.A.R. Sicilia - Palermo, II, 31 gennaio 1987 n. 163, in Giur. amm. sic., 1987, I, p. 265).

L’orientamento prevalente della giurisprudenza obbliga molto spesso l'interessato a proporre un ricorso «al buio», senza conoscere il contenuto del provvedimento impugnato ed i motivi per i quali potrà ottenere l'annullamento dell'atto e lo costringe, per non incorrere in eccezioni di genericità dei motivi di ricorso, a fare congetture sul contenuto dell'atto stesso e sulle ragioni della sua adozione, salvo, poi, non appena verrà resa nota la motivazione del provvedimento, mutare con il ricorso per motivi aggiunti, la linea difensiva adottata in un primo tempo con il ricorso principale.

La constatazione che l’orientamento della giurisprudenza prevalente in materia di decorrenza di termini per l’impugnazione e la disciplina prevista per la pubblicità degli atti amministrativi costringano spesso il titolare dell’interesse legittimo a proporre un ricorso senza nemmeno conoscere i motivi in base ai quali è stato emanato è diffusa e risalente nel tempo: v. sul punto in particolare U. Fragola, Ricorsi «al buio» e motivi aggiunti, in Nuova Rass., 1961, p. 2281, secondo cui « il ricorso nasce in un’atmosfera di oscurità e di equivocità, perchè il ricorrente ha la sensazione, ma non la certezza, che il procedimento si sia svolto regolarmente» e C. Mignone, I motivi aggiunti nel processo amministrativo, Padova 1984, p. 76, il quale osserva che nel ricorso cosiddetto «al buio» l’oscurità dell’esito è proporzionale al quantum di conoscenza acquisito e definisce tale tipo di ricorso «come il ricorso che occorre inoltrare per sfuggire alla decadenza, nonostante l’atto impugnato riveli, secondo un criterio di misurazione basato sull’intelligenza media - tante probabilità di essere illegittimo quante di essere legittimo, atteso che la finale delibazione della fruttuosità del gravame potrà essere eseguita dal ricorrente solo dopo l’esercizio dell’azione». Ciò ha comportato, com’è stato efficacemente notato dallo stesso A. (op. loc. cit., p. 77), una «traslazione del rischio (ossia dell’incerto) dall’Amministrazione all’amministrato» e la «rottura del legame fra vizio desumibile e vizio deducibile».

[7]  Cfr. MIGNONE, op.loc.cit.

[8]  In Att del Convegno, Milano, 1964, p. 33 ss.

[9]  Per riferimenti v. supra il testo della nota 6.

[10] Sia consentito fare rinvio per una ricognizione di tali orientamenti al mio lavoro “La partecipazione al procedimento amministrativo, Milano 1998, spec. alle pp. 45 ss.

[11] La partecipazione…, cit., p. 34  ss.

[12]  Sia consentito nuovamente far rinvio in proposito al mio lavoro sulla partecipazione al procedimento amministrativo, specialmente alle pp. 111 ss.

[13] Sulla quale v. in part. Mariuzzo, Commento dell’art. 8 L. n. 241/90, in AA.VV. Procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti, Milano 1991, p. 140 ss. nonchè A. Romano Tassone, Contributo sul tema del’irregolarità degli atti amministrativi, Torino 1993, p. 77 ss.


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