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Articoli e note

n. 2/2005 - © copyright

LUIGI OLIVERI

Caduto il tabù dell’alta specializzazione
come presupposto per le co.co.co. pubbliche

(note a margine di CORTE DEI CONTI, SEZ. RIUNITE - delibera 15 febbraio 2005)

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La deliberazione delle Sezioni Riunite della Corte dei Conti in sede di controllo, 15 febbraio 2004, n. 6/CONTR/0 non può che trovare adesione ed apprezzamento.

La magistratura contabile è intervenuta con puntualità a dirimere uno degli aspetti più controversi della legge 311/2004, il regime degli incarichi di consulenza in rapporto a quello delle co.co.co., ripetendo l’altrettanto importante intervento del 2003, quando oggetto delle incertezze interpretative causate dalla legge 289/2002 furono le acquisizioni di beni e servizi.

Il punto di maggior rilievo della deliberazione è la liberazione da un tabù: la disciplina delle consulenze non coincide con quella delle collaborazioni coordinate e continuative. Dunque, non ogni incarico esterno, solo per essere tale, è una consulenza, né, allora, deve essere caratterizzato dall’alta specializzazione.

La distinzione tra incarichi di consulenza e collaborazioni funzionali alle ordinarie esigenze proprie del funzionamento delle strutture amministrative (per usare termini che le S.R. utilizzano nella deliberazione), che emerge con chiarezza dall’interpretazione della Corte e dalla stessa legge 311/2004, consente di trarre una conclusione: la specifica disciplina degli articoli 7, comma 6, del d.lgs 165/2001 e 110, comma 6, del d.lgs 267/2000 è tipicamente applicabile nella sua pienezza solo alla fattispecie delle consulenze.

Per essere più chiari, i presupposti generali previsti dalle due norme ai fini dell’affidamento di incarichi esterni (esigenze cui non si possa fare fronte con personale in servizio, predeterminazione di durata, luogo, oggetto e compenso ed obiettivi) sono alla base di qualsiasi incarico esterno, sia una vera e propria consulenza, sia una più ordinaria co.co.co.. Per le consulenze, tuttavia, è richiesto il requisito della provata esperienza e dell’alta professionalità; per le collaborazioni, essendo rivolte a sopperire a deficit più quantitativi che qualitativi, non è necessaria, invece, l’alta specializzazione.

Si conferma, dunque, che i citati articoli 7, comma 6, del d.lgs 165/2001 e 110, comma 6, del d.lgs 267/2000 non hanno lo scopo di disciplinare in via onnicomprensiva qualsiasi incarico esterno, configurandolo come alta specializzazione, ma, piuttosto, di consentire alle amministrazioni di conferire all’esterno anche incarichi di spiccata professionalità, nonostante la presenza in servizio di dirigenti e responsabili di servizio, che dovrebbe lasciare presupporre la presenza di professionalità spiccate all’interno dell’organizzazione [1].

La deliberazione conferma anche un altro assunto: gli istituti giuridici sono qualcosa di preciso e, come tali, non possono essere presi in considerazione alla luce del gergo giornalisitico.

Se in questo gergo la “consulenza” è ogni tipo di incarico esterno, ai fini dell’interpretazione ed applicazione del diritto, la consulenza è una specifica prestazione di servizio, consistente nell’obbligazione di mezzi di esprimere consigli o pareri [2].

Si tratta, dunque, di una particolare prestazione d’opera intellettuale, la cui fonte sostanziale sono gli articoli 2229 – 2238 del codice civile.

Qualunque tipo di incarico esterno, pertanto, sia configurabile dal punto di vista sostanziale, analizzando l’oggetto della prestazione, come consulenza e, dunque, specifica prestazione d’opera intellettuale, si applica il comma 42 dell’articolo 1 della legge finanziaria. Ciò anche se, esclusivamente per ragioni fiscali, la “veste” di tale incarico sia una collaborazione coordinata e continuativa e non un incarico di prestazione professionale vero e proprio.

Dunque, in generale le co.co.co. sfuggono alla disciplina del comma 42, in quanto disciplinate dal comma 116 della legge finanziaria. Ma se una co.co.co. ha per oggetto consulenze, studi o ricerche, allora va applicata la disciplina procedurale di cui al comma 42.

Indirettamente, la legge 311/2004 suggerisce che sarebbe il caso, per il legislatore, di porsi il problema di regolamentare dal punto di vista contrattuale, fiscale e previdenziale gli incarichi di consulenza, come definiti dalla Corte dei conti, nell’ambito di un preciso tipo di contratto, allo scopo di evitare commistioni con le co.co.co. Infatti, appare del tutto evidente che un rapporto di consulenza possa essere configurato come collaborazione coordinata e continuativa in modo solo forzato, per scopi esclusivamente fiscali e previdenziali. Non si può certamente affermare che un consulente esperto sia “coordinato” dal committente. Al contrario, detto consulente dispone necessariamente di una libertà di azione piena ed esclusiva nell’esprimere i propri pareri, dettata necessariamente da quella sua particolare professionalità che è alla base del legittimo conferimento dell’incarico. La continuità, poi, è anch’essa molto discutibile, dal momento che essa non ha una perfetta coincidenza con la ricorrenza di richieste di pareri. La continuità si ha solo quando i pareri siano oggetto di una consulenza continuativa, come, ad esempio, l’assistenza ad un comune nell’ambito di un processo di informatizzazione, posta in essere da un esperto in materia.

Caduto il tabù di cui si è parlato prima, frutto di interpretazioni troppo a senso unico, non si deve, però, correre il rischio di trarre conseguenze estreme e, a loro volta, erronee.

Dal punto di vista della procedura le consulenze si distinguono dalle co.co.co., in quanto per le seconde non occorre la valutazione dei revisori dei conti e l’inoltro alle Sezioni di controllo della Corte dei conti.

Ma, dal punto di vista della motivazione gli elementi da evidenziare in modo rigoroso e valevole per l’intero ente, non solo per la struttura interessata direttamente all’incarico, sono assolutamente comuni.

Tanto per l’un tipo, quanto per l’altro tipo di incarichi la rilevazione dell’assenza di strutture o professionalità, la definizione a priori di un compenso congruo, di un obiettivo specifico rispondente ai fini dell’amministrazione, di una durata certa, la garanzia di non accrescere surrettiziamente le competenze dell’ente al solo scopo di conferire l’incarico, sono elementi comuni, imprescindibili per evitare responsabilità amministrative conseguenti al conferimento degli incarichi.

Si ribadisce che nel caso degli incarichi di collaborazione coordinata e continuativa, la carenza di professionalità interne può anche essere di carattere solo quantitativo e non necessariamente qualitativo, se la professionalità richiesta non è altamente specialistica ed il servizio è finalizzato alle ordinarie esigenze operative [3].

Quest’ultimo passaggio, tuttavia, merita una precisazione. Le co.co.co. in quanto sono rapporti di lavoro autonomo, sono a loro volta prestazioni di servizio, tanto è vero che i loro compensi ricadono nell’intervento 3 e non nell’intervento 1 delle voci di spesa dei bilanci degli enti locali.

Un collaboratore coordinato e continuativo, quindi, instaura con l’ente solo una prestazione di servizio. Non si concretizza, allora, alcun rapporto organico, che è frutto esclusivamente della costituzione di un rapporto di lavoro subordinato [4]: è noto, ormai, che le co.co.co. sono rapporti di lavoro autonomo, conosciuti come lavoro para-subordinato, ma, probabilmente, meglio definibili come lavoro para-autonomo per rendere in modo più efficace l’idea.

Sicchè, quando le Sezioni Riunite affermano che le co.co.co possono essere attivate per fare fronte ad esigenze ordinarie delle amministrazioni pubbliche non intendono dire che le collaborazioni siano divenute uno strumento di acquisizione di manodopera alternativo alla costituzione di rapporti di lavoro subordinato, tutt’altro. Si limitano ad affermare che le co.co.co. si attivano, generalmente, per prestazioni di servizio diverse da quelle relative ad incarichi di studio, ricerca e consulenze, generalmente con un tasso di professionalità medio-basso, in quanto attinenti a funzioni ordinarie e non speciali dell’ente.

Ma, la co.co.co. non possono sostituire i rapporti di lavoro subordinato, in particolare quando siano da esercitare le funzioni proprie di pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, o, meglio ancora, quando si esplichino poteri pubblici, formando ed esprimendo con valore esterno (di intensità più o meno rilevante) la volontà dell’ente.

Non bisogna dimenticare che proprio la Corte dei conti desume dagli articoli 97 e 98 della Costituzione il principio generale secondo il quale le amministrazioni debbono esercitare le proprie funzioni e gestire i propri servizi utilizzando primariamente il proprio personale in servizio, che, in omaggio ai principi di economicità e buon andamento dell’azione amministrativa, si presuppone qualificato e in quantità sufficiente. Da qui l’esigenza di profonde e specifiche motivazioni ogni qual volta si dia corso ad incarichi esterni.

Non è corretto ritenere che si possa “assumere” mediante co.co.co.. I collaboratori non sono assunti, nel senso che essi non possono essere considerati come lavoratori subordinati, perché essi non possono svolgere per l’ente lavori propri dei dipendenti, a meno che solo ragioni particolari, fondate su progetti chiari, a tempo determinato (ad esempio la gestione di un progetto finanziato dal Fondo Sociale Europeo), consentano di accrescere le dotazioni di personale, addetto, però, non all’esercizio di attività negoziali pubbliche, ma a compiti di supporto.

Il proprium delle collaborazioni esterne è specificamente lo svolgimento di funzioni che supportano l’azienda o l’ente, ma non sostituiscano il lavoro del personale. La riforma delle co.co.co. in lavoro a progetto, nell’ambito privato, ha inteso proprio scongiurare il pericolo che veri e propri rapporti di lavoro subordinato venissero dissimulati in collaborazioni, con l’effetto di precarizzare il lavoratore, riducendo a suo intero svantaggio le prestazioni previdenziali e di tutela (ferie, malattia, buoni pasto, ecc…). Non è possibile ritenere che ciò che l’ordinamento non consente più in linea generale, possa valere nel settore pubblico. Le amministrazioni pubbliche, pur essendo formalmente escluse dall’applicazione del d.lgs 276/2003, sono comunque tenute a rispettare i principi di correttezza e buona fede e, pertanto, non possono nascondere dietro a co.co.co fittizie veri e propri rapporti di lavoro subordinato. Anche perché, ciò, oltre a comportare responsabilità di diritto privato nei confronti del lavoratore, determina ulteriori e più gravi conseguenze. La violazione degli articoli 97 e 98 della Costituzione, degli articoli 35 e 36 del d.lgs 165/2001, nonché della norma programmatica contenuta all’inizio del Titolo I del Ccnl 14.9.2000 del comparto regioni enti locali, che impone la riduzione del ricorso alle collaborazioni esterne.

Una co.co.co. che nasconde surrettiziamente un rapporto di lavoro è illegittima per violazione delle norme indicate, in quanto si viola il principio dell’accesso al lavoro pubblico mediante concorsi, nonché si contrasta con disposizioni imperative, con la conseguente responsabilità per danni di cui all’articolo 36, comma 2, del d.lgs 165/2001.

Dunque, né l’articolo 1, commi 42 e 116, né la deliberazione delle Sezioni Riunite possono essere lette nel senso che autorizzano liberamente le amministrazioni a coprire posti di organico con collaborazioni coordinate e continuative. Esse continuano ad essere esclusivamente strumenti di supporto alle funzioni pubbliche, come l’attività di data entry. Un co.co.co. non potrebbe mai lecitamente svolgere le funzioni di un responsabile di servizio, di responsabile del procedimento, di addetto, insomma, verticale a funzioni e servizi, pena la nullità per carenza assoluta di attribuzioni dei suoi atti, che, non essendo fondati su un rapporto organico, non risultano assolutamente impegnativi per l’ente nei confronti di terzi.

Ancora, è necessario rilevare che la deliberazione delle Sezioni Riunite ha chiarito come gli atti relativi ad incarichi di studio, ricerca e consulenze siano da rivolgere alle Sezioni di controllo, ma non ha stabilito con quali cadenze e modalità. Probabilmente, in merito a questo provvederanno le Sezioni regionali.

La deliberazione non si è soffermata anche sugli atti da controllare. Pare sia scontato che l’ente non possa limitarsi a trasmettere il provvedimento a contrattare col consulente, ma debba anche inoltrare il contratto, anche perché è dalla stipulazione del contratto che deriva il valido affidamento dell’incarico, in quanto il provvedimento a contrattare ha effetti esclusivamente interni.

La deliberazione non ha nemmeno affrontato, né avrebbe potuto, il problema della natura della valutazione dei revisori: preventiva o successiva all’adozione dell’atto?

Non pare possa revocarsi in dubbio che la valutazione dei revisori debba essere necessariamente preventiva. In primo luogo, perché la maggior parte dei pareri che l’ordinamento contabile pone in capo alla responsabilità dei revisori sono da questi espressi sempre prima che il provvedimento al quale ineriscono sia adottato. Infatti, la funzione dei revisori è quella di illuminare meglio l’organo decidente sugli aspetti della regolarità contabile e formale degli atti da adottare. Solo per coerenza con questo principio, occorrerebbe concludere che la valutazione sugli incarichi si ricerca, studio e consulenza debba essere preventiva.

Si aggiunga, ancora, che la valutazione dei revisori appare un elemento specifico da indicare nella motivazione dell’incarico, che dovrebbe dare atto e tenere conto, appunto della valutazione, come elemento indispensabile del processo di formazione di volontà dell’organo decidente. Soprattutto, quando la valutazione sia negativa ed occorra, allora, una ancora più congrua motivazione per procedere oltre.

Infine, poiché un controllo successivo è già previsto, quello della Corte dei conti, non si capirebbe l’utilità di una sorta di doppione, se la valutazione dei revisori fosse considerata anch’essa successiva.

Da ultimo, la deliberazione afferma che il limite finanziario previsto dal comma 11 della legge 311/2004 valga non solo per le amministrazioni dello Stato, ma anche per gli enti locali.

Tale interpretazione è difficile da contestare, perché la formulazione del comma è lacunosa, oscura, laconica e sufficientemente confusa.

Pare, tuttavia, possibile anche affermare, con le medesime possibilità persuasive, il contrario. Ovvero, sostenere che quando il legislatore ha disposto “fermo quanto stabilito per gli enti locali al comma 42” non si sia limitato a mantenere ferma la sola procedura, ma anche la norma sostanziale, escludendo, dunque, gli enti locali sia dalla procedura di cui al comma 11, sia dal limite di spesa annua ivi indicato.

Depongono, inoltre, in favore di questa interpretazione due considerazioni. La prima trae origine dalla “volontà del legislatore”: il processo di formazione della legge rivela che l’intento del comma 11 è prevedere un tetto di spesa solo per le amministrazioni dello stato.

La seconda è di ordine sistematico. Il contenimento delle spese degli enti locali è regolamentato dai commi 21-33 della legge. Le spese per le consulenze, ricerche e studi ricadono in pieno in questa regolamentazione (una disciplina speciale si ha solo per le spese conseguenti all’assunzione di personale dipendente). Dunque, la definizione degli obiettivi del patto di stabilità implica necessariamente, sia pure indirettamente, un limite alla spesa per consulenze, in capo agli enti locali.

La legge finanziaria non contiene, invece, esplicite regole finanziarie per le amministrazioni dello Stato. Il comma 11, allora, è necessario per definire un obiettivo di finanza pubblica solo per le amministrazioni statali, ma potrebbe risultare ridondante ed eccessivo per gli enti locali.

Constatando, comunque, che la formulazione del comma 11 è infelice, bisogna auspicare che un chiarimento definitivo sia dato preferibilmente dal legislatore, oppure da circolari interpretative di provenienza governativa.

 

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[1]Così L. Oliveri, in Guida al Pubblico Impiego Locale, n. 9/2004.

[2] L. Oliveri, Gli incarichi di consulenza alla p.a., Lavoro Oggi, m. 4/2005, pag. 38.

[3] Corte dei conti, Sezione Sardegna, sentenza 16/6/2004, n. 320.

[4] Solo in via eccezionale la legge consente che il rapporto organico si costituisca al di fuori di un rapporto di lavoro subordinato: ciò vale, ovviamente, per gli organi pubblici elettivi, per i componenti delle commissioni di gara e di concorso, per i direttori dei lavori pubblici.

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