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n. 1/2006 - ©
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LUIGI OLIVERI
Brevi note sulla questione della rinnovabilità dei contratti
Il dibattito aperto sulla questione della permanenza o meno della possibilità di rinnovare i contratti di servizi e forniture non deve incentrarsi sul quesito se il rinnovo dei contratti sia ammesso o non ammesso dalla legge.
Questa domanda è in parte fuorviante, laddove porta a ricercare la probatio diabolica dell’esistenza nell’ordinamento giuridico di un principio generale che vieti o consenta il rinnovo.
In realtà, la legge 62/2005 ha posto in essere un’operazione complessa, ma di semplice lettura, una volta che il sistema delle norme in merito al rinnovo sia inquadrato nel suo insieme.
Prima dell’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993, l’istituto del rinnovo era, apparentemente, privo di una regolamentazione generale esplicita.
In realtà, una regolamentazione delle modalità di contrattazione per l’amministrazione pubblica è sempre esistita; si tratta della normativa sulla contabilità di Stato, arricchita nel corso degli anni ’90 del secolo scorso dalle norme di recepimento delle direttive europee (d.lgs 358/1992 e d.lgs 157/1995). In particolare, ci si riferisce alla disciplina della trattativa privata.
Infatti, non si può mettere in dubbio che il rinnovo sia una specie del genere affidamento senza gara, mediante trattativa privata diretta. Infatti, per effetto del rinnovo una pubblica amministrazione affida (riaffida) una certa prestazione contrattuale ad un contraente, senza procedere con gara.
Ora, in mancanza di una norma come l’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 il rinnovo sarebbe stato possibile esclusivamente in applicazione del disposto di cui all’articolo 41 del r.d. 827/1924.
Tuttavia, era prassi diffusa, nonostante la sua evidente illegittimità:
1) procedere al rinnovo prescindendo dalla valutazione preventiva della sussistenza delle condizioni previste dal citato articolo 41, ai fini della trattativa privata;
2) procedere, oltre tutto, stabilendo clausole di rinnovo tacito nei contratti.
La legge finanziaria per il 1994 intervenne allo scopo di porre un freno a queste prassi, compiendo le seguenti operazioni:
1) introducendo espressamente un’ipotesi nuova di trattativa privata: il rinnovo, esercitabile alle rigide condizioni previste dalla norma (condizioni che hanno funzionato poco perché è fallito il sistema, immaginato dalla legge, di rilevazione dei prezzi di mercato e di formulazione di un prezziario di riferimento);
2) abrogando espressamente la prassi del rinnovo tacito; il rinnovo tacito non è considerabile un minus [1] rispetto al rinnovo espresso. Al contrario rappresenta una deroga molto grave alle regole dell’evidenza pubblica ai fini della contrattazione, perché non solo porta ad una trattativa privata, ma consente che il riaffidamento della prestazione contrattuale avvenga senza provvedimento amministrativo a monte (se non un mero impegno di spesa) e senza stipulazione del contratto. Ciò in evidente spregio alle basilari regole che disciplinano l’attività contrattuale delle amministrazioni pubbliche. Spregio talmente grave che, opportunamente, il legislatore del 1993 ed il legislatore del 2005 hanno l’uno introdotto, l’altro mantenuto, il divieto del rinnovo tacito.
Nel frattempo, il recepimento delle direttive comunitarie in merito ai contratti di forniture e servizi ha portato all’introduzione nell’ordinamento di ulteriori e prima non previste ipotesi di trattativa privata, tra le quali quella della ripetizione di forniture o servizi analoghi da affidare al precedente prestatore individuato in base ad una gara pubblica, a condizione che le forniture o i servizi ripetuti siano conformi ad un progetto di base, che abbia fatto oggetto della precedente gara.
Dunque, fino alla legge 62/2005, convivevano tre forme di trattativa privata:
1) quelle regolate dall’articolo 41 del r.d. 827/1924;
2) il rinnovo regolato dall’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993;
3) quelle regolate dalle norme di recepimento delle direttive europee.
Di dette tre forme di trattativa privata, l’unica qualificabile (ed in effetti come tale qualificata dal legislatore) come rinnovo era quella di cui all’art. 6, comma 2, della legge 537/1993.
Si trattava, infatti, non della ripetizione di servizi o forniture analoghe a quelle oggetto di un precedente contratto, ma previste, tuttavia, in un progetto di base, ma del vero e proprio riaffidamento della medesima prestazione contrattuale, alle medesime condizioni. Ciò, tuttavia, solo laddove l’amministrazione procedente dimostrasse la sussistenza di un interesse pubblico al rinnovo, prevalente su quello generale all’evidenza pubblica, nonché una convenienza economica che era da verificare in relazione alle condizioni attuali del mercato: dunque, non era assolutamente necessaria una rinegoziazione del prezzo, ove si dimostrasse che il mantenimento del prezzo precedentemente pattuito fosse economicamente conveniente nelle nuove condizioni di mercato esistenti al momento del rinnovo.
Le altre ipotesi di trattativa privata, non configurano veri e propri rinnovi. In particolare, non è un vero rinnovo l’istituto così, comunque, denominato, di cui ai d.lgs 358/1992 e 157/1995, perché mancano di uno degli elementi fondanti dell’istituto del rinnovo: la conferma delle clausole preesistenti.
Spesso, per distinguere il rinnovo dalla proroga, si sottolinea, correttamente che mentre il primo consiste nel porre in essere un nuovo negozio, la seconda altro non è che l’accordo tra le parti finalizzato a spostare in avanti il termine finale del contratto, senza, dunque, una nuova negoziazione del contenuto.
Tuttavia, il rinnovo vero e proprio è tale solo nell’ipotesi in cui la nuova negoziazione tra le parti abbia un contenuto sostanzialmente vincolato: quello delle clausole del precedente contratto. Le parti, dunque, esprimono un nuovo consenso su uno schema contrattuale fisso.
Laddove, invece, le parti non solo pongano in essere una nuova negoziazione, ma modifichino il contenuto dello schema contrattuale precedente, non si è in presenza di un rinnovo. Si è in presenza di un contratto del tutto diverso dal precedente, che con questo ha in comune solo la circostanza che le parti contraenti sono le stesse. Il negozio giuridico, tuttavia, è del tutto diverso.
E’, pertanto, una vera e propria ipotesi di affidamento senza gara di un contratto, qualcosa di diverso da rinnovo.
Stando così le cose, il meccanismo operato dalla legge 62/2005 diviene meglio comprensibile.
L’abrogazione dell’ultima parte dell’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 ha espunto dall’ordinamento giuridico la norma che ammetteva, sia pure a determinate condizioni, il rinnovo (quello vero) dei contratti.
Quando il legislatore con la norma “omega” abroga la norma “alfa” si deve ritenere che l’istituto abrogato sia del tutto espunto dall’ordinamento giuridico: la contraria volontà all’esistenza di una norma è da leggere come volontà della sua inesistenza. Se, dunque, il rinnovo è stato eliminato, ciò vuol dire che esso non è più radicato nell’ordinamento giuridico.
Un rinnovo di diritto interno, dunque, non è più legittimo, possibile ed ammissibile e sarebbe fonte di responsabilità amministrativa.
Restano, però, in piedi le norme citate in precedenza, riguardanti la trattativa privata. In particolare, le norme di diritto comunitario, che regolano la ripetizione dei servizi analoghi, ricompresi in un precedente progetto.
Tali norme non pongono in essere alcun principio. Sono norme per loro stessa natura dispositive e di dettaglio, perché fissano in modo rigoroso le condizioni alle quali è possibile per un’amministrazione pubblica affidare senza gara ad un medesimo contraente precedentemente individuato con gara forniture o servizi analoghi a quelli oggetto del precedente contratto.
Non si tratta di un vero e proprio rinnovo, perché:
1) la possibilità della ripetizione dei servizi è già contenuta nel bando o nel capitolato e deve costituire oggetto del contratto;
2) i servizi o le forniture analoghe debbono, per la precedente ragione, essere previsti nel progetto generale oggetto dell’affidamento iniziale, del quale costituiscono parte integrante ed essenziale;
3) i costi complessivi dell’appalto, al momento dell’impegno della spesa, debbono necessariamente comprendere anche il riaffidamento (che, pertanto, appare come l’esercizio di una sorta di opzione);
4) il nuovo contratto deve avere una durata fissata per legge in non più di tre anni.
Si sottrae, dunque, alle parti in modo radicale l’autonomia di rinegoziare un contratto utilizzando il medesimo schema utilizzato in precedenza.
Pertanto, il “rinnovo europeo” non è un vero e proprio rinnovo. Come questo è un’ipotesi di trattativa privata.
Ma, a differenza del rinnovo vero e proprio, deve rispettare regole negoziali tali da differenziarlo profondamente.
D’altra parte se così non fosse, se il rinnovo vero e proprio coincidesse col rinnovo europeo, che ragione avrebbe avuto l’Unione di avviare la procedura di infrazione contro l’Italia e per quale motivo il legislatore italiano avrebbe adottato l’articolo 23 della legge 62/2005?
Pertanto, occorre concludere che il rinnovo vero e proprio, quello di cui all’articolo 6, comma 2, della legge 537/1993 è illegittimo e non può essere applicato.
Il “rinnovo comunitario” non è un principio, ma una regola concreta, applicabile legittimamente solo nel pieno rispetto del suo contenuto e della sua disciplina.
[1] Così D. PANTANO, Il rinnovo dei contratti della P.A.: un istituto duro a morire, in questo numero della presente Rivista.