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Articoli e note

n. 1/2006 - © copyright

DIONISIO PANTANO*

 Il rinnovo dei contratti della P.A.:
un istituto duro a morire

(nota a TAR CAMPANIA, SEZ. I, sentenza 20 dicembre 2005*)

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In più di un’occasione la giurisprudenza amministrativa si è occupata dei rinnovi dei contratti della P.A.; più volte ha dimostrato di avere sull’argomento opinioni altalenanti; più volte ha ritenuto che l’istituto del “rinnovo” dei contratti fosse stato espunto dall’ordinamento da questo o quell’intervento normativo; anche questa volta, a mio avviso, dovrà prendere atto che residuano spazi di applicazione per l’istituto de quo. Insomma, a dispetto di quanto ritiene il T.A.R. Campania  [1] con la sentenza che si annota, il rinnovo dei contratti della P.A. non è un istituto morto. Si cercherà di dar spiegazione di questo convincimento con questa breve nota.

Dato normativo da cui prendere le mosse è l’art. 6, II comma, della L. n. 537 del 24.12.1993, come modificato dall’art. 44 della L. n. 724 del 23.12.1994: “E’ vietato il rinnovo tacito dei contratti delle P.A. per la fornitura di beni e servizi, ivi compresi quelli affidati in concessione a soggetti iscritti in appositi albi. I contratti stipulati in violazione del predetto divieto sono nulli. Entro tre mesi dalla scadenza dei contratti, le amministrazioni accertano le ragioni di convenienza e di pubblico interesse per la rinnovazione dei contratti medesimi e, ove verificata detta sussistenza, comunicano al contraente le volontà di procedere alla rinnovazione.

Sulla base di questa disposizione per diversi anni le pubbliche amministrazioni hanno proceduto ai rinnovi dei contratti attraverso un semplice scambio con i contraenti privati delle reciproche disponibilità alla prosecuzione del rapporto contrattuale.

Questa situazione ha indotto il Consiglio di Stato [2] a pronunciarsi, più volte, sulla natura giuridica del rinnovo contrattuale al fine di differenziarne la disciplina rispetto alle mere proroghe. In particolare, la giurisprudenza amministrativa ha ribadito che l’istituto del rinnovo implica una rinegoziazione del contratto con lo stesso contraente. In ciò il rinnovo si distingue dalla mera proroga che comporta un semplice spostamento in avanti del termine di durata del contratto [3].

E’ chiaro che se una rinegoziazione del contratto, ovviamente a condizioni più vantaggiose per la P.A., può considerarsi legittima alla luce del citato art. 6, comma II, della L. n. 537 del 1993, lo stesso non può dirsi [4] per un semplice slittamento in avanti del termine di durata del rapporto contrattuale (ammesso, peraltro, in determinate e circoscritte ipotesi) che, normalmente, non realizza alcun interesse per la P.A., salvo a considerare pubblico e meritevole di tutela l’interesse di qualche dirigente a non indire nuove gare e quindi non lavorare…

Tanto vero quanto sopra osservato che nel 1999 è intervenuto il legislatore prevedendo, con l’art. 27, VI comma, della L. n. 488, che, nel triennio 2000-2002, sarebbe stato possibile procedere ai rinnovi dei contratti della P.A. una sola volta e solo ove si fosse ottenuto uno sconto (almeno il 3%) percentuale sul prezzo riportato nel contratto originario.

Dunque, la rinegoziazione avrebbe dovuto riguardare almeno il prezzo, elemento ovviamente essenziale nei contratti di scambio quali quelli di fornitura di beni e servizi.

Detto intervento normativo ha suggerito ad una parte della dottrina, seguita anche da una serie di pronunce del Consiglio di Stato [5], di sostenere la tesi dell’illegittimità dei rinnovi dei contratti a far data dal 2003.

In breve, questa linea interpretativa ha ritenuto che il citato art. 27, VI comma, della L. n.488 del 1999 abbia implicitamente abrogato l’art. 6, II comma, della L. n. 537 del 1993 e s.m., consentendo la rinnovabilità dei contratti alle limitate condizioni di cui alla stessa disposizione.

Questa tesi ha trovato un certo vigore anche alla luce di una “riconsiderazione” dell’istituto del rinnovo in virtù della normativa comunitaria e di quella nazionale di recepimento, in specie le Leggi nn. 358 del 1992 e 157 del 1995 rispettivamente sugli appalti di forniture e sugli appalti di servizi. Il rinnovo dei contratti, in definitiva, consentendo il prolungamento del rapporto contrattuale con lo stesso contraente per più anni, si presta a costituire una deroga (o, meglio, un’elusione) al principio di gara per l’affidamento degli appalti pubblici che è uno dei pilastri su cui si fonda il rispetto del principio di libera concorrenza.

Ulteriormente, questo sospetto è, di frequente, avvalorato dalla prassi delle P.A. di procedere ai rinnovi dei propri contratti con il semplice spostamento in avanti del termine di durata, ponendo in essere, nella sostanza, delle mere proroghe contrattuali.

Altra dottrina e il prevalente indirizzo del Consiglio di Stato [6] si sono attestati su posizioni opposte.

In sintesi, per questa tesi l’art. 27, VI comma, della L. n. 488 del 1999, è da intendersi come disposizione eccezionale e temporanea che non ha comportato l’implicita abrogazione dell’art. 6, II comma, della L. n. 537 del 1993 e s.m. [7].

Quindi, il rinnovo dei contratti della P.A. è da considerarsi legittimo se rispettoso delle condizioni di cui al citato art. 6 della L. n. 537/1993.

Sennonché su questo quadro normativo ed interpretativo si è scagliata, con la solita decisione, la reazione della Commissione Europea che ha aperto una procedura istruttoria (n. 2110/2003) nei confronti dell’Italia per accertare l’incompatibilità “comunitaria” della disciplina scaturente dall’art. 6 della L. n. 537 del 1993 e s.m., così come, soprattutto, interpretato ed applicato nella prassi amministrativa e giurisprudenziale.

Conseguentemente, il legislatore nazionale è intervenuto, con l’art. 23 della L. n. 62/2005 (legge comunitaria per il 2004), abrogando l’ultima parte (da “Entro tre mesi dalla scadenza” in poi) del II comma dell’art. 6 della L. n. 537/1993, come modificato dall’art. 44, della legge n. 724/1994.

E’ evidente, come sottolinea la sentenza che si annota, che ratio legis dell’intervento normativo sia porre fine alla procedura di infrazione promossa dalla Commissione, espungendo dall’ordinamento quella norma che si pone più chiaramente in contrasto diretto con l’ordinamento comunitario. Il legislatore, peraltro, non introduce (come avrebbe potuto fare) una norma di divieto della rinnovabilità dei contratti ma si limita, pilatescamente, ad abrogare la norma che disciplinava il rinnovo espresso dei contratti delle PP.AA.

I commentatori [8] della legge si sono posti, in modo del tutto legittimo il problema se, alla luce della novella introdotta, sia ancora possibile utilizzare l’istituto del rinnovo per i contratti delle PP.AA.

La risposta non è assolutamente scontata, come asserisce il TAR Campania, avendosi già nella giurisprudenza amministrativa almeno due orientamenti contrapposti [9].

Provando a dare un contributo al dibattito in corso, con il presente scritto si propone una soluzione che mi permetto di definire attenta alla ricostruzione sistematica dell’ordinamento.

Cerchiamo di ricomporre il quadro normativo.

L’abrogazione dell’art. 6, ultima parte del II comma, della L. n. 537/1993, ha eliminato dall’ordinamento l’unica norma che espressamente autorizzava la P.A. a rinnovare i propri contratti.

In assenza di una disposizione ad hoc, per dedurre la perdurante legittimità dell’istituto del rinnovo dovrebbe individuarsi l’esistenza di un principio generale che consenta la rinnovabilità dei contratti della P.A.

Esclusa de plano l’esistenza di un simile principio, è necessario verificare la non esistenza di un principio opposto, ossia un principio che vieti la prosecuzione di un rapporto contrattuale con lo stesso contraente. Ed in quest’ultima indagine ci si dovrebbe concentrare, come suggerisce la sentenza che si commenta, sui principi comunitari, avendo la Commissione Europea giustificato l’apertura del procedimento di infrazione contro l’Italia proprio sul presupposto del contrasto del famigerato art. 6 della L. n.537/1993 e s.m. con l’ordinamento comunitario stesso.

Come hanno osservato altri commentatori, anche un simile opposto principio non esiste.

In realtà dall’ordinamento, comunitario e nazionale, non è possibile trarre la vigenza di un principio di rinnovabilità o di non rinnovabilità dei contratti pubblici. L’ordinamento nel suo complesso, dinanzi a questa tematica, si pone con neutralità. Ed allora la rinnovabilità o meno dei contratti pubblici andrà vagliata alla luce di altri e sicuramente esistenti principi. In primis quello di libertà di concorrenza e, poi, il principio di gara nell’aggiudicazione degli appalti pubblici, il principio di pubblicità, di trasparenza, di efficienza, di economicità e di buon andamento dell’azione amministrativa.

A questo punto diventa utilissimo analizzare alcuni dati normativi quali, principalmente, l’art. 7, II comma, lett. f), della L. n. 157 del 1995. Questa norma, autorizzando la P.A. a ricorrere alla trattativa privata con il contraente dell’originario contratto per “nuovi servizi consistenti nella ripetizione di servizi analoghi già affidati allo stesso prestatore di servizi mediante un precedente appalto aggiudicato dalla stessa amministrazione, purché tali servizi siano conformi ad un progetto di base per il quale sia stato aggiudicato un primo appalto conformemente alle procedure di cui al comma 3; in questo caso il ricorso alla trattativa privata, ammesso solo nei tre anni successivi alla conclusione dell’appalto iniziale, deve essere indicato in occasione del primo appalto e il costo complessivo stimato dei servizi successivi è preso in considerazione dall’amministrazione aggiudicatrice per la determinazione del valore globale dell’appaltooffre spunti decisivi per inferire l’ammissibilità di contratti “accessori” all’originario, che consentano la prosecuzione di un rapporto contrattuale con il medesimo contraente. Nella logica dell’art. 7, lett. f), questa prosecuzione sarà possibile, in sintesi, se:

1)     i nuovi servizi da affidare allo stesso contraente sono analoghi a quelli già affidati e conformi ad un progetto di base;

2)     il nuovo affidamento potrà avere durata massima di 3 anni dalla conclusione del contratto originario;

3)     il costo di questi nuovi servizi sia stato stimato a monte dalla P.A. e debitamente pubblicato come valore globale dell’appalto originario aggiudicato secondo le regole ordinarie (licitazione privata, asta pubblica o appalto concorso).

 Ed in fondo, il requisito indicato al n. 1 testimonia l’attenzione del legislatore nazionale e comunitario per il principio di economicità e di efficienza nell’agire della P.A.;

quello indicato nel n. 2 dà atto che il sacrificio del principio di gara possa essere comunque giustificato in termini ristretti;

quello indicato nel n. 3 richiede il rispetto del principio di libera concorrenza, di par condicio, di pubblicità.

A mio avviso, a questo punto risulta chiaro che non vi sono ragioni per ritenere illegittimo l’istituto del rinnovo dei contratti della pubblica amministrazione se esso sia giuridicamente costruito nel rispetto dei principi sopra esposti e se sia, quindi, diversamente disciplinato rispetto all’abrogato istituto di cui alla legge n. 537/1993.

Nell’attuale assenza di un referente normativo ad hoc che disciplini il rinnovo espresso (stante l’abrogazione dell’ultima parte del II comma dell’art. 6 della L. n. 537/1993), si ritiene che, in poche parole, l’istituto del rinnovo possa ritenersi ancora vigente e legittimo se rispettoso dei principi generali (si badi bene: dei principi non degli specifici requisiti) che si possono trarre dall’ordinamento tutto ed, in specie, dall’art. 7, II comma, lett. f, della L. n. 157/1995 [10].

A sostegno di questa tesi si possono aggiungere ulteriori argomenti, l’uno di carattere logico-giuridico, l’altro, ad colorandum, che tiene in considerazione un dato normativo molto recente.

Il primo: l’abrogazione parziale del II comma dell’art. 6 della L. 537 del 1993, come modificato dall’art. 44 della L. n. 724/1994, lascia in piedi la parte della norma relativa al divieto, a pena di nullità, del rinnovo tacito. Ora, sembra perlomeno bizzarro che un ordinamento sancisca la nullità di un minus rispetto al rinnovo espresso, qual è il rinnovo tacito, volendo sancire l’illegittimità anche del rinnovo espresso. In soldoni, non si capisce perché l’ordinamento, pur volendo sancire (secondo la tesi che qui si contesta) l’illegittimità tout court dei rinnovi, si sia occupato di una sottocategoria dell’istituto generale del rinnovo qual è il rinnovo tacito: molto più logicamente avrebbe dovuto prevedere l’illegittimità, sanzionata con la nullità, dei rinnovi espressi. Vietata la fattispecie più ampia, infatti, automaticamente conseguirebbe il divieto della fattispecie meno ampia

L’interpretazione sistematica più coerente, quindi, impone di considerare solo il rinnovo tacito come illegittimo; quello espresso essendo facoltizzato nei limiti sopra espressi [11].

Questa soluzione, evidentemente in contrasto con la decisione n. 20502, del 20 dicembre 2005, del TAR CAMPANIA che si è espresso per l’illegittimità tout court dei rinnovi contrattuali è, a ben vedere, distante anche dalle sentenze del Tar Lazio, sez. I bis, di inizio dicembre 2005 che si sono espresse in senso diametralmente opposto.

Preliminarmente, si nota che questi arresti giurisprudenziali sembrano caratterizzati da una carente motivazione circa il percorso logico che ha consentito di ritenere i contratti, stipulati nel vigore dell’art. 6, della L. 537/1993 e sottoposti alla propria attenzione, come legittimamente rinnovabili.

Appare a chi scrive, infatti, che si sia omessa un’attenta analisi dei principi generali in materia per poi, eventualmente, dedurre la rinnovabilità o meno dei contratti pubblici; in dette sentenze si sostiene, in via un po’ semplificata da un punto di vista logico giuridico, la persistente legittimità dei rinnovi dei contratti pubblici per l’applicazione diretta [12] dell’art. 7, II comma, lett.f, della L. 157/1995.

Tuttavia quest’applicazione diretta appare quanto meno opinabile, lasciandosi preferire la soluzione, giuridicamente più solida, volta ad enucleare dalla norma de qua dei principi generali alla cui stregua valutare, caso per caso, la legittimità dei rinnovi dei contratti stipulati nella vigenza dell’art. 6 della L. 537/1993.

Per i contratti stipulati dopo l’entrata in vigore dell’art. 23 della L. n. 62/2005 - ovvio essendo che potranno essere “doppiati” dalle trattative private di cui all’art. 7, II comma, lett. f), della L. n. 157/1995 (se stipulati facendo corretta applicazione della normativa de qua) - potrà darsi luogo al “rinnovo” dei medesimi attraverso una ricostruzione dell’istituto e della relativa disciplina, che sia rispettosa dei principi generali dell’ordinamento così come, tra l’altro, pietrificati ed enucleabili dalla disciplina di cui al detto art. 7, della L. n. 157/1995.

Il secondo argomento trova il suo fondamento nella Legge 23 dicembre 2005, n. 266 – Legge Finanziaria 2006 – laddove, all’art. 1, comma 478, si legge che “Ai fini di contenimento della spesa pubblica, i contratti di locazione stipulati dalle Amministrazioni dello Stato per proprie esigenze allocative con proprietari sono rinnovabili alla scadenza contrattuale, per la durata di sei anni a fronte di una riduzione, a far data dal 1° gennaio 2006, del 10 per cento del canone annuo corrisposto. In caso contrario le medesime amministrazioni procederanno, alla scadenza contrattuale, alla valutazione di ipotesi allocative meno onerose.”

Anche se è ben chiaro che il settore dei contratti di locazione stipulati dalle PP.AA. è del tutto peculiare ed ha una disciplina apposita, è tuttavia evidente che il legislatore continui, anche dopo la l. n. 62/2005, ad introdurre delle ipotesi di rinnovabilità dei contratti che non sono tout court incompatibili con l’ordinamento. Nel caso di specie, la rinnovabilità è giustificata expressis verbis da esigenze di contenimento della spesa pubblica, principio chiaramente di rilevo generale.

Tornando, per concludere, sulla sentenza che si annota, merita, invece, condivisione il ragionamento seguito dai giudici napoletani circa la natura [13] del potere che la P.A. aveva - alla luce del vecchio art. 7, II comma, della L. n. 537/1993 - ed ha, in virtù dei principi enucleabili dall’ordinamento, quando si pone dinanzi alla scelta di rinnovare o meno i propri contratti.

Come emergeva dalla lettera del vecchio art. 7, II comma, della L. n. 537/1993, detto potere è senz’altro di natura discrezionale spettando solo alla P.A. vagliare le ragioni di pubblico interesse e di convenienza economica per la rinnovabilità dei propri contratti. E discrezionale rimane - se si accede alla tesi, a mio avviso preferibile, della persistente rinnovabilità dei contratti - alla luce dei principi generali ed, in particolare di quelli ricavabili dall’inciso iniziale dell’art. 7, II comma, della L. n. 157 del 1995 “Gli appalti del presente decreto possono essere aggiudicati…..”.


 

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(*) Funzionario di Amministrazione Ministero della Difesa.

[1] L’orientamento del TAR Campania sembra, sia pur incidentalmente, essere stato anticipato, in senso conforme, da TAR Puglia, II sez, sentenza 3.08.2005 n. 3929 e, in termini espliciti, dal parere del Consiglio di Stato, Sez. I, del 12.10.2005, in questa Rivista.

[2] Così: Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 29.03.2003 n. 1767; Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 31 dicembre 2003 n. 9302 in Rinnovo e proroga dei contratti delle PP.AA.: la sentenza del Consiglio di Stato n. 9302 del 31.12.2003, di N. BECCATI, su Altalex, rivista on line, del 16.01.2004.

[3] Si fa presente che esiste una giurisprudenza minoritaria secondo cui “la rinnovazione del contratto di cui all’art. 6 L. 537 del 1993è non un novum genus, ma una trattativa privata di specie” da regolare “secondo il combinato disposto dell’art.44 l. n. 724/1993 – sostitutivo dell’art. 6 l. n. 537/1993 – e dell’art. 7 del D.lgs. 157/1995”: cosi TAR Veneto, sez. I, sentenza 24.12.2001, n.4427, in Foro Amm.,2001, 3239.

[4] Sembra di diverso avviso: Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 31 dicembre 2003 n. 9302.

[5] Ex pluribus, si veda Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 19 febbraio 2003 n. 921.

[6] Tra le altre, si segnalano per l’apparato argomentativo: Consiglio di Stato, sezione V, sentenze 7.02.2002 n. 726 e 26.10.2002 n. 5860.                                                                                                             

[7] Nella sostanza così sembra intendere la norma de qua anche Corte dei Conti – Sezione Centrale di controllo di legittimità sugli atti del Governo e delle Amministrazioni dello Stato – decisioni nn. 34/2001 e 17/2002 riportate da R. QUINDICI, Il divieto del rinnovo dei contratti della P.A. nell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale su Altalex, rivista giuridica on line.

[8] In particolare, per l’approfondimento delle varie tesi prospettabili, si segnala lo studio di ROVERSI MONACO, Rapporti in corso e rinnovazione nei contratti della P.A., su giustizia-amministrativa.it del 28.07.2005. L’autrice, pur concludendo nel senso della non rinnovabilità dei contratti della P.A. alla luce dell’art. 23 della L.n. 62/2005, espone con problematicità una soluzione opposta per i contratti in corso, motivata soprattutto da una meritevole attenzione all’analisi economica del diritto. Da tali considerazioni sembra influenzato, in alcuni passaggi, l’iter logico di TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I BIS - sentenza 12 dicembre 2005 n. 13405. Si veda, altresì,  A. PURCARO, La proroga dei contratti della Pubblica Amministrazione nella nuova legge comunitaria, su questa Rivista on line n. 4/2005.

[9] in senso favorevole alla rinnovabilità dei contratti si è espresso più volte nel mese di dicembre il Tar Lazio, sez. I bis.  Per tutte si veda la già citata sentenza 12 dicembre 2005 n. 13405 del TAR LAZIO - ROMA, SEZ. I BIS. Tra i commentatori della legge, sostiene la tesi della rinnovabilità, con rigorosa applicazione delle regole ermeneutiche, N. BECCATI.

[10] Ma si veda, altresì, l’art. 9, IV comma, lett. e), della L. n. 358 del 24.07.1992, che, sia pur a condizioni del tutto peculiari, espressamente ammette la rinnovabilità dei contratti per un tempo massimo di tre anni.

[11] Tra gli operatori del settore è stata avanzata anche la tesi secondo la quale l’art. 23 della L. 62/2005 avrebbe inciso sulla disciplina dell’istituto del solo rinnovo, nulla dicendo in relazione alle proroghe. Se n’è dedotta l’ammissibilità di proroghe “tecniche” che funzionalmente garantiscano lo stesso risultato dei rinnovi. La tesi, che ha qualche appiglio letterale, è chiaramente priva di fondamento. A tacer d’altro essa contrasta con lo spirito dell’intervento normativo e, a monte, con le censure mosse dalla Commissione Europea al Nostro Paese.

[12] Si badi bene che il Tar Lazio ha concluso in questo senso giudicando della legittimità di vecchi contratti, stipulati nella vigenza dell’art. 6 della L. 537/1993 e s.m., che, nei casi sottoposti all’esame del giudice adito, sono sicuramente non rispondenti ai requisiti richiesti da un’applicazione diretta dell’art. 7, II comma, lett. f), della L. n. 157 del 1995, a tacer d’altro per la mancata predisposizione del progetto di base e per la mancata espressa indicazione del valore globale dell’appalto.

[13] Di avviso opposto sembra il Tar Lazio Roma, sez. I bis,  sentenza 12 dicembre 2005 n. 13405, che sembra richiamare un presunto vincolo nascente per la P.A. dall’apposizione nei contratti da essa stipulati di una clausola di rinnovabilità. Vincolo che, presumibilmente, si ricollega ad un affidamento ingenerato nel privato contraente dall’apposizione di detta clausola. Atteso che, a parer di chi scrive, il potere di stipulare un rinnovo era ed è del tutto discrezionale, l’affermazione del Tar Lazio non è del tutto peregrina ove si analizzi con la dovuta cura  il caso sottoposto alla sua attenzione: nel caso di specie, infatti, il Ministero della Difesa si era parzialmente vincolato inviando una lettera alle Ditte contraenti, motivata in modo assolutamente discutibile.


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