Giust.it

COMMISSIONE BICAMERALE

CAMERA DEI DEPUTATI - SENATO DELLA REPUBBLICA
XIII LEGISLATURA
Commissione parlamentare per le riforme costituzionali

ESTRATTO DEL RESOCONTO STENOGRAFICO DELLA SEDUTA
N. 18 DEL 15 APRILE 1997 - PRESIDENTE MASSIMO D'ALEMA
N.B.: i numeri delle pagine riportati nel testo
corrispondono alle pagine del resoconto stenografico.

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Audizione di

GIUSEPPE CARBONE,
Presidente della Corte dei conti.

Vi prego di non preoccuparvi delle carte, forse troppo numerose, che ho con me: infatti, proprio pensando alla pressione alla quale questa Commissione sarebbe stata sottoposta con la sequela di audizioni, ho provato a ridurre ad una sintesi, ad una illustrazione un intervento il cui testo completo consegnerò alla presidenza, che ringrazio, così come ringrazio gli onorevoli senatori e gli onorevoli deputati componenti di questa Commissione bicamerale per l'audizione cui sono stato chiamato, che mi consente di riferire un'esperienza e una vicenda istituzionale forse non sempre in evidenza, forse non sempre bene a fuoco, ma che credo sia di rilievo dal punto di vista dello scrutinio, cui questa Commissione è chiamata, sul rendimento di istituzioni e di funzioni come allocate e disciplinate in Costituzione. Credo infatti di non dover fare altro, in questa sede e in questa occasione, che rendere una testimonianza, riferire un'esperienza, non certo prescrivere né proporre discipline costituzionali, né tanto meno fare la parte dell'avvocato d'ufficio dell'esistente.

Invero, la Corte si presenta a questo appuntamento, si espone a questo scrutinio, inteso alla revisione del vigente assetto costituzionale quale disciplinato dalla parte seconda della Costituzione, in una condizione affatto speciale, affatto diversa da tutte le altre istituzioni di garanzia, il cui «rendimento» in questi cinquant'anni di storia repubblicana è all'attenzione e alla valutazione di questa Commissione.

Il fatto è che la vicenda istituzionale della Corte e delle funzioni di controllo e giurisdizionale ad essa intestate dalla Costituzione del 1948 (articoli 100 e 103) si è svolta fino a ieri non in attuazione, ma


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in forte scostamento - direi in deragliamento - rispetto ai principi e ai binari da essa innovativamente tracciati, fino a ieri, fino alla ritardata, contrastata, tormentata riforma del gennaio 1994-dicembre 1996. Tre erano state le scelte assunte dal costituente, fortemente innovative, in primo luogo perché, fissate in Costituzione, facevano salire di rango le due funzioni di garanzia attribuite alla Corte, che in tal modo divenivano garanzie costituzionali.

Quanto alla prima scelta, si prevedeva, in ordine alla funzione di controllo, l'egemonia e la pervasività del modello di controllo sui risultati delle gestioni e perciò sul prodotto delle amministrazioni; si prevedeva, all'inverso, la delimitazione ai soli atti del Governo del controllo preventivo di legittimità.

La seconda scelta prevedeva una duplice intestazione in capo alla Corte della funzione di controllo e della giurisdizione di responsabilità, replicando per questa giurisdizione quella separazione del civile dal penale che il costituente aveva prescelto anche per la giustizia amministrativa.

In terzo luogo, si prevedeva l'autonomia ed indipendenza dell'istituto e dei suoi componenti per l'esercizio del controllo e della giurisdizione.

Il carattere fortemente innovativo di questa scelta non è stato percepito né dal legislatore né dalla cultura eminentemente tradizionalistica e conservativa allora ed a lungo prevalente nella Corte. Quel disegno istituzionale non è stato svolto, è stato mutilato nel suo essenziale caposaldo: per cinquant'anni la Corte non ha conosciuto, non ha praticato il controllo sui risultati della gestione e sul prodotto dell'amministrazione se non, e con molta timidezza, nella sua Sezione controllo enti pubblici. Il modello assolutamente prevalente e pervasivo ha continuato ad essere quello del controllo preventivo di legittimità sui singoli atti, con la conseguenza di una scarsa effettività del controllo, con l'allungamento dei tempi dell'amministrazione e soprattutto con una sostanziale deresponsabilizzazione della stessa amministrazione. Una conseguenza ulteriore di questa inattuazione per cinquant'anni del controllo sulla gestione, predicato in Costituzione come generale e pervasivo, si è ribaltata anche sull'esercizio «e direi sul connotato» della funzione giurisdizionale di responsabilità intestata alla Corte. Infatti, nessuna consecuzione, nessuna relazione può esservi tra controllo preventivo di legittimità e responsabilità amministrativa: l'atto sottoposto a controllo o riceve una sanzione di legittimità, se approvato, registrato, vistato, ovvero, se respinto, se non registrato, non acquista efficacia, non può produrre effetti, non può ingenerare responsabilità. Abbiamo detto, infatti, che il controllo preventivo di legittimità deresponsabilizza l'amministrazione.

Relazione, consecuzione può esservi solo tra giurisdizione di responsabilità e risultanza del controllo sulla gestione, funzioni che certamente non si identificano, che devono restare ben separate ma che pur si presuppongono e possono generare sinergie se correlate e non confuse.

Questa, d'altra parte, è l'unica ratio da rinvenire in positivo nella scelta del Costituente di allocare nel medesimo istituto l'una e l'altra funzione, allocazione che - come detto - ha accomunato la Corte al Consiglio di Stato nell'attuale architettura tripartita della giurisdizione.

Piena e forte attuazione ha ricevuto, invece, l'altra scelta assunta dal Costituente, quella di assicurare alla Corte uno stato di autonomia e di indipendenza, con qualificazione di magistratura riferita ad entrambe le sue funzioni e a tutti i suoi componenti. Eppure, anche di qui è seguito uno svolgimento di assetti e di funzioni non in mera attuazione ma per più aspetti di alterazione del modello costituzionale: infatti, dalla qualificazione magistratuale - nella cultura e nella «ideologia» della Corte - è stata ricavata la preminenza e la prevalenza della funzione giurisdizionale di responsabilità attribuitale, rispetto al suo specifico di istituto di controllo esterno su amministrazione e Governo, in funzione di ausilio al Parlamento.


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Si è appannata, si è smarrita la nozione della consecutività, dell'accessorietà della funzione di giurisdizione rispetto alla funzione prima del controllo; se ne è ricavata un'omologazione del controllo alla giurisdizione (dei procedimenti, dei modi, degli assetti del controllo a quelli propri della giurisdizione) e perciò si è privilegiato, si è assolutizzato come unico modello di controllo quello preventivo di legittimità su atti, che più si presta ad essere omologato alla giurisdizione. Di più, se ne è ricavata un'altra assai rilevante - e in questo caso a me sembra del tutto corretta - conseguenza: si è letto il secondo comma dell'articolo 103 della Costituzione come se la competenza giurisdizionale ad essa intestata non fosse più quella di mera responsabilità contabile (ristretta alla regolare tenuta del conto da parte di chi ha maneggio di denaro pubblico) quale era stata letta e praticata nell'ordinamento precedente, ma come se - per implicito - fosse stata estesa alla responsabilità amministrativa di chi decide ed impegna la spesa; perciò non solo responsabilità di cassieri, pagatori e contabili, ma anche di funzionari e di amministratori. Conseguenza corretta, a me sembra, anche in correlazione con il principio di responsabilità dei pubblici funzionari e dipendenti predicato in via generale dall'articolo 28 della Costituzione. Ciò nonostante l'articolo 103 della Costituzione parlasse di giurisdizione in materia di contabilità pubblica, residuo della precedente cultura. D'altra parte, non ci si potrebbe dar conto di una giurisdizione costituzionalmente intestata e separata, ma ristretta a meri controlli di cassa; perciò una giurisdizione di forte spessore, in crescita, ma che ha smarrito la ragione prima e vera della sua allocazione costituzionale e che, nel concreto, non è stata rifornita - né in positivo né in negativo - dalla sua costituzionale presupposta consecutività-contiguità con la funzione del controllo sui risultati della gestione.

Questa rapida, sommaria ricostruzione della vicenda storica occorsa alla Corte in questi cinquant'anni di così parziale, alterata attuazione del modello costituzionale non sarebbe completa se non evocasse anche un recupero che in positivo la Corte ha tentato del suo rapporto di ausiliarietà con gli organi della sovranità e della decisione, che pure è la connotazione scritta in Costituzione principalmente riferita a quest'istituzione.

La Corte, sin dalla sua legge di fondazione (1862), era chiamata alla parificazione del bilancio consuntivo dello Stato, a certificare cioè la corrispondenza tra autorizzazione di spesa e previsione di entrata del bilancio preventivo, da una parte, e i conti esposti nel bilancio consuntivo, predisposto da Governo e amministrazione, dall'altra; parificazione resa sulla base del riscontro effettuato dalla Corte con le proprie scritture contabili annotate nell'anno in corso di esercizio.

Con questa parificazione, in base alla legge, la Corte era tenuta a rimettere alle Camere una propria relazione sull'andamento della gestione, sugli eventi dell'amministrazione, con valutazioni e proposte di utili innovazioni normative ricavate dalle riferite vicende gestorie e amministrative.

Su questo tradizionale adempimento, a partire dagli anni a cavallo tra i sessanta e i settanta, la Corte ha innestato una sempre più intensa e pregnante attività di referto al Parlamento, sia nell'occasione della relazione annuale sul bilancio consuntivo sia su altri momenti e temi della gestione di finanza pubblica e di pubblica amministrazione, richiestane espressamente dall'uno o dall'altro ramo del Parlamento, o investitane direttamente dalla legge, ovvero anche di propria iniziativa. Attività, questa, che ha acquistato sempre più spicco e rilievo, che ha conquistato sempre più attenzione e considerazione non solo in Parlamento ma anche presso la pubblica opinione, sicché impropriamente si è ritenuto che alla Corte fosse intestata una vera e propria ed ulteriore funzione, quella di referto. Impropriamente, perché il riferire è solo un dar conto dell'esito del controllare, è - deve essere - un esito e, se si vuole, una sanzione del controllo, un avviso, una


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valutazione rimessa alla sede - altra - della decisione, al Parlamento. E invece, nella concreta vicenda della Corte, il referto è cresciuto in assoluta sconnessione con il controllo, proprio perché essa, per cinquant'anni, è rimasta mutilata nella sua funzione prima di controllo sui risultati della gestione e sul prodotto dell'amministrazione, unico modello di controllo capace di rifornire il referto.

È successo allora che la Corte ha dovuto assumere a contenuto del suo riferire vicende e fenomeni collocati su una scala diversa da quelli attingibili a controllo sulla gestione: ha puntato la sua attenzione e la sua riflessione sulle vicende di finanza pubblica che si collocano a monte dell'amministrazione e della gestione, sugli andamenti complessivi, macro, della finanza pubblica, sui suoi squilibri, sulle sue patologie, a partire dalla legislazione di spesa scrutinata sul parametro dell'articolo 81 della Costituzione per quel che concerne la quantificazione degli oneri implicati e la copertura finanziaria indicata. La Corte è diventata per questo verso organo di monitoraggio e di avviso sulle vicende della finanza pubblica. Di qui, anche per la legittimazione che ne ha ricevuto, il suo accesso alla Corte costituzionale sui temi della legislazione di spesa e della finanza pubblica.

Anche qui, anche per questa evoluzione della sua funzione di referto, per questo monitoraggio sugli squilibri di finanza pubblica, per questo deferimento allo scrutinio di costituzionalità delle leggi di spesa, siamo fuori squadra rispetto al modello scritto in Costituzione. Lo si deve considerare, per quanto virtuoso, un deragliamento dal profilo disegnato in Costituzione per l'istituto e per le sue funzioni.

Ma, nel bene o nel male, questa è la Corte come si è venuta dispiegando nei suoi assetti e nelle sue funzioni in questi cinquant'anni; questa è la Corte che si presenta al vostro scrutinio. Altro è il modello scritto in Costituzione, con il quale il vostro riesame costituente è invece chiamato a confrontarsi; questo modello, solo di recente, solo ieri o l'altro ieri è stato sostanzialmente recuperato dalle due leggi di riforma (controllo e giurisdizione) del gennaio 1994, integrate e corrette dalla legge di conversione (a conclusione di una teoria infinita di decreti-legge reiterati) del dicembre 1996. Lungo, tormentato e contrastato cammino di riforma a testimoniare recalcitranze ed indisponibilità della politica, dell'amministrazione, della stessa cultura tradizionale del controllo, che affondano radici antiche e forti anche nella Corte, ma a testimoniare altresì che si è trattato di una riforma vera, capace di incidere, di restituire impegno e responsabilità in chi amministra e in chi controlla, di connettere finalmente e sinergicamente controllo e giurisdizione.

Come ho detto, non mi arrogo alcun titolo per prescrivere ricette, per intervenire nella disputa su nuove e diverse ipotesi di allocazione e di disciplina costituzionale, di funzioni e di istituti di garanzia. Sommessamente richiamo la sostanziale divaricazione per la funzione di controllo e per la giurisdizione di responsabilità tra il parametro del rendimento storico e dell'assetto di queste funzioni persistito fino a ieri e le scelte, i valori e il modello scritto in Costituzione.

Nel documento che rimetto a questa Commissione e nello svolgimento di queste brevi considerazioni mi sono sforzato di esaurire le ragioni e le virtù di quel modello, che quanto meno chiede una forte comunicazione, una istituzionale contiguità tra controllo sulla gestione ed azione di responsabilità, in ogni caso, anche nel caso di una diversa e separata - in quanto riunificata - allocazione della giurisdizione. Un'azione di responsabilità confusa con l'azione penale, o comunque diversamente allocata, rischierebbe di risultare inerte, mortificata e comunque squilibrata per eccesso o per difetto, fuori della sua connessione-distinzione con gli esiti del controllo sulla gestione rimesso a professionalità diverse da quelle formate ed esercitate in questo controllo.

Un'azione di responsabilità che rimanga invece in capo alla Corte, anche se il giudice della responsabilità dovesse risultare


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altrove allocato, sarebbe in grado di lucrare al meglio gli esiti del controllo sui risultati della gestione e dell'azione amministrativa e si svolgerebbe in un ambito di qualificazione professionale, di specifica conoscenza dell'amministrazione, di affinamento culturale i più consoni ad un esercizio effettivo ed equilibrato di una funzione requirente affatto distinta dall'azione penale, con la quale non può e non deve essere confusa per il duplice rischio di eccessi da una parte, ovvero di disattenzione e di disimpegno dall'altra.

In questo quadro, un'ipotesi di grande interesse, che mi permetto di segnalare a questa Commissione, fu introdotta con il primo decreto-legge di riforma della Corte nel 1993 a contrasto - allora - delle prime emergenze di Tangentopoli. Con quel decreto alla procura della Corte si commetteva di promuovere ricorso dinanzi alla giustizia amministrativa avverso quei provvedimenti che fossero ritenuti illegittimi non già a fronte di diritti o interessi di privati, bensì a fronte di preminenti e generali interessi pubblici pretermessi o mortificati dallo stesso provvedimento; un ricorso, perciò, nell'interesse pubblico ad integrare ed a bilanciare l'accesso al giudice amministrativo sin lì consentito solo a difesa di situazioni giuridiche di interesse privato.

In tal modo si veniva a configurare in capo alla Corte, alla sua procura un'azione generale di interesse pubblico non solo per danno alla pubblica finanza, ma anche per l'annullamento, su ricorso, di provvedimenti amministrativi compressivi di pubblici interessi; un'intuizione, questa, da non trascurare nell'attuale contesto di generale ripensamento per la riallocazione degli istituti e delle funzioni di garanzia. Tra l'altro, fu il primo esempio, sia pure ante litteram, di distaccamento del ruolo requirente da quello giudicante conseguito proprio con la diversa allocazione istituzionale di procura e di giurisdizione.


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Audizione di

FRANCESCO GARRI,
Procuratore generale presso la Corte dei conti.

Signor presidente, onorevoli senatori, onorevoli deputati, anch'io sono lieto di quest'occasione che mi consente - uso una parola già adoperata dal presidente - di rendere testimonianza, perché le istituzioni, in questo momento di riforme istituzionali, sono tenute a dar testimonianza di ciò che sono, di come nell'ordinamento della Repubblica italiana sono sorte e sono divenute.

L'attuale collocazione della Corte dei conti nelle istituzioni è frutto di un'evoluzione che si è compiuta direi in stretta correlazione con le caratteristiche sociali italiane e con il modo di essere e di fare amministrazione, perché la Corte dei conti, come il Consiglio di Stato, è magistratura contigua alle amministrazioni pubbliche.

Il controllo della Corte ha avvertito l'esigenza di un nuovo modo di verifica delle gestioni pubbliche sin dagli anni cinquanta: è nel 1958 che, quando si è trovata a dover articolare il controllo sulla gestione finanziaria degli enti pubblici, non ha certo recuperato il modello del controllo di legittimità, ma ha parlato di controllo di attività, di controllo sui risultati finanziari della parte di amministrazione costituita dagli enti pubblici. Vi è ancora l'esempio delle gestioni locali e certamente dagli anni sessanta vi è l'esempio della relazione al Parlamento in cui, in aggiunta al controllo preventivo, che la legge voleva si svolgesse perché non era stata modificata, la Corte chiaramente disse che il suo esame concerneva non i singoli atti ma più atti, perché un atto poteva essere legittimo, ma più atti insieme potevano raggiungere uno scopo contrastante con le finalità normative. Ed è vero quanto ha detto il presidente Carbone, cioè che la legislazione del 1994 e del 1996 ha reso la disciplina del controllo coerente forse con il precetto costituzionale, certamente con il modo di evolversi dell'amministrazione italiana, in quanto gli anni novanta sono stati e sono gli anni della modifica del modo di fare amministrazione ed il controllo non è variabile indipendente, ma è variabile collegata con il modo di fare amministrazione.


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Per quanto riguarda la giurisdizione, ho parlato di testimonianza perché penso che bisogna rendere chiaro ciò che rappresenta un istituto come la Corte (mi si consenta di ricordare che, nel riferire al Parlamento sul disegno di legge relativo, Cavour parlò d'istituzione della prima magistratura dell'Italia unita); la giurisdizione della Corte - dicevo - ha compiuto un cammino diverso, un cammino che si è svolto tra contrasti, nel rapporto con la Corte di cassazione, con la Corte costituzionale, per rendere effettivo il sindacato sul modo di fare amministrazione, anzi, direi meglio sulla cattiva amministrazione.

Vorrei far presente che proprio in questi due processi di evoluzione la Corte ha avuto il grosso vantaggio di avere vicini a sé, oltre che le altre istituzioni di garanzia, anche il Parlamento della Repubblica. Negli anni novanta vi sono stati 14 atti normativi che hanno riguardato la Corte dei conti, il che significa attenzione del Parlamento, ed è significativo che questi atti normativi si caratterizzino in un duplice senso: ogni qualvolta il Parlamento è intervenuto per trovare rimedio a fenomeni - ripeto l'espressione prima adoperata - di cattiva gestione, è intervenuto assegnando funzioni alla Corte. Il Parlamento è intervenuto quando, sulla base dell'insegnamento della Corte costituzionale, è stato posto di fronte all'esigenza di attuare un'interpositio legislatoris (e vi sono protagonisti di questa implicazione da parte della Corte costituzionale), cioè laddove l'interpretazione del giudice e gli interventi del giudice e delle leggi non erano sufficienti per adeguare l'ordinamento ai principi stabiliti in Costituzione.

Il secondo punto che vorrei rappresentare, sempre sulla base della finalità che ho indicato all'inizio del mio intervento, riguarda il fatto che la Corte è una delle giurisdizioni per le quali il principio della materia è stato applicato già dal 1948. La Costituzione dice: «La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica (espressione certamente arcaica) e nelle altre specificate dalla legge»: ciò vuol dire che questo criterio moderno, che oggi viene da tutte le istituzioni di garanzia guardato con attenzione perché si riflette sulla tutela degli interessi e dei diritti dei cittadini, ha trovato già applicazione nell'indicazione costituzionale.

Ma qual è il punto su cui l'evoluzione della giurisprudenza e della legislazione sollecita una specifica riflessione? La giurisdizione distinta per materia presuppone un dato della realtà sostanziale e processuale: le materie non richiedono le stesse regole perché la funzione di garanzia sia svolta in relazione ad esse e vi sono regole differenti. Il Presidente del Consiglio di Stato ha fatto riferimento a questo problema richiamando l'esercizio di poteri pubblici. Sostanzialmente e nella realtà, nell'esercizio della giurisdizione quella che è stata con denominazione arcaica indicata come giurisdizione delle materie di contabilità pubblica è divenuta la giurisdizione sugli illeciti finanziari. Questa è certamente un'espressione più moderna che si collega ad una terminologia in uso non solo negli altri stati (basta fare riferimento ai recenti dibattiti della dottrina francese) ma anche a livello di Unione europea.

Quali connotati sono stati propri della materia della finanza pubblica oggetto di attività giurisdizionale? Anzitutto l'individuazione degli interessi, perché le materie hanno valore in quanto si collegano ad interessi. Accanto a interessi privati o della pubblica amministrazione, ci sono quegli interessi collettivi, diffusi, che se violati determinano conseguenze pregiudizievoli per la finanza pubblica e che costituiscono punto di riferimento di tutta l'attività giurisdizionale e ragione della sua autonomia. Si tratta di punti di riferimento che chiariscono anche il motivo della previsione di un'azione pubblica nella materia. Desidero fare due esempi: il danno ambientale, da quando è stato sottratto alla competenza giurisdizionale della Corte in virtù di una norma, non ha avuto che sporadiche occasioni di essere azionato innanzi al giudice ordinario. Vorrei anche ricordare che il problema, che poi è diventato di tanto rilievo, dei fondi neri fu in lontani anni preso in esame dalla giurisprudenza della Corte,


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che, sulla base delle norme allora vigenti, trovò ostacolo nella Cassazione. Si trattava dei primi fondi neri dell'IRI, di una gestione che risale agli anni sessanta.

La Corte, nella sua giurisdizione, ha questi due punti di riferimento che costituiscono i principi generali del nostro ordinamento: chi gestisce deve rendere conto; chi gestisce male ha bisogno della sanzione.

Qual è il dato che vorrei rappresentare? È il fatto di vivere su piani diversi, nella realtà effettiva della giurisdizione, i vari settori dell'attività di garanzia a mezzo di giudici che si hanno nel nostro ordinamento.

Tutti noi sappiamo che l'obbligazione di risarcimento ha connotati differenti nell'ambito della giurisdizione civile perché - come ha detto un giurista molto sottile - l'attenzione del giudice nella società moderna si sposta dal danneggiante al danneggiato, tende a far sì che lo squilibrio economico che si è verificato venga eliminato. L'esercizio di poteri pubblici il cui sindacato è proprio della giurisdizione amministrativa si colloca sul piano della legittimità-illegittimità, piani che non hanno comunicazione con quello dell'illiceità dell'azione amministrativa.

Vorrei aggiungere che la riforma del 1994-1996 ha dimensionato la competenza giurisdizionale della Corte dandole quei connotati che ne consentono un'effettività nel nostro ordinamento. Quando si stabilisce che le responsabilità degli amministratori pubblici sono limitate ai soli casi di dolo o colpa grave, che occorre tener conto dei vantaggi arrecati all'amministrazione e alla collettività, quando si dice che il danno economico non è quello risarcibile, si richiede al giudice specializzato l'esercizio di poteri propri particolari, perspicui (continuo a parlare di giurisdizione delle materie finanziarie perché questo tipo di espressioni ormai costituiscono nella sede europea il termine più proprio da adoperare).

Accanto a queste considerazioni, per essere breve (chiedo di poter depositare un documento) vorrei accennare ad un punto che ha formato oggetto di discussioni e preoccupazioni: la cointestazione di competenze di controllo e di giurisdizione in capo alla Corte dei conti.

Sinergia tra controllo e giurisdizione: la giurisdizione è tutelata da quelle che si possono chiamare ingerenze invasive che potrebbero essere ipotizzate da ben chiare norme procedurali di garanzia. Vorrei però accennare ad un altro profilo. Nella realtà la preoccupazione che esiste e che è stata prospettata è la seguente: il rischio che un giudizio negativo di controllo sull'efficienza ed efficacia dell'azione divenga quella che alcuni processualisti chiamano «pietra angolare» su cui poi fondare un'affermazione di responsabilità, cioè che vi sia non sinergia ma condizionamento, facendo venir meno quella funzione dell'attività di controllo che oggi si valorizza nel rapporto con l'amministrazione ai fini dell'autocorrezione da parte dell'amministrazione. Però questa preoccupazione è forse effetto di una cultura o anche di una situazione preesistente, che vedeva come oggetto dell'accertamento di responsabilità la verifica della violazione di norme. Ma questa è stata sconfitta non solo dalla cultura più recente ormai pacifica, ma anche dalle norme che proprio nella stagione 1994-1996 sono state dettate.

Vorrei concludere con un richiamo. La cointestazione di funzioni di controllo e giurisdizionali è presente - come è a tutti noto - nei paesi europei; ma mi paiono significative due vicende, la prima delle quali è la presa di posizione in sede europea: il Consiglio europeo di Madrid e il Parlamento europeo il 5 maggio 1996 hanno approvato una risoluzione in cui si afferma la necessità «di norme comunitarie che possano consentire una lotta risoluta contro la criminalità finanziaria specificamente europea». Onde garantire un'efficace sanzione delle infrazioni al diritto comunitario lesive delle interessi finanziari della Comunità e un'efficace repressione dei comportamenti degli agenti della Comunità e degli stati membri coinvolti in dette infrazioni, è stato proposto di riconoscere alla Corte dei conti europea, accanto alle funzioni di controllo,


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un potere giurisdizionale vero e proprio, associato al diritto di procedere di sua iniziativa e suscettibile di appello innanzi alla Corte di giustizia. E' anche significativo che in taluni paesi che hanno di recente innovato la Costituzione (il mio riferimento è, ad esempio, alla Romania) si sia preso a modello, per il fatto che funzioni di controllo e giurisdizionali siano intestate allo stesso organo, il sistema francese ma anche quello italiano.

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