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Rassegna stampa
E il magistrato torna a regalarsi l'arbitrato
di GIAN ANTONIO STELLA
(pubblicato ne Il Corriere della Sera del 13.01.1999)
Zitti zitti quatti quatti, un giorno di novembre in cui eravamo distratti dal processo Clinton, dai guai di Ronaldo e dal lancio di Zorro, hanno ripristinato un altro pezzetto della Prima Repubblica che sembrava impossibile ripristinare: gli arbitrati. Vale a dire quel sistema di «giustizia parallela» che nel solo 1992 aveva consentito a magistrati come Pasquale De Lise, consigliere di Stato e già capo di Gabinetto di Guido Carli al Tesoro, di «arrotondare» lo stipendio di 245 milioni di allora con quello che lui chiamava, simpaticamente, «il guadagno legittimo di qualche soldo»: 848 milioni extra. Pari oggi a un miliardo, cinquanta milioni e spiccioli.
Se ne sono accorti, sobbalzando sulla sedia per lo stupore («mai al mondo ci saremmo aspettati che ci riprovassero», spiegano) quelli dell'Associazione nazionale magistrati amministrativi, che in questi anni sono stati tra i più decisi, insieme con il Csm, nella guerra alle ambiguità, alle interferenze, agli inquinamenti provocati da questa contestatissima distribuzione a un gruppetto di giudici di una massa di denaro pari, prima della (momentanea) stretta moralizzatrice, a una cinquantina di miliardi l'anno. Soldi incassati per far marciare in fretta, una o due settimane, cause giudiziarie che altrimenti sarebbero durate anni.
Questo erano gli arbitrati: una «corsia preferenziale» disegnata da una legge del 1962 in base alla quale un'azienda in causa con un ente pubblico poteva (o doveva) scavalcare la legge ordinaria chiedendo un collegio composto di solito da un magistrato del Consiglio di Stato, un avvocato dello Stato, un giudice di corte d'Appello e due rappresentanti delle parti.
Si sa come va con le cause, da noi: i processi pendenti sono quasi cinque milioni e per avere un verdetto di primo grado in sede civile ci vogliono in media 1.207 giorni. Mediamente. Perché lo stilista Valentino, per vedersi dar ragione contro un signore che approfittando del proprio cognome si era arricchito giocando sull'equivoco del marchio, ci ha messo quasi 11 anni.
Le alternative erano (e restano) due: o riformare davvero il sistema giudiziario per garantire processi rapidi o consentire, per evitare paralisi, questa specie di corti parallele, in grado di rendere ricchi un po' di giudici. Manco a dirlo: la preferita, per molti magistrati, è sempre stata la seconda.
Col risultato che, al contrario di quanto accade nelle cause civili, non solo lo Stato (guarda la coincidenza) perdeva la maggior parte degli arbitrati ma ci rimetteva perfino se gli capitava di vincere: la legge dice infatti che le spese processuali in caso di vittoria dell'azienda che fa causa sono tutte a carico dell'ente pubblico ma in caso di vittoria dell'ente pubblico si dividono a metà. Geniale.
Per capire l'andazzo è sufficiente ricordare una battuta di Aldo Quartulli, allora a capo del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Csm dei magistrati amministrativi, e fortissimo rastrellatore di arbitrati: «Le sentenze sono la moglie, gli incarichi l'amante». Un'amante generosa.
Basti dire che nel solo biennio 1991-92 un manipolo di 24 magistrati si spartì le parcelle (in genere tra il 3 e il 6 per cento) di una mole di «verdetti paralleli» per un totale di 1.052 miliardi. O che Renato Laschena, attuale presidente del Csm amministrativo, nel triennio 1989-91 «arrotondò» con arbitrati 870 milioni di oggi. O che a Napoli, come scoprì Ferdinando Imposimato, qualche fantasiosa funzionaria regionale, moglie di qualche fantasioso avvocato, teneva ferme le pratiche per il pagamento delle convenzioni alle cliniche private in modo che queste chiedessero un arbitrato che coinvolgesse (guarda caso) il marito.
O ancora che Filippo Verde, uno dei giudici al centro del chiacchierato «lodo Mondadori», fu denunciato dai super-ispettori del Secit perché (non bastandogli evidentemente altri regalucci come la vacanza da 37 milioni avuta in dono dalla Canon dopo la firma di un contratto per la vendita di una certa quantità di fotocopiatrici al ministero della Giustizia dove era distaccato) s'era scordato di mettere nel 740 qualcosa come 400 milioni. Un vuoto di memoria che peraltro aveva colpito un bel po' di suoi colleghi magistrati (per un totale di 10 miliardi di evasione) tra i quali, udite udite, il segretario generale del ministero delle Finanze («solo 40 milioni, scusate: un errore materiale») Claudio Zucchelli.
Insomma: uno scandalo. Uno scandalo così scandaloso che nel marzo 1994 Carlo Azeglio Ciampi e Francesco Merloni dissero basta. E cambiarono la legge abolendo di fatto gli arbitrati. Ma era solo l'inizio di un tormentone. Ripristinate dal governo Berlusconi e ri-sospese dal governo Dini, le «corti parallele» invocate da tanti giudici armati di codicilli («sono abolite, sì però in punto di diritto non è chiaro se ci si riferisce solo a quelle nuove, quindi le vecchie...») sono state in questi anni sottoposte a un bombardamento incessante.
Prima il Csm, seguito da parte del Csma: basta, mai più arbitrati. Poi l'impegno di Di Pietro ai Lavori pubblici: mai più. Poi la proposta di legge di Bassanini: mai più. Poi quella di Flick: mai più. Poi la «bozza Boato», che sospendeva le vecchie e le assorbiva nella riforma della Bicamerale: mai più.
Il coro è tale che il 15 luglio '98, nelle nuove norme che regolano la magistratura, il Parlamento vota la incompatibilità tra il ruolo di magistrato e gli incarichi extragiudiziali. E' la fine. Pare. Ma solo fino al 18 novembre. Quando, umma umma, su proposta del governo (con una spintarella particolare, dicono, del sottosegretario Antonio Bargone) passa nel totale silenzio la «Merloni Ter». Che prevede l'adozione d'un nuovo regolamento per i collegi arbitrali e decreta: «Dalla data di entrata in vigore del regolamento cessano d'avere efficacia gli articoli 42, 43, 44, 45...», cioè le vecchie norme che consentono ai magistrati di partecipare agli arbitrati.
Chiaro? Fino ad allora tutto resta come prima. Facciamo una scommessa? Quel regolamento (rifinito dai magistrati distaccati nei ministeri) andrà per le lunghe, lunghe, lunghe...
GIAN ANTONIO STELLA