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Articoli e note

 

PIETRO QUINTO
(Avvocato)

Astensione e ricusazione del giudice della cautela: 
opportunità o dovere nella L. 205/2000?
(*)

horizontal rule

 

"( ....) Il principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione ha pieno valore costituzionale e governa ogni tipo di processo in relazione al quale può e deve trovare espressa attuazione..." (1).

Così recita il testo di una nota sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha posto in luce l’aspetto centrale di tutto il sistema giurisdizionale: l’alterità­terzietà del giudice rispetto alle parti del processo.

E’ un cardine dello stato di diritto che il giudice diriga il processo, accerti i fatti e li valuti con pieno, puntuale ossequio alla volontà dell’ordinamento giuridico. Il giudice cioè non può e non deve far altro che formulare la volontà della legge alla quale soltanto è soggetto: così enuncia la nostra Carta Costituzionale in una di quelle norme (art. 101) a cui devono farsi risalire i principi ispiratori della disciplina giuridica dei processi.

Sempre a garanzia della neutralità dell’organo giudicante vige il principio della precostituzione per legge (art. 25 della Costituzione): solo un giudice istituito e determinato sulla base di criteri generali, fissati in anticipo sui fatti da giudicare ed enunciati da una legge che impedisca di sceglierlo discrezionalmente, dà il ragionevole affidamento di decisioni affrancate da interessi particolari e maturate in una posizione di assoluta equidistanza rispetto alle parti.

Di modo che il giudice precostituito è il giudice naturale: imparziale perché deve essere nella sua essenza di giudice.

Al fine di ottemperare ai suddetti principi di portata costituzionale su cui si fonda l’intero meccanismo processuale e nei quali trova compiuta attuazione il "giusto processo", il legislatore ha adottato soluzioni differenti nei diversi contesti non seguendo le stesse linee direttive, ma pur sempre nell’ottica del medesimo obiettivo finale: preservare l’organo giudicante da ogni sorta di pregiudizio che possa coinvolgerlo direttamente o indirettamente nella causa.

A tal proposito vengono in rilievo gli istituti dell’astensione e della ricusazione aventi un ambito di applicazione che si estende a tutti i tipi di procedimento giurisdizionale, ispirati ad una disciplina pressocché identica - considerato pure che la normativa speciale in materia di giudizi amministrativi (art. 47 del R.D. 642/1907) si rifà integralmente alla disciplina dettata in materia di processi civili agli artt. 51 ss. c.p.c - ed accomunati dalla medesima ratio: privare il giudice (naturalmente avuto riguardo alla persona fisica del magistrato che riveste la funzione di giudicante) del potere-dovere di giudicare in quelle cause nelle quali, in ragione di determinati possibili rapporti con una delle parti, si potrebbe obiettivamente dubitare della sua imparzialità (2).

Non è questa la sede più opportuna per procedere ad una lettura analitica delle previsioni normative che regolano la materia in esame.

Un altro è l’aspetto interessante che merita di essere approfondito, oggetto da sempre di vivaci dibattiti, accentuati -sembra- dalla normativa di riforma del processo amministrativo (L.205/2000).

La problematica muove dalla previsione di cui all’art. 34 c.p.p. e più in particolare dalla disposizione normativa contenuta al comma 2 del suddetto articolo: "(..) non può partecipare al giudizio il giudice che ha emesso il provvedimento conclusivo dell’udienza preliminare".

L’articolo da ultimo citato in materia di processi penali disciplina "l’incompatibilità giudiziale", prevedendo una serie di ipotesi in cui è categoricamente precluso al giudice che abbia curato determinate attività processuali di compierne delle altre in seno al medesimo procedimento.

La previsione normativa testé enunciata, così come la disciplina della astensione di cui innanzi, è funzionale all’imprescindibile esigenza di neutralità del giudice, presente, abbiamo visto, in ogni contesto processuale.

Sembra chiara, quindi, la volontà del legislatore di aderire appieno ai principi costituzionali e di creare un sistema processuale equo, in cui le posizioni delle parti in causa siano realmente garantite.

Ebbene, posto che il principio di imparzialità governa ogni tipo di processo e che comunque manca, per i processi civili ed amministrativi, una previsione normativa che, a tutela del suddetto principio, prescriva la medesima forma di incompatibilità giudiziale disposta invece per i processi penali, da più parti si sono sollevati dubbi in ordine alla legittimità o meno delle norme di cui agli artt. 47 del R.D. 642/1907 e 51 c.p.c. per la mancata previsione della suindicata forma di incompatibilità, rimettendo alla Suprema Corte la risoluzione del caso.

I parametri costituzionali che i giudici rimettenti hanno invocato, convergono nel configurare quello che, in numerose occasioni, la Suprema Corte ha indicato come il "giusto processo" voluto dalla Costituzione.

Quali possono essere quindi le ragioni che hanno portato il legislatore a realizzare una siffatta discriminazione tra giudizio penale da una parte e giudizio civile ed amministrativo dall’altra?

La Corte Costituzionale si è espressa sulla questione, tentando di dare una risposta esaustiva al quesito, sebbene i suoi ripetuti interventi non siano valsi a dirimere i dibattiti che ancora oggi si muovono intorno all’argomento.

La giurisprudenza ha pacificamente escluso che il meccanismo processuale, concepito normativamente per i giudizi penali, possa in qualche modo trovare applicazione pure nell’ambito dei giudizi civili ed amministrativi (3).

In particolare la Corte ha chiarito che le regole delle incompatibilità soggettive per precedente attività svolta nello stesso procedimento penale non sono applicabili al giudizio civile ed a quello amministrativo a ragione delle particolarità e delle diversità dei sistemi processuali.

La neutralità del giudice viene compiutamente tutelata nelle ultime due ipotesi dalle previsioni normative sull’astensione e sulla ricusazione stabilite dal Codice di Procedura Civile, cui anche le norme proprie del processo amministrativo fanno rinvio.

Il convincimento dell’organo giudicante, nell’ambito dei giudizi civili e dei giudizi amministrativi, si forma nell’arco dell’intero procedimento che, peraltro, non prevede fasi caratterizzate da una completa autonomia come invece nel processo penale; il potere cautelare, in tali ipotesi, è da considerarsi accessorio al potere principale espressamente attribuito al giudice del merito e non presenta quindi caratteristiche di autonomia, presupposto questo indispensabile per la differenziazione delle figure giudicanti.

D’altra parte lo stesso Consiglio di Stato si è così espresso in ordine alla questione: "...le ragioni anche di diritto esplicitate dal giudice in sede cautelare non vincolano lo stesso giudice in occasione della pronuncia di merito dal momento che in quella sede l’oggetto dell’accertamento non è il danno (con i connotati della gravità e della irreparabilità), bensì la legittimità dell’atto impugnato " (4).

Sulla esaustività degli istituti dell’astensione e della ricusazione al fine di garantire la neutralità del giudice nell’ambito dei giudizi amministrativi si è più volte espressa la giurisprudenza costituzionale: "...l’insopprimibile esigenza di imparzialità del giudice è risolvibile nel processo amministrativo attraverso gli istituti dell’astensione e della ricusazione previsti dal codice di procedura civile cui le norme proprie del processo amministrativo fanno rinvio" (5).

Nulla può essere contestato quindi al legislatore che ha pienamente aderito al principio d’imparzialità del giudice, provvedendo ad adottare soluzioni che agevolino la sua completa attuazione nei diversi contesti, non trascurando allo stesso tempo le diverse caratteristiche e modalità procedurali di ognuno di essi.

E’ proprio da tale ultimo presupposto che muove la scelta di prevedere per il giudizio penale, tenendo conto delle particolarità strutturali dello stesso, l’incompatibilità giudiziale innanzi indicata.

Il processo penale si articola in maniera tale da evitare che le valutazioni effettuate in merito alla responsabilità penale dell’indagato in fase predibattimentale, ai fini cautelari, possano condizionare in virtù della "c.d. forza della prevenzione", la valutazione definitiva sul merito.

L’incompatibilità, infatti, è frutto "della cosiddetta forza della prevenzione, cioè quella naturale tendenza a mantenere un giudizio già espresso o un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento" (6).

E’ escluso che uno stesso giudice persona fisica possa pronunciarsi nel medesimo procedimento e nei confronti dello stesso imputato, sia in sede cautelare personale sia in sede di giudizio conclusivo sul merito dell’imputazione.

La disciplina normativa dell’incompatibilità del giudice stabilita dall’art. 34 c.p.p., alla stregua della direttiva al legislatore delegato contenuta nell’art. 2 n. 67 della L. 81/87, si fonda sulla necessità di evitare la duplicazione di giudizi della medesima natura presso lo stesso giudice e quindi sulla suddetta necessità di proteggere il giudizio del merito della causa dal rischio di un pregiudizio effettivo o anche solo potenziale, derivante da valutazioni sostanziali sull’ipotesi accusatoria, espresse in occasione di atti compiuti in precedenti fasi processuali.

Non si contano i casi d’incostituzionalità rimessi alla Suprema Corte ed aventi ad oggetto la previsione normativa di cui all’art. 34 c.p.p. (7).

I giudici rimettenti hanno contestato l’incompletezza del suddetto articolo per la mancata previsione di particolari forme di incompatibilità tra talune figure giudicanti.

I ripetuti interventi della Suprema Corte tesi a definire i casi d’incostituzionalità hanno portato ad integrare le lacune costituzionalmente illegittime contenute nell’art. 34 c.p.p. e a statuire che l’incompatibilità alla partecipazione al giudizio deve valere anche in ipotesi non espressamente contemplate.

Esse riguardano principalmente il giudice per le indagini preliminari, tanto presso la pretura quanto presso il tribunale che abbia pronunciato al p.m. l’ordine di formulare l’imputazione, il rigetto della richiesta di emissione del decreto penale di condanna per inadeguatezza della pena, il rigetto, in diverse circostanze, della richiesta di applicazione della pena concordata, il rigetto della domanda di oblazione (8).

Sull’evoluzione giurisprudenziale è stato influente il mutamento del quadro normativo determinato dall’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale e ancor di più dalla legge di riforma n. 332 del 1995.

La nuova disciplina oggi in vigore, per potenziare le garanzie della libertà personale nel processo penale e valorizzare l’eccezionalità delle misure restrittive della stessa, richiede un giudizio probabilistico in ordine alla colpevolezza assai più approfondito che in passato e tale da superare, ai fini della valutazione circa l’esistenza del pregiudizio in ordine alla decisione sulla responsabilità, la distinzione tra valutazioni di tipo indiziario rilevanti in sede cautelare e giudizio sul merito dell’accusa in sede dibattimentale.

Ai sensi del I comma dell’art. 273 del Codice di Procedura Penale la prima condizione generale per l’emissione di misure cautelare personali è l’apprezzamento di "gravi indizi di colpevolezza" a carico dell’imputato in luogo dei "sufficienti indizi" di cui al Codice previgente.

E’ evidente che la norma può esprimersi solo in termini di "indizi" per l’ovvio motivo che tutti gli elementi raccolti nella fase delle indagini preliminari, sia a favore che contro l’imputato, non hanno ancora avuto un riscontro nel contraddittorio dibattimentale; è altrettanto vero, però, che detti "indizi" vengono ritenuti idonei a dimostrare una qual certa fondatezza dell’accusa, almeno fino all’emergere, in dibattimento, di nuovi ed eventuali elementi di contrario avviso.

Ora, se è vero che rimangono non equiparabili situazioni processuali sicuramente diverse, quali quella della decisione circa l’applicazione di una misura cautelare personale e quella della decisione di merito sulla fondatezza dell’accusa, ciò non di meno occorre prendere atto che "i gravi indizi di colpevolezza" richiesti dall’art. 273 c.p.p. I comma per l’applicabilità delle misure cautelare si sostanziano pur sempre in una serie di elementi probatori individuati nelle indagini preliminari e idonei a fornire una ragionevole probabilità di colpevolezza dell’imputato.

La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha sottolineato che il concetto di "gravità" degli indizi postula un’obiettiva precisione dei singoli elementi indizianti che, nel loro complesso, consentano di pervenire ad un giudizio che, pur senza raggiungere il grado di certezza richiesto per la condanna, sia di alta probabilità dell’esistenza del reato e della sua attribuibilità all’indagato (9).

A ciò si aggiunga che, ai sensi dell’art. 292, lett. c) il giudice è tenuto ad esporre con adeguata motivazione gli indizi che giustificano in concreto la misura disposta (con l’indicazione degli elementi di fatto da cui sono desunti e dei motivi per cui essi assumono rilevanza).

Peraltro la riforma contenuta nella legge 8 agosto 1995 n. 332 dispone che il giudice esponga "i motivi per i quali sono stati ritenuti non rilevanti gli elementi di prova forniti dalla difesa (art. 292, 2 comma lettera c bis c.p.p.) e, oltre la valutazione negativa circa l’esistenza di condizioni che legittimerebbero il proscioglimento in conseguenza dell’estinzione di cause di giustificazione, di non punibilità, di estinzione del reato e della pena (art. 273, 2 comma c.p.p.), si è espressamente prevista altresì la valutazione circa l’impossibilità per l’imputato di ottenere, con la sentenza di condanna, la sospensione condizionale della pena (art. 275, 2 comma bis introdotto dalla riforma della 1995).

In questo quadro normativo così mutato rispetto al codice previgente e rispetto pure alla formulazione originaria del codice attuale, la Corte ha riconosciuto che le valutazioni compiute dal giudice in relazione all’adozione di una misura cautelare personale comportano un pregiudizio sul merito dell’accusa: tali valutazioni, infatti, secondo le norme vigenti, devono indurre probabilità di colpevolezza e quindi di condanna dell’imputato.

La garanzia delle libertà personali, secondo la Costituzione, richiede che le misure limitatrici siano prese col massimo di prudenza e per questo è necessario un giudizio prognostico piuttosto prossimo ad un giudizio di colpevolezza sia pure presuntivo perché condotto allo stato degli atti e non su prove, ma su indizi e comunque lontano da una sommaria deliberazione.

L’intensità di tale garanzia in sede cautelare, se non ci fosse il divieto per il giudice che si è pronunciato in quella sede di prendere parte al giudizio sul merito dell’accusa, si tradurrebbe in un grave pregiudizio per l’imputato: il favor libertatis che giustifica tanto rigore in sede cautelare si rovescerebbe infatti, in danno dell’imputato in sede di giudizio.

Per tali considerazioni le Suprema Corte è pervenuta, con sentenza 432/95, alla dichiarazione d’incostituzionalità dell’art. 34 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva che non potesse partecipare al giudizio il g.i.p. il quale avesse applicato una misura cautelare nei confronti dell’imputato.

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Le esigenze garantistiche che hanno portato il legislatore alla previsione di cui al comma 2 dell’art. 34 c.p.p. appartengono in larga misura al giudizio civile ed amministrativo.

Ma in che modo le suddette esigenze vengono perseguite e quali sono le ragioni che hanno portato il legislatore a seguire, in tali casi, linee direttive diverse?

La questione è piuttosto delicata e, -come già detto- da lungo tempo, dibattuta.

Feliciano Benvenuti nel 1985 nella relazione di sintesi di un Convegno di studio sul giudizio cautelare affermava: "...il giudizio cautelare non è un giudizio cautelare. E’ un giudizio preliminare… un giudizio strumentale non rispetto alla situazione sostanziale, ma rispetto alla decisione finale. Il processo cautelare, in realtà, non è un processo cautelare, ma una fase preliminare del processo definitivo..." (10).

Benvenuti ricordava, a tal proposito, il meccanismo processuale vigente in epoca romana: non si andava in iudicio se non si passava dalla preventiva fase in iure. Probabilmente -egli sosteneva- ci stiamo avvicinando nel processo amministrativo ad una duplicità di fasi che si assomiglia all’antico processo romano.

Fra le tante questioni d’incostituzionalità denunciate alla Suprema Corte ed aventi ad oggetto la mancata previsione di una normativa in grado di precludere al giudice civile ed amministrativo che abbiano formulato delle valutazioni in merito alla questione di intervenire nelle fasi successive di giudizio, così come espressamente previsto dal legislatore in sede penale, merita di essere menzionato il caso verificatosi presso il Tar di Lecce (11).

Nello spazio di tre mesi le due Sezioni del Tar di Lecce si sono espresse in senso diametralmente opposto.

La Sezione I ha sollevato la questione di incostituzionalità con riferimento all’art. 51 c.p.c. per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione, ritenendo illegittima la anzidetta previsione adducendo che la fase cautelare è sostanzialmente un fase decisoria e a carattere anticipatorio.

Dopo circa tre mesi la Sezione II dello stesso Tar ha dichiarato infondata la suddetta questione, sostenendo che la fase cautelare è a tutti gli effetti una fase interinale e che mancano in concreto i presupposti per fondare la valutazione espressa dalla I Sezione.

La Corte Costituzionale, intervenuta a risolvere il conflitto di costituzionalità, ha dato ragione alla II Sezione dichiarando infondata la questione sollevata dalla I ed escludendo che l’esito della fase cautelare possa in qualche modo condizionare l’esito del giudizio di merito.

Bisogna ricordare la motivazione dell’ordinanza: "...i provvedimenti cautelari del giudice amministrativo costituiscono principio secondo il quale ogni situazione deve trovare un suo momento cautelare…".

Non sorgerebbe quindi un problema d’astensione.

Dal 1996 in poi la questione è stata ripetutamente riproposta: l’hanno affrontata le Sezioni Centrali della Corte dei Conti a proposito della richiesta di sospensione della sentenza di I grado da parte delle Sezioni d’appello, l’ha affrontata la Corte Costituzionale (12).

Ma la chiave di lettura dell’argomento in questione è data da alcune pronunce del Supremo Giudice di legittimità, pronunce che da un lato esplicitano le ragioni che escludono la normativa sull’incompatibilità dall’ambito dei giudizi civili ed amministrativi, dall’altro evidenziano i motivi per i quali possono considerarsi esaustivi nell’ambito degli stessi giudizi ed al fine di garantire l’imparzialità dell’organo giudicante, gli istituti dell’astensione e della ricusazione.

In particolare, con sentenza 387/99, la Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 28 della L. 20/05/1970 n. 300 (norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento) (13).

La questione sottoposta al vaglio della Corte riguardava l’art. 51 c.p.c., nella parte in cui non prevede la incompatibilità tra le funzioni del giudice pronunciatosi con decreto ex art. 28 c. 1 della L. 300/70 e quelle del giudice dell’opposizione a tale decreto di cui all’art. 28 c. 3 della stessa legge.

Veniva denunciata la violazione dell’art. 24 della Costituzione in considerazione di una supposta lesione del diritto alla tutela giurisdizionale per mancata imparzialità del giudice e la violazione dell’art. 3 c. 1 della Costituzione per la irragionevole diversità di disciplina rispetto all’ipotesi del tutto simile prevista dall’art. 669 terdecies c.p.c. che ha introdotto un caso d’incompatibilità del giudice nell’ambito dello stesso grado del processo.

La Corte si è pronunciata escludendo categoricamente l’applicabilità alla fattispecie, riguardante l’opposizione a decreto di cui all’art. 28 c. 3 della L. 300l70 in materia di repressione di condotta antisindacale, dei principi elaborati con riferimento all’art. 34 c.p.p. in ordine all’incompatibilità del giudice per effetto della "c.d. forza della prevenzione" per avere lo stesso giudice emesso un precedente provvedimento nel merito della stessa causa.

La disposizione censurata prevede l’articolazione del giudizio sul comportamento antisindacale in due fasi di cui è componente a conoscere lo stesso giudice: la prima a cognizione sommaria, concludentesi con l’eventuale adozione del decreto a carattere inibitorio, la seconda, ipotetica, introdotta con l’opposizione avverso il decreto, che viene definita con sentenza.

Ebbene il giudice rimettente riteneva che la concentrazione delle due fasi in capo alla medesima autorità giudiziaria comportasse una indubbia lesione del principio di imparzialità del giudice atteso che "la sua capacità di giudizio non potrebbe non rimanere assoggettata a quella naturale tendenza a mantenere un atteggiamento già assunto in altri momenti decisionali dello stesso procedimento, ravvisandosi pertanto la violazione delle disposizioni di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione".

D’altra parte il giudice a quo citava, a supporto della propria convinzione, quanto previsto dal legislatore in materia dì reclamo avverso ì provvedimenti cautelati, giacchè per il caso di reclamo al collegio avverso i provvedimenti del Giudice singolo del Tribunale, non può far parte dell’organo collegiale il Giudice che ha emanato il provvedimento reclamato.

Secondo il Giudice delle Leggi, nella previsione normativa della repressione della condotta antisindacale, non vi è alcuna ragione per cui debba ritenersi applicabile l’istituto dell’incompatibilità del giudice, atteso che la sua doverosa alterità trova compiuta applicazione attraverso l’istituto dell’astensione.

Nel sistema originario del procedimento di repressione della condotta antisindacale era prevista una fase davanti al pretore, il quale decideva in ordine alla richiesta di emissione del decreto ex art. 28 della L. 300/70 ed una eventuale opposizione avanti al Tribunale; vi era quindi una duplicità di fasi processuali, la seconda delle quali avanti al Tribunale assumeva tutte le caratteristiche di un ulteriore grado di giudizio.

Era chiaro pertanto che la fattispecie rientrava nella previsione di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c., avuto riguardo anche alla considerazione che il provvedimento ex art. 28 aveva una funzione decisoria di per sé idonea a realizzare un assetto dei rapporti fra le parti non meramente incidentale e provvisorio, ma suscettibile di assumere valore di pronuncia definitiva.

Il rapporto fra le due fasi, sotto il profilo dell’imparzialità-terzietà dell’organo giudicante, non può e non deve considerarsi mutato per il sopravvenuto intervento di modifica della sola norma sulla competenza con la riunificazione di questa in capo al giudice monocratico, essendo rimaste identiche le norme relative ai poteri del giudice nelle diverse fasi.

E’ opportuno, a questo punto, aprire una breve parentesi sulla pronuncia in questione.

La sentenza costituzionale, se per un verso non fa che confermare un orientamento potremmo definire "antico" in ordine alla inestensibilità della normativa di cui all’art. 34 del c.p.p., presenta altresì caratteri fortemente innovativi.

Ed invero, la pronuncia 387/97 è da considerarsi additiva, poiché di fatto ha introdotto nell’ordinamento una nuova ipotesi di astensione obbligatoria all’art. 51 n. 4.

La Corte ha infatti precisato che l’espressione "altro grado del processo" non può avere un ambito ristretto al solo diverso grado del processo, secondo l’ordine degli uffici giudiziari, come previsto dall’ordinamento giudiziario, ma deve ricomprendere - con una interpretazione conforme a Costituzione - anche la fase che, in un processo civile, si succede con carattere di autonomia, avente contenuto impugnatorio, caratterizzata da pronuncia che attiene al medesimo oggetto e alle stesse valutazioni decisorie sul merito dell’azione proposta nella prima fase, ancorché avanti allo stesso organo giudiziario.

Utile può risultare ancora, al fine di una più esaustiva comprensione dell’argomento di che trattasi, il richiamo della recente ordinanza 356/99, con la quale la Corte Costituzionale sembra aver fugato ogni dubbio circa l’inapplicabilità dell’istituto dell’incompatibilità del giudice nel giudizio amministrativo, atteso che il principio d’imparzialità dello stesso trova compiuta attuazione attraverso l’astensione.

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia aveva rimesso alla Suprema Corte la questione di legittimità avente ad oggetto il medesimo caso enunciato in precedenza, e cioè la supposta illegittimità dell’art. 28 ult. c. della L. 20/05/70 n. 300, come novellato dall’art. 6 della Legge 12/06/90 n. 146, sempre in considerazione di una presunta parzialità del giudice che abbia emesso il decreto e che non potrebbe, in un eventuale giudizio di opposizione allo stesso, non risentire delle valutazioni espresse in precedenza.

Ebbene anche in questo caso la Corte ha chiarito che la questione sollevata si basa su un equivoco di fondo in cui è incorso il giudice rimettente, ossia su una lettura ed un’interpretazione errata della norma denunciata, la quale non può avere il significato lesivo attribuitole dal giudice a quo, essendo diverse le disposizioni applicabili per risolvere il profilo dell’imparzialità dell’organo giudicante.

Ed infatti l’art. 28 ult. c. della L.300/70 ha, nell’indicazione del Tribunale Amministrativo Regionale e dell’opposizione davanti allo stesso Tribunale, il solo scopo di determinare la competenza giurisdizionale che è del Giudice Amministrativo, qualora il comportamento antisindacale comporti una lesione di situazioni soggettive inerenti il rapporto d’impiego.

La norma denunciata ha, cioè, il solo scopo di indicare l’organo giurisdizionale competente, non avendo alcun effetto di vincolare la composizione del collegio giudicante in sede di opposizione avverso il decreto emesso a seguito di cognizione sommaria.

La disposizione denunciata non pregiudica l’applicazione delle regole proprie del giudizio amministrativo, comprese quelle relative ai poteri presidenziali di assegnazione dei ricorsi alle singole udienze e ai relatori, con conseguente determinazione del Collegio.

Non c’è quindi ragione di dubitare in ordine all’imparzialità del giudice che, nella fattispecie, è garantita dalla normativa sull’astensione.

I ripetuti interventi della Corte Costituzionale non sono comunque valsi a risolvere definitivamente la controversa questione.

A conferma di quanto appena detto giova menzionare l’ordinanza n. 168 del 2000, con la quale la Corte Costituzionale pochi mesi fa ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, c. 1, n. 4 c.p.c., sollevata con riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione nella parte in cui non prevede l’obbligo di astensione per il giudice che prima abbia, con ordinanza, deciso sull’istanza ex art. 186 quater c.p.c. e che sia poi chiamato a decidere nel merito con sentenza (14).

Anche in quest’ultimo caso l’opinione del giudice a quo si fondava sulle stesse considerazioni svolte nella precedente ordinanza di rimessione.

Secondo il giudice rimettente l’ordinanza ex art. 186 quater c.p.c. si configura quale provvedimento a contraddittorio e cognizione pieni e ad istruttoria compiuta, dal contenuto decisorio ed esecutivo, sicchè - per il caso in cui il processo non si estingua e la pronuncia della sentenza non sia rinunciata - il giudice è tenuto a giudicare sulla medesima res iudicanda, esaminando nuovamente gli stessi atti e lo stesso materiale probatorio in base al quale ha emesso l’ordinanza.

La Consulta ha escluso il sospetto d’incostituzionalità sollevato intorno all’art. 51 c.p.c., c. 1, n. 4 - relativo all’obbligo di astensione del giudice che ha conosciuto della causa "in altro grado del processo" - richiamando quanto già sostenuto con sentenza n. 326/97 e cioè che rispetto alla pluralità di gradi del giudizio - "ove è l’esigenza stessa di garanzia che sta alla base del concetto di revisio prioris istantiae a postulare l’alterità del giudice" - diversa si presenta la situazione quando "l’iter processuale si articoli attraverso più fasi sequenziali nelle quali l’interesse posto alla base della domanda impone l’appagamento di esigenze di carattere conservativo, anticipatorio ed istruttorio" (15).

Le argomentazioni esposte riprendono oggi pieno vigore alla luce delle Nuove Disposizioni in materia di Giustizia Amministrativa.

La Legge 205/2000 è stata emanata a 10 anni esatti dalla Legge 7 agosto 1990 n. 241 sul procedimento amministrativo e a conclusione di un decennio di riforme amministrative tutte caratterizzate dal tentativo di riequilibrare i rapporti fra cittadino e pubblica amministrazione sulla base dei principi di garanzia, partecipazione, efficienza e semplificazione che tendono a realizzare in modo più compiuto l’ideale dello Stato di diritto (16).

La 205, dunque, rientra nell’ambito di un disegno riformatore più complesso teso a perseguire una maggiore tutela degli interessi dei privati nell’ambito del processo amministrativo.

A tal fine il legislatore della riforma ha posto a disposizione del ricorrente strumenti processuali più articolati in modo tale da raggiungere un equilibrio perfetto, sotto il profilo della parità delle armi, all’interno del processo fra ricorrente ed amministrazione resistente, una più accentuata terzietà del giudice amministrativo.

Non è superfluo evidenziare che la riforma non nasce da una elaborazione teorica o da contributi dottrinari, bensì recepisce - razionalizzandoli - gli apporti creativi di una giurisprudenza, che, a far tempo dalla istituzione dei Tribunali Amministrativi Regionali, ha palesemente cercato di adeguare ed aggiornare gli scarni strumenti processuali esistenti alla dinamica di una giurisdizione più presente sul territorio e chiamata a fornire risposte puntuali e tempestive nei rapporti tra cittadino e Pubblica Amministrazione (17).

I cardini della riforma sono stati individuati nella accelerazione e concentrazione del giudizio. In particolare tutta l’impalcatura della riforma tende a snellire la decisione di merito sia con riferimento alle ipotesi in cui i ricorsi siano obiettivamente maturi per essere definiti con sentenze abbreviate, sia in relazione a determinate materie nelle quali è previsto un canale preferenziale per la fissazione della data di discussione nel merito a fronte di una evidente illegittimità dell’atto impugnato. Il principio della concentrazione si realizza con la devoluzione al giudice amministrativo di tutte le domande di risarcimento del danno conseguente alla lesione di interessi legittimi e con l’assorbimento della fase esecutiva nell’ambito del giudizio di cognizione (18).

Nel quadro della riforma conserva un ruolo rilevante il momento della tutela cautelare, la cui dignità ed essenzialità per la salvaguardia delle posizioni giuridiche lesa da atti e comportamenti illegittimi della P.A. sono stati ormai pacificamente riconosciuti dalla Corte Costituzionale (19).

Vero è che secondo alcuni interpreti la volontà riformatrice del legislatore si sarebbe mossa nel senso di limitare quella "cautelarizzazione" del giudizio amministrativo che ha indubbiamente caratterizzato l’esperienza ultracennale dei TAR e del Consiglio di Stato a fronte della impossibilità di pervenire a sollecite decisioni di merito. E, tuttavia, pur essendo stati ben delineati i limiti oggettivi della tutela cautelare e pur essendo stati introdotti idonei strumenti di accelerazione del giudizio di merito, non si può ragionevolmente sostenere che la legge 205 abbia superato la centralità del momento cautelare.

Ed anzi i primi commentatori hanno evidenziato un allargamento dei confini propri della tutela cautelare istituzionalmente ancorata alla domanda di sospensione dell’atto ed alla sua funzione interinale. La sostituzione della ipotesi di "danno" con quella più lata di "pregiudizio" e la sua correlazione anche all’inerzia dell’Amministrazione sembra dare definitivo riconoscimento alla sospensione dei provvedimenti negati, e, quindi, alle "c.d. ordinanze propulsive" (20).

La varietà delle misure cautelari ammissibili supera la tradizionale sospensiva dell’efficacia del provvedimento impugnato. In definitiva è lo scopo stesso della cautela ad essere rimesso in discussione, sulla base peraltro delle ricordate acquisizioni della consolidata giurisprudenza amministrativa.

Il processo cautelare non è più un momento di garanzia interinale al giudizio di merito, ma per espresso riconoscimento legislativo diventa un vero e proprio giudizio che anticipa - salvo smentita - la decisione sostanziale del ricorso, e addirittura la sostituisce introducendo un nuovo assetto degli interessi in discussione.

Le prime esperienze applicative della legge offrono ampia conferma di ciò a dimostrazione peraltro che, rispetto alle semplici intenzioni, e poi la pratica attuazione delle regole a farne verificare i reali contenuti innovativi.

Non è questa la sede per un approfondimento dell’argomento. E’ invece importante, per rimanere nel tema, sottolineare come il legislatore attraverso l’imposizione di una più puntuale motivazione del provvedimento cautelare abbia dato ulteriore spessore ed incisività, anche nella economia complessiva del giudizio amministrativo, al momento cautelare.

" (...) l’ordinanza cautelare motiva in ordine alla valutazione del pregiudizio allegato ed indica i profili che, ad un sommario esame, inducano ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso".

Così recita l’articolo 21, come novellato dalla Legge 205/2000.

In realtà l’obbligo di motivazione delle ordinanze cautelaci era già sancito dagli artt. 21 della Legge 1034/71 e 39 R.D. 26 giugno 1924 n. 1054; ogni Tribunale Amministrativo Regionale, in base alla suddetta previsione, sì è regolato a suo modo: accanto a quelli che hanno fornito una puntuale motivazione ad ogni ordinanza, ve ne sono altri che hanno adottato formulari predeterminati, più o meno dettagliati, ed altri ancora che si sono limitati alla clausola di stile "sussistono (o non sussistono) i presupposti previsti dalla legge" (21).

Potrebbe quindi parere alquanto futile e pleonastica l’insistenza del legislatore sul punto; tuttavia la prescrizione normativa di che trattasi avrà di sicuro un rilevante impatto sull’operato dei Tribunali.

Infatti la norma non si limita a disporre un generico obbligo di motivazione dell’ordinanza cautelare (nel qual caso il tradizionale "sussistono - o non sussistono - i prescritti presupposti" potrebbe apparire ancora sufficiente), ma indica in termini precisi quale dovrà essere il contenuto dell’indagine che conduce alla motivazione e cioè "i profili che, ad un sommario esame, inducono ad una ragionevole previsione sull’esito del ricorso" e la "valutazione del pregiudizio arrecato", profili e valutazione che grosso modo corrispondono ai presupposti in fatto e alle ragioni giuridiche che costituiscono i due capisaldi su cui si deve fondare, per il principio generale di cui all’art. 3 della 241/90, ogni tipo di motivazione.

In altre parole si dovranno esplicitare la ritenuta gravità e/o irreparabilità del danno e le ragioni per le quali si ritiene che il ricorso appaia, anche in sede di sommaria delibazione, cioè di valutazione dei motivi di ricorso, non completa né particolarmente approfondita e, allo stato degli atti, fondato ovvero non fondato, irricevibile o inammissibile.

Il legislatore, quindi, richiama in maniera più puntuale l’obbligo di motivazione.

Troppo spesso le ordinanze cautelari si sono basate su sintetiche formule di rito che non lasciano trasparire con sufficiente chiarezza l’iter argomentativo percorso dal giudice.

Se si guarda alle ordinanze cautelari emanate negli ultimi due mesi sia dai Tar che dal Consiglio di Stato si può avere una visione più concreta della efficacia della normativa di riforma: tutte le pronunce sono corredate da motivazioni approfondite le quali affrontano i più significativi problemi di diritto che il ricorso pone: in ordine alla legittimazione, alla ricevibilità, all’ammissibilità, all’interpretazione della norma.

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A questo punto rileggendo la motivazione dell’ordinanza del 1998 con la quale la Corte Costituzionale ebbe a rigettare la questione di incostituzionalità sollevata dal TAR Lecce ed analizzando il nuovo spessore che il legislatore ha attribuito all’ordinanza ex art. 21, positivizzando il doppio grado anche della fase cautelare, non sembra che quella motivazione sia oggi tranquillizzante e satisfattiva (22).

«I provvedimenti cautelari del Giudice (civile ed) amministrativo costituiscono espressione del principio secondo il quale ogni situazione deve trovare un suo momento cautelare, componente essenziale della stessa tutela giurisdizionale, mentre il successivo giudizio di cognizione non è descrivibile come valutazione operata sulla stessa res judicanda, né come anticipazione della soluzione di merito, restando dunque escluso (in vista del contenuto del giudizio sui presupposti della cautela: pregiudizio grave ed irreparabile e valutazione di semplice verosimiglianza giuridica) il rischio che l’imparzialità della statuizione finale sia minata dal condizionamento risalente alle ragioni della fase incidentale; pertanto è manifestamente infondata, rispetto agli artt. 3 e 24 cost., la questione di costituzionalità dell’art. 51 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevede l’incompatibilità a partecipare alla decisione di merito del giudice amministrativo che abbia conosciuto della causa in fase cautelare» (23).

La fase cautelare, quale momento processuale in grado di anticipare gli esiti del merito ‑ così come vuole la legge di riforma - potrebbe essere considerata una fase autonoma e non più accessoria rispetto a quella di merito, di talchè, per le considerazioni fatte in precedenza, potrebbe essere opportuno che il Giudice della cautela non entri a far parte del Collegio che decide per il merito.

Va detto pure che la dicotomia fra momento cautelare e momento decisionale diventa secondaria allorquando si tratti di processi accelerati.

La normativa di riforma, infatti, non prevede un unico tipo di procedimento, ma un processo "a moduli variabili": un processo nelle forme accelerate o comunque semplificate e un processo ordinario.

Il problema di cui ci stiamo occupando non si pone per il caso di processi accelerati i quali in breve tempo giungono a sentenza.

La questione si pone con riferimento al processo tipo: in tal caso il Tribunale può statuire di accordare o meno la richiesta tutela cautelare.

L’ordinanza che accoglie la domanda cautelare comporta priorità nella fissazione della data di trattazione del ricorso nel merito.

A dire il vero, già oggi vive presso alcuni Tar, la prassi di fissare rapidamente la discussione del merito in caso di concessione della misura interinale (24).

Tale prassi ha suscitato accese critiche di parte della dottrina in quanto creerebbe una disparità di trattamento con i giudizi nei quali la domanda cautelare non è stata accolta.

Non è da escludere che l’avvenuta codificazione della stessa sollevi sospetti di legittimità costituzionale.

Non vi è dubbio, quindi, che l’organo giudicante che si sia pronunciato in fase cautelare arrivi a formarsi oggi, ancor di più alla luce della previsione di cui all’art. 3 della normativa di riforma, un convincimento più saldo in ordine all’oggetto del giudizio.

Ma l’ipotesi più significativa è quella in cui un’ordinanza cautelare motivata dal giudice di primo grado sia stata riformata con ordinanza altrettanto motivata dal giudice di secondo grado, il quale abbia integralmente smentito le tesi giuridiche sostenute dal giudice del TAR.

Nel momento in cui si è a conoscenza dell’opinione del giudice sulle questioni di diritto e di come Egli in perfetta buona fede e probabilmente pure a ragione, ritiene dì risolvere la fattispecie sottoposta al suo esame e quel caso è interpretato in maniera diversa dal giudice d’appello, per il cittadino ricorrente si pone il problema di come sarà affrontato il suo caso nel momento in cui lo stesso giudice, smentito dal giudice d’appello, sarà chiamato a decidere la causa.

Ed è a questo punto che sembra tornare di attualità il problema, di cui si sono in precedenza illustrati i termini in discussione, della compatibilità del giudice della cautela rispetto alla fase della decisione di merito del ricorso.

Se il legislatore della riforma ha comunque valorizzato il momento cautelare prendendo atto di una realtà consolidata ed ineludibile nella economia del giudizio amministrativo; se la scelta della misura cautelare e la sua concreta applicazione possono risolversi in un giudizio anticipatorio della decisione di merito; se la motivazione della misura cautelare anticipatoria della possibile decisione di merito è sottoposta al vaglio critico del giudice d’appello, si pongono indubbiamente alcuni interrogativi.

Il primo di essi, di tipo tradizionale, è quello afferente alla imparzialità del giudice adito, imparzialità riferita al «foro interiore» del magistrato.

Il convincimento meditato del giudice della fase cautelare, inteso non più come semplice momento di garanzia interinale al giudizio di merito, ma come un vero giudizio, anticipatorio, sempre di tipo prognostico, spesso di tipo novativo della fattispecie sottoposta al suo esame, non sembra reggere a quella esigenza di imparzialità, intesa come libera ed autonoma disponibilità ad una diversa valutazione, nella fase di merito, della medesima fattispecie, o, addirittura di quel nuovo assetto degli interessi che la decisione cautelare ha contribuito a determinare.

Di contro le parti del processo a fronte di una motivata ordinanza del giudice della cautela, a poche mesi di distanza, non affronteranno il processo con la tranquillità necessaria che può scaturire solo dal convincimento che il giudice della causa è in posizione neutra rispetto alle tesi contrapposte.

Diceva Pertini: «Il Giudice non solo deve essere imparziale, ma deve sembrare imparziale! ...».

Il secondo interrogativo, collegato sempre alla centralità del momento cautelare ma riferito alla positivizzazione del doppio grado di giudizio anche per la fase cautelare, attiene alle possibili distorsioni del giudizio amministrativo.

Nel nuovo processo assisteremo ed assistiamo a motivate ordinanze cautelari che possono essere modificate e/o annullate dal giudice d’appello con analitica motivazione in punto di diritto sui vari aspetti procedurali e sostanziali che investono la fattispecie che dovrà essere decisa nel merito: ivi compresa la interpretazione di una norma, di un regolamento o di un atto amministrativo.

Nella successiva fase di merito innanzi al giudice di primo grado le parti del processo, anche a prescindere dalla questione relativa al "foro interiore" del Magistrato decidente, che è quello dell’ordinanza incisa negativamente dal giudice d’appello, indirizzeranno ogni loro attenzione non più sull’atto amministrativo (o sul comportamento)- che è l’oggetto del giudizio-, bensì sulle interpretazioni e sulle valutazioni già emerse nelle ordinanze cautelari e ciò al fine di contrastarle o avvalorarle. E’ evidente la distorsione che inevitabilmente può verificarsi: il contraddittorio non investirà la fattispecie nella sua oggettività fattuale e nei contributi originali che le parti offrono al giudice, bensì la interpretazione e la valutazione che il giudice ha già manifestato, con l’ulteriore complicazione della determinazione di segno diverso del giudice d’appello: cioè di quel giudice, che, in definitiva, dovrà dire l’ultima parola sul merito del ricorso.

Lo stesso giudice di primo grado nella sua decisione non potrà prescindere ‑anche al solo fine di contestarla - dalla motivazione dell’ordinanza in grado d’appello, che ha annullato o riformato il primo provvedimento.

Sicché, a ben vedere, il giudizio di merito riguarderà un pò meno le parti e un pò più le posizioni non coincidenti del giudice di primo grado e di quello d’appello.

E’ evidente che un giudice del merito, diverso da quello che si è espresso nella fase cautelare, sgombrerebbe il campo da quegli elementi distorsivi che, anche al di là delle reali intenzioni dei protagonisti del processo, possono obiettivamente verificarsi.

Il problema esiste e non serve a nulla fare finta di ignorarlo.

Non è peraltro di facile soluzione anche in termini organizzativi‑funzionali e non si ha la presunzione di offrire con questo intervento una soluzione meditata ed esaustiva; è però utile che il tema non sia rimosso e che sia approfondito nel dibattito che continuerà a svilupparsi sulla interpretazione della legge di riforma anche a seguito della verifica in concreto dei suoi effetti applicativi.

Due le ipotesi praticabili: la prima è quella di introdurre normativamente nel nostro ordinamento processuale amministrativo lo stesso principio che vige nel processo penale.

Una seconda soluzione è quella di escludere in linea di principio un obbligo giuridico di incompatibilità del giudice della cautela rispetto alla fase decisionale di merito, codificando nella prassi quei criteri di opportunità e discrezionalità che possono essere utilizzati dal Presidente nell’assegnazione dei ricorsi ai relatori e nella formazione dei collegi. Forse sarebbe sufficiente adottare come criterio metodologico, da valere in ogni caso, quello secondo cui il relatore della causa di merito debba essere diverso da quello investito nella fase cautelare.

Potrebbe altresì ritenersi utile in fattispecie particolari il ricorso all’astensione facoltativa normata dall’art. 51, ultimo comma, c.p.c.: si pensi ad esempio ad una sostanziale disparità di valutazioni su questioni di fatto e/o diritti particolarmente rilevanti prospettate dalle parti e diversamente risolte con puntuali motivazioni dal giudice di primo grado in sede cautelare e dal giudice d’appello. In tali ipotesi, ed in relazione a ricorsi giurisdizionali particolarmente complessi, il giudice che si è visto riformare "nel merito" la propria ordinanza cautelare potrebbe invocare - sul piano della mera opportunità - l’esigenza di astenersi dal partecipare alla successiva fase di merito.

Sono queste ipotesi di lavoro sulle quali è auspicabile un approfondimento da parte della dottrina e della giurisprudenza ai fini della più efficace interpretazione applicativa della riforma del processo amministrativo.

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(*) Di P. Quinto, Intervento, integrato ed aggiornato con i riferimenti giurisprudenziali in nota, svolto al Convegno di Studio tenutosi a Lecce nella sede del Tar per la Puglia Sez.di Lecce il 24 novembre 2000 su L’evoluzione della giustizia amministrativa - Legge 205/2000 organizzato dall’Ordine degli Avvocati di Lecce, Centro Studi Giuridici "M. De Pietro" e Università degli Studi di Lecce.

(1) Cfr. sentenza 24 luglio 1998 n. 341, in Consiglio di Stato 1998, II, p. 1096 e ss. Trattasi della nota sentenza con la quale la Corte Costituzionale ha ribadito l’importanza del principio di imparzialità-terzietà della giurisdizione, più volte affermato, evidenziando l’opportunità di adeguare il suddetto principio alle diverse fattispecie processuali, tenuto conto delle distinte caratteristiche di ognuno di essi.

(2) Per un’analisi degli istituti dell’astensione e della ricusazione del giudice civile e del giudice penale in dottrina v. Nozioni introduttive e disposizioni generali - Volume I di C. MANDRIOLI, XII edizione, 1998, pagg. 265-273. Appunti di procedura penale di M. PISANI, A .MOLARI, V. PERCHINUNNO, P. CORSO, 1998, pagg.49-55.

(3) Ex multis, cfr. Corte Costituzionale, sentenza 15 ottobre 1999 n. 387, in Foro Amministrativo 2000, p. 747 e ss.; Corte Costituzionale ord.ze 21 novembre 1997 n. 356 e 21 ottobre 1998 n. 359 rispettivamente in Consiglio di Stato, II, pagg. 1746 ss. e Consiglio di Stato, II, p. 1444.

(4) Cfr. sentenza del 4 Luglio 1996 n. 814 in Foro Amministrativo 1996, p. 2220 e ss., con la quale il Consiglio di Stato ha precisato che la pronuncia cautelare positiva ha il solo scopo di evitare al ricorrente un danno che potrebbe risultare irreparabile ove, nel merito, il suo ricorso fosse riconosciuto fondato. Al contrario la pronuncia di merito ha ad oggetto non l’accertamento del danno, bensì la legittimità dell’atto impugnato.

(5) Cfr. ord.za n. 356 del 21 novembre 1997, in Settimana giuridica, parte speciale, n. 47, p. 193, con la quale la Corte Costituzionale pronunciando su una questione sollevata dal TAR Lombardia ha espressamente dato atto che "nel giudizio amministrativo per la sua particolarità e per la diversità del suo sistema processuale, non sono applicabili le regole di incompatibilità soggettiva per precedente attività endoprocessuale (tipizzata), propria del processo penale, ma sono applicabili le disposizioni sull’astensione e la ricusazione del codice di procedura civile, cui le norme del processo amministrativo fanno rinvio".

(6) Cfr. sentenza del 15 settembre 1995 n. 432, in Consiglio di Stato 1995, II, p. 1553 e ss., con la quale la Corte Costituzionale ebbe a dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, c. 2, del codice di procedura penale nella parte in cui non prevedeva che non potesse partecipare al giudizio dibattimentale il Giudice per le Indagini Preliminari che avesse applicato una misura cautelare personale nei confronti dell’imputato.

(7) Ex multis, cfr. sentenze della Corte Costituzionale n. 432/95, 131/96, 306-307-308/97, rispettivamente in Consiglio di Stato 1995, Il, p. 1553; 1996, Il, p. 643; 1997, Il, p. 607.

(8) Cfr. Corte Costituzionale n. 496 del 15-26 ottobre 1990, in Consiglio di Stato 1990, lI, p. 1460; Corte Costituzionale n. 502 del 30 dicembre 1991 e n. 401 del 12 novembre 1991, in Consiglio di Stato 1991, 11, p. 2046 e 1809; Corte Costituzionale n. 124 del 25 marzo 1992, e n. 186 del 22 aprile 1992, in Consiglio di Stato, II, p. 440 e 640; Corte Costituzionale 16 dicembre 1993 n. 439, in Consiglio di Stato, II, p. 2057, e Corte Costituzionale n. 453 del 30 dicembre 1994, in Consiglio di Stato, II, p. 1086.

(9) Cfr. sentenza Corte Costituzionale n. 432/95 in Consiglio di Stato 1995, II, 1553 ss.

(10) F. BENVENUTI, relazione di sintesi in Atti della giornata di studio tenuta a Brescia il 4/5/85, in Il giudizio cautelare amministrativo, Roma, 1987, p. 87.

(11) Al riguardo meritevoli di considerazione sono le contrastanti posizioni assunte al proprio interno dalla sezione leccese del TAR Puglia che con ordinanza della I Sezione n. 219 del 21 febbraio 1997, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 47, R.D. 17 agosto 1907 n. 642, e 51 c.p.c., per presunto contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non prevedono l’obbligo per il magistrato amministrativo che abbia pronunciato sull’istanza cautelare proposta dal ricorrente di astenersi dal giudizio di merito, mentre con sentenza n. 284 del 10 maggio 1997 della II Sezione ha dichiarato manifestamente infondata la medesima questione. Tale ultima posizione è stata esattamente argomentata dai giudici salentini, i quali, rilevati i caratteri di peculiarità del giudizio amministrativo, nonchè la circostanza che lo stesso non dispone di una norma analoga all’art. 34 c.p., hanno ritenuto tale ultima norma inapplicabile perchè non richiamata neppure in via residuale. Nella sentenza de quo è stata contestata la nozione di imparzialità del giudice così come formulata dalla difesa della controinteressata, sul rilievo che l’imparzialità del giudice è garantita dalla inconfutabile natura interinale che riveste la decisione cautelare rispetto alla decisione di merito. Infatti, se quest’ultima è legata ad una cognizione approfondita delle questioni giuridiche, le valutazioni della fase cautelare vertono invece sul periculum in mora e sul fumus boni iuris inteso come delibazione sommaria della fondatezza del merito. Da ciò si evince che si tratta di momenti decisori che attengono a presupposti differenti fra cui può anche non esserci (come di frequente accade) corrispondenza. L’esito della fase cautelare non è quindi idoneo a condizionare il giudizio di merito, nè tanto meno può incidere sull’imparzialità del giudice che è assicurata dalla sua equidistanza ed indifferenza rispetto alle parti, ai difensori e agli interessati antagonisti. Secondo i Giudici della II Sezione interna del Tar leccese, qualora si dovesse per assurdo condividere il principio sotteso alla eccezione di costituzionalità così come formulata si perverrebbe ad una conseguenza aberrante e cioè che al fine di garantirne l’imparzialità il giudice amministrativo nell’arco della sua carriera potrebbe conoscere di una determinata questione di diritto solo una volta.

(12) Corte dei Conti, sez. Centrale, sentenza del 19 marzo 1997 n. 34, in Settimana giuridica 1997, p. 202; Corte Costituzionale, sentenze n. 241 del 17 giugno 1999 e n. 283 del 14 luglio 2000, rispettivamente in Consiglio di Stato 1999, II, p .828 ss. e in Settimana Giuridica 2000 p. 124 ss.

(13) Trattasi della nota sentenza 15 ottobre 1999, n. 387, in Foro Amministrativo 2000, p. 747 e ss., con la quale la Corte Costituzionale si è pronunciata in ordine alla questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l’art. 28, L. 20/5/1970 n. 300. In particolare, la Corte ha ritenuto che la disposizione di cui al citato art. 28 ha il solo scopo di determinare uno spostamento della competenza prevista per la repressione della condotta antisindacale attribuita al pretore.

(14) Cfr. sentenza Corte Costituzionale del 31/5/2000 n. 168, in Corriere Giuridico, n. 11/2000, p. 1467 e ss.

(15) Cfr. sentenza 7 novembre 1997 n. 326, con la quale la Corte Costituzionale ha rigettato la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice Istruttore presso il Tribunale di Terni in ordine all’art. 51 c.p.c., per violazione dell’art. 24 della Costituzione.

(16) La necessità di una trasformazione e di una evoluzione del giudizio cautelare è stata da tempo compiutamente evidenziata da FOLLIERI, Giudizio cautelare amministrativo e interessi tutelati, Milano, 1981, p. 33 ss. Più volte, infatti, è stato avanzato il tentativo di riformare il processo amministrativo ed il giudizio cautelare. In particolare nei progetti si è tentato di disciplinare il giudizio cautelare atteso che come rileva DAL PIAZ, La tutela cautelare nel progetto di riforma del processo amministrativo in Cento anni di giurisdizione amministrativa, p. 355 ss. "La tutela cautelare ha assunto rilevanza sempre maggiore sino a divenire ragione prevalente, se non determinante, della stessa proposizione dell’azione".

Un’illustrazione delle modifiche che andavano apportate al sistema è rinvenibile in La riforma del processo amministrativo di M.  Nigro, Milano, 1980, p. 111 ss. Ed ancora Tutela Cautelare nel processo amministrativo e giurisdizione di merito, in Foro it., 1985, I, p. 2491; Brevi note sul giudizio amministrativo cautelare nella prospettiva di una riforma legislativa della Giustizia amministrativa, di M.E. SCHINAIA, in Riv. Amm., 1985, I, p. 591.

(17) Per un approfondimento della L. 205/2000 v. La nuova Giurisdizione esclusiva del Giudice Amministrativo dopo la legge 21/07/00 n. 205 di F. CARINGELLA, G. DE MARZO, F. DELLA VALLE, R. GAROFOLI, Milano 2000 e Verso il nuovo processo amministrativo - commento alla legge 21/07/2000 n. 205 a cura di V. CERULLI IRELLI, Torino 2000 e da ultimo Il Nuovo Processo amministrativo dopo la Legge 21 Luglio 2000 n. 205, a cura di F. CARINGELLA e M. PROTTO, Milano 2001.

(18) V. II principio di concentrazione nella legge di riforma della giustizia amministrativa di P. S. RICHTER in Giustizia Civile 2000, parte seconda - osservatorio, p. 437 ss. e Le nuove misure di "Snellimento" del processo amministrativo nella L. n.205 del 2000 di M.A. SANDULLI in Giustizia Civile 2000, parte seconda - osservatorio, p. 441 ss.

(19) Sulla tutela cautelare a seguito della riforma introdotta dalla 205/00 v. La nuova tutela cautelare di M. ROSSI SANCHINI in Giornale di diritto amministrativo n. 11/00 pagg. 1990 ss. e Luci e ombre nella Legge n. 205/2000 di riforma della Giustizia Amministrativa di G. GIOVANNINI Presidente del Consiglio di Stato in Il Corriere Giuridico n. 12/2000 p. 245 ss.

(20) Sull’argomento v. Il processo cautelare di M. SANINO in Verso il nuovo processo amministrativo-Commento alla Legge del 21 Luglio 2000 n. 205 a cura di V. CERULLI IRELLI, Torino 2000, p. 249 ss.

(21) Sull’argomento, v. Evoluzione della tutela cautelare nel processo amministrativo: problemi vecchie nuovi visti dalla parte dell’avvocato di P. QUINTO in TAR, 1998, II, p. 41 ss; Sullo stesso tema si è tenuto il Convegno nazionale di studio sulla riforma del giudizio amministrativo organizzato dal Centro Italiano di Studi Amministrativi, sez. Lecce, svoltosi nei giorni 5-7 giugno 1997.

(22) E’ interessante constatare che in apertura del Convegno di studio tenutosi a Lecce il 24/11/2000 sulla riforma del processo amministrativo, il Presidente della sessione, Dr. Riccardo Chieppa, nell’indicare i profili problematici della nuova disciplina processuale, ha, tra l’altro, segnalato in modo specifico la riconsiderazione del problema di una eventuale incompatibilità del giudice della cautela per la successiva fase di merito.

(23) Cfr. ordinanza Corte Costituzionale del 21 ottobre 1998 n. 359 in Consiglio di Stato 1998, II, p. 1443.

(24) Processo amministrativo, tutte le novità in Focus 26 agosto 2000 n. 31.


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