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Articoli e note

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LUIGI OLIVERI

Hanno ancora un senso le "clausole di rafforzamento"
delle leggi ordinarie?

Il D.P.R. 327/2001, testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità, com'era inevitabile, ha apportato alcune significative modifiche alla disciplina dell'ordinamento locale e sui lavori pubblici, strettamente connesse alla materia degli espropri.

Le procedure ablatorie della proprietà, difatti, da un lato hanno un legame fortissimo con la pianificazione urbanistica, che ne rappresenta il presupposto; per altro verso, si intrecciano con la disciplina di realizzazione delle opere pubbliche, della quale sono presupposto e momento attuativo, contemporaneamente.

Nessuna sorpresa, dunque, che il D.P.R. 327/2001 incida in questa materia. Desta, però, motivo di riflessione la modalità con la quale il testo unico degli espropri opera le riforme.

Prima di approfondire la questione procedurale, appare però opportuno sintetizzare le innovazioni introdotte dal D.P.R. 327/2001, rinvenibili in particolare nei suoi articoli 58 e 19.

Il primo, al numero 108, abroga l'articolo 1 della legge 1/1978; il secondo, al comma 1, stabilisce che quando l'opera da realizzare non risulta conforme alle previsioni urbanistiche, l'approvazione del progetto definitivo da parte del consiglio comunale costituisce adozione della variante allo strumento urbanistico.

Si notano, allora, le seguenti modifiche al regime normativo che vigerà fino al 31.12.2001:

1) la variante al P.r.g. non scaturisce più dal progetto preliminare, bensì dal progetto definitivo;

2) l'opera pubblica viene inserita nell'elenco annuale delle opere pubbliche in base ad un progetto preliminare non conforme alla pianificazione urbanistica;

3) l'uniformazione alla pianificazione urbanistica mediante la variante, in conseguenza di quanto sopra, avviene con un atto che non ha i requisiti programmatici del progetto preliminare, ma i contenuti già esecutivi del progetto definitivo, sicchè la variante segue, invece di precedere, la programmazione delle opere pubbliche;

4) il consiglio comunale non approva più, pertanto, il progetto preliminare, non essendo più idoneo a modificare la pianificazione, bensì approva il progetto definitivo, fino ad oggi considerato atto di esclusiva pertinenza della giunta, proprio per le sue funzioni attuative del programma delle opere pubbliche;

5) la scelta, comunque, di assegnare al consiglio la competenza ad approvare il progetto definitivo in variante al P.r.g. risulta obbligata, nel momento in cui si attribuisce a questa fase progettuale la possibilità di andare in variante al P.r.g.: la pianificazione urbanistica è, infatti, competenza esclusiva del consiglio.

Dal punto di vista normativo, le innovazioni procedurali alla normativa che consente ai progetti delle opere pubbliche di costituire variante, comportano:

1)  la modifica implicita dell'articolo 42, comma 2, lettera b), del D.Lgs. 267/2000, che attualmente esclude il consiglio dalle competenze per l'approvazione del progetto definitivo;

2)  l'abrogazione implicita, per incompatibilità con l'articolo 19 del D.P.R. 327/2001, dell'articolo 14, comma 8, della legge 109/1994, il quale, coordinandosi con le previsioni dell'articolo 1, comma 5, della legge 1/1978, stabilisce che i progetti dei lavori degli enti locali ricompresi nell'elenco annuale devono essere conformi agli strumenti urbanistici vigenti o adottati, stabilendo indirettamente che debba essere il livello preliminare della progettazione, quello a determinare la variante al Prg.

Le modifiche qui sintetizzate, come risulta evidente, sono di notevole portata, giacchè incidono sull'ordinamento delle competenze degli organi degli enti locali, nonché sul flusso procedurale di approvazione delle opere pubbliche.

Inoltre, la secca abrogazione dell'articolo 1 della legge 1/1978, comporta anche la cancellazione del suo comma 4 e dunque della fattispecie delle "varianti non varianti", consistenti nella possibilità, per i progetti preliminari (approvati dal consiglio) di approvare opere pubbliche da realizzare nelle zone destinate a servizi pubblici, anche se non conformi alle destinazioni.

Il D.P.R. 327/2001 non detta più alcuna disposizione relativamente a questo ambito, sicché non si capisce se l'istituto di cui all'articolo 1, comma 4, della legge 1/1978 debba ritenersi semplicemente soppresso, sicché non occorre nessuna variante, o se, al contrario, la non conformità dell'opera alle previsioni urbanistiche faccia comunque scattare la previsione di cui all'articolo 19, comma 1, del testo unico sulle espropriazioni, tesi che appare da preferire, perché ha il pregio di non consentire il manifestarsi di vuoti normativi.

Le riforme apportate dal D.P.R. 327/2001 sono evidentemente di notevole portata ed apriranno certamente un dibattito molto approfondito sulla loro opportunità. C'è da chiedersi, ad esempio, perché si sia voluto incidere in modo così profondo sulla sequenza procedimentale della progettazione, rendendola certamente meno fluida rispetto al regime attuale.

Fino al 31.12.2001, l'iter appare piuttosto coerente: si ha una fase di progettazione, quella preliminare, che è il presupposto per la programmazione delle opere pubbliche. Le scelte di natura programmatica, dunque, sono da compiere a questo livello, comprese le decisioni relative alla pianificazione urbanistica, che influenzano evidentemente le valutazioni di fondo da tenere presenti ai fini dell'attuazione del programma. Ecco perché il progetto preliminare determina la variante al P.r.g. e perché l'articolo 14, comma 8, della legge 109/1994 chiede che ai fini dell'inserimento nell'elenco annuale delle opere pubbliche (presupposto per la concreta realizzazione dell'opera) il preliminare debba già essere conforme alla strumentazione urbanistica. In tal modo, le successive fasi di progettazione, definitiva ed esecutiva, possono procedere spedite e dirette, al fine di concretizzare la decisione in un progetto idoneo ad essere posto in opera.

L'assegnazione, invece, al consiglio della competenza di adottare il progetto in variante al P.r.g. al livello definitivo fa sì che il consiglio, nel momento in cui approva il programma delle opere pubbliche, almeno relativamente ai lavori non conformi allo strumento urbanistico, ponga in essere una programmazione a metà. Il flusso procedurale attualmente si sviluppa lungo il seguente iter: progettazione preliminare-proposta della giunta è approvazione del preliminare in variante da parte del consiglio è garanzia della conformità dell'opera allo strumento urbanistico è approvazione programmazione delle opere pubbliche da parte del consiglio è attuazione del programma con l'approvazione del progetto definitivo da parte della giunta è definizione ultima del progetto col livello esecutivo sempre di competenza della giunta (o del dirigente, se il progetto esecutivo sia in tutto conforme al definitivo). Pertanto, l'intervento programmatorio del consiglio è a monte, come logico, all'attività esecutiva.

Con il D.P.R. 327/2001, l'iter e le interrelazioni tra giunta e consiglio si fanno meno fluidi, in quanto lo sviluppo procedurale appare il seguente: progettazione preliminare approvata direttamente dalla giunta è approvazione programmazione delle opere pubbliche da parte del consiglio è attuazione del programma con l'approvazione del progetto definitivo-proposta al consiglio da parte della giunta è approvazione del progetto definitivo in variante, da parte del consiglio è garanzia della conformità dell'opera allo strumento urbanistico è definizione ultima del progetto col livello esecutivo, che torna alla competenza della giunta (apparirebbe, con tale serie procedimentale, meno sostenibile l'intervento del dirigente).

Si nota che il consiglio interviene due volte: in fase di programmazione delle opere pubbliche e, di nuovo, in fase di attuazione. Con l'innegabile rischio di riportare le decisioni consiliari ad un livello non più di programmazione e controllo, ma di esecuzione "concorrente" con quello della giunta.

Naturalmente le scelte del legislatore vanno rispettate, anche se non appaiano del tutto coerenti col sistema normativo nel quale le riforme si inseriscono.

Ma, tornando all'oggetto reale del presente studio, la cosa che rileva è la modalità seguita per giungere alle importanti riforme introdotte, ovvero mediante l'introduzione di modifiche ed abrogazioni implicite. Il che appare, oggettivamente, un piccolo ma significativo difetto di un testo unico, che intende presentarsi come strumento di semplificazione e razionalizzazione dell'ordinamento, sicché dovrebbe procedere soprattutto per riforme e modifiche esplicite, considerando tutte le conseguenze scaturenti.

Inoltre, soprattutto, così operando il legislatore ha ignorato ben due "clausole di rafforzamento" contenute sia nel D.lgs 267/2000, sia nella legge 109/1994.

L'articolo 1, comma 4, del testo unico sull'ordinamento degli enti locali, infatti, stabilisce solennemente che "ai sensi dell'articolo 128 della Costituzione le leggi della Repubblica non possono introdurre deroghe al presente testo unico se non mediante espressa modificazione delle sue disposizioni". Dal canto suo, l'articolo 1, comma 4, della legge 109/1994 sancisce con altrettanta enfasi che "le norme della presente legge non possono essere derogate, modificate o abrogate se non per dichiarazione espressa con specifico riferimento a singole disposizioni".

E' assolutamente evidente che il D.P.R. 327/2001 non ha tenuto conto di norme che il legislatore ha previsto per mantenere l'unità e la coerenza interna di disposizioni generali, in modo da garantirne l'univocità contro il pericolo di un proliferare di modifiche implicite, sparse in una pletora di leggi e leggine che rendono di difficile lettura il quadro normativo di una certa materia.

Ora, il fenomeno del mancato rispetto, da parte del legislatore, delle clausole di rafforzamento delle leggi, non è affatto nuovo. Come è noto, la medesima clausola era contenuta anche dalla legge 142/1990, che nonostante questo ha subito una quantità enorme di modifiche e deroghe in aperto contrasto con la sua clausola di rafforzamento.

Come ha osservato il Consiglio di Stato nella sua relazione al D.P.R. 327/2000, esitata dall'Adunanza Generale in data 29.3.2001, le clausole di rafforzamento delle leggi in realtà non incidono sul rango delle norme. Inoltre, "l'istituto della abrogazione implicita non scompare dall'ordinamento (come ha osservato l'Adunanza Generale, col citato parere dell'8 giugno 2000 [1])".

Dunque, le cosiddette clausole di rafforzamento, in realtà finiscono per essere solo clausole di stile, un "memento" che il legislatore rivolge a se stesso, per sottolineare che in certe materie l'intervento di adeguamento e riforma deve seguire la logica del coordinamento e della modifica di un corpus unico, in modo da mantenere una certa disciplina sostanzialmente regolamentata da un codice unico.

Che le clausole di rafforzamento non comportino una diversa posizione delle leggi che le contengono nell'ambito della gerarchia delle fonti, è un dato assodato anche in dottrina. E' pacificamente accettato che in un sistema delle fonti rigido, dette fonti non possano mai istituite norme di rango pari o superiore a quello proprio. Una legge ordinaria, dunque, non può autoqualificarsi più forte di un'altra. Per questo, la deroga o abrogazione implicita tra norme di pari rango è sempre ammissibile.

Il Consiglio di Stato, col parere dell'Adunanza Generale dell'8 giugno 2000, ha ritenuto legittime ed utili le clausole di salvaguardia o rafforzamento delle leggi, rilevando il loro fine di impedire che la chiarezza e coerenza dei testi normativi possa essere compromessa da indiscriminati interventi normativi successivi.

Sulla legittimità di dette clausole, dal momento che nessuno mette indubbio la loro inidoneità ad incidere sulla gerarchia delle fonti, non pare vi possano essere dubbi.

Sull'utilità, sia consentito esprimere qualche riserva. Se il loro scopo consiste nel fare in modo che l'interprete e l'operatore possano subito percepire dalla lettura di un testo normativo tutte le variazioni ad esse apportate, detto fine deve trovare una tutela reale e concreta, altrimenti resta una pura e semplice dichiarazione d'intenti.

La riforma esplicita ha il pregio di mettere il legislatore di fronte alla necessità di valutare esplicitamente anche le conseguenze che l'abrogazione o la deroga di una norma comportano. Il che consente soprattutto all'operatore di avvalersi di una regola pratica di attuazione, utile per attivare le procedure amministrative con maggiore speditezza e per eliminare sul nascere possibilità di contenzioso.

La continua violazione delle clausole di salvaguardia è, a differenza di quanto sostiene il Consiglio di Stato, segno della loro scarsa utilità, anche dal punto di vista interpretativo. Il già citato parere dell'8 giugno 2000 sottolinea che "le clausole in parole si tradurrebbero, in definitiva, in un'esortazione non vincolante nei confronti del legislatore in merito alla tecnica di intervento e nella fissazione di un criterio ermeneutico in merito alla necessità, ove possibile, di cogliere la portata di norme posteriori nel senso non incompatibile con le disposizioni rafforzate".

Ma, nel caso dell'articolo 14, comma 8, della legge 109/1994, l'applicazione del criterio ermeneutico proposto appare impossibile: se due norme sono tra loro incompatibili, appare effettivamente difficile individuarne la compatibilità in base alla clausola di salvaguardia. In sostanza, non si vede come sia possibile che mentre il legislatore non sia, correttamente, vincolato alla clausola, essa, invece, possa essere vincolante per l'interprete e l'operatore, il quale è subordinato alla volontà del legislatore. Se questo, allora, in base alla propria discrezionalità abbia ritenuto di non tenere conto delle clausole di rafforzamento, l'interprete non può che concludere per l'incompatibilità e, quindi, per l'abrogazione della norma più antica, in applicazione del principio della successione delle leggi nel tempo.

La cosa notevole, poi, è che lo stesso D.P.R. 327/2001, sempre all'articolo 1, comma 4, contiene la stessa clausola di rafforzamento. Uno degli effetti maggiormente benefici del testo unico sulle espropriazioni deriva dalla sua natura innovativa e dalla sua reale capacità di fare tabula rasa del previgente caotico e ridondante sistema normativo.

E' da auspicare che il futuro legislatore tenga maggiormente in considerazione le clausole di rafforzamento, per evitare il riprodursi della disordinatissima disciplina degli espropri. Oppure, riconsiderare sotto un'altra luce tali clausole e renderle, nella dovuta misura, effettivamente vincolanti, per non costringere gli operatori ad inseguire normazioni episodiche e legate all'emergenza, tipiche, fin qui, proprio degli espropri, data la delicatezza di una materia che incide sia sul diritto alla proprietà, sia sull'assetto del territorio e sulle casse degli enti pubblici.

[1] Parere espresso in merito allo schema di testo unico sull'ordinamento degli enti locali.


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