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La legge 281/98. Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti. La tutela in sede di giurisdizione amministrativa
(studio sulla legge n. 281/98, redatto per conto dell'Ufficio
Legale Nazionale del Codacons dall'Avv. Olivia Carli, dal Dott. Alfredo Samengo,
dal Dott. Gino Giuliano e dal Dott. Giuseppe Mele)
INDICE
Capitolo I
La Legge 30 luglio 1998 n. 281. Premessa e aspetti generali.
Capitolo II
Forme di tutela dell'interesse diffuso: l'evoluzione giurisprudenziale attraverso la vicenda di Italia Nostra.
Capitolo III
Dagli interessi diffusi ai diritti fondamentali degli utenti e consumatori.
Capitolo IV
La legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori e degli utenti tra la Legge 281/98 e gli articoli 9 e 10 della Legge 241/90
Capitolo V
La tutela inibitoria nel procedimento amministrativo ai sensi dell'articolo 3 Legge 281/98 lett. a).
Capitolo VI
Azione inibitoria ex articolo 1469-sexies c.c. e giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi.
Capitolo VII
In particolare sull'articolo 3: la tutela risarcitoria e la tutela restitutoria, come misure idonee come misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate.
Capitolo VIII
Prospettive di tutela del diritto all'erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza di cui all'articolo 1, comma 2, lett. g) e l) della Legge 281/98, alla luce degli artt. 33-34-35 del Dlgs. n. 80/98.
Capitolo IX
La conciliazione per i consumatori.
Capitolo I
1. La legge 30 luglio 1998 n. 281. Premessa e aspetti generali.
La legge 20 luglio 1998 n. 281, entrata in vigore il 29 agosto dello stesso anno, rappresenta una notevole innovazione nell’ordinamento italiano nel campo della difesa dei consumatori. La stessa dizione utilizzata dal legislatore di "disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti" per indicare l’oggetto della legge, bene rappresenta l’elemento di novità e, per alcuni versi, di estraneità, della legge 281/98 rispetto alla normativa preesistente. Difatti, se è pur vero che le diverse normative di settore ( si pensi alla disciplina dettata dal decreto legislativo 74/92 ), attribuiscono alle associazioni di difesa dei consumatori strumenti di intervento e di azione nel campo della difesa dei diritti e degli interessi della categoria, la legge 281 del 30 luglio 1998 ne amplia notevolmente il raggio d’azione e, conseguentemente, rilancia il ruolo delle associazioni dei consumatori
Tra le novità principali del sistema introdotto dalla legge 281 si segnala l’istituzione di un elenco di delle associazioni rappresentative a livello nazionale "riconosciute" e di un Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti presso il Ministero dell’Industria, costituito e partecipato dai rappresentanti delle associazioni dei consumatori e degli utenti e da un rappresentante delle regioni e delle province autonome designato dalla Conferenza dei presidenti delle regioni e delle province autonome, ed è presieduto dal ministro dell’Industria, del commercio e dell’artigianato o da un suo delegato. Le associazioni iscritte a tale elenco, e quindi riconosciute ai fine della legge, sono legittimate ad esercitare la rappresentanza dei diritti e degli interessi dei consumatori, in ordine quindi al tradizionale riparto della giurisdizione ordinaria ed amministrativa, ed a promuovere azioni inibitorie e restitutorie presso il giudice competente, a tutela dell’interesse collettivo dei rappresentati e dei consumatori. Altro punto focale della nuova disciplina è la facoltà per le associazioni dei consumatori "riconosciute" di attivare, in via preventiva rispetto al giudizio ordinario, la procedura stragiudiziale di conciliazione prevista dall’art. 2, comma IV, lett. a, della legge 29 dicembre 1993 n. 580 (legge di riforma delle CAMCO).
2. Le più importanti proposte di legge precedenti l’approvazione della legge 281/1995.
La mancanza di una normativa specifica che regolasse l’azione e l’intervento delle associazioni di consumatori e la crescente sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui temi del consumerismo hanno portato alla presentazione negli ultimi anni di diversi disegni di legge, tutti miranti alla regolamentazione dei diritti dei consumatori ed agli strumenti per la difesa collettiva dei loro interessi.
Nel 1981 fu presentato in Parlamento un disegno di legge governativo ( c.d. "disegno Spadolini" ), che prevedeva l’istituzione di enti privati di interessi pubblico, cui sarebbe affidata legittimazione attiva in giudizio in rappresentanza degli interessi della categoria, attuando nel nostro ordinamento qualcosa di simile alle "class actions" conosciute al diritto nordamericano. Lo stesso disegno di legge prevedeva per tali enti la possibilità di costituirsi parte civile nei procedimenti penali che riguardano reati lesivi di interessi della collettività, attraverso un meccanismo che sarà poi ripreso dalla legge 349\1986 sul danno ambientale. Ma tale proposta decadde. Nello stesso anno un altro disegno di legge, anch’esso poi senza seguito, prevedeva l’emanazione di uno "Statuto dei consumatori", che prevedeva la legittimazione attiva dei rappresentanti dei consumatori di fronte la giustizia civile.
Successivamente, nel gennaio 1991, veniva approvato dal Senato un testo di legge-quadro sul consumo, presentato con il titolo "Norme per l’organizzazione di un sistema italiano di certificazione per la qualità e la sicurezza dei prodotti: istituzione di un sistema italiano di controlli a tutela dei consumatori.". Il testo approvato prevedeva la creazione di un Consiglio nazionale con poteri di controllo e vigilanza. Ma il termine della legislatura fece decadere il testo approvato, che non riuscì a passare all’esame della Camera. Un disegno di legge simile nei contenuti e nelle finalità fu presentato nella successiva legislatura. Ma anche questo tentativo fu frustrato dalle lungaggini e dalle opposizioni nel corso del suo iter parlamentare.
Infine, nell’ultima legislatura, soprattutto in virtù della crescente considerazione che le tematiche inerenti alla tutela degli interessi dei consumatori andavano assumendo tra gli operatori del diritto e presso i cittadini, sono state accorpate in un unico testo più proposte di legge, aventi tutte per oggetto il riordino della materia. Il risultato è stato la riunione dei differenti disegni e delle proposte di legge in un unico testo intitolato "Disciplina dei diritti dei consumatori", che , dopo aver passato l’esame della Camera nel mese di Aprile 1998, è stato infine approvato al Senato, sostanzialmente immutato nei contenuti, il 20 luglio 1998.
3. L’iter parlamentare della legge 281
Il percorso della legge 281/98 è stato accidentato per via delle forti opposizioni manifestate dalle categorie economiche e per via dei contrasti tra gli stessi protagonisti del mondo del consumerismo. Pertanto l’iter di approvazione del testo ha subito forti rallentamenti e diverse revisioni che hanno influito sulla sua formulazione definitiva. Il testo definitivo, come si è detto, è stato il risultato della riunione di differenti proposte e disegni di legge che prevedevano separatamente la legittimazione delle associazioni e l’istituzione di un "Garante dei consumatori" o di un "Consiglio nazionale" espressione della categoria. In particolare vanno segnalate le proposte di legge N. 125 e 74 presentate il 9 maggio 1996 alla Camera dei deputati.
La proposta di legge n.125 è stata presentata ad iniziativa dei deputati De Benetti e Scalia con il titolo di "Norme per la rappresentanza in giudizio delle associazioni di tutela dei consumatori e degli utenti", con lo scopo di "ammettere alla tutela giurisdizionale degli interessi dei consumatori e degli utenti" le associazioni dei consumatori che possiedono dei requisiti "minimi". La proposta prevedeva la legittimazione delle associazioni innanzi al giudice amministrativo ed agli organi amministrativi speciali ed in sede civile limitatamente all’esperimento di azione inibitoria e rescissoria degli effetti del comportamento lesivo degli interessi dei consumatori. Era altresì prevista la legittimazione delle associazioni all’intervento nei procedimenti penali ai sensi degli artt.91 e ss. C.p.p..
Lo stesso 9 maggio 1996 è stata presentata dagli On. De Benetti, Paissan, Scalia, Boato, Cento, Dalla Chiesa, Galletti, Gardiol, Leccese, Pecoraro Scanio, Procacci e Turroni la proposta di legge n.74 recante "Norme per la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti. Istituzione dell’ufficio del Garante e del Consiglio dei consumatori e degli utenti", con il dichiarato fine di elevare il livello di protezione dei consumatori (a) "attraverso l’istituzione del garante del Consiglio, sottraendo così la politica di protezione dei consumatori alle influenze del potere esecutivo" e (b) "attraverso l’accentuazione dei poteri di proposta e di consenso nell’attuazione di progetti di riconosciuto rilievo collettivo". La proposta di legge riportava all’art. 1 una elencazione dei diritti riconosciuti ai consumatori ( diritti poi riportanti poi nel testo definitivo della legge 281/98 ) e all’art. 2 la previsione di un Garante nominato dal Presidente della repubblica su proposta dei Presidenti delle Camere, con poteri di coordinamento delle attività tra le istituzioni e le associazioni dei consumatori. Sul modello di istituzioni specializzate presenti nei paesi scandinavi, cui chiaramente il progetto di legge si richiama, quale il noto Consumer Ombudsman dell’ordinamento danese, il Garante avrebbe potuto ricevere richieste e reclami anche dai singoli cittadini e riferire al Parlamento attraverso una relazione annuale. All’art. 3 era invece prevista l’istituzione del "Consiglio Nazionale", presieduto dal Garante stesso e costituito dalle associazioni dei consumatori iscritte nell’elenco previsto dall’art. 4 della stessa proposta di legge e per le quali si prevedeva una serie di requisiti minimi, quali numero di iscritti, autonomia dal mondo delle imprese e trasparenza nei bilanci.
Successivamente, il 10 luglio 1997, il Senato approvava, trasmettendolo alla Camera, un disegno di legge intitolato "Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti", frutto della unificazione di diverse iniziative legislative, che riprendeva in gran parte le disposizioni delle due proposte di legge presentate alla Camera, accorpando le previsioni di allargamento della legittimazione delle associazioni dei consumatori nei giudizi civili e amministrativi ( eliminando però il riferimento espresso ai "giudici amministrativi speciali" ) con la previsione di un organo istituzionale di raccordo delle istanze dei consumatori quale il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti. Veniva meno la previsione di un Garante dei consumatori, mentre la direzione del nuovo organismo veniva affidata al Ministro dell’Industria. Le novità, rispetto al precedente testo presentato alla Camera, che si riscontravano nel testo del nuovo disegno di legge erano la previsione di una forma di finanziamento pubblico delle associazioni, prevista all’art. 7 mediante l’equiparazione delle associazioni riconosciute alle associazioni di volontariato (ONLUS) per ciò che riguarda la disciplina tributaria ai sensi della legge 662 del 23 dicembre 1996 e il finanziamento di attività di editoria così come previsto dalla legge 416 del 5 agosto 1981, e la delega al governo ad emanare un decreto legislativo contenente un testo unico sulle disposizioni legislative vigenti in materia di consumatori ed utenti, "apportando le modifiche necessarie per il coordinamento delle disposizioni stesse" (art. 8).
Il testo definitivo veniva approvato dalla Camera il 20 luglio 1998 quasi del tutto integro nel suo complesso sia nella parte che prevede la legittimazione ad agire in giudizio, sia nella parte che istituisce il Consiglio nazionale. Venivano invece stralciate dal testo della legge proprio la disposizione che forniva la delega al governo per la stesura di un testo unico sul "diritto dei consumatori" e la previsione che equiparava il regime fiscale delle associazioni alle c.d. ONLUS.
4. Il sistema delineato dalla legge 281.
Al comma 2 dell’art. 1 del testo della legge 281\98, vengono enucleati e precisati i diritti fondamentali riconosciti ai consumatori:
- il diritto alla salute;
- alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi;
- ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità;
- educazione al consumo;
- alla correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi;
- alla promozione ed allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra consumatori ed utenti;
- all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza.
Tale enunciazione consente, innanzitutto, di cogliere la volontà del legislatore di precisare i diritti fondamentali assicurati nel nostro ordinamento ai consumatori ed agli utenti, definiti all’art. 2 "le persone fisiche che acquistino o utilizzino beni o servizi per scopi non riferibili all’attività imprenditoriali e professionale eventualmente svolta."
Risulta evidente il richiamo, peraltro espressamente ricordato all’art. 1 , ai principi in materia di diritti dei consumatori dell’ordinamento comunitario, con la politica di protezione del consumatore, di cui nel Trattato di Maastrich e alle relative direttive europee in materia.
Finalità, di certo non poco ambiziose, della legge sono, invece, ai sensi dell’art. 1, la tutela degli interessi collettivi dei consumatori e l’effettivo riconoscimento dei diritti, enucleati sempre nello stesso articolo, "anche attraverso la disciplina dei rapporti tra le associazioni dei consumatori e degli utenti e le pubbliche amministrazioni.". Pertanto la legge in questione opera una collocazione nel contesto del nostro sistema normativo delle associazioni rappresentative degli interessi dei consumatori, enunciando inoltre, secondo una tecnica redazionale di sovrapposizione e rafforzamento dei principi costituzionali, i diritti dei consumatori e gli strumenti per garantirne l’effettività.
Riveste un ruolo centrale nel sistema delineato dalla legge 281/98 la disciplina del riconoscimento delle associazioni rappresentative dei consumatori, per le quali l’art.5 prevede l’inclusione in un elenco approntato al Ministero, e a cui subordina la titolarità dei diritti e delle azioni ai sensi della legge stessa. All’art. 2 vi è la definizione di associazione di consumatori come " le formazioni sociali che abbiano per scopo statutario esclusivo la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori e degli utenti.". Pertanto il legislatore ha operato in questo punto una importante scelta, escludendo dalla possibilità di essere riconosciute e di ottenere i diritti e le azioni previste, tutte quelle associazioni, organizzazione e denti il cui fine esclusivo non sia la tutela dei consumatori. Questa previsione sbarra la strada, per ciò che concerne la legge 281, alle associazioni, come per esempio i sindacati e le organizzazioni ambientali, che, oltre le proprie dirette finalità, perseguono finalità comunque riconducibili ai temi del consumerismo.
Per quanto riguarda, invece, gli ulteriori requisiti formali delle associazioni, richiesti dalla legge per ottenere l’iscrizione nell’elenco predisposto presso il Ministero dell’industria, si tratta di criteri presuntivi di rappresentatività inerenti il numero degli iscritti, previsto in non meno del 0,5 per mille della popolazione nazionale, e di una presenza in almeno cinque regioni o provincie autonome, con un numero di iscritti non inferiore allo 0,2 per mille degli abitanti di ciascuna di queste. Ulteriori requisiti sono previsti alle lettere a, b, d, f in relazione alla trasparenza, verificata attraverso l’obbligo alla tenuta di elenchi aggiornati annualmente, alla democraticità dell’associazione, desunta dallo statuto, al controllo della contabilità e dell’onorabilità dei suoi rappresentanti legali, che non devono aver subito condanna penale passata in giudicato in relazione all’attività dell’associazione. Di particolare interesse, si fini dell’analisi delle intenzioni del legislatore è l’ultima previsione della lettera f dell’art. 5, ove si prescrive l’incompatibilità assoluta tra la qualifica di imprenditore o l’attività di amministrazione di imprese di produzione e servizi, in attività connesse con l’attività dell’associazione, con la funzione di rappresentante legale dell’associazione. Dalla norma traspare la preoccupazione di evitare la presenza di imprenditori "mascherati" tra le associazioni alle quali è affidata la tutela collettiva ai sensi della legge, presenza che potrebbe essere utilizzata ai fini di attivare i mezzi posti a tutela del consumatore contro imprenditori concorrenti o per costituire associazioni "fantoccio" nelle mani di operatori economici o imprese scorrette, semplici strumenti per le imprese per eludere le norme poste a tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori. Resta tuttavia sul fondo la possibilità, non certo scongiurata dalla disposizione sull’incompatibilità assoluta prevista all’art 5 lettera f , di imprenditori scorretti che finanzino associazioni compiacenti o addirittura "amiche". E’ proprio la presenza di tali rischi che, verosimilmente, hanno portato il legislatore a prevedere l’obbligo della trasparenza nella contabilità dell’associazione ( lettera f art. 5) ed il ricorso al finanziamento pubblico per il loro sostentamento economico ( art. 6 ). Alla stessa ratio risponde il disposto del numero 3 dell’art. 5, che fa espresso divieto alle associazioni di svolgere "ogni attività di promozione o pubblicità commerciale avente per oggetto beni o servizi prodotti da terzi e ogni altra connessione di interessi con imprese di produzione o di distribuzione".
La legittimazione delle associazioni di consumatori ed utenti iscritte nell’elenco del Ministero (art. 3).
La finalità dichiarate dal legislatore al comma primo dell’articolo 1 della legge di "garantire e riconoscere i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumato" e la loro "tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa, trova la sua attuazione attraverso le disposizioni che regolano la legittimazione ad agire delle associazioni riconosciute. Tale disciplina si compone di due parti, delle quali la prima è prevista dai comma I, V e VI dell’art 3,che disciplinano la legittimazione delle azioni positive a vantaggio delle associazioni nel campo della tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori, mentre la seconda è prevista ai comma II , III e IV dello stesso articolo, che delineano i nuovi aspetti della procedura di conciliazione presso le Camere di commercio. In ultimo resta il comma 7 che, "fatte salve le norme sulla litispendenza, sulla continenza, sulla connessione e sulla riunione dei procedimenti", assicura ai consumatori la possibilità di percorrere autonomamente le vie ordinarie di tutela dei propri diritti ed interessi, al di fuori del sistema di tutela collettiva ("in forma collettiva ed associativa") previsto dalla legge 281/98.
Per quanto riguarda la disciplina delle azioni a tutela degli interessi collettivi, l’art. 3 comma 1 delinea l’azione inibitoria-rescissoria attribuite alle associazioni. In particolare è previsto che le associazioni possano richiedere al giudice competente di "inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti" ( lett. a) e "di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate" ( lett. b). La norma in questione, evocando direttamente la tradizionale bipartizione fra le competenze giurisdizionali, in ordine a diritti ed interessi collettivi, dei giudici ordinari e amministrativi, legittima le associazioni dei consumatori (ma solo quelle "riconosciute" ed inserite nell’elenco presso il Ministero dell’Industria) alla tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori, come categoria definita all’art. 2 ("persone fisiche che acquistino o utilizzino beni o servizi per scopi non riferibili all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta"), sia di fronte al giudice ordinario, che al giudice amministrativo. Tuttavia, nonostante l’ampia formulazione dei diritti e degli interessi riconosciuti dall’art. 1 come oggetto della tutela da parte della legge, si rileva come le disposizioni in esame si segnalino per la limitatezza delle indicazioni circa le azioni positive di tutela "collettiva" esperibili dalle associazioni. Prendendo a riferimento il semplice e scarno dato normativo della legge 281/98, si osserverà, alla lett. a) del comma I dell’art. 3, la previsione di una azione, non definita nelle sue caratteristiche e modalità, dalle funzioni inibitorie al fine di ottenere dal giudice competente un provvedimento che metta fine agli atti ed ai comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori, e di una azione a carattere rescissorio dal contenuto ampio, seppure vago, tendente a richiedere al giudice adito un provvedimento atto a rimuovere o correggere gli effetti di tale comportamento.
Infine all’ultima lettera del comma 1 dell’art. 3 il legislatore ha previsto un rafforzamento del carattere rescissorio dell’azione di cui alla lettera b, disciplinando, similmente a quanto disposto nella disciplina dell’Autorità garante del mercato per la pubblicità ingannevole, la possibilità di richiedere al giudice la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale, nel caso in cui tale forma di pubblicità dell’atto possa contribuire all’eliminazione degli effetti degli atti e dei comportamenti che violano i diritti e gli interessi in questione.
Altrettanto importante è poi la previsione del comma II dell’art. 3, che offre alle associazioni la possibilità di attivare, in via preventiva rispetto al giudizio ordinario, la procedura di conciliazione, presso la camera di commercio competente per territorio, di cui all’art. 2, comma IV, della legge 29 dicembre 1993. Innanzitutto bisogna però rilevare che la procedura di conciliazione extragiudiziale, così come prevista dalla legge 580/93, si caratterizza per il suo carattere di volontarietà, per cui il soggetto nei cui confronti essa è rivolta, può liberamente scegliere di non sottoporsi al tentativo di conciliazione che la norma ha effetto di suggerire. Ed ancora, pure l’accettazione del tentativo di conciliazione, ex art. 2, comma IV, lett. a, della legge 580/93, non consente tuttavia di vincolare in via definitiva le parti al raggiungimento di un accordo di composizione della lite, in virtù della natura stessa dell’istituto della conciliazione. Si tratterebbe quindi di un semplice invito, di un suggerimento, operato dalla norma in questione affinché le parti sfruttino tale opportunità al fine di evitare il ricorso alla giustizia, attraverso i buoni uffici di una istituzione, quale la camera di commercio con le sue commissioni per la conciliazione, che è essa stessa partecipata e costituita da una delle parti in lite, ovvero le imprese. Ma la disciplina della legge 281/98 si spinge oltre e attua una innovazione non trascurabile rispetto alle precedenti esperienze di conciliazione stragiudiziale, prevedendo, all’art. 3, comma III e IV, il deposito per l’omologazione presso la cancelleria della Pretura competente, del verbale d’accordo raggiunto, nel caso in cui le parti riescono ad addivenire ad un soluzione attraverso la conciliazione. L’omologazione del verbale di accordo, infatti, con una previsione simile a quanto previsto per il lodo arbitrale, assume l’efficacia di titolo esecutivo, nella forma di decreto del pretore che ha provveduto all’omologazione e che, quindi, ne ha verificato la regolarità formale.
5. Il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti.
Il riconoscimento delle associazioni dei consumatori e degli utenti comporta, ai sensi dell’art. 4, la rappresentanza delle stesse associazioni nel consiglio nazionale delle associazioni dei consumatori e degli utenti, istituito dalla legge. La legge all’art. 4 comma primo e secondo prevede che il Consiglio "ha sede presso il ministero dell’Industria, del commercio e dell’artigianato" e "si avvale, per le proprie iniziative, della struttura e del Ministero", rispecchiando in questo la situazione preesistente alla legge della Consulta nazionale dei consumatori, organo consultivo e di collaborazione delle associazioni di consumatori, che appunto, trovava collocazione proprio nella struttura del ministero dell’industria. Il Consiglio si compone "dei rappresentanti delle associazioni dei consumatori e degli utenti inserite nell’elenco di cui all’articolo 5 e da un rappresentante delle regioni e delle provincie autonome designato dalla conferenza dei presidenti delle regioni e delle provincie autonome ed è presieduto dal ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato. Il Consiglio è nominato con decreto dal presidente del consiglio dei ministri, su proposta del ministro dell’industria." ( art. 4 comma 2 ). La composizione rispecchia chiaramente la volontà legislativa di creare, con l’istituzione del Consiglio, un luogo di confronto ed incontro delle istanze del mondo consumeristico, rappresentato dalle associazioni riconosciute, iscritte nell’elenco, con i rappresentanti del potere esecutivo al livello regionale e nazionale. Sempre in considerazione della volontà di amplificare la rappresentatività ed il ruolo del Consiglio va considerata la possibilità, offerta dall’art. 4 comma 3, di far partecipare alle riunioni "rappresentanti delle associazioni di tutela ambientale riconosciute e delle associazioni nazionali di cooperative dei consumatori". In tal modo, attraverso questa disposizione, si è voluto attenuare la rigidità dei criteri previsti dalla legge all’art. 2 lettera b, che, come si è visto, preclude il riconoscimento, e il conseguente accesso nel Consiglio, alle associazioni il cui unico scopo statutario non sia la tutela dei consumatori e degli utenti, pur senza correre il rischio di introdurre stabilmente nel sistema previsto dalla legge enti o associazioni che non presentino le caratteristiche richieste dalla legge all’art. 2 e che rispondano ai criteri dell’art. 3. Infatti per effetto di questa norma viene di fatto ridefinito il ruolo delle associazioni ambientali e delle cooperative, enti indubbiamente portatori di interessi superindividuali, la cui rilevanza ai fini della tutela di taluni interessi era stata riconosciuta dall’ordinamento in taluni casi, come ad esempio in materia di repressione della pubblicità ingannevole e da parte della giurisprudenza nel diritto amministrativo.
Ancora più rilevante, per ciò che riguarda il ruolo del Consiglio e la sua attitudine a diventare sede deputata di composizione e dialogo tra il mondo delle imprese, appare la previsione, dello stesso comma 3 dell’articolo 4, della possibilità di invitare alle sedute del Consiglio "i rappresentanti di enti e organismi che svolgono funzioni di regolamentazione o di normazione del mercato, delle categorie sociali interessate, delle pubbliche amministrative, nonché esperti delle materie trattate.".
6. Le funzioni del Consiglio.
Il ruolo e le funzioni del Consiglio istituito dall’art. 4, comma I, della legge 281/98 sono disciplinate dal IV comma dell’art. 4. In particolare sono previste funzioni di carattere consultivo-propositivo, informativo, di ricerca e di coordinamento. Specificatamente la legge prevede tra i compiti del Consiglio:
- esprimere pareri su richiesta, quindi non obbligatori, su disegni di legge e su schemi di regolamenti in materia di diritti dei consumatori. ( lett. a )
- approntare proposte, tenuto conto dei programmi e delle politiche del legislatore nazionale e dell’Unione Europea. ( lett. b )
- organizzare e promuovere l’attività di studio e di ricerca sui temi del consumo. ( lett. c )
- promuovere iniziative per il controllo della qualità e della sicurezza dei prodotti e dei servizi. ( lett. c )
- predisporre programmi per favorire l’informazione dei consumatori. ( lett.d )
- favorire iniziative volte a promuovere programmi alternativi per la risoluzione di controversia su temi del consumo, favorendone l’accesso alla giustizia. ( lett. e )
- favorire il coordinamento tra le politiche nazionali e regionali e tra le rappresentanze dei consumatori.
- Allacciare rapporti con enti pubblici o privati di paesi dell’Unione Europea, che perseguono gli stessi scopi, al fine di favorire il dialogo tra i consumatori.
7. Il sostegno economico alle associazioni. Sussidi pubblici o ricorso al mercato-
Oltre ciò che riguarda il riconoscimento da parte dell’ordinamento delle associazioni dei consumatori, la legge 281/98 si occupa di disciplinare il regime delle agevolazioni e dei contributi alle associazioni, aspetto quest’ultimo fino ad ora tralasciato dal legislatore. La disciplina della nuova legge, invece, si preoccupa di offrire alle associazioni che rispondono ai requisiti della legge previsti per il riconoscimento, e che pertanto svolgeranno nel nuovo sistema le funzioni di rappresentanza ed intervento a norma della legge 281, una forma, seppur modesta, di finanziamento pubblico.
Il finanziamento delle associazioni rappresentative dei consumatori e, più in generale, dei gruppi di interesse, costituisce un aspetto di rilevante importanza, soprattutto se si osservano le scelte operate da ordinamenti esteri e lo stretto legame che intercorre tra funzioni di interesse pubblico ed i sussidi dello Stato. Infatti, come si è visto nel capitolo precedente, le esperienze degli ordinamenti stranieri ci mostrano diverse soluzioni, ove la scelta di finanziare e sostenere le associazioni si sposa appunto con la volontà di dotarle di funzioni a carattere pubblicistico. E così, mentre da una parte vi sono gli ordinamenti dei paesi scandinavi, che hanno attuato una costante opera di sostegno e finanziamento delle associazioni, dall’altra, invece, vi sono ordinamenti, come quello del Regno Unito, che lasciano che siano le associazioni a procurarsi sul mercato, e in un’ottica di mercato, i fondi necessari al proprio sostentamento, offrendo servizi ai consumatori o alle imprese, soprattutto sotto forma di prestazioni retribuite di servizi, campagne informative, test comparativi, alleanze volte al miglioramento della qualità dei prodotti.
Tornando al quadro della legge 281/98, il sistema previsto dalla nuova legge prevede, all’art. 6, l’estensione delle agevolazioni e dei contributi della legge 5 agosto 1981 n. 416, in materia di disciplina delle imprese editoriali e delle provvidenze per l’editoria, alle attività editoriali svolte dalle associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 della legge 281/98. E’ inoltre previsto il rinvio ad un successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri per la fissazione dei criteri e delle modalità specifiche per la distribuzione dei fondi. Risulta, invece, essere scomparso dal testo definitivo della legge, il comma I dell’art. 7 del disegno di legge approvato dalla Camera, che risulta così stralciato dal testo di legge proprio nel passaggio definitivo per l’approvazione al Senato. Vi era prevista l’equiparazione ai fini del regime fiscale delle associazioni dei consumatori alle associazioni di volontariato di utilità sociale.
Il finanziamento pubblico delle associazioni dei consumatori, quindi, nel sistema delineato dalla legge 281, è stato posto in stretta relazione alle iniziative delle associazioni nel settore della stampa, senza invece riguardo alle ulteriori, e non meno importanti, attività cui queste si dedicano. Appare pertanto evidente la volontà del legislatore di stimolare la nascita di nuove pubblicazioni tendenti ad una "adeguata informazione del consumatore e all’educazione al consumo".
La possibilità di attirare finanziamenti attraverso forme di collaborazione con le imprese trova, invece, un freno nella previsione del comma III dell’art. 5 che preclude alle associazioni "ogni attività di promozione o pubblicità commerciale avente per oggetto beni o servizi prodotti da terzi e ogni connessione di interessi con le imprese di produzione o di distribuzione", volendosi così scongiurare il rischio di accordi fraudolenti tra associazioni dei consumatori "vendute" ed imprese senza scrupoli.
8. La norma transitoria.
L’art. 8 della legge 281 prevede la disciplina di un periodo transitorio fino al 31 dicembre 1999. In tale articolo è previsto che : "Il Consiglio di cui all’art. 4 è composto (fino a tale data) dai membri della Consulta dei consumatori e degli utenti istituita con decreto del Ministro dell’Industria del 11 novembre 1994 e successive modificazioni, e dai rappresentanti delle associazioni iscritte nell’elenco di cui all’art. 5, ove non già rappresentate nella Consulta.". Quindi, ad effetto della norma transitoria, vengono cooptate nel Consiglio tutte le associazioni rappresentate nella Consulta, organismo consultivo creato nel ministero, e di cui, in un certo senso, il Consiglio, istituito dalla legge 281, utilizzerà fisicamente le stesse strutture, all’interno del Ministero dell’industria. Tale ingresso nel Consiglio, operato ex lege dalla norma transitoria, prescinde totalmente da un controllo effettivo sui requisiti presuntivi di rappresentativi previsti per le associazioni riconosciute.
Al comma I dell’art. 8 è prevista al comma II dello stesso articolo la possibilità, da parte del Ministro dell’Industria, di iscrivere, in via provvisoria, nell’elenco previsto dall’art. 5 associazioni, al di fuori di quelle già presenti nella Consulta dei consumatori e degli utenti, anche se non in regola con i requisiti richiesti dalla legge, aggiungendole a quelle già riconosciute in base alla previsione del I comma dell’art. 8.
Capitolo II
Forme di tutela dell'interesse diffuso: l'evoluzione giurisprudenziale attraverso la vicenda di Italia Nostra.
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La legge sulla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti del 30 luglio 1998, n. 281, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.189 del 14 agosto 1998, rappresenta una nuova tappa del processo evolutivo che, nel nostro Paese, interessa la tutela dei consumatori.
La necessità di una maggiore effettività della tutela giurisdizionale dei diritti dei consumatori ha indotto il legislatore italiano, sulla scia dell’integrazione europea, ad intervenire al fine di tentare di dare una risposta organica.
L’innovazione apportata dalla L.281/98 e la sua utilità potranno essere comprese solo a partire dal concetto di interesse collettivo.
In riferimento alla figura del consumatore e quella dell’utente si è spesso parlato di interessi diffusi e di interessi collettivi come interessi distinti dall’interesse legittimo per non essere caratterizzati dalla individualità (personalità), differenziazione, qualificazione normativa, e quindi, per essere esclusi dalla tutela giurisdizionale.
Per diverso tempo l’espressione utilizzata è stata quella di interesse diffuso, che si giustificava per la mancanza di una esistenza stabile di enti esponenziali rappresentativi.
Oggi che il fenomeno dell’associazionismo dei consumatori si è istituzionalizzato, sarebbe tecnicamente impreciso parlare di interessi diffusi – interessi che non hanno un portatore e che sono definiti dal Giannini come adespoti -,mentre più correttamente si deve parlare di interessi collettivi, questo perché i consumatori sono una vera e propria categoria giuridicamente e logicamente distinguibile dalla categoria dei produttori e distributori di beni e servizi.
Mancando ogni riferimento normativo la giuridicizzazione dell’interesse diffuso- che poi si è trasformato in interesse collettivo – si è realizzata attraverso una lunga e complessa evoluzione giurisprudenziale.
La giurisprudenza in un primo momento, per rimanere fedele alla prassi applicativa dell’art. 26 T.U. delle legge sul Consiglio di Stato - che richiede l’individualità dell’interesse a ricorrere – negò la legittimazione ad agire per la tutela dell’interesse diffuso sia al gruppo, sia al singolo individuo, proprio per la natura stessa dell’interesse diffuso che non consente frazionabilità in capo al singolo.
D’altra parte il nostro ordinamento non conosce la figura delle class action che, è stato affermato,"hanno dimensione squisitamente processuale che appare strettamente correlata al sistema e all’apparato di amministrazione della giustizia statunitensi e, di conseguenza, un loro ipotetico trapianto in Italia richiederebbe non solo e non tanto una modifica del regolamento di procedura ma, e soprattutto, una modifica della nostra cultura processualistica, una radicale trasformazione dell’atteggiamento dei giudici e degli avvocati e del loro addestramento professionale. In breve si tratterebbe di modificare le strutture profonde dotate di grande stabilità ed inerzia" (A. Gambaro, Danno ambientale e tutela degli interessi diffusi, in "Per una riforma della responsabilità civile per danno all’ambiente" di Trimarchi, Giuffrè, 1994).
Lo sviluppo della moderna società industriale e in particolare gli aspetti degenerativi di esso portarono alla ribalta la tematica degli interessi diffusi.
Si incominciò ad avvertire in maniera sempre più pressante l’esigenza di potenziare gli strumenti di difesa comune dei beni e dei valori che riguardano collettività più o meno ampie, quali l’ambiente e la salute.
Le aperture giurisprudenziali in tema di legittimazione a ricorrere non sono, quindi, mancate.
La strada battuta non è stata quella di riconoscere l’interesse diffuso quale tertium genius, figura distinta dal diritto soggettivo e dall’interesse legittimo, ma quella di ricondurlo, in determinati casi, ora al diritto soggettivo ora all’interesse legittimo.
Due sono stati i criteri elaborati, inizialmente, dalla giurisprudenza amministrativa per qualificare e differenziare gli interessi diffusi: quello dello stabile collegamento ambientale e quello dell’imputazione all’ente esponenziale.
Il primo criterio viene elaborato dal Consiglio di Stato con sent. N.523/1970, che fornì un’interpretazione restrittiva dell’art.10 L. n. 767/1967 (cd. Legge ponte in materia urbanistica): ad agire potevano essere soltanto quei soggetti la cui posizione sostanziale è sufficientemente differenziata dal criterio fisico- spaziale del medesimo insediamento abitativo (criterio della vicinitas).
La giurisprudenza elaborò, quasi contemporaneamente, un diverso ed ulteriore criterio di differenziazione e qualificazione dell’interesse diffuso: ai fini della sua azionabilità si richiese che il gruppo si riunisse in un ente con personalità giuridica, essendo il requisito della personalità un indice di differenziazione ed un indizio di solidità e stabilità organizzativa del soggetto collettivo.
La simbiosi tra riconoscimento della personalità e legittimazione a ricorrere ebbe però vita breve, ben presto la giurisprudenza amministrativa riconobbe la legittimazione ad agire anche agli enti di fatto.
Questa apertura della giurisprudenza - che è giunta a riconoscere l’azionabilità dell’interesse diffuso sub specie di interesse legittimo- si registrò in occasione della nota vicenda dell’associazione ambientalistica Italia Nostra ( Cons. di Stato; sez. V, 9 marzo 1973, in Foro ital. 1974, III, c.33).
Il Consiglio di Stato ritenne ammissibile l’azione promossa dall’Associazione riconosciuta Italia Nostra portatrice di un interesse pubblico diffuso relativo alla tutela della bellezza naturale del lago di Tovel.
Tale legittimazione processuale venne subito negata dalla Corte di Cassazione che si pronunciò a sezioni unite (CC,SS.UU. 8 maggio 1978, n.2207) ed affermò il difetto assoluto di giurisdizione nei riguardi dell’azione proposta da Italia Nostra.
In questo modo il Giudice di legittimità ritornava sulle posizioni tradizionali, ribadendo la concezione individualistica della tutela giurisdizionale degli interessi diffusi relativi alla salvaguardia dell’ambiente; ove si ammettesse l’azionabilità in giudizio di interessi differenziati si verrebbe a generalizzare un istituto eccezionale quale quello dell’azione popolare.
Nonostante questa pronuncia negativa della Corte Suprema non sono mancate le aperture giurisprudenziali in tema di legittimazione ad agire.
Illuminante, a tal proposito una pronuncia del TAR del Lazio, 4 ottobre 1980, n.850 che riconobbe al legittimazione ad agire di un associazione di utenti del servizio telefonico ad impugnare i provvedimenti con i quali si rincaravano le tariffe del servizio in base al presupposto della particolare qualificazione soggettiva dell’Associazione derivante dall’art.5 della L. 15 settembre 1947 n. 896, che prevedeva che fossero chiamati a far parte della Commissione centrale prezzi i rappresentanti dei consumatori e degli utenti su designazione di quelle associazioni a carattere nazionale interessate alla tutela della categorie suddette.
Nonostante la soluzione negativa adottata in ordine alla legittimazione processuale di Italia Nostra, l’Adunanza plenaria con sent. 24/1979, precisando che il riconoscimento governativo non fosse condizione necessaria per radicare la legittimazione processuale di un ente associativo, ha spalancato le porte del processo amministrativo anche agli enti di fatto e si è irrogato un compito di selezionare gli interessi azionabili.
Il CdS ha individuato alcuni requisiti che gli enti esponenziali debbono possedere affinchè sia loro riconosciuto legittimazione al ricorso.
Ai fini della legittimazione ha ritenuto necessario che lo statuto dell’ente prevedesse come fine istituzionale l’utilizzo particolare del bene a fruizione collettiva di cui si è chiesto la tutela giurisdizionale e che l’ente fosse in grado di realizzare i suoi fini.
Una costante giurisprudenza ha ritenuto altresì necessario la stabilità dell’ente e la localizzazione degli interessi.
Una tappa importante nel riconoscimento degli interessi collettivi si ebbe con L. 349/1986 in materia di protezione ambientale.
In particolare l’art.18, comma, della citata legge ha ammesso la legittimazione a ricorrere in sede giurisdizionale amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi alle sole associazioni in possesso di requisiti di cui all’art.13 della legge cit., a norma del quale "Le associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni, sono individuate con decreto del Ministro dell’ambiente sulla base delle finalità programmatiche e dell’ordinamento interno democratico previsto dallo statuto, nonché della continuità dell’azione e della sua rilevanza esterna, previo parere del Consiglio Nazionale per l’Ambiente".
Conseguentemente si è posto il problema di stabilire se un’associazione ambientalistica diversa da quella individuata nel decreto ministeriale, possa impugnare i provvedimenti amministrativi illegittimi incidenti sull’ambiente ove sia in possesso dei requisiti elaborati dalla giurisprudenza.
La tendenza degli ultimi anni è nel senso di allargare se possibile, il novero delle associazioni legittimate a ricorrere a protezione ambientale.
Interessante a tal proposito è una sentenza del Consiglio di Stato che statuisce che " alla luce del combinato disposto degli artt. 13 e 18 L. 349/86 la legittimazione a ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti che si assumono illegittimi, spetta alle associazioni di protezione ambientale che siano individuate con decreto del ministero dell’ambiente, nonché alle associazioni che, in base al grado di rappresentatività di interessi collettivi connessi alla tutela ambientale, il giudice accerti, caso per caso, in possesso dei requisiti predetti, con riferimento alla rilevanza esterna da cui è caratterizzata l’azione dell’associazione ed alla continuità dell’attività di tutela ambientale svolta"( Cds sez. VI; 7 febbraio, n.182).
Un’ulteriore tappa fondamentale per il riconoscimento giurisdizionale degli interessi collettivi, diversi da quelli connessi all’ambiente, è rappresentata dalla L.1990 n.142 e dalla L.241/90.
In particolare, l’art. 6 ex L.1990/142 ha espressamente disposto che negli statuti delle Province e delle Regioni devono essere previste procedure per l’ammissione di istanze, petizioni e proposte di cittadini singoli o associati diretti a promuovere interventi per la migliore tutela di interessi collettivi.
L’art.9 L.241/98 ha previsto la facoltà dei portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni e comitati di intervenire nei procedimenti amministrativi relativi ad atti da cui possa loro derivare un pregiudizio.
Dunque, secondo un orientamento dottrinale e giurisprudenziale, l’art.9 finirebbe per attribuire una qualificazione normativa alla posizione sostanziale sottesa all’interesse a partecipare al procedimento, la cui lesione non si esaurirebbe nell’ambito procedimentale, ma amplierebbe la legittimazione processuale degli enti esponenziali.
L’ingresso di azioni generalizzate a tutela di interessi collettivi non connessi alla tutela dell’ambiente è avvenuta, quindi, molto più lentamente.
Ebbene la L.281/98 all’art.3, 1° comma, cuore della legge, dà ingresso finalmente nel sistema ad azioni generalizzate a tutela di interessi collettivi, ed infatti le associazioni iscritte nell’istituendo elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale, sono legittimate ad agire in giudizio a tutela di interessi collettivi.
Capitolo III
Dagli interessi diffusi ai diritti fondamentali degli utenti e consumatori
1. La nozione di interesse diffuso alla luce della giurisprudenza amministrativa, e dell’art. 9, Legge n. 241/90.
L’art. 1, comma 2, della L. 281/98, nel riconoscere ai singoli utenti e consumatori una serie diritti fondamentali, innova profondamente in tema di tutela del consumatore.
Va infatti ricordato che prima dell’entrata in vigore di tale legge, i predetti soggetti risultavano, salvo il caso del diritto alla salute già espressamente riconosciuto dall’art. 32 Cost. come diritto fondamentale del cittadino, titolari di semplici interessi diffusi e/o collettivi, come tali azionabili in giudizio solo in forma collettiva.
L’innovazione operata dall’articolo in esame, può essere meglio colta ove si ponga mente alla complessa riflessione dottrinaria e giurisprudenziale che ha condotto all’emersione degli interessi diffusi.
In primo luogo, occorre rilevare che tali interessi, elaborati in sede dottrinaria già a partire dai primi anni ‘70, venivano considerati come interessi pertinenti identicamente ad una collettività più o meno vasta di soggetti e più o meno determinata o determinabile, con riferimento al simultaneo godimento di un medesimo bene naturale a fruizione generale.
L’elaborazione di tali figure di interessi, nel differenziare questi ultimi dai cosidetti interessi semplici o di fatto, mirava a porre le basi per apprestare una qualche forma di tutela giurisdizionale alle suddette collettività, tutte le volte che l’azione amministrativa avesse minacciato il livello di fruizione del bene oggetto di godimento comune.
Un altro terreno di emersione di interessi diffusi è stato, appunto, quello dei rapporti tra consumatori e produttori di beni e servizi.
In questo caso il referente comune degli interessi dei consumatori era costituto da quei comportamenti, posti in essere da professionisti e imprenditori, idonei a mettere in pericolo la salute, la sicurezza e gli stessi interessi economici di un numero indefinito di consumatori.
A sostegno della giuridicità degli interessi diffusi venivano poi invocate quelle norme della Costituzione dirette alla tutela della salute (art. 32) e dell’ambiente (art. 9, comma 2), nonché a porre limiti, in nome della "utilità sociale", alla "iniziativa privata" (art.41, comma 2).
Ma la giurisprudenza amministrativa chiamata a pronunciarsi su ricorsi proposti da gruppi esponenziali di tali interessi assunse inizialmente una posizione di netta chiusura.
In particolare, si negava tutela giurisdizionale a tali interessi, sul rilievo che i medesimi, nel pertenere ad una serie indefinita di soggetti, non potevano dirsi sufficientemente differenziati, laddove il carattere differenziato dell’interesse costituisce notoriamente profilo dell’interesse legittimo e condizione di ammissibilità del ricorso amministrativo.
Invero, a tale tesi si sarebbe potuto replicare ricordando che, per beni come l’ambiente, la differenzazione degli interessi connessi alla sua tutela appare addirittura più pregnante che per altri tipi interessi, attesa la rilevanza costituzionale di tale bene.
Ma già a partire dai primi anni ‘70 si registrano le prime aperture giurisprudenziali, ammettendosi la tutela giurisdizionale di quegli interessi diffusi radicati in diritti di proprietà e reali in genere e contemporaneamente si individuano nel "mercato", nel "territorio", nel "settore" i fattori che valgono a conferire identità all’interesse diffuso.
Ma non mancano clamorosi ripensamenti giurisprudenziali.
Valga per tutte la decisione n. 40/81 della Quinta Sezione del Consiglio di Stato, emessa in sede di appello avverso la sentenza n. 850/80 col quale il TAR Lazio, Sez. III, aveva accolto un ricorso contro taluni provvedimenti tariffari proposto dal Codacons e da alcuni ricorrenti in proprio.
Con tale decisione, il CdS dichiara inammissibile, per difetto di legittimazione ad agire, il ricorso proposto dall’associazione, riconoscendo invece una tale legittimazione ai singoli ricorrenti!
A sostegno di tale declaratoria di inammissibilità viene posta la presunta natura non differenziata dell’interesse azionato nel caso di specie dal Codacons.
Infine, si consolida in giurisprudenza il principio secondo cui gli enti esponenziali ammessi alla tutela degli interessi diffusi sono solo quelli stabilmente organizzati e concretamente impegnati nella tutela degli interessi di cui trattasi, risultando così gli interessi diffusi equiparati a quelli collettivi, posto che la stabilità e l’organizzazione dell’ente esponenziale sono requisiti peculiari dei predetti interessi.
Ora, è evidente che una tale prospettiva di tutela, nell’attribuire ai giudici il potere di individuare di volta in volta gli enti esponenziali legittimati ad agire in giudizio a tutela degli interessi diffusi di cui trattasi, non solo determina incertezza in ordine alle situazioni tutelabili in forma collettiva, ma rischia di lasciar fuori dal processo situazioni che meriterebbero di entrarvi.
Emblematico di tale preoccupazione ed al tempo stesso tentativo di restrizione del suddetto potere dei giudici è l’art. 9 241/90, secondo cui "Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonché i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento".
E’ evidente infatti che tale norma, nel non porre alcun limite in ordine all’individuazione dei portatori di interessi diffusi cui possa derivare pregiudizio dall’azione amministrativa, cerca, anche, di allargare il più possibile il novero delle associazioni rappresentative degli interessi diffusi legittimate ad agire in giudizio.
Non va infatti dimenticato che uno dei presupposti fondamentali per l’ammissibilità del ricorso amministrativo è proprio il "pregiudizio" astratto derivante al ricorrente dall’emanazione di un dato provvedimento.
Pertanto, una volta che si riconosce che le associazioni rappresentative di interessi diffusi possano partecipare ai procedimenti diretti all’emanazione di provvedimenti suscettibili di incidere su tali interessi, alle stesse associazioni va comunque riconosciuta la legittimazione ad agire per l’annullamento di tali provvedimenti, a prescindere dalla concreta partecipazione ai relativi procedimenti.
Peraltro, già prima dell’entrata in vigore di tale legge, una parte della dottrina era pervenuta alla conclusione che tale incertezza di tutela poteva essere agevolmente superata o costruendo gli interessi diffusi come diritti soggettivi o riconoscendo, a date condizioni, agli enti esponenziali dei detti interessi il potere di agire in giudizio a tutela degli stessi.
Ebbene, gli autori della L. 281/98, nel riconoscere, da un lato, agli utenti e consumatori, i diritti fondamentali suddetti, e dall’altro, nell’attribuire, all’art. 3, alle associazioni di cui all’art. 5 della stessa legge, la legittimazione ad agire a tutela degli interessi collettivi degli utenti e consumatori, hanno seguito contemporaneamente l’una e l’altra strada, anche se i restrittivi criteri adottati, che esamineremo più avanti, ai fini dell’individuazione delle associazioni legittimate ad agire, sembrano porsi in palese contrasto coi principi desumibili, in tema di legittimazione ad agire, dal citato art. 9 L. 241/90.
2.- Rapporto tra legittimazione ad agire e tutela della concorrenza
La legittimazione ad agire riconosciuta alle associazioni dei consumatori e degli utenti in forza dell’art. 5, legge in commento, appare strumentale alla tutela dell’interesse pubblico, specifico, alla tutela della concorrenza, cui si ispira espressamente il mercato comune europeo.
Certo, si tratta di un interesse pubblico sui generis e, se vogliamo, ancora più astratto rispetto agli interessi pubblici tradizionali.
In sostanza, il diritto d’azione attribuito ai singoli utenti e consumatori, nonché alle associazioni rappresentative degli interessi dei medesimi, nel mirare a porre, tra l’altro, a carico dell’impresa i costi dei danni provocati dalla difettosità dei propri prodotti, o nell’impedire forme di convincimento della clientela basata sul carattere ingannevole di una certa pubblicità, contribuisce all’uscita dal mercato di imprese inefficienti, con conseguente, non solo tutela dei consumatori e utenti, ma anche allargamento delle posizioni di mercato di quelle che sopravvivono in quanto più efficienti.
Del resto, la L. 287/90 non ammette dubbi sulla consacrazione giuridica di tale interesse.
Tale legge infatti dopo aver vietato al comma 2, dell’art. 2, significativamente titolato "intese restrittive della libertà di concorrenza", "le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare in maniera consistente il gioco della concorrenza all’interno del mercato nazionale o in una sua parte rilevante...." affida all’ Autorità garante della concorrenza e del mercato, isituita all’art. 10 della stessa legge, il compito di accertare e reprimere le intese suddette.
Un altro sintomo della sicura rilevanza giuridica dell’interesse pubblico alla tutela della concorrenza è costituito dall’istituzione, ad opera di appositi provvedimenti legislativi, di diverse Autorità garanti, preposte al controllo di singoli mercati. Si pensi alla L. 249/97 istitutiva dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Così ancora alla L. 109/94, istitutiva dell’Autorità per la vigilanza sui lavori pubblici.
In ordine poi ai diritti degli utenti e consumatori giova rilevare che i medesimi sono destinati, al pari degli altri diritti soggettivi , ad affievolirsi ad interessi legittimi tutte le volte che si imbatteranno nell’azione amministrativa.
Si pensi a tutti i provvedimenti amministrativi emanabili nelle materie costituenti l’oggetto dei diritti fondamentali degli utenti e consumatori.
Sotto tale profilo sarà interessante analizzare l’interazione tra il potere degli organi preposti ai servizi pubblici di procedere all’emanazione delle varie Carte di Servizi, previste dal D.P.C.M. 27 gennaio 1994 ed i diritti degli utenti e consumatori relativi alle materie oggetto delle suddette Carte di Servizi.
Va poi osservato che l’art. 1, nel riconoscere agli utenti e consumatori, oltre ai menzionati "diritti fondamentali", "diritti" ed "interessi individuali e collettivi", permette, in astratto, di apprestare tutela a qualunque tipo di situazione meritevole di tutela.
Infine, va oservato che l’art. 3 della legge in esame, nel limitare, ai soli interessi collettivi, le posizioni soggettive a tutela delle quali risultano legittimate ad agire le associazioni degli utenti e consumatori, non può essere inteso come volto ad escludere la legittimazione ad agire delle medesime in relazione alla tutela dei diritti soggettivi dei consumatori.
Giova infatti ricordare che storicamente il problema della tutela degli utenti e consumatori nasceva dall’insufficiente rilevanza dei loro interessi.
Pertanto, se ormai si può agire in forma collettiva, per la tutela degli interessi collettivi, a fortiori si potrà agire, nella medesima forma, per la tutela dei diritti collettivi dei consumatori..
Capitolo IV
La legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori e degli utenti tra la Legge 281/98 e gli articoli 9 e 10 della Legge 241/90
1.La legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori e degli utenti tra la l. 281/98 e gli artt. 9 e 10 l. 241/90.
L’art. 3 l. 281/98 attribuisce espressamente la legittimazione ad agire alle "associazioni dei consumatori e degli utenti di cui all’art. 5" della stessa legge.
Tale ultimo articolo stabilisce:
"1. Presso il Ministero dell’industria, del commercio e dell’artigianato è istituito l’elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale.
2. L’iscrizione nell’elenco è subordinata al possesso, da comprovare con la presentaione della documentazione conforme alle prescrizioni e alle procedure stabilite con decreto del Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato, da emanre entro sessanta gorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, dei seguenti requisiti:
a) avvenuta costituzione, per atto pubblico o per scrittura privata autenticata, da almeno tre anni e possesso di uno statuto che sancisca un ordinamento a base democratica e preveda come scopo esclusivo la tutela dei consumatori e degli utenti, senza fine di lucro;
b) tenuta di un elenco degli iscritti, aggiornato annualmente con l’indicazione delle quote versate direttamente all’associazione per gli scopi statutari;
c) numero di iscritti non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione nazionale e presenza sul territorio di almeno cinque regioni o province autonome, con un numero di iscritti non inferiore allo 0,2 per mille degli abitanti di ciascuna di esse, da certificare con dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà resa dal legale rappresentante dell’associazione con le modalità di cui all’articolo 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15;
d) elaborazione di un bilancio annuale delle entrate e delle uscite con indicazione delle quote versate dagli associati e tenuta dei libri contabili, conformemente alle norme vigenti in materia di contabilità delle associazioni non riconosciute;
e) svolgimento di un’attività continuativa nei tre anni precedenti;
f) non avere i suoi rappresentanti legali subito alcuna condanna, passata in giudicato, in relazione all’attività dell’associazione medesima, e non rivestire i medesimi rappresentanti la qualifica di imprenditori o di amministratori di imprese di produzione e servizi in qualsiasi forma costituite, per gli stessi settori in cui opera l’associazione".
Tale norma pone il problema di stabilire se l’iscrizione nel suddetto elenco sia da intendere solo come una presunzione di rappresentatività delle associazioni ovvero costituisca requisito imprescindibile ai fini della legittimazione ad agire delle medesime.
Ora, una lettura attenta di taluni principi stabiliti dalla L. 241/90, non può che far concludere a favore della prima delle soluzioni sopra indicate.
Va preliminarmente osservato che la giurisprudenza precedente all’entrata in vigore della legge in commento, riconosceva, la legittimazione ad agire alle associazioni rappresentative di interessi diffusi dotate di una congrua organizzazione e fattivamente impegnate nel campo della tutela degli interessi da esse rappresentate.
La L. 241/90, poi, nello stabilire, da un lato, che "Qualunque soggetto, portatore di interessi pubblici o privati, nonchè i portatori di interessi diffusi costituiti in associazioni o comitati, cui possa derivare un pregiudizio dal provvedimento, hanno facoltà di intervenire nel procedimento" (art. 9). E, dall’altro, che le associzioni intervenute "ai sensi dell’articolo 9", hanno diritto di "presentare memorie scritte e documenti, che l’amministrazione ha l’obbligo di valutare ove siano pertinenti all’oggetto del procedimento" (art. 10), non solo ha sanzionato tale giurisprudenza, ma ha conferito, in via generale e astratta, valore giuridico agli interessi diffusi rappresentati dalle predette associazioni.
E’ evidente, infatti, che una volta che si impone all’amministrazione procedente di prendere in considerazione le memorie presentate dalle associazioni suddette, si finisce con l’attribuire alle medesime il potere di condizionare l’assetto di interessi (giuridici) realizzato dall’atto finale e quindi col giuridicizzare gli interessi sottesi a tali memorie.
Infatti, allorchè tali memorie apportano decisivi elementi istruttori, l’amministrazione procedente non potrà sottrarsi dall’obbligo di includere, tra gli interessi posti a base dell’atto finale, anche quelli che si esprimono nelle memorie suddette.
Del resto, un tale obbligo è espressamente affermato dall’art. 3 L. 241/90, secondo cui "ogni provvedimento amministrativo....deve essere motivato...La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze istruttorie".
Ora, la giuridicizzazione, operata dall’art. 9, L. 241/90, sopra citato, degli interessi delle associazioni di cui al medesimo articolo, impone di riconoscere la legittimazione ad agire anche a quelle associazioni rappresentative di interessi diffusi, che, benchè sfornite dei requisiti di cui alla’rt. 5 legge in esame, siano fattivamente impegnate nella tutela di una particolare categoria di interessi diffusi e/ocollettivi . E ciò anche nel caso in cui non abbiano partecipato al procedimento conclusosi con l’atto che intendono impugnare.
Va infatti osservato, come abbiamo cercato di dimostrare con le considerazioni sopra svolte, che la giuridicità degli interessi rappresentati dalle associazioni di cui al più volte citato art. 9 l. 241/90, scaturisce non già dalla partecipazione al procedimento di cui trattasi, bensì direttamente da tale norma, laddove stabilisce, in via astratta e generale, che le associazioni rappresentative di interessi diffusi possono partecipare ai procedimenti diretti all’emananzione di atti destinati ad incidere su tali interessi.
Sotto tale profilo giova rilevare che secondo il nostro ordinamento amministrativo, il riconoscimento della legittimazione ad agire consegue direttamente alla titolarità di un interesse giuridico in capo al soggetto, sia esso individuale che collettivo, che intende impugnare l’atto di cui trattasi.
Emblematica in tal senso è l’art. 26, R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 - Approvazione del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato - secondo cui "Spetta al Consiglio di Stato in sede giurisdizionale di decidere sui ricorsi per incompetenza, eccesso di potere o per violazione di legge, contro atti o provvedimenti di un’autorità amministrativa o di un corpo amministrativo deliberante, che abbiano per oggetto un interesse di individui o di enti morali giuridici...."
Pertanto, una volta che si accerti il carattere giuridico di un interesse, a nulla varrebbe porre una norma diretta ad escludere la legittimazione ad agire in capo a talune categorie di soggetti titolari di un siffatto interesse.
Va peraltro rilevato che lo stesso Consiglio di Stato ha avuto modo di riconoscere che l’espresso riconoscimento legislativo della legittimazione ad agire a favore delle associazioni in possesso di determinati requisiti, non valga ad escludere la legittimazione ad agire di quelle associazioni, che, benchè sfornite dei detti requisiti, siano fattivamente impegnate nella tutela di determinati interessi diffusi e/o collettivi.
Emblematica in tal senso è la decisione n. 182/96, del Consiglio di Stato, Sez. VI., con la quale è stata annullata la sentenza appellata nella parte in cui aveva ritenuto di accogliere l’eccezione sollevata dalle controparti private, secondo cui sarebbe stato inammissibile, per difetto di legittimazione ad agire, il ricorso proposto dal Codacons in qualità di associazione di tutela dell’ambiente, in quanto all’epoca della proposizione di detto ricorso il Codacons non era stato ancora riconosciuto quale associazione ambientale ai sensi dell’art. 13 L. 349/86.
A tale conclusione il giudice d’appello è pervenuto muovendo dal presupposto che la "la legge n. 349/86 abbia intrdotto un duplice sistema di accertamento del grado di rappresentatività delle associazioni ambientalistiche, nel senso che l’esistenza del potere di individuazione (ex art. 13 stessa legge) del ministro non escluderebbe il concorrente potere del giudice di accertare, caso per caso, la sussistenza della legittimitazione dell’associazione che abbia proposto l’impugnativa".
Certo, rimane il problema di individuare i criteri in base ai quali può dirsi che un’associazione non iscritta nell’elelenco di cui all’art. 5 legge in questione, sia da ritenere comunque rappresentativa degli interessi degli utenti e consumatori, ma tale problema, stante, appunto, la giurisprudenza formatasi in subiecta materia prima dell’entrata in vigore della legge in commento, appare suscettibile di soluzioni meno restrittive rispetto a quelle offerte dall’art. 5 della medesima legge.
D’altra parte, in presenza di norme costituzionali come l’art. 18 in materia di libertà di associazione, l’art. 2, nonchè l’art. 24, il problema della rappresentatività delle associazioni è problema da affrontare e risolvere di volta in volta, alla luce dei singoli casi concreti.
Infatti, la libertà di un’associazione che intenda agire anche in sede giurisdizionale per tutelare gli interessi collettivi posti a base della sua azione, esige che venga riconosciuta la legittimazione ad agire tutte le volte che l’associazione, svolga, come richiesto dalla decisione citata, la sua attività con "continuità" e "rilevanza esterna".
Ciò posto, è evidente che i requisiti indicati dall’art. 5, L. 281/98 in esame per l’iscrizione nell’elenco di cui al primo comma del medesimo articolo, lungi dal costituire elementi costitutivi della legittimazione ad agire delle associazioni dei consumatori e degli utenti, pongono più semplicemente una presunzione di adeguata rappresentatività dell’associazione.
Sulla base di tali considerazioni va anche riconosciuta la legittimazione ad agire, ex art. 1469 sexies c.c., alle associazioni dei consumatori non iscritte nel suddetto elenco.
Infatti, l’art. 9 L. 241/90, come da noi interpretato, fa salva comunque la facoltà delle associazioni dei consumatori sfornite dei requisiti richiesti dal citato art. 5 L. 281/98, ma fattivamente impegnate nell’azione a tutela di tali interessi, di agire in giudizio, ai sensi dell’art. 1469 sexies c.c., per la tutela dei predetti interessi.
Del resto, ove mai si rtenesse di non poter far discendere dall’art. 9 L. 241/90, la legitimazione ad agire delle associazioni sfornite dei predetti requisiti, ma fattivamente impegante nella tutela degli interessi statutari , l’art. 5 non sfuggirebbe ad una censura di illegittimità costituzionale per violazione.dell’art. 3 Cost., in relazione all’art. 1469 sexies, c.c., nella parte in cui riconosce alle associazioni professionali, senza alcun riferimento al loro grado di rappresentatività, la legittimazione ad agire per l’inibizione delle suddette clausole.
Infatti, la legittimazione ad agire delle suddette associazioni professionali, diversamente da quella delle asociazioni dei consumatori e degli utenti non è stata sottoposta ad alcun limite in ordine al grado di rappresentatività. Di conseguenza qualunque associazione di professionisti risulterebbe legittimata ad agire nei termini e nei modi di cui all’art. 1469 sexies c.c., laddove, tra le associazioni dei consumatori, la stessa azione potrebbe eesere intrapresa solo da quelle in possesso dei requisiti indicati dall’art. 5 L. 281/98.
Peraltro, ove si ritenesse che le uniche associazioni dei consumatori legittimate ad agire, sarebbero quelle iscritte all’elenco di cui all’art. 5 L. in esame, si perverrebbe a conclusioni poco accettabili.
Si pensi al caso di associazioni impegnate in singole o comunque in un minor numero di regioni rispetto a quello previsto dalla lettera c), dell’art. 5 legge in commento, che, benchè rappresentative degli interessi e dei diritti dei consumatori e utenti della regione o di alcune regioni, non potrebbero agire in giudizio a tutela di tali interessi.
Volendo poi tentare di dare una spiegazione dei rigorosi requisiti richiesti dal predetto art. 5 L. 281/98 riteniamo che non sia stata estranea una certa logica protezionistica a favore delle imprese e della pubblica amministrazione, nel senso di sottrarli quanto più possibile al rischio di contenziosi giudiziari.
Del resto, una tale spiegazione risulta avvalorata da quella giurisprudenza che ancora ieri escludeva che le associazioni dei consumatori e degli utenti, benchè legittimate a denunciare, ai sensi del Dlgs n. 74/92, all’Autorità garante per il mercato e la cocorrenza eventuali casi di pubblicità ingannevole, potessero poi impugnare il provvedimento emesso dall’Autorità o costituirsi come controinteressati nel caso di impugnativa del provvedimento suddetto proposta dall’impresa interessata alla sopravvivenza del messaggio pubblicitario denunciato alla predetta Autorità come ingannevole.
A base di tale giurisprudenza veniva posto il fatto che la legittimazione delle predette associazioni sarebbe stata limitata al solo potere denuncia. Giurisprudenza ormai superata dalla legge in esame, la quale annovera tra i diritti a tutela dei quali le associazioni dei consumatori possano agire, ex art. 3 stessa legge, quello "ad una adeguata informazione e ad una corretta pubblicità".
Capitolo V
La tutela inibitoria nel procedimento amministrativo ai sensi dell'articolo 3 Legge 281/98 lett. a).
1. LA TUTELA INIBITORIA nel processo amministrativo ai sensi dell'art. 3 L.281/98 lett. a)
L'art 3, 1° comma l.281/98, costituisce il cuore della legge, in quanto dà ingresso finalmente nel nostro sistema - e con un po’ di ritardo rispetto agli altri paesi della Comunità Europea - ad azioni generalizzate a tutela degli interessi collettivi.
In particolare la lett. a) conferisce all'azione inibitoria un carattere generalizzato, in quanto può essere indirizzata dalle Associazioni legittimate, contro tutti gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti.
Si tratta di una disciplina che a parere della dottrina sembra - a prima vista - capace di allargare notevolmente l'orizzonte di tutela dei consumatori, ma che presenta in realtà una genericità tale da mettere in dubbio sia i modi e sia i tempi della sua effettiva applicazione.
E' stato osservato che il difetto principale del nuovo strumento di tutela ex art. 3 lett. a) della legge in parola sembra derivare dal mancato coordinamento con il sistema codicistico della tutela civile dei diritti, che pure dovrebbe costituire il punto di riferimento essenziale per qualsiasi normativa che si proponga di apportare innovazioni in materia così delicata.
Occorre innanzitutto osservare come non sia chiara la natura della legittimazione processuale riconosciuta in capo alle associazioni di categoria.
In realtà il legislatore non si è affatto preoccupato di definire i criteri di legittimazione e soprattutto i criteri del dovuto processo per la tutela giurisdizionale di questa speciale categoria di interessi diffusi.
Il fulcro del problema deriva dalla stretta parentela della categoria dei consumatori con un altro tema tabù, quello degli interessi diffusi che, come è ben noto, non sono suscettibili di una appropriazione individuale.
E' palese che lo schema del diritto soggettivo al quale sono riconducibili sia la legittimazione ad agire, e sia l'interesse ad agire non è utilizzabile per riportare nel suo ambito interessi, che, appartengono in modo indistinto a tutti.
La tutela degli interessi diffusi non può che essere mediata, ossia atteggiarsi come effetto riflesso di un'azione individuale, ovvero per essere immediatamente oggetto di tutela giurisdizionale deve trovare un'adeguata soggettivizzazione operata dal legislatore.
Quindi, chi agisce per far valere un interesse diffuso deve necessariamente esibire un titolo di legittimazione adeguato fondato su una specifica attribuzione normativa.
Ebbene, il legislatore italiano, per quanto riguarda la tutela degli interessi diffusi dei consumatori, ha individuato all’art. 1469 sexies c.c. come legittimati ad agire in inibitoria le Associazioni maggiormente rappresentative dei consumatori ed imprenditori, nonché le Camere di Commercio.
Con l’art. 3 L. 281/98 il cerchio delle Associazioni legittimate ad agire per la tutela degli interessi collettivi si è ristretto notevolmente, in quanto la legittimazione ha per presupposto oggettivo non più la maggior rappresentatività dell’Associazione – che tra l’altro non necessariamente deve ancorarsi a referenti normativi – ma a rigorosi requisiti formali.
Ed infatti, per l’attivazione dei poteri inibitori del giudice amministrativo è necessaria l’iniziativa di soggetti collettivi qualificati, vale a dire le Associazioni rappresentative dei consumatori e degli utenti che siano inserite, previa verifica della sussistenza di taluni requisiti (il più severo dei quali attiene al numero degli iscritti dell’Associazione) in un apposito elenco istituito presso il Ministero dell’Industria.
Ed proprio il rigoroso requisito formale- sul quale si fonda la legittimazione delle Associazioni qualificate – che viene a costituire il principale difetto della L. 281/98.
Ed infatti la giurisprudenza sarà subito chiamata a valutare, sotto il profilo della legittimazione ad agire, il rapporto tra la nuova normativa, che ancora la legittimazione a rigorosi requisiti formali e l’art. 1469 sexies c.c., il cui criterio selettivo pone l’attenzione sul grado di effettività raggiunto da un determinato ente nel conseguimento dei propri fini, secondo un orientamento, ben noto, già seguito a proposito dell’associazionismo sindacale.
Il problema si porrà, in particolare, per quelle Associazioni che pur se maggiormente rappresentative, da un punto di vista sostanziale non hanno, da un punto di vista formale, la legittimazione ad agire ex art. 3 L. 281/98.
Il nuovo criterio di legittimazione, con particolare riguardo al processo amministrativo, dovrà fare i conti con l’intero sistema codicistico della tutela civile dei diritti in considerazione della novità legislativa in materia di giurisdizione esclusiva del GA, alla luce degli artt. 33 del Dlgs 31 marzo 1998, n.80.
Ebbene con riferimento all’intero sistema codicistico si rileva che il legislatore non sempre fa appello alla rappresentatività dell’Associazione, per fondare su di essa una legittimazione: così nell’ipotesi prevista dall’art. 2601 c.c. che attribuisce alle Associazioni professionali legittimazione ad agire, in repressione degli di concorrenza sleale, senza che per esse sia necessario superare la soglia minima di rappresentatività.
Ancora un dato certamente significativo: la legittimazione ad agire in sede cautelare e nel giudizio di risarcimento dei danni a favore dello Stato è attribuita dalla legge sulla tutela dell’ozono alle Associazioni ambientalistiche senza alcun requisito restrittivo.
Pertanto la giurisprudenza, che sarà chiamata a valutare l’ambito estensivo della legittimazione ad agire ex art. 3 L. 281/98, dovrà, comunque, fare i conti con l’orientamento che si è venuto a formare intorno alla tematica relativa alla legittimazione ad agire delle Associazioni ambientalistiche, ancorata anch’essa al parametro formale del riconoscimento mediante provvedimento ministeriale.
Dunque nonostante la L. 349/86 subordina la legittimazione ad agire delle associazioni ambientalistiche a referenti formali, la giurisprudenza ha comunque ritenuto che detta legge introduca un duplice sistema di accertamento del grado di rappresentatività delle Associazioni ambientalistiche, nel senso che l’esistenza del potere di individuazione del Ministro non escluderebbe il concorrente potere del Giudice di accertare, caso per caso, la sussistenza della legittimazione dell’Associazione che abbia proposto l’impugnativa.
Un altro problema relativo al grado di effettività della tutela giurisdizionale attuata in sede inibitoria da parte del GA riguarda la portata del giudicato inibitorio alla luce di una disposizione che, mentre esclude ogni rapporto di preclusione tra azione collettiva e le azioni individuali spettanti ai singoli consumatori, fa comunque salve le norme sulla litispendenza, sulla continenza e sulla connessione e sulla riunione dei procedimenti.( art.3 comma 7).
In verità il legislatore non dà alcuna indicazione sulla disciplina che regolamenta lo svolgimento del processo inibitorio, e questo ha generato interrogativi di non lieve momento riguardanti specialmente l’efficienza della sentenza pronunciata nel giudizio inibitorio sia sotto il profilo della sua attuazione e sia per quanto riguarda i limiti soggettivi del giudicato.
Ebbene la struttura del giudizio inibitorio non dà segni incoraggianti sulla sua idoneità ad essere la sede della tutela giurisdizionale di situazioni soggettive indeterminabili.
In altre parole se la tutela inibitoria è stata costruita per dare protezione ad interessi allo stato diffuso, bisogna anche postulare che essa deve avere un’efficacia tendenzialmente espansiva, in modo da giovare a tutti coloro nel cui interesse è stata costituita: se tale efficacia espansiva non sussiste o sussiste in modo insignificante, bisogna concludere che il grado di effettività del modello processuale del giudizio inibitorio è del tutto insufficiente.
In particolare il legislatore mostra una certa indifferenza sulla questione dell’efficacia della sentenza pronunciata nel giudizio collettivo inibitorio nei confronti dei consumatori.
Se i limiti soggettivi dell’efficacia della sentenza inibitoria sono gli stessi previsti dall’art. 2909 c.c. ben si può concludere che la sua capacità di tutelare in maniera effettiva i membri della categoria dei consumatori è praticamente nulla.
Questa conclusione non è irresistibile, in quanto è ben noto come da tempo si è consolidato il convincimento secondo cui la sentenza produce effetti riflessi, nei confronti dei terzi rimasti estranei al procedimento.
E solo alla luce del summenzionato convincimento si potrà garantire effettività alla tutela inibitoria dei diritti consumatori, effettività che dovrà, comunque, far pur sempre i conti sia con il principio dell’inviolabilità del diritto di difesa che lega strettamente i limiti soggettivi del giudicato all’attuazione del principio del contraddittorio e sia con la nostra cultura processualistica ancorata a schemi monolitici.
Non basta riconoscere alle associazioni dei consumatori la legittimazione ad agire per parlare di class action: gli effetti della sentenza, nel nostro ordinamento, sono comunque destinati a spiegarsi tra coloro che hanno preso parte al processo.
Il GA può inibire non solo gli atti della pubblica amministrazione lesivi dei diritti e degli interessi dei consumatori ma anche i comportamenti e può obbligare la stessa PA a un facere al fine di evitare che si producano per il futuro dei danni.
Capitolo VI
Azione inibitoria ex articolo 1469-sexies c.c. e giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici servizi.
1. Azione inibitoria ex art. 1469 sexies c.c. e giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di pubblici sevizi.
La facoltà, accordata dall’art. 3, comma 1, lett. a, L. 281/98, di richiedere, tra l’altro, l’inibizione degli "atti ...lesivi degli interessi degli utenti e consumatori", non introduce alcuna novità in materia di provvedimenti adottabili dal giudice amministrativo, posto che l’annullamento dell’atto, costituisce, com’è noto, uno dei poteri tipici spettanti a tale giudice in materia di giurisdizione generale di legittimità.
In tema di azioni inibitorie proponibili davanti al giudice amministrativo, profonde novità emergono, invece, da una lettura coordinata dell’art. 1469 sexies secondo cui "Le associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti e le Camere di commercio, industria, artigianato, e agricoltura possono convenire in giudizio il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzano condizioni generali di contratto e richiedere al giudice competente che inibisca l’uso delle condizioni di cui sia accertata l’abusività ai sensi del presente capo", con l’art. 33 Dlgs n. 80/98 che, come più volte ricordato, devolve, salvo i casi di cui all’ultimo comma del medesimo articolo, alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le cotroversie in materia di servizi pubblici.
E’ evidente infatti che alla luce del suddetto art. 33, l’azione inibitoria accordata, dal sopra citato art. 1469 sexies c.c., alle associazioni dei consumatori e degli utenti, allorchè avrà ad oggetto contratti stipulati con gestori di pubblici servizi, dovrà svolgersi innanzi al giudice amministrativo.
Al riguardo giova osservare che l’art. 33 ultimo comma, nell’escludere, tra l’altro, dall’area della giurisdizione esclusiva, di cui al primo comma, le controversie aventi ad oggetto "rapporti individuali di utenza con soggetti privati", si riferisce - come abbiamo cercato di dimostrare ****al paragrafo n...e come peraltro già riconosciuto dall’ordinanza, ivi richiamata, n. 1884 della Sesta Sezione del Consiglio di Stato - alle sole controversie che vedono contrapposti singoli utenti al gestore privato di servizi pubblici.
Pertanto, solo tali ultime controversie continueranno ad essere sottoposte alla cognizione del giudice ordinario.
Particolarmente importante appare poi la facoltà accordata, alle associazioni dei consumatori, dal comma secondo, dell’art. 1469 sexies c.c., secondo cui "L’inibitoria può essere concessa, quando ricorrono giusti motivi di urgenza ai sensi degli articoli 669 bis e seguenti del codice di procedura civile".
Anzi, stando a talune pronunce giurisprudenziali relative al suddetto art. 1469 sexies, comma 2, c.c., la materia dei pubblici servizi appare come la più adatta ai fini dell’esperimento dell’azione inibitoria urgente.
Ci riferiamo in particolare alle ordinanze 14, 16 agosto 1996 e 4 ottobre 1996 del Tribunale di Torino, con le quali tale giudice, nel respingere alcune azioni proposte, ex comma 2, art. 1469 sexies c.c., da un’associazione di consumatori, ha avuto modo di precsare che:
"le condizioni generali di contratto sono strutturalmente rivolte nei confronti del pubblico e sono istituzinalmente destinate a regolare numerose o numerosissime contrattazioni individuali, avendo esse per oggetto - secondo l’id plerumque accidit - beni di largo consumo ed essendo rivolte alla generalità dei consumatori.
le ragioni d’urgenza non possono pertanto essere individuate nè nel semplice pericolo che vengano stipulati contratti individuali contenenti clausole abusive, nè nel loro numero, nè nell’entita dell’attività imprenditoriale del professionista: si tratta infatti di elementi strutturali ed immanenti, tipici della materia in questione e che non possono di per sé integrare quel quid pluris richiesto, invece, dal secondo comma dell’art. 1469 sexies c.c. per la proposizione dell’azione inibitoria".
Quid pluris che viene ravvisato dal Tribunale di Torino in aspetti "di tipo qualitativo, attinenti alla natura del bene oggetto di contrattazione, degli interessi che lo stesso tende a sodisfare nonchè alle conseguenti ripercussioni che potrebbero verificarsi nella sfera del consumatore a causa di una tutela non sollecita ed alla irreversibilità e non reintegrabilità del pregiudizio subito.
Deve trattarsi, cioè, di condizioni contrattuali relative a beni - magari soggetti a regime di monopolio - riguardanti interessi essenziali e primari dei consumatori o di interessi che verrebbero altrimenti irreversibilmente od irreparabilmente pregiudicati". Carattreistiche queste tipicamente inerenti, appunto, ai beni erogati dai gestori di pubblici servizi.
2. Comportamenti lesivi dei diritti e degli interessi degli utenti e consumatori.
Un altro aspetto fortemente innovativo della legge in commento è costituito dalla facoltà, di cui lla stesa lett. a dell’art. 3 in esame, di richiedere l’inibizione dei "comportamenti...lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti".
Com’è noto infatti uno degli aspetti più insodisfacenti della giustizia amministrativa è rappresentato dal fatto che le condotte della p.a. che non si concretano in atti formali, sfuggono, quasi sempre alla cognizione del giudice amministrativo, posto che l’oggetto di tale cognizione è costituito normalmente da atti amministrativi.
Vero è che in taluni casi la legge, dopo aver assimilato ad un provvedimento di rigetto o di accoglimento, il silenzio - condotta classica di comportamento non atto - serbato, oltre un certo termine, dalla p.a. sull’istanza rivoltale, rende impugnabile tale silenzio, ma è altrettanto vero che si tratta di casi sporadici e comunque limitati al comportamento concretantesi nel silenzio tenuito dalla p.a., laddove esistono "ccomportamenti", diversi dal silenzio.
Ebbene, sulla base della norma in esame sarà invece possibile far valere, davanti al giudice amministrativo, la illegittimità di ogni condotta della p.a., che, benchè non concretantesi in un vero e prorio atto amministrativo, sia idonea a ledere i diritti e/o gli interessi degli utenti e consumatori.
Si pensi a tutti quei comportamenti della p.a. contrastanti con la legge o con atti a contenuto normativo.
Ed è facile prevedere come la possibilità di sindacare i comportamenti illegittimi della p.a. risulterà particolarmente utile per contrastare le omissioni e gli atteggiamenti illegittimi tenuti dai soggetti gestori di pubblici servizi.
Peraltro, ai sensi del citato art.3, comma 6, legge in esame, l’inibitoria del comportamento illegittimo potrà avvenire, ove "ricorrano giusti motivi di urgenza... a norma degli articoli 669 bis e seguenti del codice di procedura civile".
Ora, in proposito giova rilevare che tali "...motivi d’urgenza" non possono essere identificati col pericolo di danno grave ed irreparabile richiesto dall’art. 21 L.TAR per l’accoglimento dell’istanza di sospensione dell’efficacia del provvedimento impugnato.
In linea di principio si può affermare che tali motivi di urgenza si identificano con tutti quei motivi che - per ragioni meritevoli di tutela - rendano necessaria una pronuncia in tempi brevi.
Da questo punto di vista utili indicazioni possono trarsi dalle citate ordinanze del Tribunale di Torino.
Così, una circostanza idonea a comprovare la sussistenza di tali motivi d’urgenza potrebbe essere la rilevante qualità del bene, come nel caso della salute o dell’ambiente, coinvolto dall’illegittimo comportamento tenuto dalla p.a.
Così ancora un’altra siffatta circostanza potrebbe essere rappresentata dall’elevato numero di soggetti-utenti coinvolti dal comportamento illegittimo.
Perchè se è vero, come sottolinea la stessa sopra citata ordinanza del Tribunale di Torino, che l’elevato numero di soggetti coinvolti dal comportamento illegittimo è un elemento tipico della materia in questione, è altrettanto vero che in taluni casi il numero di utenti e consumatori coinvolti da un comportamento illegittimo è iindefinitamente più grande che in altri.
Così infine potrebbe configurarsi come giusto motivo d’urgenza la circostanza che l’illegittimo comportamento proviene da un gestore di servizio pubblico operante in regime di monopolio.
Occorre poi rilevare che un limite invalicabile per i "provvedimenti" ex lett. b, comma 1, art. 3 legge in esame, è, naturalmente, costituito dall’impossibiltà del giudice amministrativo di adottare provvedimenti di competenza dell’amministrazione, quali sono quelli diretti a dare attuazione, di volta in volta, alle leggi in cui risulta astrattamente formalizzato l’interesse pubblico, specifico, afferente alle singole materie.
Diversamente, si lederebbe il principio della separazione dei poteri in base al quale l’attività diretta all’attuiazione delle leggi è, come si sa, di competenza del governo.
3. Rapporto tra diffida ex art. 3, comma 5 e contenuto del ricorso
L’art. 3, comma 5, legge in commento prevede poi che "In ogni caso l’azione di cui al comma 1 può essere proposta solo dopo che siano decorsi quindici giorni dalla data in cui le associazioni abbiano richiesto al soggetto da esse ritenuto responsabile, a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, la cessazione del comprtamento lesivo degli interessi degli utenti e consumatori".
Ora, secondo la poca giurisprudenza sinora formatasi su tale norma, la diffida costituirebbe condizione di ammissibilità del ricorso. (V. ord. n. 1884/98, CdS, Sez. VI)
Ciò posto, occorre in primo luogo rilevare che l’obbligo di far precedere la proposizione del ricorso dalla suddetta diffida, pone delicate questioni di legittimità costituzionale con riferimento alla disciplina generale del processo amministrativo.
Infatti, in virtù di detta norma abbiamo che la stessa azione, cioè la domanda di annullamento di un atto amministrativo, appare fondata su presupposti di ammissibilità diversi, a seconda che si agisca a tutela di interessi individuali o degli utenti e consumatori.
Nel primo caso, infatti, diversamente dal secondo, non sussiste l’obbligo della previa diffida.
Va poi tenuto presente che tale diffida, se si vuole evitare il rischio di una dichiarazione di inammissibilità del ricorso, deve enucleare tutti i vizi dell’atto e/o comportamento asseritamente illegittimo del quale si chiede la cessazione, e quindi quella che sarà la causa petendi dell’eventuale ricorso.
A tal proposito giova osservare che tale norma si colloca in qualche modo nel più generale tentativo, variamente avvertibile ad un’attenta lettura della legge in commento, di porre misure volte a restringere la possibilità per le associazione degli utenti e consumatori di adire l’autorità giudiziaria.
4. Sospensione del termine di decadenza per la proposizione a seguito della presentazione della diffida ex art. 3, comma 5, l. 281/98.
La legge in esame non chiarisce se la proposizione della diffida sospenda o meno il decorso del termine di decadenza, di cui all’art. 21 L. TAR., per l’impugnazione dell’atto amministrativo di cui trattasi.
Ma tale problema risulta espressamente risolto dalla Direttiva n. **** la quale prevede espressamente che durante il decorso del termine di 15 giorni di cui al suddetto comma 5, dell’art. 3 in questione, rimane sospeso il termine di "prescrizione" del diritto a tutela del quale si agisce.
Ed è evidente che il riferimento alla sola sospensione del termine di prescrizione non può non può essere inteso nel senso dell’esclusione della sospensione del termine di decadenza per la proposizione del ricorso giurisdizionale amministrativo, posto che una tale interpretazione condurrebbe ad una palese quanto inammissibile disparità di trattamento tra i soggetti che agiscono avanti al giudice amministrativo e quelli che che si rivolgono al giudice civile.
Capitolo VII
In particolare sull'articolo 3: la tutela risarcitoria e la tutela restitutoria, come misure idonee come misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate.
Di estremo interesse appare la previsione di cui alla lett. b) dell'art. 3, legge n. 281/98. L'interesse deriva dalla circostanza che rimedi siffatti, oltre ad introitare nel sistema della tutela giudiziaria una discrezionalità che rare volte si è incontrata, alimentano il sospetto che si tratti di forme risarcitorie sia in forma specifica che per equivalente. E se i rimedi in forma specifica non sono prevedibili in questo momento, dipendendo dalla esigenza di correzione ed eliminazione del pregiudizio e della natura del pregiudizio stesso, è verosimile che il rimedio per l'eliminazione di conseguenze dannose per i consumatori da attuare per equivalente sia il risarcimento pecuniario. In altri termini, per questa via potrebbe trovare ingresso nel nostro ordinamento una azione collettiva di danni capace di esercitare un ruolo deterrente non trascurabile verso le condotte pregiudizievoli contro i consumatori.
È evidente che buona parte dell'efficacia degli strumenti predisposti dal legislatore si gioca sul piano della coercibilità dei provvedimenti di condanna.
In questa prospettiva si inserisce quanto previsto in merito al risarcimento dell'interesse legittimo dall'art. 35, dlgs. n.80/98.
Il decreto de quo detta all'art. 35 due norme di carattere specificamente processuale, e precisamente (comma secondo) quella relativa alla sentenza sull'an e sul quomodo in materia di risarcimento del danno e (comma terzo) quella relativa all'ammissibilità di taluni dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile.
Giova osservare che i problemi che il giudice amministrativo sarà chiamato a risolvere non consisteranno tanto nel decidere in astratto sulla risarcibilità degli interessi anzidetti, ma riguarderanno, piuttosto, la elaborazione di criteri per l'accertamento e la determinazione del danno nelle diverse fattispecie.Preliminarmente la giurisprudenza dovrà, però, chiarire se, per fare valere la responsabilità risarcitoria dell'amministrazione nelle materie concernenti servizi pubblici, urbanistica e edilizia sarà indispensabile la tempestiva impugnazione e il previo annullamento dell'atto lesivo -qualora, s'intende, un atto lesivo vi sia e si ponga come antecedente logico ai fini dell'accertamento del diritto al risarcimento, oppure se il giudice amministrativo potrà accertare e quantificare il danno ingiusto indipendentemente dall'annullamento del provvedimento autoritativo illegittimo, limitandosi a dichiarare l'esistenza di un nesso di causalità tra la diminuzione dell'integrità patrimoniale e l'illegittimità del comportamento posto in essere dall'amministrazione.
A me sembra che la tempestiva impugnazione dell'atto autoritativo che determina la lesione risarcibile costituisca presupposto indispensabile se si vuole evitare che la fattispecie rimanga disciplinata da un provvedimento che l'interessato aveva l'onere di impugnare e che non ha impugnato: in questa prospettiva, a seconda dei casi dovrebbero ritenersi ammissibili un'azione solamente di condanna al risarcimento qualora la lesione risarcibile non derivi da un provvedimento autoritativo ma, ad esempio, dalla illegittima omissione di provvedimenti dovuti.
La disposizione contenuta all'art. 35 attribuisce alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, le controversie in materia di risarcimento del danno in tutti i casi in cui non sia possibile, attraverso l'esecuzione della sentenza pervenire a una soddisfacente reintegrazione in forma specifica dell'interesse leso, con ciò, probabilmente, risolvendo in senso positivo la problematica relativa alla risarcibilità degli interessi legittimi.
Il tenore letterale della norma induce a circoscrivere la sua applicazione alle sole controversie relative al risarcimento del danno nelle materie dei servizi pubblici e dell'urbanistica ed edilizia. Detta soluzione interpretativa sembrerebbe corretta, atteso il rinvio "ai casi previsti dal comma 1", tuttavia non sembra effettivamente giustificabile la sua inapplicabilità ai casi nei giudizi di risarcimento del danno su materie diverse, a meno che di non ritenere che il riferimento "ai casi previsti dal comma 1", vada operato a tutte le controversie per il risarcimento del danno ingiusto.
La previsione si riferisce alla ipotesi di risarcimento per equivalente e costituisce una terza modalità di liquidazione del danno utilizzabile dal giudice amministrativo tutte le volte che si sia determinato nel senso della spettanza di un qualche risarcimento ed abbia escluso, applicando i criteri desumibile dall'art. 2058 c.c., la reintegrazione del danno in forma specifica.
Il giudice amministrativo potrà così procedere, in applicazione dell'art. 2056 c.c. e della disciplina sul danno contrattuale dallo stesso richiamato:
Orbene da un’attenta lettura della norma emergono alcuni profili problematici e cioè:
1.- se la tipologia di pronuncia possa essere adottata anche nell’ipotesi di domanda giudiziale di condanna formulata in modo puntuale;
2.- se detta sentenza debba essere considerata un sentenza parziale (con conseguenze in ordine al regime delle impugnazioni);
3.- se sia necessario il passaggio in giudicato e la preventiva costituzione in mora per attivare la successiva fase determinativa nell’ipotesi di inadempienza del soccombente;
4.- quali possono essere i criteri di determinazione della somma.
Il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato potrebbe indurre a ritenere che il giudice amministrativo possa ricorrere a tale forma di indiretta liquidazione del danno solo in presenza di conforme richiesta della parte o in ipotesi di domanda di condanna formulata in modo generico; ritengo, però, che debba invece riconoscersi al giudice amministrativo la più ampia facoltà di scelta di tale strumento processuale, senza vincolo di formulazione della domanda giudiziale ed in vista del più rapido ed effettivo conseguimento dello scopo.
Ed invero, in assenza di una qualche clausola che condizioni espressamente il ricorso a tale tipologia di pronunzia alla domanda della parte, può ritenersi che la norma in esame costituisca essa stessa una ipotesi di (eventuale) deroga legislativa al principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato e che il criterio ispiratore nell’esercizio della citata facoltà debba essere quello dell’economia dei mezzi processuali e della celerità dei giudizio.
Insomma il giudice amministrativo, in sostanziale applicazione dell’art. 278, co. 1, cod. proc. civ., può adottare una sentenza sull’an e sul quomodo tutte le volte che il materiale probatorio acquisito in giudizio - per la sua incompletezza o per la sua complessità - non consenta una immediata, o quanto meno rapida, valutazione e liquidazione del danno da parte dello stesso giudice.
Appare, al momento, difficile formulare ipotesi in ordine a quali potranno essere i criteri che il giudice amministrativo indicherà in sentenza ai fini della formulazione della proposta di risarcimento da parte del soccombente; ed invero essi appaiono troppo dipendenti dalla concreta fattispecie giudicata per potere costituire oggetto di utile astrazione; appare tuttavia possibile ipotizzare che detti criteri possano riferirsi o a meccanismi automatici e forfettari - si pensi alla previsione, posta dall’art. 17, co. 1 lett. F) della l. 15.03.1997 n. 59, come modificato dall’art. 7 della l. 15.05.1997 n. 127, di forme di indennizzo automatico e forfettario per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento, di mancata o ritardata adozione del provvedimento, di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi e delle prestazioni da parte della pubblica amministrazione - o a concreti elementi emersi in giudizio, da rapportarsi con altri dati in possesso della parte soccombente o da questa facilmente acquisibili.
L’esegesi dell’art. 35 del D. Leg.vo n. 80/1998 non esaurisce, di certo, il novero delle problematiche di ordine processuale sollevate dalla riforma; l’elencazione e l’esame che seguono mirano solo ad una prima e sommaria puntualizzazione di alcune di esse, in particolare nella prospettiva dell’acquisizione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di tutta una serie di controversie in precedenza devolute alla giurisdizione ordinaria e relative a rapporti di tipo privatistico.
Rileva, nell’ambito delle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva, la distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi.
L’attribuzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo di materie di tale impatto sociale, unitamente alle controversie relative ai diritti patrimoniali conseguenziali ed al risarcimento del danno, possono indurre nella tentazione di ritenere - in relazione ad esse - irrilevante, se non addirittura superata, la tradizionale distinzione tra diritti soggettivi ed interessi legittimi nell’intento di assicurare un maggior grado di effettività della tutela giurisdizionale.
Ritengo, però, che non sia possibile pervenire a tali conclusioni, in considerazione della permanenza del criterio generale di riparto della giurisdizione in base alla posizione giuridica soggettiva vantata (art. 103 Cost.), rispetto alla quale la giurisdizione esclusiva ha natura derogatoria; in particolare ribadisco come debba sfuggirsi alla suggestione di leggere la riforma all’esame alla luce dei progetti di riforma costituzionale che tendevano a superare - quanto meno in relazione al riparto delle giurisdizioni - la dicotomia diritto soggettivo / interesse legittimo in favore dell’attribuzione di blocchi di materie omogenee.
Detta distinzione, per altro sin qui operata dalla giurisprudenza nella materia del pubblico impiego, dovrà essere operata anche nelle nuove aree di giurisdizione esclusiva quanto meno ai fini di identificare il termine di proposizione del ricorso - termine decadenziale o di prescrizione - nonché il regime probatorio applicabile, se si accetta la tesi in precedenza sostenuta dell’applicabilità del comma 3 dell’art. 35 a tutte le controversie di giurisdizione esclusiva su diritti soggettivi.
Altro problema è quello dell’identificazione dell’oggetto del giudizio.
L’attribuzione, in virtù degli artt. 33 (servizi pubblici in senso oggettivo) e 35 (diritti patrimoniali conseguenziali e risarcimento del danno) D. Leg.vo n. 80/1998, di una notevole quantità di controversie tra soggetti privati, o relative ad attività svolte in regime privatistico, o comunque aventi contenuto direttamente ed immediatamente patrimoniale induce a ritenere che l’oggetto di detti giudizi sia il rapporto sottostante, così come avviene negli ordinari giudizi civili, e che le sentenze del giudice amministrativo debbano garantire alle parti le medesime utilità di una sentenza adottata dall’A.G.O..
Si tratterà di sentenze che attribuiranno direttamente alla parte vittoriosa il bene della vita da essa richiesto, senza mediazione successiva dell’attività amministrativa, e che garantiranno un grado di effettività della tutela giurisdizionale ben maggiore di quello odierno.
Dovranno, quindi, ritenersi applicabili gli artt. 2907/2909 e 2932 del codice civile sulla tutela giurisdizionale dei diritti ed ammissibili tipologie di sentenze (di accertamento e/o costitutive) la cui natura esula dalla tradizione del giudice amministrativo, così come dovrà probabilmente utilizzarsi lo strumento della disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi non impugnati.
Per ultimo un breve cenno dev’essere fatto alle misure cautelari.
E’ a tutti noto il dibattito, sia dottrinario che giurisprudenziale in ordine alla insufficienza delle misure cautelari poste a disposizione del giudice amministrativo, con l’unica eccezione delle controversie patrimoniali nella materia del pubblico impiego nella quale la sentenza n. 190 del 1985 ha consentito l’adozione dei "provvedimenti di urgenza che appaiano secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della decisione sul merito".
Sebbene la giurisprudenza abbia molto dilatato la nozione della c.d. "sospensiva", pervenendo ad assicurare un accettabile livello di tutela cautelare nei confronti della p.a., la questione si porrà, in futuro, in termini molto differenti in relazione alle esigenze cautelari che potranno emergere in occasione di controversie tipicamente patrimoniali e/o tra soggetti privati, esigenze alle quali il codice di procedura civile offriva, ed offrirebbe, specifiche e sperimentate risposte.
Mi riferisco sia al sequestro conservativo (ad esempio, in ipotesi di controversie patrimoniali nei confronti di soggetto privato esercente un pubblico servizio) che a quello giudiziario (ad esempio, in ipotesi di controversia tra l’Amm.ne ed il socio privato in una società di capitali esercente un pubblico servizio), alla denunzia di nuova opera e/o di danno temuto ed ai procedimenti possessori (in relazione a comportamenti in materia di urbanistica ed edilizia) nonché ai provvedimenti d’urgenza ex art. 700 cod. proc. civ..
La Corte di Cassazione è stata, sin qui, ferma nell’orientamento che esclude la sussistenza di un potere cautelare dell’A.G.O. nelle materie soggette alla giurisdizione esclusiva di altro giudice (amministrativo e tributario), ma non può escludersi che - a fronte di una carenza di tutela di tale gravità e ove non intervenga la Corte Costituzionale ad ampliare il potere cautelare del giudice amministrativo - possa avviarsi un processo di revisione di tale orientamento che muova dagli artt. 669-ter, co. 3, 669-quater, co. 4, e 669-quinquies cod. proc. civ., con i quali è stato attribuita all’A.G.O. competenza cautelare per controversie devolute alla giurisdizione straniera o ad arbitrato.
Sotto questo profilo, il d.d.l. A.S. n. 2934, nel prevedere la modifica dell’art. 21, co. 7, l. T.A.R. n. 1034/1971, attribuirebbe al giudice amministrativo un potere cautelare innominato (art. 3), nell’ambito del quale potrebbero forse ricomprendersi anche le misure cautelari tipiche del codice di procedura civile.
Per quanto attiene i procedimenti sommari e segnatamente il procedimento per ingiunzione, cui ricondurre le ordinanze previste dagli artt. 186-bis, ter e quater cod. proc. civ..
Come è noto, con il primo il creditore munito di prova scritta può rapidamente, e salva la successiva opposizione del debitore, munirsi di titolo esecutivo per la soddisfazione delle proprie pretese; con le seconde il giudice istruttore può, nel corso del giudizio, emettere provvedimenti esecutivi per le somme non contestate, per quelle per le quali vi sia prova scritta e per quelle per le quali la prova sia stata comunque già raggiunta.
Si tratta, al di là delle ovvie differenze di regime, di strumenti indirizzati a garantire al soggetto creditore la più rapida soddisfazione delle proprie pretese, evitando o limitando i tempi dovuti alla definizione dell’ordinario giudizio civile.
Se è vero che la carenza di procedimenti e provvedimenti analoghi non appare ostativa al raggiungimento di una forma piena di tutela avanti al giudice amministrativo, all’esito dell’ordinaria definizione del giudizio con sentenza, non può sottacersi che la dilatazione dei tempi comporta comunque un minor grado di effettività della tutela giurisdizionale.
A ciò si aggiunga che la possibilità di disporre di un procedimento analogo a quello per decreto ingiuntivo potrebbe contribuire a decongestionare l’attività collegiale del giudice amministrativo.
Capitolo VIII
Prospettive di tutela del diritto all'erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità ed efficienza di cui all'articolo 1, comma 2, lett. g) e l) della Legge 281/98, alla luce degli artt. 33-34-35 del Dlgs. n. 80/98.
La legge n. 281/98, concernente la Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, da un lato ha profondamente innovato la normativa in materia di tutela del consumatore, dall’altro ha canonizzato principi già da tempo affermati dalla giurisprudenziale amministrativa.
Sotto il primo profilo, la legge de qua all’art. 3, comma 1 lett. b, riconosce alle associazioni dei consumatori la possibilità di richiedere al giudice amministrativo "l’adozione" di tutte "le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate", laddove i poteri del giudice amministrativo risultano, normalmente, limitati alla declaratoria di annullamento dell’atto impugnato.
Altrettanto innovativa appare la facoltà attribuita, dalla lett. a dell’articolo citato, alle associazioni di consumatori di richiedere, al medesimo giudice, "l’inibizione" degli "atti", ma anche dei "comportamenti lesivi" degli interessi dei consumatori e degli utenti.
Sotto il secondo profilo, la legge in esame, nel conferire all’art. 3, I° comma, la legittimazione ad agire degli utenti e delle associazioni, rappresenta il punto di approdo di quella giurisprudenza, che a partire dalla seconda metà degli anni settanta, non esitò a riconoscere, alle suddette associazioni, la facoltà di ricorrere avverso i provvedimenti lesivi degli interessi diffusi dalle stesse rappresentate.
Tuttavia, l’analisi delle prospettive di tutela del consumatore, a seguito dell’approvazione della legge n. 281/98, richiede una lettera delle disposizioni in essa contenute alla luce, degli artt. 33 e ss., del dlgs n. 80/98, i quali hanno, profondamente, innovato l’ordinamento giuridico in tema di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
L’art. 33 del summenzionato decreto ha rivoluzionato la giurisdizione esclusiva della magistratura amministrativa provvedendo a determinare, quello che i primi commenti al decreto de quo definiscono la specializzazione per materia del g.a.
In particolare, l’articolo in esame prescrive: "sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie in materia di pubblici servizi…".
Ebbene, l’art. 1, comma 2°, legge n. 281/98, "riconosce", alla lett. g, il "diritto… all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza". Di talché, il giudice naturale cui ricorrere per la tutela del succitato diritto, alla stregua di quanto disposta dall’art. 33, dlgs. n. 80/98, è il giudice amministrativo in sede di giurisdizione esclusiva.
Occorre, pertanto, chiarire il significato della locuzione "pubblici servizi".
All’uopo si rileva che in base alla elaborazione dottrinale e all’interpretazione giurisprudenziale, la nozione di servizio pubblico è stata intesa, originariamente come nozione soggettiva di servizio pubblico da intendersi quale attività di interesse pubblico riferibile, anche indirettamente ad un soggetto pubblico, nel senso di attività di interesse collettivo, la cui gestione è organizzata secondo modalità predeterminate (cfr. art. 22 , L.142/90).
Con dlgs. in esame il legislatore, nell’astenersi dal qualificare il servizio pubblico sembrerebbe passare ad una nozione oggettiva dello stesso così da ricondurre a tale nozione le attività svolte da qualsivoglia soggetto, in funzione dell’appagamento di un interesse generale. Si pensi ad es. a quello che accadrà allorché sarà definitivamente privatizzato il servizio pubblico di fornitura di energia elettrica.
Due sono, pertanto, le teorie che si sono contrapposte in materia di servizi pubblici la teoria soggettiva e la teoria oggettiva, laddove quest’ultima pone l’attività e la sua attitudine a soddisfare un interesse di carattere generale indipendentemente dalla natura pubblica, o meno, del soggetto titolare del servizio.
Tale evoluzione si giustifica sul piano normativo a seguito dell’attribuzione a soggetti privati di servizi un tempo esclusivamente in mano alla pubblica amministrazione. Esemplificativa in tal senso è la legge n. 481/95 la quale dispone il conferimento al potere pubblico di una semplice funzione di garanzia, di regolamentazione del mercato nei confronti dei cittadini, vista l’attribuzione di vasti settori dell’economia nazionale a soggetti privati quali erogatori di servizi di interesse pubblico.
Invero, la nozione di pubblico servizio desumibile dal comma I° dell’art. 33, dlgs. n. 80/98 può essere, individuata in quel "complesso di attività finalizzate all’erogazione di beni o altre utilità gestite con criteri di economicità, se non propriamente imprenditoriali, ed aventi carattere di preminente interesse generale, carattere evidenziato o da una, diretta o indiretta, partecipazione pubblica nella gestione dell’attività o dello svolgimento di funzioni di regolamentazione del settore" (cfr. Salvatore Veneziano).
Ai fini della delimitazione dei confini della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di controversie afferenti ai pubblici servizi, occorre tener presente che la lett. f, comma 2, art. 33 Dlgs in esame, ha escluso, tra l’altro, dall’area di tale giurisdizione esclusiva le controversie aventi ad oggetto "rapporti individuali di utenza con soggetti privati".
Ora, il problema che si pone è quello di precisare il significato di tale locuzione.
Ebbene, a nostro avviso, la norma sopra citata nel parlare di "rapporti individuali di utenza...", ha inteso escludere dalla giurisdizione esclusiva in materia di pubblici servizi, solo le controversie che vedono contrapposti singoli utenti al gestore privato di servizi pubblici.
Ne consegue perciò che risultano attratte nell’ambito della giurisdizione esclusiva in commento, tute le controversie promosse da associazioni di utenti e consumatori contro gestori privati di servizi pubblici, per la tutela degli interessi e/o diritti di una massa indeterminata di utenti, accomunata dall’aver suibito un danno dal medesimo atto e/o comportamento lesivo del gestore suddetto. (Si pensi, ad esempio, al danno subito dai passeggeri coinvolti nei gravi diservizi e ritardi che hanno contrassegnato l’apertura di Malpensa).
Infatti, in tali controversie quello che si fa valere non è più il diritto "individuale" dell’utente, bensì quello "collettivo" (l’uno e l’altro appositamente riconosciuti dall’art. 1 L. 281/98).
L’interpretazione da noi proposta trova fondamento nello stesso contenuto letterale della lett. f, comma 2, art. 33 Dlgs in esame.
Infatti, ove il legislatore avesse voluto escludere dall’area della giurisdizione esclusiva ex art. 33 Dlgs citato anche le controversie promosse da associazioni di consumatori e utenti contro gestori privati di servizi pubblici, a tutela di interessi collettivi degli utenti, avrebbe parlato non di "rapporti individuali di utenza", ma di "rapporti di utenza..."
Peraltro, l’interpretazione da noi sostenuta trova l’autorevole avallo del Consiglio di Stato.
Tale giudice infatti chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto dal Codacons avverso il decreto col quale il Ministero dei Trasporti aveva disposto il trasferimento a Malpensa di gran parte dei voli di Linate, ha avuto modo di affermare che l’azione svolta dall’associazione degli utenti e consumatori a tutela degli interessi dei passeggeri che si imbarcano o sbarcano a Milano, "attenga alla tutela di interessi collettivi, cioè pertinenti agli utenti non uti singuli, ma componenti di una classe di individui la cui sfera soggettiva è esposta all’organizzazione ed al livello di qualità dei servizi pubblici". Cocludendone che la violazione di detti interessi collettivi "non dà luogo ad una controversia individuale, ai fini della giurisdizione amministrativa quale delimitata dall’art. 33 Dlgs n. 80/98".
Individuata nella nuova nozione di servizio pubblico la portata innovativa dell’art. 33, dlgs. n. 80/98, un altro aspetto speculare all’indagine che con questo scritto andiamo conducendo e che vale a caratterizzare ulteriormente la giurisdizione del giudice amministrativo riguarda le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia edilizia e urbanistica.
L’art. 34, dlgs. n.80/98 recita: sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi per oggetto gli atti, i provvedimenti e i comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia"
Rilevato che nessun problema si pone con riguardo agli atti e ai provvedimenti amministrativi bisogna, tuttavia, specificare cosa abbia inteso significare il legislatore quando parla di comportamenti amministrativi.
Giova al riguardo premettere che la nozione di comportamento non può essere ricondotta alla figura del silenzio significativo sia inteso come assenso, sia come rigetto, anzi, rispetto a quest’ultimo la giurisprudenziale più recente ne ha evidenziato il valore sostanziale, da quando ammette che contro di esso siano deducibili i motivi sostanziali legati al rigetto dell’istanza.
Pertanto il comportamento cui fa esplicito richiamo l’art. 34 assume un valore diverso rispetto ad un comportamento cui, in un modo o in un altro, sia attribuito valore di provvedimento.
Esso deve essere analizzato sotto due profili.
L’uno afferente le situazioni sostanziali che sorgono nei rapporti tra amministrazione e cittadini.
Si pensi alla proposta di una convenzione di lottizzazione avanzata da un proprietario. In capo alla p.a. non sorge un obbligo di provvedere, ma certamente si intrecciano diritti, aspettative, interessi, obblighi e poteri. Di fronte al comportamento che non è atto amministrativo, che non è provvedimento e che non consente il soddisfacimento di interesse privato, pare che la legge abbia previsto la possibilità di adire il giudice, per far accettare, che ad es. visto il piano regolatore generale, nulla osta alla possibilità di stipulare la convenzione.
L’altro riguarda i c.d. "interessi diffusi" e, quindi le associazioni ambientaliste.
Tutte le volte in cui viene sollecitato un interesse attivo dell’amministrazione, sia per far cessare un abuso, sia per finalità di tutela del territorio, di fronte all’inerzia della pubblica amministrazione non vi è la possibilità di adire il giudice, perché non vi è obbligo di provvedere. Viceversa con l’estensione della giurisdizione esclusiva anche alle controversie relative ai comportamenti (privi di valore provvedimentale), non può non derivarne anche l’attrazione in essa di queste esigenze di tutela
Ad ogni modo l’aspetto di maggior rilievo introdotto dal dlgs n. 80/98 è rappresentato dalla modifica dell’ambito della giurisdizione esclusiva, e cioè dall’estensione di questa ai diritti patrimoniali conseguenziali ed al risarcimento del danno, estensione, peraltro, probabilmente operata in tutte le materie di giurisdizione esclusiva e non solo con riferimento ai servizi pubblici, e alle controversie aventi per oggetto atti, provvedimenti e comportamenti delle amministrazioni pubbliche in materia urbanistica ed edilizia.
Orbene, in virtù della disposizione contenuta all’art. 35 dlgs. n. 80/98 i poteri del giudice amministrativo nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva si estendono fino a disporre il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica.
Il primo rilievo da fare è che sono venuti meno i classici capisaldi della giustizia amministrativa: vale a dire la riserva dell’annullamento al giudice amministrativo, la riserva di esecuzione delle sentenze di annullamento all’amministrazione ed infine la riserva di risarcimento al giudice dei soli c.d. diritti soggettivi. Il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso l’integrazione in forma specifica, è sempre attribuito al giudice amministrativo nell’esercizio della giurisdizione esclusiva. L’annullamento finisce con lo svolgere una funzione meramente strumentale rispetto alla pronuncia di merito, che rende cioè effettiva ed immediata giustizia.
La reintegrazione in forma specifica certo significa che il giudice amministrativo ha il potere di adottare un provvedimento, con cui si pone rimedio alla situazione determinata in virtù di un atto illegittimo.
In base alla richiamata disposizione ci si può spingere fino ad impegnare l’amministrazione su un piano o su un terreno diverso da quello oggetto del giudizio.
La reintegrazione in forma specifica, dunque, non può che essere un elemento, e solo un elemento, del risarcimento del danno ingiusto.
La questione più rilevante in merito alla risarcibilità del danno ingiusto è quella derivante dall’emanazione di atti e provvedimenti amministrativi illegittimi, lesivi di situazioni di interesse legittimo.
Il problema è di indubbia gravità e di particolare attualità.
La giurisprudenza della Corte di Cassazione ha costantemente affermato l’irrisarcibilità dell’interesse legittimo.
L’Adunaza Generale del Consiglio di Stato, in sede di pronuncia del parere sullo schema del decreto n. 80/98 elaborato dal governo aveva ritenuto preferibile "una norma più elastica che attraverso la clausola del danno ingiusto demandi alla interpretazione della giurisprudenza esclusiva del giudice amministrativo" la disciplina concreta della materia donde l’odierna formulazione del’art. 35.
Nel nostro ordinamento non esistono norme che escludano chiaramente la risarcibilità degli interessi legittimi. L’art. 2043 c.c. cui l’art. 35 fa esplicito rinvio non consente di affermare con certezza che l’unica lesione erisarcibili sia quella arrecata a una posizione di diritto soggettivo.
All’uopo si rileva che un argomento per il superamento della tesi della irrisarcibilità degli interessi legittimi potrebbe ricavarsi dell’intervenuta abrogazione, per effetto dell’art. 35 comma V°, dlgs. n. 80/98, dell’art. 13, L. n. 142/90 in materia "di appalti pubblici di lavori o di forniture…"
Pertanto, se il legislatore ha espressamente abrogato -in sede predisposizione del decreto in oggetto, volto, tra l’altro, a potenziare la tutela risarcitoria dei soggetti che hanno subito una lesione a causa dell’emanazione di un atto amministrativo illegittimo- la più importante delle disposizioni che ammetteva la risarcilità degli interessi legittimi ciò significa che quest’ultima disposizione è stata assorbita nel nuovo sistema che, dunque, ha riconosciuto il principio della risarcibilità degli interessi legittimi.
I problemi che il giudice amministrativo sarà chiamato a risolvere consisteranno non tanto nella distinzione tra interessi legittimi e diritti soggettivo, onde decidere sulla risarcibilità dei primi, quanto, piuttosto, nella determinazione di criteri per l’accertamento e la determinazione del danno nelle diverse fattispecie.
La giurisprudenza sarà, preliminarmente, chiamata a decidere se, per far valere la responsabilità risarcitoria dell’amministrazione nelle materie concernenti servizi pubblici, urbanistica e edilizia sarà indispensabile la tempestiva impugnazione e previo annullamento dell’atto lesivo, nell’ipotesi in cui un atto lesivo vi sia e si ponga come antecedente logico ai fini dell’accertamento del diritto al risarcimento, oppure se il giudice amministrativo potrà accertare e quantificare il danno ingiusto indipendentemente dall’annullamento del provvedimento autoritativo illegittimo, limitandosi a dichiarare l’esistenza di un nesso di causalità tra la diminuzione dell’integrità patrimoniale e l’illegittimità del comportamento posto in essere dall’amministrazione.
L’illegittimità del provvedimento costituisce requisito necessario, ma non sufficiente, per proporre azione risarcitoria. Non esiste una correlazione automatica tra atto illegittimo e risarcimento del danno.
Nella determinazione dei presupposti per il risarcimento non si potrà prescindere da una valutazione dell’interesse sostanziale e non si potrà accordare tutela risarcitoria tutte le volte in cui un atto ritenuto illegittimo sia sostanzialmente giusto. Si pensi al caso dell’illegittimità derivante dalla violazione dell’art. 7, L. n. 241/90 (obbligo di comunicare l’avvio del procedimento al destinatario dell’atto finale).
Orbene, al giudice amministrativo deve essere riconosciuto un sindacato pieno sul rapporto nel senso di accertare la fondatezza della pretesa dedotta in giudizio.
In definitiva, sarebbe da escludere il risarcimento del danno allorquando l’atto risulti illegittimo per violazioni di norme procedimentali.
Già esistano decisioni del giudice amministrativo, rese in giudizi di pubblico impiego e inerenti ad attività vincolanti dell’amministrazione, secondo le quali il giudice non annulla l’atto impugnato qualora, pur riconoscendo fondato uno dei vizi denunciati, dal complessivo esame della vicenda controversa deduca che l’interesse sostanziale perseguito dal ricorrente non può essere soddisfatto in sede di rinnovazione dell’attività amministrativa.
Diversa è la soluzione nell’ipotesi in cui all’annullamento in sede giurisdizionale degli atti autoritativi, segua, obbligatoriamente, il rilascio del provvedimento favorevole per il soggetto richiedente. Ad es. nell’ipotesi di annullamento per ragioni di illegittimità di un diniego di concessione edilizia o di una aggiudicazione di contratto a un soggetto controinteressato la risarcibilità del danno pare indubbia.
Nei casi citati si tratterà in concreto di dimostrare e determinare il danno subito, nel senso che la semplice possibilità o probabilità di conseguire un risultato utile potrà tradursi in una lesione del diritto all’integrità patrimoniale, come tale risarcibile.
La prova potrà essere raggiunta mediante gli stessi mezzi istruttori documentali che il giudice amministrativo normalmente utilizza negli ordinari giudizi di legittimità, oltreché dei mezzi istruttori previsti dal c.p.c. ai quali si riferisce l’art. 35, comma III°, dlgs. n 80/98. Tutte le volte che non sarà possibile dimostrare o determinare l’ammontare del danno, il giudice amministrativo potrà liquidarlo in via equitativa ex art. 1226 c.c.
Si ribadisce, peraltro, che il danno per equivalente di cui all’art. 35, dlgs. n. 80/98, potrà essere concesso soltanto quando non sia possibile ovvero risulti eccessivamente onerosa per l’amministrazione, ai sensi dell’art. 2058 c.c., la reintegrazione in forma specifica intesa come "ripristino di una situazione materiale corrispondente a quella che sarebbe sussistita se non fosse intervenuto il fatto che determina l’obbligazione risarcitoria". Una condanna a un facere specifico connesso all’anullamento dell’occupazione d’urgenza consisterebbe nella eliminazione degli effetti derivanti dall’inizio dell’esecuzione dell’atto impugnato.
Ancora, l’esistenza di un danno potrà derivare anche da illegittime inerzie o ritardi nell’esercizio di pubblici poteri.
In questi casi troverà applicazione l’art. 20, comma V°, L. n. 59/98 che prevede l’emanazione di regolamenti che, per casi, di mancato rispetto del termine del procedimento e di mancata o ritardata adozione del provvedimento stabiliscono forme di indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento.
La legislazione recente valorizza dunque l’esigenza di differenziare le modalità di tutela del cittadino nei confronti delle pubbliche amministrazioni.
Per concludere, la disposizione contenuta all’art. 35, dlgs. n. 80/98 che attribuisce alla giurisdizione esclusiva (art. 33-34, dlgs. n. 80/98) del giudice amministrativo le controversie in materia di "risarcimento del danno in tutti i casi in cui non sia possibile, attraverso l’esecuzione della sentenza pervenire a una soddisfacente reintegrazione in forma specifica dell’interesse leso", risolve in senso positivo la problematica relativa alla risarcibilità degli interessi legittimi.
Capitolo IX
La conciliazione per i consumatori.
La conciliazione per i consumatori: la legge 281/98
1. Premessa
L’esigenza di predisporre forme di accesso alla giustizia semplificate ed alternative nel settore specifico della tutela dei consumatori è senza dubbio rilevante per via delle difficoltà che il consumatore incontra nel percorrere le vie ordinarie della giustizia civile. Infatti, per quanto attiene alle controversie tra consumatori ed imprese, va considerato il valore spesso limitato delle single cause, se rapportato ai costi che questi devono sopportare per accedere alla vie della giustizia ordinaria.
Gli elevati costi legati alle spese del procedimento, insieme alla lentezza e alle farraginosità del sistema giudiziario italiano, rischiano pertanto di portare alla vanificazione dei diritti offerti dall’ordinamento al consumatore, diritti affermati solennemente, ma che rischiano di rivelarsi privi di effettività nel caso concreto. Difatti, dall’analisi delle controversie civili avviate in Italia si delinea infatti una situazione di lentezza e di difficoltà oltremodo rilevanti proprio nelle controversie legate al rapporto di consumo. Proprio su questo punto, uno studio della Commissione europea segnalava, denunciandone gli effetti, già nel 1993, il rischio di vanificare gli effetti della politica comunitaria di protezione del consumatore, evidenziando un tempo medio per le cause civili di altre 38 mesi, a fronte di un tempo sensibilmente inferiore negli altri paesi dell’Unione Europea.
Così, anche per effetto delle pressioni della Commissione Europea e sulla scia delle esperienze di ordinamenti esteri , si è concentrata l’attenzione sui modelli di giustizia alternativa a quella togata per risolvere le controversie tra imprese e privati nei rapporti di consumo.
Nel nostro ordinamento gli istituti che si prestano a tale funzione sono la conciliazione e l’arbitrato, soprattutto se si considerano le recenti iniziative legislative in materia di arbitrato, di riforma dell’istituto camerale, che sembrano offrire maggiore spazio a questi strumenti nel campo dei rapporti tra imprese e consumatori.
Ancor più innovativa e significativa appare pertanto l’introduzione nel testo della legge 30 luglio 1998 della esplicita previsione di una procedura conciliativa ad hoc a favore delle associazioni dei consumatori, secondo la procedura prevista dalla legge 29 dicembre 1993 n. 580.
2. La politica comunitaria per l’accesso dei consumatori alla giustizia
L’indirizzo previsto in materia di accesso dei consumatori alla giustizia dalle politiche dell’Unione europea è stato ribadito di recente nella raccomandazione del 1997 della Commissione sul tema dell’accesso dei consumatori alla giustizia..
Le vie indicate in tale raccomandazione dalla Commissione sono sostanzialmente tre:
- La semplificazione ed il miglioramento delle procedure giudiziarie.
- Il miglioramento della comunicazione tra consumatori e operatori economici professionali.
- L’istituzione di procedure extragiudiziali per la risoluzione delle controversie in materia di consumo.
Come si può notare, mentre nel primo punto la soluzione si colloca nell’ambito della giustizia tradizionale, invece le altre due soluzioni propugnate spingono verso soluzioni alternative ai giudici statali. Gli strumenti extragiudiziali di risoluzione delle controversie di consumo delineati nella Raccomandazione della Commissione sono di natura ed origine diversa. Infatti sono prese in considerazione le iniziative dei poteri pubblici sia a livello centrale ( è il caso del Consumer Complains Boards dei paesi scandinavi ), sia a livello locale ( ad esempio le corti arbitrali istituite in Spagna ), come le iniziative private nate dall’accordo tra operatori economici professionali e consumatori o associazioni di rappresentanza di questi.
3. Le recenti innovazione nell’ordinamento italiano: il ruolo delle CamCo.
I procedimenti di risoluzione delle controversie tra consumatori e imprese nell’ordinamento italiano hanno trovato tradizionalmente poco spazio nell’ambito delle scelte del legislatore nazionale. Più di recente, invece, questa situazione può dirsi mutata poiché le ultime iniziative legislative si muovono nel senso di promuovere lo sviluppo di procedimenti alternativi di risoluzione delle controversie: la recente legge 5 gennaio 1994 n., 25 di riforma dell’arbitrato nel sistema di diritto processuale, che esprime il favor dell’ordinamento per la figura di arbitrato rituale o libero, e la legge 29 dicembre 1993 n. 580 di riforma delle Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura.
In particolare quest’ultimo intervento normativo ha attribuito alle Camere di Commercio un nuovo ruolo nel campo dei rapporti tra consumatori ed imprese, anche alla luce delle normativa sulle clausole vessatoria attuata con la legge 6 febbraio 1996 n. 52. Occorre ricordare che quest’ultimo intervento legislativo, che ha attuato la direttiva comunitaria del 1994, ha introdotto tra i mezzi di controllo delle clausole vessatorie la legittimazione attiva all’esperimento dell’azione inibitoria delle Camere di commercio, accanto alle associazioni dei consumatori e dei professionisti.
L’intervento legislativo operato con la legge 580 ha ridefinito la natura e la struttura di tale tipo di ente trasformandolo da ente autarchico, definibile sub-statale, ad ente autonomo di diritto pubblico e conferendogli il compito di svolgere, nell’ambito della circoscrizione territoriale di competenza "funzioni di interesse generale per il sistema delle imprese curandone lo sviluppo nell’ambito delle economie locali" ( art. 1 legge 580 ).
Tra le novità della riforma operata dalla legge 580/93 nel campo della risoluzione delle controversie in materia di consumo si possono delineare diverse innovazioni che individuano in capo all’Istituzione camerale funzioni importanti nella gestione dei rapporti professionisti-consumatori, favorendo il dialogo e gli accordi tra le parti. All’art. 2 del testo della legge 580/93 si possono delineare tre diverse funzioni attribuite alle camere:
1) Il ruolo di promozione di commissione arbitrali e conciliative per la risoluzione delle controversie tra imprese e tra queste ed i consumatori. ( art. 2, IV comma, lettera a ), risultando pertanto rilanciata l’attitudine delle Camere di Commercio a svolgere funzioni di mediazioni e arbitrati.
2) Il ruolo di predisposizione di contratti-tipo tra le imprese, tra le loro associazioni e tra le associazioni costituite per tutelare gli interessi dei consumatori e degli utenti. ( lettera b ).
3) Il ruolo di incentivare forme di controllo per risolvere il problema delle clausole capestro ( c.d. abusive ) inserite nei contratti tipo predisposti dalle imprese. ( lett. c. )
Attribuzioni queste che, unite con la previsione dell’art. 25 della legge 52/96, di cui si è detto prima, sulla legittimazione delle Camere di commercio al ricorso all’azione inibitoria in caso di clausole abusive ai sensi del Capo XIV-bis del c.c. introdotto appunto dalla legge 52/96, possono condurre a ritenere che il legislatore abbia voluto ritagliare per le Camere di commercio un ruolo importante nell’ambito di un sistema non conflittuale delle relazioni tra consumatore e imprese.
4. La conciliazione e l’arbitrato ad opera delle Camere di Commercio ex artt. 2, IV comma della legge 580 e art. 3, II l. 281/98.
Già da tempo, ben prima della espressa previsione di una conciliazione ad hoc per i consumatori, le camere di commercio, soprattutto la Camera di Milano e quella di Torino, avevano dato vita ad attività di promozione e rilancio delle potenzialità degli istituti della conciliazione e dell’arbitrato in materia di consumo, avendo già istituito camere permanenti di conciliazione e camere arbitrali ad uso dei consumatori nel caso di controversie con le imprese, in ossequio anche all’invito formulato dalla circolare del Ministro dell’industria n. 2485/C del 6 febbraio 1975 . Pertanto sembrerebbe che la legge 580/93, nelle sue previsioni, vada ad esaurire la sua portata innovativa in strumenti ed attività già attuate dalle camere di commercio. Ma tuttavia non è certo priva di rilevanza la considerazione che per la prima volta la legge ha attribuito valore e considerazione a queste iniziative che in precedenza costituivano semplicemente il frutto della volontà dell’istituzione camerale di attivare un servizio che poteva sembrare utile per i propri associati e che dimostrava l’attenzione degli operatori economici nei confronti della clientela, ma che era pur sempre espressione della volontà di una delle due parti.
Riguardo l’istituto della conciliazione va detto che il nostro ordinamento conosce due diverse figure di conciliazione: la conciliazione "giudiziale" e quella "extragiudiziale", in ordine alla collocazione istituzionale del soggetto cui è assegnata la funzione conciliativa, ove nella prima tale compito di operare la mediazione degli interessi delle parti è affidata ad un organo affidato al potere giudiziario, mentre nella seconda a soggetti o organismi estranei all’organizzazione giudiziaria. E’ pertanto evidente il carattere di extragiudizialità della conciliazione, così come affidata alle Camere di commercio dall’art. 2, IV comma, lettera a) della legge 580. Ma, in seguito alla disposizione introdotta dall’art. 3 della legge 30 luglio 1998, le associazioni dei consumatori riconosciute, agli effetti della stessa legge, possono ora attivare autonomamente tale procedura di conciliazione, per le cui modalità definitive di attuazione la legge 281/98 rinvia ad un successivo regolamento, da emanarsi entro sessanta giorni. Il verbale di accordo raggiunto attraverso tale conciliazione extragiudiziale assume, in virtù della disposizione dei comma III e IV dell’art. 3, valore di titolo esecutivo, dopo avere superato il controllo di regolarità del pretore, conseguente all’omologazione. Si tratta pertanto di una forma di conciliazione extragiudiziale a carattere facoltativo e preventivo che trova il suo precedente nella procedura conciliativa prevista dalla legge 392/1978 relativa alla misurazione dei canoni di locazione ed alle richieste di aumento del canone nel caso di riparazioni straordinari, ma, soprattutto, per il suo carattere extragiudiziale e di vero e proprio "filtro per l’accesso alla giustizia" nelle disposizioni della legge 3 maggio 1982 n. 203, che ha introdotto una procedura di conciliazione per le controversie in materie di contratti agrari presso l’Ispettorato provinciale dell’agricoltura.
Tra le caratteristiche della procedura di conciliazione prevista dalla legge 281/98 va inoltre segnalata la previsione di un termine dilatorio di quindici giorni a decorrere dalla data in cui l’associazione abbia richiesto, a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, la cessazione del comportamento lesivo per i consumatori.
4. L’esperienza statunitense di un arbitrato per i consumatori.
Il ricorso a strumenti extragiudiziali di risoluzione delle controversie in materia di rapporti di consumo è stato attuato anche in ordinamenti stranieri, lontani dalla realtà e dalle problematiche del nostro paese e diversi per tradizione giuridica. E’ particolarmente interessante osservare le esperienze di procedimenti arbitrali attuate negli Stati Uniti, per il deciso carattere di "assistenza" messa in atto dall’impresa nei confronti dei propri clienti, che tali procedimenti rivestono .
Diversi sono i progetti di risoluzione extragiudiziale delle controversie attivati negli USA, come nel caso delle iniziative di arbitrato promosse dalla National Automobile Dealers Association, che portano il nome di Customer Arbitration Programs, come pure nel caso delle iniziative similari promosse dalla American Automobile Association, che portano il nome di A.A.A. Complaint Arbitration Service Program ed operano sempre nel campo della composizione delle contrasti tra automobilisti e produttori - venditori di autoveicoli. Tutte queste iniziative, pur in un sistema giuridico, quale quello statunitense, che non è afflitto dalle lungaggini dei giudizi civili, hanno come obbiettivo dichiarato l’abbreviazione dei tempi di giudizio per i consumatori, vista la generale speditezza che li contraddistingue, insieme alla quasi totale gratuità del procedimento. E, d’altro canto, il ricorso a tali procedure incontra ugualmente l’interesse ed il favore delle imprese, poiché riduce il rischio di un tort mass case, fortemente percepito dai produttori, vista anche la possibilità per i consumatori di percorrere vittoriosamente, e con grande nocumento sia economico che d’immagine per l’impresa, la via del giudizio collettivo, previsto attraverso la già ricordata "class action". Inoltre tali procedimenti giovano notevolmente all’immagine dell’impresa, che si vuole proporre agli occhi dei consumatori americani come parte attenta e sensibile agli interessi dei propri clienti. Ciascuna di queste iniziative è, pertanto mirata ad offrire una forma di "servizio aggiuntivo" al cliente e, pertanto trova le sue caratteristiche più importanti nella snellezza e rapidità.
L’ambito di applicazione di questi programmi di customer arbitration è delineato efficacemente all’art. D2 delle Customer Arbitration Board Operating Procedures , così come sottoscritte dalla Chrysler e da altre delle più importanti aziende produttrici di autovetture , "covered disputes are all disputes regarding a service – related problem under Chrysler Motors Limited Warranty and are all suitable for arbitration". E’ previsto che il board arbitrale sia composto di tre arbitri, dei quali il primo sia il legale nominato dal consumatore (consumer advocate), il secondo un tecnico rappresentante dell’agenzia di certificazione tecnica del settore automobilistivo, l’ASE (Automotive Service Excellence), mentre il terzo sia un soggetto terzo, nominato in accordo dalle parti . La composizione del board non prevede quindi la partecipazione di rappresentanti della società automobilistica, mentre richiede la presenza di un tecnico, esperto di "test comparativi di qualità" nel settore specifico dei prodotti per l’industria automobilistica.