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Editoriale

n. 6/2005

Nel secondo anniversario della scomparsa di mio padre Pietro

Tra qualche giorno ricorrerà il secondo anniversario della comparsa di mio padre Pietro, sui cui libri, forse, alcuni lettori della rivista hanno studiato.

Desidero ricordarlo, facendomi latore del messaggio più vero e profondo che la sua vicinanza mi ha lasciato; tale messaggio, in termini sintetici, è il seguente: occorre sempre affrontare il proprio lavoro con molta umiltà, non disgiunta da una viva curiosità.

Ricordo in particolare che, fin da quando cominciai a frequentare il suo studio professionale, mio padre non esitava a chiedere spesso un parere a me, così come agli altri collaboratori, su questioni particolarmente delicate e complesse.

Il che mi spiazzava non poco: come potevo io, "apprendista stregone", dare consigli a mio padre, la cui esperienza oltre che preparazione giuridica era incomparabilmente maggiore?

Un giorno gli chiesi le ragioni del suo comportamento. La risposta fu semplice quanto rivelatrice della sua filosofia di fondo: ciascuno di noi, per quanto avanti negli anni, apprende sempre dagli altri, i quali hanno una propria visione delle cose.

La realtà oggettiva, specie nel campo delle scienze umanistiche, spesso non esiste e ciascuno di noi ha una propria visione del mondo (anche giuridico) che talvolta non coincide con quella degli altri.

Diceva un famoso giurista che per vincere una causa non è sufficiente avere ragione e trovare chi la sa fare valere (e cioè un buon avvocato), ma soprattutto occorre trovare chi ce la dà.

La verità giuridica è quella espressa dal giudice con la sentenza; una verità che, tuttavia, non corrisponde talvolta a quella effettiva, anche nel caso in cui i contendenti, con onestà intellettuale, abbiano ammesso da che parte sta la ragione. Così è, se ci pare.

Al di là di queste considerazioni, che potrebbero portare fuori argomento, rimane comunque il messaggio di fondo: quello di affrontare il nostro lavoro con profonda umiltà, non vergognandoci di chiedere consigli agli altri per le questioni complesse. In ogni caso la stessa formulazione del quesito ci costringe a chiarire meglio la questione ed a scoprire gli eventuali vizi della soluzione prospettata.

Un messaggio che sembra riecheggiare quello lasciatoci da Karl Popper in uno dei suoi ultimi libri ("Alla ricerca di un mondo migliore", Armando ed., 1989), il quale non solo suggeriva, nell’affrontare una questione, di porre un problema e non un mero argomento da sviluppare, e nel proporre una soluzione, di sottoporla continuamente a critica (dato che il miglioramento è sempre frutto della critica), ma anche affermava, in modo apparentemente provocatorio, di non dimenticarci mai che, anche se fra noi possono esserci differenze sulle piccole cose, nella nostra infinita ignoranza siamo tutti uguali.

L’umiltà, a ben vedere, è anche il tratto caratteristico dei veri Maestri, che li distingue dai tanti gestori di cattedre e prebende che affollano le odierne Università; questi ultimi possono aspirare solo al titolo di "responsabile di zona o di mandamento" che è previsto anche in altri settori, ma non al titolo di "Maestro" che compete solo a chi, tramite non solo le sue opere scientifiche, ma anche il proprio stile di vita, ha lasciato un importante insegnamento.

Occorre dunque affrontare le questioni giuridiche con profonda umiltà, senza considerarci latori di verità rivelate. E’ questo il messaggio che mi ha lasciato mio padre Pietro con il suo esempio di vita e che desidero trasmettere ai lettori, inserendolo in un documento abbandonato in questa specie di "oceano elettronico" che è internet, nel secondo anniversario della sua scomparsa (G.V., 9 giugno 2006).


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