LexItalia.it  

 Prima pagina | Legislazione | Giurisprudenza | Articoli e note | Forum on line | Weblog

 

Legislazione

 

Testo del parere del Prof. Vincenzo Caianiello,
Presidente emerito della Corte costituzionale,
richiesto dalla Commissione affari costituzionali
della Camera dei Deputati

Roma, 16 gennaio 2001.

PARERE PRO VERITATE

Per comodità del lettore si anticipano le conclusioni finali.

I punti essenziali della soluzione che si intende suggerire sono i seguenti:

a) Divieto per l’interessato di ingerirsi nella gestione diretta dell’impresa. L’interessato deve restare mero proprietario dell’impresa (individuale o societaria che sia), senza assumere personalmente compiti di amministrazione (come accade negli altri paesi di cui si farà cenno nel paragrafo 1).

b) La previsione di un sistema di adeguata pubblicità sulla proprietà, sulla titolarità di beni, aziende ed, in definitiva, sugli interessi economici di chi assume cariche di Governo, mediante l’obbligo di rendere una dichiarazione ad hoc.

c) La previsione di un controllo speciale e qualificato, rimesso all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (nota da noi come Autorità antitrust) che appare sufficiente a garantire massima trasparenza ed imparzialità sugli effetti dell’azione di Governo. Si tratta di un controllo che registra effetti e conseguenze delle scelte governative, ed è volto ad impedire qualsivoglia interferenza tra interesse pubblico ed interesse privato.

d) La previsione di un controllo speciale e qualificato, rimesso all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, tale da assicurare correttezza, completezza ed imparzialità dell’informazione, controllo da esplicarsi dal basso verso l’alto per evitare forme ingiustificate di sostegno privilegiato per il Governo.

e) L’eventuale rafforzamento dei poteri sanzionatori (verso le imprese) e di segnalazione ed informativa al Parlamento.

La cessione imposta per legge.

Ciò premesso, si devono prendere in considerazione gli strumenti astrattamente utilizzabili per realizzare l’obiettivo descritto.

Nel pubblico dibattito che si è svolto in questi anni, specie negli ultimi tempi, si è suggerito da alcuni di individuare quale mezzo tecnico di soluzione del problema quello della cessione vincolata, ancorché a titolo oneroso, dei beni e delle aziende e, più genericamente, delle attività imprenditoriali appartenenti a chi riveste funzioni di Governo. L’alienazione, in breve, avrebbe l’effetto di separare definitivamente il politico da quel nucleo di interessi economici e dalla gestione delle imprese di comunicazione cui il potenziale conflitto si suole ricondurre.

Questa proposta (che spesso si è manifestata in un contesto non scevro da animosità), pur se apparentemente molto efficace sul piano della passione politica ed indubbiamente di agevole comprensione per chi non dispone del necessario bagaglio tecnico, non coglie affatto la complessità del problema e soprattutto non tiene conto dei valori costituzionali che si sono prima richiamati.

Essa anzitutto non è conforme alla Costituzione e non trova in essa alcun appiglio, né programmatico né tantomeno precettivo. È, poi, uno strumento tecnico che produce effetti eccedenti lo scopo perseguito. Infine, non è neppure utile a risolvere il problema.

La proposta della cessione imposta o dell’espropriazione non offre un rimedio risolutivo.

Punto terzo: la proposta non è utile e non risolve il problema.

Quando il valore delle imprese vendute è ingente, la liquidità conseguita verrebbe inevitabilmente di nuovo investita in altre iniziative imprenditoriali, o mobiliari di partecipazione, o immobiliari o in valori finanziari. Sicché non può escludersi l’emersione di nuovi conflitti di interessi, perché l’azione di Governo comunque ben potrebbe incidere sull’uno o l’altro bene. A meno che si immagini di aggiungere alla cessione vincolata un regime di gestione fiduciaria di tali beni; il quale, tuttavia, oltre che di dubbio fondamento costituzionale, potrebbe ancora non essere risolutivo.

Per raggiungere l’obiettivo, dunque, la proposta che esprimo con questo parere ipotizza strumenti normativi che producono i seguenti effetti, che è bene cominciare a riassumere:

a) L’estraneità dell’interessato alla gestione diretta dell’impresa, sì da evitare ogni commistione. L’interessato deve restare mero proprietario dell’impresa (individuale o societaria che sia), senza assumere compiti di amministrazione che, solo sul piano dell’immagine, non sono compatibili con la carica pubblica.

b) La previsione di un controllo speciale e qualificato che appare sufficiente a garantire massima trasparenza ed imparzialità all’azione di Governo (controllo dall’alto).

c) La previsione di un controllo speciale e qualificato tale da garantire correttezza ed imparzialità dell’informazione (controllo dal basso).

d) L’eventuale rafforzamento dei poteri sanzionatori (verso le imprese) e di segnalazione ed informativa al Parlamento.

e) Un regime di adeguata pubblicità sulla proprietà, sulla titolarità di beni, aziende ed, in definitiva, sugli interessi economici di chi assume cariche di Governo.

Giova ricordare che chi verte in una condizione di benessere economico non è, per ciò solo, destinatario di un veto costituzionale, che gli impedisca l’esercizio di funzioni di Governo. Né tale condizione, una volta che sia accompagnata dalla descritta griglia di garanzie, è tantomeno un indice che possa ingenerare il sospetto di un cattivo esercizio dell’indirizzo politico.

La soluzione d’altronde, dal sapore spiccatamente emulatorio, trascura la salvaguardia della continuità ed efficienza dell’impresa a danno dell’economia del paese. Il profilo dinamico dell’attività di impresa impedisce perciò di congegnare una disciplina sulla gestione fiduciaria che non tenga conto della sua identità strutturale, dei suoi obiettivi strategici e programmatici e della linea di gestione in corso di attuazione. Se la salvaguardia dell’identità e la continuità dell’organizzazione di impresa si ritiene implicitamente riconosciuta nell’articolo 43 della Costituzione, che disciplina l’ipotesi della espropriazione (Predieri, opera citata), a fortiori essa vale quando si tratta di provvedere ad una gestione temporanea.

Il blind trust non è istituto utile a disciplinare il «conflitto di interessi».

È stato frequente nel corso del dibattito politico e dei lavori parlamentari il richiamo ad un istituto di origine anglosassone, denominato blind trust, e a tale istituto si è fatto riferimento nelle iniziative legislative che hanno portato nel 1998 all’approvazione, quasi all’unanimità, da parte delle Camera dei Deputati di un testo legislativo e nel 2001 da parte del Senato della Repubblica dello stesso testo con larghi rimaneggiamenti e modifiche rispetto a quello approvato dalla Camera.

Il proposito si ritiene indispensabile soffermarsi su alcune precisazioni preliminari, allo scopo di dimostrare che anche questo strumento, a dispetto delle apparenze, non si adatta alla soluzione del problema.

Il trust è un istituto di diritto anglosassone, cui è stata dedicata un’apposita convenzione internazionale, che ne riconosce gli effetti nello stato italiano quando sia stato costituito in un ordinamento straniero che lo prevede come fattispecie tipica (convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, ratificata dalla Repubblica Italiana con legge 364/89). Esso, pur tra molte variabili, presenta alcuni dati comuni, che consistono: nel trasferimento dei beni dal proprietario (settlor) ad un amministratore (trustee); nella separazione di tali beni dal residuo patrimonio del trustee; nella perdita di ogni potere di controllo e direzione da parte del trustee; nella esistenza di un termine massimo di durata del trust e nella fissazione di uno scopo, al cui raggiungimento è ispirata l’intera gestione del trustee. Tale requisito finalistico può riguardare, secondo i casi, alcuni beneficiari specificamente individuati (come destinatari dei redditi della gestione), ovvero essere parzialmente rimesso alla discrezionalità del trustee, come pure coincidere con uno scopo caritatevole (i cosiddetti charitable trusts).

Il cosiddetto blind trust è una particolare applicazione dell’istituto, che trova nella legislazione degli Stati Uniti d’America il suo esempio più significativo. Il trasferimento dei poteri di gestione in capo al trustee viene in questo caso effettuato da coloro che accedono a cariche ed impieghi pubblici di vario ordine, anche quando non comportano l’esercizio di poteri di indirizzo politico, ma solo funzioni di gestione a diverso livello, al fine di impedire che le scelte effettuate nell’esercizio di tali funzioni possa mai esser sospettato di anomalo orientamento verso interessi privati. Con la cessione in trust si vuole impedire alla radice qualsivoglia forma di conflitto (pur se solo ipotetico) tra l’interesse pubblico e l’interesse privato del proprietario di beni e ricchezze, quale che sia la natura di queste.

Il trust, inoltre, è congegnato come cieco (blind): la gestione del trustee non solo è autonoma ed indipendente, ma concerne beni e valori che via via restano ignoti all’interessato, eventualmente grazie all’alienazione di quelli che compongono il patrimonio originario e reinvestimento del ricavato nell’acquisto di altri beni che restano occultati. Se, da un lato, al trustee è vietato di dare notizie sulla gestione e sulla composizione del trust o di farle solo trapelare, sono previste, dall’altro lato, severe sanzioni a carico dell’interessato che si adoperi o che tenga anche solo un atteggiamento passivo idoneo a ricevere informazioni su tali oggetti.

Dunque, due aspetti contraddistinguono il blind trust rispetto al modello classico di trust: l’assenza di un preciso requisito finalistico, poiché la gestione, anziché esser rivolta a vantaggio di uno o più beneficiari, è orientata solo a garantire temporaneamente l’imparzialità del funzionario; la sua cecità nella gestione, univocamente finalizzata ad eliminare il conflitto (potenziale) di interessi.

Ciò premesso, è anzitutto decisivo rilevare che il blind trust statunitense, come regolato dall’Etics in Government Act del 1978, è stato congegnato per disciplinare situazioni ordinarie e diffuse tra tutti i dipendenti pubblici chiamati all’esercizio di funzioni di una certa rilevanza, divenendo così una sorta di regola di ordine generale. L’obiettivo è molto diverso da quello che deve perseguire una disciplina sul «conflitto di interessi» nel nostro paese, perché l’ordinamento italiano non manca di un regime ordinario e diffuso sulle incompatibilità dei dipendenti, funzionari pubblici e parlamentari, ma necessita di norme che prendano in considerazione situazioni di «portata rilevante»: esso è destinato a coinvolgere solo l’esercizio di imprese e la gestione di attività economiche di rilievo tale da poter suscitare le preoccupazioni di cui si è già detto.

Più specificamente, il blind trust concerne solo beni che abbiano il carattere di ricchezze mobiliari (valori mobiliari e strumenti finanziari) o che in ricchezze mobiliari possano essere convertiti in modo agevole, senza pregiudizio economico, né turbamenti del libero mercato o forme di espropriazione larvata. Si tratta di casi nei quali non v’è alcun valore imprenditoriale specifico ed individuato da proteggere né da sacrificare. Non è casuale, poi, che la detta legislazione in alcuni casi abbia addirittura imposto il blind trust in alternativa ad una dichiarazione avente i caratteri della «denuncia finanziaria», cui è tenuto il personale federale. Il fatto stesso che la gestione in blind trust possa essere sostituita da una dichiarazione pubblica sugli averi di chi accede alla carica ed, in definitiva, dall’affermazione d una regola di trasparenza, dimostra che tale gestione affronta un problema che si colloca ad una soglia di complessità ben inferiore a quella che qui si esamina.

Il metodo utilizzato nell’ordinamento statunitense (e, segnatamente, il requisito della cecità) è radicalmente incompatibile con l’eliminazione del conflitto di interessi. Una gestione cieca (ed occulta per l’interessato) è possibile solo per valori mobiliari e non per la gestione di imprese individuali o per l’esercizio dei diritti che il socio vanta rispetto ad una società holding e che non rappresentano solo un valore finanziario, ma identificano una precisa realtà imprenditoriale. La gestione dell’impresa, specie quando si tratta di imprese di notevole rilievo economico, è comunque alla luce del sole: sicché l’interessato ben può conoscerne condizioni ed assetti contingenti. Una gestione cieca è possibile solo per beni fungibili, poiché essi possono alienarsi senza che l’interessato possa conoscere la destinazione della liquidità ricavata e le forme di reinvestimento.

Del resto, l’attribuzione al trustee del potere di alienazione dei beni costituiti in trust non tiene conto del valore aggiunto che la dinamica dell’impresa serba in sé, né delle esigenze di continuità e salvaguardia degli assetti strutturali di essa. Ed ovviamente valgono anche in questo caso le considerazioni già svolte circa l’incompatibilità costituzionale dei qualsivoglia fenomeno di vendita coattiva.

Il blind trust, nel suo modello completo, è dunque molto distante dagli scopi che interessano. Riassumendo, è strutturalmente incompatibile con gli obiettivi da realizzare ed inadeguato ad impedire il conflitto (potenziale) di interessi.

Il disegno di legge del Governo. L’istituzione di una Autorità indipendente per l’esercizio di una vigilanza sugli atti di Governo. Profili di incostituzionalità; inconvenienti; difficoltà di pratica attuazione.

La proposta che, da ultimo, il Governo avrebbe coltivato per sciogliere il nodo del conflitto di interessi è imperniata sulla creazione di una nuova Autorità indipendente, composta da tre saggi nominati dai presidenti di Senato e Camera dei Deputati, cui è demandato un controllo sugli atti del Governo statale e degli altri amministratori presso le regioni e gli enti locali.

L’Autorità sarebbe istituita al preciso scopo di vigilare sull’attività governativa, per snidare eventuali conflitti e, soprattutto, anomali comportamenti orientati a favorire gli interessi personali di chi riveste le cariche pubbliche.

L’esito del controllo sarebbe quello di una segnalazione al Parlamento dei fatti e delle circostanze accertate, per farne seguire ogni opportuna conseguenza in termini di critica politica e di tenuta del rapporto fiduciario.

Innanzitutto non è pertinente, da un punto di vista giuridico, giudicare l’idoneità di questa proposta argomentando dal fatto che i presidenti delle due Camere sono espressione della stessa maggioranza parlamentare che ha conferito la fiducia al Governo. Questa è una contingenza storica che attiene strettamente al dibattito politico e, poi, i requisiti di alta imparzialità e indipendenza dei componenti dell’Autorità dovrebbero essere elementi di sicuro affidamento. Infine, è garanzia più che sufficiente il ruolo assunto in sede di nomina dai presidenti delle Camere, i quali verrebbero a compiere un atto che trascende gli interessi della maggioranza e che gravita nell’ambito degli atti di indirizzo politico costituzionale.

I punti non sostenibili della proposta sono ben altri.

Questa soluzione è in primo luogo insufficiente a risolvere il problema del conflitto di interessi così come è stato fin qui descritto. In secondo luogo è anch’essa incompatibile con il quadro dei rapporti istituzionali tratteggiato nella Costituzione e, segnatamente, con la forma di Governo parlamentare in essa recepita.

La proposta è insufficiente, perché guarda solo a quello che, al precedente paragrafo 1, si è descritto come obiettivo di carattere generale, ma trascura l’obiettivo di carattere particolare. La vigilanza sugli atti di Governo dovrebbe servire a svelare eventuali e deprecabili scelte pubbliche orientata a vantaggio di singole imprese o di privati ed a garantire, anche in termini di immagine pubblica, la credibilità dell’azione dell’esecutivo ed il corretto ed equilibrato adempimento dei doveri istituzionali. Non serve, però, a tutelare la libera e serena formazione della pubblica opinione rispetto alla gestione di imprese che utilizzano strumento di comunicazione di massa; non serve, in particolare, a proteggere, anche con normative di questo tipo, un’informazione corretta, completa ed equilibrata, impedendo alla radice fenomeni di favor governativo dei media.

La frizione con le norme della Costituzione, invece, riguarda la singolare scelta di interporre tra Governo e Parlamento un nuovo soggetto che, esercitando una peculiare vigilanza sugli atti del primo allo scopo di riferire al secondo, non si capisce bene se sia una longa manus del Parlamento ovvero un usurpatore delle sue indefinibili prerogative.

Sembra proprio quest’ultima la conclusione più corretta: perché l’Autorità è concepita come indipendente ed autonoma da tutti poteri dello Stato, ivi compreso il Parlamento e perché al Parlamento compete in via esclusiva il giudizio sul Governo, nelle precise maglie del rapporto fiduciario, nonché l’attivazione di tutti i poteri conoscitivi e di indirizzo che valgano sia a rafforzare la consapevolezza della fiducia sia a testimoniare la vigilanza dei governanti sull’operato dei governanti.

In breve, questa Autorità è un «intruso istituzionale», che rompe il vincolo fiduciario diretto tra Parlamento e Governo (snaturando i poteri di vigilanza al primo spettanti). Delle due l’una: o il compito di questa Autorità è inutile, perché doppia l’attività conoscitiva e di indagine del Parlamento, oppure è sostitutiva di quella riservata alle Camere.

Se poi a questa sovrapposizione si volesse ad ogni costo pervenire, lo si potrebbe fare, per ovvie ragioni, solo con legge costituzionale, che aggiunga questa nuova Autorità all’organo di controllo sugli atti del Governo, attualmente previsto soltanto per la gestione finanziaria (Corte dei Conti, articolo 100 della Costituzione); e ciò vale anche per quel che riguarda le regioni, sulla cui autonomia costituzionalmente garantita non si può interferire con legge ordinaria.

Oltretutto, poiché la vigilanza sugli atti del Governo è fatta per effettuare una segnalazione al Parlamento, essa acquista un contenuto ed una finalità di carattere prettamente politico. Ciò induce alle seguenti ulteriori osservazioni: a) è rafforzato il sospetto di una interferenza grave nelle funzioni parlamentari, in assenza della necessaria legittimazione democratica a supporto dell’Autorità; b) il fine ed il fondamento politico del controllo potrebbe condizionare e diminuire l’efficienza dell’assetto organizzativo, delle competenza , del metodo di azione dell’Autorità, che viceversa dovrebbe essere sempre capace di accertare in quale misura il favor governativo possa tradursi in una distorsione degli assetti di mercato; c) sembra estranea alle dirette competenze di tale nuova Autorità la funzione di regolazione del mercato, preliminare a questo tipo di vigilanza: come detto il problema del conflitto di interessi non è solo un problema politico, ma è anche un problema economico ed è soprattutto con tecniche di controllo che attengono ai rapporti di mercato (e non doppioni istituzionali) che può davvero farsi luce sugli interessi da vigilare.

La soluzione che si propone: duplice controllo svolto dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato e dell’Autorità per le garanzie delle comunicazioni.

È giunto il momento di tirare le fila del discorso e di fissare le linee essenziali di un intervento normativo che voglia risolvere il problema del conflitto di interessi nel nostro paese realizzando un corretto e soddisfacente contemperamento dei valori in gioco.

Si tratta di riproporre, in larga misura, alcune delle considerazioni già svolte (in particolare, al paragrafo 3.4 dove si è anticipata la soluzione nel contesto di un discorso svolto finora in chiave critica e volto a dimostrare l’inadeguatezza delle soluzioni confutate).

I punti essenziali della soluzione, anticipate nell’esordio del presente parere e che si intende suggerire sono i seguenti:

a) divieto per l’interessato di ingerirsi nella gestione diretta dell’impresa. L’interessato deve restare mero proprietario dell’impresa (individuale o societaria che sia), senza assumere personalmente compiti di amministrazione (come accade negli altri paesi di cui si è fatto cenno nel paragrafo 1).

b) la previsione di un sistema di adeguata pubblicità sulla proprietà, sulla titolarità di beni, aziende ed, in definitiva, sugli interessi economici di che assume cariche di governo, mediante l’obbligo di rendere una dichiarazione ad hoc.

c) La previsione di un controllo speciale e qualificato, rimesso all’Autorità garante della concorrenza e del mercato (nota da noi come Autorità antitrust) che appare sufficiente a garantire la massima trasparenza ed imparzialità sugli effetti dell’azione di governo. Si tratta di un controllo che registra effetti e conseguenze delle scelte governative, ed è volto ad impedire qualsivoglia interferenza tra interesse pubblico ed interesse privato.

d) la previsione di un controllo speciale e qualificato, rimesso all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, tale da assicurare correttezza, completezza ed imparzialità dell’informazione.

Un controllo da esplicarsi dal basso verso l’altro per evitare forme ingiustificate di sostegno privilegiato per il governo.

e) L’eventuale rafforzamento dei poteri sanzionatori (verso le imprese) e di segnalazione ed informativa al Parlamento.

II) Sul punto a) e sul b) non vi sono considerazioni da aggiungere, se non che si tratta di accorgimenti comuni a gran parte delle democrazie occidentali.

Sul punto c), merita di essere sottolineato che il controllo dell’Autorità antitrust può armonicamente svolgersi nel quadro delle sue competenze (anche se, evidentemente, sulla base di una normativa ad hoc che ne finalizzi l’azione) ed in coerenza con la sua collocazione istituzionale.

Il problema del conflitto d’interessi, come già rilevato, può risolversi solo se si acquisisce la consapevolezza che non si tratta solo di preservare l’equilibrato ed imparziale esercizio dell’attività di governo (e di impedire l’offuscamento della sua legittimazione democratica) e che si deve partire anche dal concorrente obiettivo di salvaguardare gli assetti di libera concorrenza, che l’Unione Europea ha giustamente così a cuore. Il provvedimento governativo che favorisse un’impresa legata agli interessi di che l’adotta configurerebbe un «aiuto» non solo gravemente sospetto di illegittimità, ma anche lesivo della libera competizione sul mercato.

L’intervento dell’Autorità antitrust in questa materia, dunque, è tutt’altro che atipico, restando ampiamente nei confini dei suoi compiti istituzionali. Né possono riproporsi le obiezioni da me stesso sollevata al precedente paragrafo 8, perché, diversamente dall’Autorità di nuova istituzione cui si ispira il disegno di legge governativo, la vigilanza dell’Autorità Antitrust: a) non interferisce con le funzioni parlamentari e non si interpone nel rapporto fiduciario che regge il sistema di governo parlamentare, restando espressione del compito ordinario dell’Autorità Antitrust stessa; b) il controllo ha un fine politico solo indiretto, mediante le opportune segnalazioni alle Camere, e si avvale dell’assetto organizzativo, delle competenze e del metodo di azione già ben sperimentato dall’Autorità, certamente capace di accertare in quale misura il favor governativo possa tradursi in una distorsione degli assetti di mercato; c) la vigilanza è svolta dall’Autorità antitrust nell’esercizio della funzione di regolazione e si giova di tecniche che attengono ai rapporti di mercato (sicuramente le più efficaci).

Può dunque agevolmente replicarsi alle più recenti perplessità avanzate sulla stampa su questa espansione della vigilanza dell’Autorità Antitrust. Mi riferisco, in particolare, all’obiezione per cui queste nuove funzioni non guardano agli equilibri di mercato, ma sono invece dirette allo Stato e a proteggere la collettività contro commistioni di interessi pubblici e privati. Si tratterebbe cos’ di compiti non solo nuovi ma addirittura non omogenei a quelli dell’Antitrust.

Questa obiezione coglierebbe nel segno se l’Antitrust si piegasse ad un ruolo politico di controllo sul Governo, come la nuova Autorità che il disegno di legge governativo propone di istituire e di cui si è detto al precedente paragrafo 5. Ma nella proposta che qui avanzo (come più volte già rimarcato) l’Antitrust non controlla il Governo in senso istituzionale, poiché la vigilanza sull’esecutivo compete solo al Parlamento, bensì registra e vigila sugli effetti dell’azione governativa, con particolare riguardo alle interferenze con imprese appartenenti o collegate ad esponenti dell’esecutivo. L’Antitrust espande i suoi poteri rispettandone fondamento e contenuti: a) verifica l’anomala incidenza degli atti di governo sul mercato (ed è certamente anomala e distorsiva la scelta che favorisca gli interessi di una o più imprese a scapito delle altre); b) ne riferisce al Parlamento, perché si attivi il circuito istituzionale che lo vede garante dei governati verso l’operato dei governanti; c) commina, per suo conto, le sanzioni alle imprese beneficiarie del favor governativo.

Se poi l’allargamento delle competenze dell’Antitrust si rivelasse particolarmente gravoso, basterebbe ovviamente potenziarne le strutture utilizzando se mai quelle delle Autorità che in varie dichiarazioni di personalità di governo si vorrebbero abolire, perché esercitano funzioni propriamente amministrative che dovrebbero essere restituite, secondo principi di razionalità alle sedi proprie.

Il controllo previsto al punto d) colma la lacuna che si è denunciata al precedente paragrafo 5. Esso è affidato all’Autorità competente per il settore della comunicazione, anch’essa di asseverato prestigio e munita di congrua esperienza e di adeguate tecniche conoscitive. Ed anche qui il controllo appare diretta ed armonica espressione del suo ruolo istituzionale.

Si tratta di assicurare il più possibile l’obbiettività ed il pluralismo dell’informazione. Va da sé, difatti, che le aziende che agiscono nel mondo delle comunicazione e che facciano capo a personalità di governo non debbano a questi fornire particolari sostegni privilegiati, sostegni che l’attività di comunicazione privata non concederebbe ad altri esponenti del mondo politico. Neppure però questa coincidenza fra carica di governo e titolarità delle attività di informazione dovrebbe ingiustificatamente danneggiare chi la carica ricopre. Si dovrebbe raggiungere un punto di equilibrio, trasponendo in questa ipotesi quel principio di pluralismo interno, che costituisce la ragion d’essere del servizio pubblico radiotelevisivo, che richiede l’apertura dei media alle più diverse tendenze politiche e culturali. Senza però immaginare una omologazione a tale servizio di una impresa privata, che agisce secondo le naturali leggi del mercato e del profitto economico.

Ancora alcune brevi osservazioni sulla vigilanza concorrente di queste due Autorità.

Il sistema definito da questi poteri di controllo rispettivamente dell’Autorità antitrust e di quella di garanzia nelle comunicazioni rende effettivo il divieto di ingerenza nella gestione e la separazione tra interesse pubblico ed interesse privato, orientandola verso gli scopi di trasparenza, imparzialità, alta credibilità istituzionale della funzione. La descritta griglia di controlli elimina sul versante degli effetti i pericoli di deviazione istituzionale o di atipico esercizio delle attività imprenditoriali che sono potenzialmente connaturati a questa situazione.

Oltretutto, affidando tali poteri di controllo alle due anzidette Autorità indipendenti già funzionanti da anni e che garantiscono la più elevata competenza professionale e dignità costituzionale, si congegna un intervento che da un lato non può dirsi illegittimamente invasivo delle funzioni governative e dall’altro non può sospettarsi di insufficienza od inidoneità allo scopo. Non può dirsi illegittimamente invasivo perché i requisiti soggettivi dei componenti delle due Autorità indipendenti già esistenti, la loro altissima legittimazione funzionale, la peculiare collocazione ordinamentale in posizione di neutralità ed indipendenza d ogni pubblico potere, rendono compatibile questa forma di vigilanza con le prerogative costituzionali del governo e con l’autonomia ed indipendenza dell’attività di indirizzo politico, sensibile solo al vincolo fiduciario del Parlamento. Non può sospettarsi di debolezza od inidoneità allo scopo perché gli stessi requisiti e la stessa legittimazione si presentano come garanzia più che adeguata a livello di affermazione, pur solo formale,del principio di trasparenza ed imparzialità, nonché a livello di effettiva salvaguardia degli interessi del cittadino.

Una garanzia, quella offerta in questi anni dalle due Autorità di garanzia indipendenti anzidette, che non può essere offuscata da gratuiti commenti diretti a screditarle, svolti di recente da opinionisti che si mostrano ingenuamente ignari e colpevolmente disinformati della positiva opera svolta da queste due Autorità di garanzia già esistenti che, proprio per la credibilità che si sono conquistata in questi anni per l’opera svolta con assoluta indipendenza dal potere politico per assicurare il libero gioco degli interessi, hanno messo in evidenza le loro notevoli potenzialità, che offrono sicuro affidamento anche per l’attribuzione dei compiti di controllo e di vigilanza connessi alle esigenze legate al tema del «conflitto di interessi» (sulla positiva esperienza offerta dalle Autorità indipendenti e sulle loro potenzialità rinvio ai miei saggi: Caianiello, Le Autorità indipendenti tra potere politico e società civile, in Foro amm. 1997, fascicolo 1, pagina 1 e seguenti; Il difficile equilibrio delle Autorità indipendenti, in Il diritto dell’economia, 1998, fascicolo 2, pagina 239 e seguenti; Relazione al Seminario dell’Isae, del 14 novembre 2000, edizione dell’Istituto; cui adde: V. Caianiello, Profili pubblicistici della Commissione nazionale per la Società e la borsa, nella Rivista: Impresa, ambiente e pubblica amministrazione, Milano, Giuffrè, 1974, 195 e seguenti).

Il complesso impianto della proposta che fa leva sulla vigilanza ed il controllo da esercitarsi da dette Autorità, a ben vedere, non lascia zone d’ombra e riesce a creare uno spartiacque, netto e visibile, tra l’interesse economico dell’uomo di Governo quale titolare di titoli partecipativi di società o di quote di rilevante interesse patrimoniale e l’interesse pubblico di cui egli diviene portatore quale titolare delle funzioni di indirizzo politico e di coordinamento dell’attività ministeriale.

Infine, al punto e) si suggerisce l’inasprimento delle sanzioni che è in potere delle Autorità di irrogare. Un inasprimento giustificato dell’esigenza di scoraggiare al massimo possibile la commistione di interessi pubblici e privati che l’intervento legislativo intende prevenire. I destinatari di queste sanzioni sono necessariamente individuati nelle imprese che abbiano fruito, dall’alto verso il basso del favor governativo e, viceversa, in quelle che abbiano ingiustificatamente ed in modo squilibrato fornito sostegni sproporzionati all’azione di governo. È, invero, per ovvie ed intuitive ragioni, del tutto estraneo ai poteri delle due Autorità e difficilmente armonizzabile con il quadro dei rapporti istituzionali un potere sanzionatorio direttamente esercitabile nei confronti della personalità di Governo o della compagine governativa accusata di favoritismi, trattandosi di aspetti che investono esclusivamente il rapporto fiduciario Parlamento-Governo.

Dal pari, è opportuno rafforzare il naturale collegamento tra le Autorità ed il Parlamento mediante periodiche forme di comunicazione ed informative immediate nel caso di violazione del divieto di favorire interessi di parte.

Sulla base delle notizie fornitegli dalle due Autorità di garanzia, competerà esclusivamente al Parlamento, nel quadro del suo istituzionale rapporto fiduciario con il Governo, di assumere ogni iniziativa nell’esercizio della sua Sovranità.

(Prof. Vincenzo Caianiello)


Stampa il documento Clicca qui per segnalare la pagina ad un amico