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Articoli e note

n. 10/2008

FRANCESCO VOLPE
(Straordinario di diritto amministrativo
nell'Università di Padova)

La rinuncia al giudizio non vuole accettazione,
la dichiarazione di mancanza dell'interesse invece si.

È all'esame della Camera dei Deputati il disegno di legge 1441-bis-A intitolato “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”.

Esso, oltre a contemplare le importanti modifiche al codice del rito civile di cui oggi si parla in molte sedi, intende portare una piccola riforma anche al processo amministrativo, giacché il suo art. 59 – bis aggiunge un nuovo comma all'art. 9 della legge 205/2000: « Se, in assenza dell’avviso di cui al primo periodo, è comunicato alle parti l’avviso di fissazione dell’udienza di discussione nel merito, i ricorsi sono decisi qualora almeno una parte costituita dichiari, anche in udienza a mezzo del proprio difensore, di avere interesse alla decisione; altrimenti sono dichiarati perenti dal presidente del collegio con decreto, ai sensi dell’articolo 26, settimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034».

È una novità inutile e, per certi aspetti, poco gradevole.

È inutile perché, se il suo scopo è quello di alleggerire il carico di lavoro dei magistrati amministrativi, essa non lo raggiungerà. Basterà all'udienza far presente la sussistenza dell'interesse perché il giudice debba pronunciare sentenza sul merito. Se, invece, nessuna delle parti dichiarerà la sussistenza dell'interesse, il giudice, solo dopo l'udienza, pronuncerà la perenzione, ma nel frattempo egli avrà già dovuto studiare (per così dire: “a vuoto”) gli atti di causa.

La prassi delle udienze di “verifica interesse” già applicata in molti T.A.R. sembra, perciò, assai più efficace del suo recepimento di diritto positivo, oggi prospettato.

La prospettata riforma, però, è anche poco gradevole perché la nuova previsione contribuisce a consolidare l'idea che la sentenza del giudice amministrativo sia qualcosa di graziosamente ottriato.

Non solo il giudice amministrativo è arbitrariamente libero di fissare l'udienza di merito quando vuole; non solo il ricorso deve essere accompagnato dall'istanza di fissazione dell'udienza (sulla cui utilità sostanziale ci si dovrebbe interrogare); non solo dopo cinque anni l'istanza va ripetuta (e questa volta personalmente dalla parte; dal difensore solo se munito di nuova procura). Se il progetto di legge passerà, occorrerà anche ripetere in udienza che quella sentenza proprio s'ha da fare.

V'è poi da chiedersi se gli stessi magistrati amministrativi apprezzino che ci si rivolga a loro come fece la vedova della parabola (Lc, 18, 1-6); ché dal paragone con il giudice iniquo la loro reputazione nulla ha da guadagnare (“... et nolebat per multum tempus post haec autem dixit intra se et si Deum non timeo nec hominem revereor tamen quia molesta est mihi haec vidua vindicabo illam ne in novissimo veniens suggillet me...”).

Al di là di queste estemporanee considerazioni, che però illustrano come il legislatore si muova verso una direzione esattamente opposta a quella che dovrebbe essere intrapresa per assicurare al cittadino un'effettiva giustizia amministrativa, la norma produce alcune, probabilmente non considerate, conseguenze di carattere sistematico.

Sulla sua base emerge infatti che una qualsiasi delle parti costituite (quindi anche i controinteressati o la parte resistente e, perché no?, gli interventori) possono dichiarare il proprio interesse alla decisione della controversia. In tal caso, la controversia non andrà perenta.

È ben strana, per la verità, questa ipotesi di perenzione, collegata alla mancata dichiarazione dell'esistenza dell'interesse processuale, giacché essa sembra andare a sostituire quella, concettualmente diversa, sentenza che accerta, appunto, la sopravvenuta inesistenza dell'interesse.

Ma se, nella prospettiva data dal progetto di legge, la pronuncia di perenzione si sostituisce alla sentenza che nega l'interesse processuale, allora si ricava che la dichiarazione dell'inesistenza del medesimo interesse operata dal ricorrente non è, da sola, in grado di portare ad una sentenza di rito.

In altri termini, il ricorrente che faccia sapere al giudice di non coltivare più alcun interesse alla conclusione della controversia non sarà, per ciò solo, in grado di provocare la relativa decisione, perché occorrerà che a tale dichiarazione non si oppongano tutte le altre parti costituite, le quali pure, fino all'udienza di trattazione, potranno far presente il loro contrario e personale interesse alla decisione, così impedendo la pronuncia di perenzione e, per l'effetto (pare d'intendere), anche quella declaratoria del sopravvenuto difetto (giacché questa risulta sostituita dalla prima, nello schema indicato dal disegno di legge).

Il che equivale a dire che alla “perenzione” per difetto sopravvenuto di interesse si arriverà solo se vi è la sostanziale accettazione di tutte le parti in giudizio.

A questo punto, però, si pongono dei problemi di simmetria.

Stabilito, infatti, che la sentenza che accerti l'inesistenza dell'interesse è cosa diversa da quella che dia atto della rinunzia all'azione o agli atti del giudizio, nel processo amministrativo di legittimità (gravato dai ben noti termini di decadenza, quanto alla proposizione del ricorso) le conseguenze sono sostanzialmente le stesse. Tanto che, in alcuni T.A.R. (mi risulta anche presso lo stesso T.A.R. Lazio) vige la prassi secondo la quale la dichiarazione di rinunzia, presentata da un difensore non munito della relativa procura espressa, viene fino ad oggi “convertita” in una dichiarazione di sopravvenuta assenza di interesse.

Ma, nel processo amministrativo, la rinunzia è atto unilaterale del ricorrente (o di chi ha posto in essere l'atto a cui s'intende rinunziare) e non richiede, a differenza di quanto vale per il rito civile, accettazione.

Se il disegno di legge verrà approvato, davvero non si capisce, perciò, perché la dichiarazione di difetto d'interesse avrà bisogno della non opposizione delle altre parti in giudizio e la rinunzia no.

Il rilievo sarà, forse, marginale, ma evidenzia come talvolta si ponga mano a riforme processuali senza ben considerare la materia su cui si incide. Il che, poi, è la spiegazione del perché si fanno le riforme che non servirebbe fare e del perché non si fanno quelle che, invece, andrebbero fatte.


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