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Articoli e note

n. 3/2007 - © copyright

FRANCESCO VOLPE*

Atti negativi e tutela giurisdizionale

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Questo intervento - al pari di un altro, in corso di pubblicazione - non ha l’ambizione di portare un contributo interpretativo, perché è de iure condendo e riguarda la prospettiva di tutela che, secondo il mio parere, dovrebbe essere accordata contro l’atto negativo.

La prospettiva dalla quale intendo guardare al problema è quella del silenzio non significativo dell’Amministrazione.

È noto a tutti come, fino all’Adunanza Plenaria n. 8/1960, l’inerzia provvedimentale fosse equiparata ad un provvedimento di diniego. Si trattava di un artificio interpretativo (in un sistema giurisdizionale concentrato sull’impugnazione e sull’annullamento dell’atto), volto a garantire comunque una forma di tutela al cittadino. La sua fondatezza, però, si scontrava con argomenti di teoria generale («qui tacet neque dicit, neque negat, neque utique fatetur»).

La giurisprudenza (poi anche con le decisioni della Plenaria n. 4 e n. 10 del 1978) e la disciplina positiva (specialmente l’art. 6 della legge del 1971 sui ricorsi amministrativi) portarono ad abbandonare la fictio iuris del silenzio inteso come atto negativo.

Negli ultimi anni, l’introduzione dell’art. 21 , legge T.A.R., e dell’art.  2 (riformato) della legge sul procedimento amministrativo hanno reso di diritto positivo l’azione sull’accertamento dell’inadempimento dell’Amministrazione.

Potrebbe sembrare una rivoluzione copernicana e, in un certo senso, è stato così. Ma, per il vero, pare a me che tale rivoluzione non si sia ancora del tutto compiuta.

Infatti, escluso che il silenzio non qualificato sia un atto, occorre oggi riconoscere che non lo è neppure il rifiuto esplicito di provvedimento.

L’istituto dell’atto negativo, invero, è ostico e, per giunta, scarsamente affrontato dalla dottrina. L’unica monografia specifica, a quanto risulta, è ancora quella di LEDDA. Essa, tuttavia, è del 1964 e, forse, non ha del tutto risolto i problemi di inquadramento sistematico dell’atto negativo.

In particolar modo, la prospettiva secondo la quale l’efficacia del diniego si esaurirebbe nell’estinzione del dovere di provvedere (o di pronuncia) difficilmente pare idonea a spiegare non solo la natura provvedimentale dell’atto, ma la sua stessa consistenza quale atto giuridico.

Infatti, l’estinzione del dovere di pronunciarsi sembra doversi riconnettere al diniego inteso come fatto, anziché come atto giuridico; in ogni caso, tale estinzione non pare produrre effetti nei confronti di soggetti terzi rispetto alla stessa Amministrazione procedente.

Gli ulteriori modi di intendere l’efficacia del diniego ugualmente non risolvono i dubbi in merito al suo reale valore di atto giuridico.  Nel suo notissimo Manuale (purtroppo non più aggiornato), A.M. SANDULLI sosteneva che gli effetti dell’atto negativo vanno colti nel raggiungimento della sua inoppugnabilità. Ma questo ragionamento sottintende - pare a me - una petizione di principio: il diniego è idoneo a raggiungere l’inoppugnabilità solo se previamente si sia riusciti a dimostrare che esso è un atto. Di talché, la tesi finiva per far coincidere la causa con l’effetto.

In tempi più recenti, pertanto, DOMENICHELLI ha reputato che l’azione avverso il diniego di provvedere è in realtà un’azione dichiarativa, non costitutiva e di annullamento. Infatti, è stato sostenuto anche da chi scrive, se il diniego non è un atto giuridico, allora non è neppure possibile immaginare neppure che esso possa essere annullato. L’accertamento giudiziale dell’illegittimità del diniego, pertanto, farebbe rivivere il dovere di pronunciarsi solo perché detto dovere non è esattamente adempiuto dalla pronuncia negativa illegittimamente assunta. Il dovere, invece, non rivive sulla scorta di un (giuridicamente impossibile) annullamento di ciò che aveva portato alla sua estinzione.

E che il diniego, pur essendo una manifestazione di volontà, non sia un atto giuridico pare essere dimostrato anche dai seguenti rilievi. È atto giuridico, infatti, ciò che costituisce esercizio di un potere, vale a dire di una forza di produrre effetti giuridici. Ma il c.d. atto negativo lascia immutata la sfera giuridica del suo destinatario: non fa acquisire nuovi diritti né li estingue. Si è già detto, inoltre che l’estinzione del dovere di pronuncia non è conseguenza dell’essere atto, ma dell’essere fatto giuridico di adempimento.

Dunque, l’atto negativo non sembra essere un vero e proprio atto, né esso muta il patrimonio giuridico del privato.

Esattamente come non è un atto giuridico il silenzio dell’Amministrazione.

L’unica differenza tra i due istituti, dunque, sembra essere data dal fatto che, mentre nel caso di silenzio manca qualsiasi pronuncia dell’Amministrazione, con l’atto negativo, invece, tale pronuncia vi è pur stata.

Ma, se guardiamo alla necessità di tutela avvertita dal privato, è così diverso il caso in cui egli si trovi di fronte ad un’Amministrazione del tutto silenziosa, dal caso in cui l’Amministrazione abbia risposto alla domanda provvedimentale con un laconico «no» o abbia risposto con una motivazione insufficiente o pretestuosa?

Tanto nell’uno quanto nell’altro caso, l’Autorità, infatti, non ha realmente adempiuto al dovere di pronuncia. Tanto nell’uno quanto nell’altro caso, il cittadino si trova titolare di un «interesse pretensivo» (per usare la terminologia di NIGRO), rimasto non soddisfatto.

Sebbene dunque gli interessi sostanziali del privato, lesi dal silenzio e dal diniego, siano sostanzialmente gli stessi, la tutela giurisdizionale è tuttavia assai diversa.

Contro il silenzio è assicurato un rito assai rapido, che porta a sentenza nel volgere di pochi mesi e al quale è assicurata un’altrettanto rapida tutela «esecutiva»; al giudice, inoltre, è dato pure il potere (ancorché dagli incerti confini) di vagliare la fondatezza della domanda provvedimentale.  Contro il diniego, invece, vale l’ordinario processo «d’impugnazione», gravato dal termine decadenziale di sessanta giorni e dai lunghissimi tempi del processo di annullamento. Al giudice non è consentito di sindacare se la domanda provvedimentale sia oppure no fondata.

Sicché oggi, a differenza che nel passato, il privato deve augurarsi di trovare l’Amministrazione silenziosa, anziché negativamente pronunciantesi, perché contro il silenzio sono a lui assicurati rimedi giuridici più ampi che non contro il diniego.

Ecco perché se la rivoluzione copernicana, di cui si faceva cenno in premessa, dovesse compiersi integralmente, non ci si dovrebbe limitare a dire che il silenzio non è un atto, ma si dovrebbe arrivare ad affermare che anche il diniego di provvedimento non lo è.

Da lì, però, si dovrebbe giungere ad affermare che verso entrambe le fattispecie deve assicurarsi la medesima tutela giurisdizionale.

Non è qui il caso, di interrogarsi sulla fondatezza di un’eventuale questione di legittimità costituzionale (per violazione degli artt. 3, 24 e 113 Cost.) dell’art. 21 bis, legge T.A.R., nella parte in cui esso non riconnette la tutela contro il silenzio anche avverso le pronunzie amministrative di diniego. Il problema, benché forse non privo di rilievo giuridico, potrebbe essere più facilmente evitato se il legislatore provvedesse direttamente a tale equiparazione di tutela e favorisse quindi l’esperimento del breve rito consiliare anche contro gli atti negativi.

Si tratterebbe di una riforma, a mio modo di vedere, equa e che mi auguro che possa essere tenuta in considerazione.

Le peculiarità della contestazione del provvedimento negativo, del resto, non impedirebbero di adattare ad esso l’azione sul silenzio a mezzo di alcuni accorgimenti.

In ispecie, nulla osterebbe al mantenimento del termine decadenziale di sessanta giorni (in luogo del più lungo termine annuale, vigente nelle azioni contro il silenzio).

Ragioni sistematiche, in particolare, potrebbero opporsi a che il giudice possa conoscere la fondatezza della domanda provvedimentale.

Ma la celerità del rito avvantaggerebbe il privato istante e incoraggerebbe ad affrontare una tutela giurisdizionale altrimenti troppo lunga e destinata a concretizzarsi quando, il più spesso, il privato ha ormai deciso di trascurare l’intenzione di porre in essere quelle attività, anche imprenditoriali, per cui aveva richiesto all’Amministrazione di provvedere.


 

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(*) Straordinario di diritto amministrativo nella Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Padova.


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