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n. 11/2003 - ©
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ROLANDO VIVALDI e LUCA BUSICO (*)
Le collaborazioni coordinate e continuative nelle amministrazioni pubbliche
SOMMARIO: 1) Premessa. 2) I nodi problematici dopo l’intervento del legislatore fiscale. 3) Le prospettive. 4) Il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative nelle amministrazioni pubbliche. 5) L’esclusione delle amministrazioni pubbliche nella normativa di riforma del mercato del lavoro.
1) Premessa.
La normativa fiscale e previdenziale ha profondamente contribuito ad aumentare la confusione classificatoria e di gestione dei rapporti riconducibili alla collaborazione coordinata e continuativa.
Dapprima inquadrati nell’ambito del lavoro autonomo con una loro specifica modalità in ordine alla determinazione del reddito (ex art. 49, comma 2 lettera a) del Testo Unico delle Imposte Dirette), sono poi transitati nell’ambito del reddito assimilato a quello di lavoro dipendente (art. 34 della legge n. 342/2000, che ha inserito la lettera c-bis nell’ambito del 1 comma dell’art. 47 del Testo Unico).
Unici elemento di continuità: 1) la previsione della contribuzione previdenziale INPS prevista rispettivamente dall’art.2, comma 26 della legge 8 Agosto 1995 n. 335, contribuzione che, con la delega previdenziale (art.45), subirà ulteriori incrementi per i non iscritti ad altre gestioni previdenziali: 17,39% per il primo scaglione di reddito e 18,39% per i redditi superiori con la consueta ripartizione di 1/3 a carico prestatore e 2/3 a carico committente nonché l’estensione del regime previdenziale anche ai redditi occasionali sopra ai 5000 euro operata dall’art.44 del Decreto Legge n. 269/2003 in corso di conversione); 2) la previsione della contribuzione INAIL prevista dall’art.14, comma 2 del Decreto Legislativo 23 febbraio 2000 n. 38.
2) I nodi problematici dopo l’intervento del legislatore fiscale.
L’intervento del legislatore fiscale ha avvicinato il regime fiscale dei collaborazioni coordinate e continuative ai lavoratori subordinati (con significativi riflessi in ordine a vari regimi come quello delle trasferte e missioni, dei fringe benefit etc.) pur senza mutarne la natura civilistica di rapporti di lavoro autonomo. Tale natura “ibrida” delle collaborazioni (a cui la legge fiscale ha dato una parvenza di “subordinazione”) ha certamente favorito ed incentivato l’abuso del ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative per mascherare veri e propri rapporti di lavoro subordinato nonché ha prodotto evidenti contraddizioni all’interno dello stesso sistema fiscale e previdenziale.
Su quest’ultimo aspetto giova ricordare una stortura palese su cui le circolari dell’Agenzia delle Entrate hanno cercato di porre rimedio con interpretazioni non sempre convincenti: ci riferiamo al mai risolto contrasto tra la normativa in materia di I.V.A. e le nuove disposizioni di assimilazione del reddito dei collaboratori a quello dei lavoratori dipendenti.
L’art.5 della legge sull’I.V.A. (D.P.R. n. 633/1972), mai abrogato o modificato, dispone chiaramente che “non si considerano effettuate nell’esercizio di arti e professioni le prestazioni di servizi inerenti ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa…rese da soggetti che non esercitano per professione abituale altre attività di lavoro autonomo”.
Alla luce delle nuove disposizioni in materia di collaborazioni, invece, anche chi esercita abitualmente attività di lavoro autonomo può, contrariamente alla disposizione I.V.A., non attrarre il suo reddito – comunque prodotto – nell’ambito di quello professionale, ma trovarsi ad avere due modalità di tassazione dei suoi redditi: uno per l’attività professionale soggetto ad I.V.A., uno per la collaborazione non soggetto ad I.V.A. con evidenti complicazioni interpretative e gestionali nonché con una sequela di problematiche nei confronti della propria cassa di previdenza.
La circolare n. 105/E del 12 Dicembre 2001 dell’Agenzia delle Entrate, (riprendendo concetti già maturati nella precedente circolare n. 67 del 6 Luglio 2001) ha solo parzialmente risolto il problema, stabilendo che le anche talune collaborazioni “tipiche” (in relazione soprattutto alle attività di amministratore e sindaco di società) possono sfuggire all’ambito della ricomprensione nell’alveo dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente se l’albo professionale ne prevede l’esercizio o se comunque si dimostra che per svolgere quelle attività è necessario attingere alla professionalità ed alle cognizioni tecnico-giuridiche normalmente usate nella propria attività professionale (ad es. l’amministrazione di una società di ingegneria da parte di un ingegnere viene riassorbita nel reddito professionale). Il cambio di rotta, sia detto per inciso, ha posto non pochi problemi in ordine al rimborso dei contributi versati all’INPS ed all’INAIL e non dovuti alla luce della nuova ottica.
Ulteriori complicazioni legate alla perdurante natura autonoma del rapporto si sono viste in tema di imposta di bollo (no al bollo sul contratto, si al bollo sulla quietanza che è molto difficile da individuare in un rapporto che prevede l’emissione di un cedolino paga di solito mai firmato per ricevuta) e di cumulo tra redditi da collaborazione e pensione.
3) Le prospettive.
La confusione ed il mancato raccordo tra disciplina fiscale, civilistica ed amministrativa in tema di collaborazioni coordinate e continuative continua anche nelle più recenti evoluzioni legislative.
L’attuazione della delega in materia di occupazione e mercato del lavoro di cui alla legge 14 Febbraio 2003 n. 30 (c.d. legge Biagi), attuata con il Decreto Legislativo 10 Settembre 2003 n. 276, ha inciso profondamente nel settore stabilendo (art.61 del decreto attuativo) che “i rapporti di collaborazioni coordinata e continuativa….di cui all’art.409 n. 3 del codice di procedura civile devono essere riconducibili a uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con la organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa”: in tal modo le collaborazioni, se rispettano gli specifici requisiti, continuano civilisticamente a ricondursi nell’ambito del lavoro autonomo.
Nulla viene modificato invece per quanto riguarda il regime fiscale: si perpetua così quella “schizofrenia” normativa per cui civilisticamente il rapporto è di lavoro autonomo e fiscalmente continua ad inquadrarsi tra i redditi di lavoro assimilato al dipendente di cui all’art.47, comma1 lettera c-bis del Testo Unico (da considerare inoltre che in prospettiva la legge delega di riforma del sistema fiscale -legge n. 80/2003- ha genericamente disposto la riconduzione anche fiscale di questi redditi nell’alveo del lavoro autonomo comunque ancora di là da venire).
E’ comunque apprezzabile – come si dirà - la volontà di spezzare il legame tra le co.co.co. ed il lavoro subordinato mascherato, tanto che l’art.69 del decreto attuativo non ha bisogno di commento: “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa instaurati senza l’individuazione di un progetto, programma di lavoro o fase di esso ai sensi dell’articolo 61, comma 1, sono considerati rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato sin dalla data di costituzione del rapporto.”
Ma il mancato coordinamento tra le normative riverbera i suoi effetti su molti altri aspetti.
L’art.61, comma 2 del D.lgs. n. 276/2003 esclude poi dall’inquadramento come collaborazioni coordinate e continuative “le prestazioni occasionali, intendendosi per tali i rapporti di durata complessiva non superiore a trenta giorni nel corso dell’anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito non sia superiore a 5000 euro..”: tuttavia, per la valenza solo civilistica e giuslavoristica della disposizione, è dubbio che questa possa considerarsi come valida anche ai fini fiscali poiché nulla è mutato nella struttura normativa dell’art.81 lettera l) del TUIR che definisce i redditi occasionali come quelli “derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente”: si può quindi creare l’ulteriore paradosso di una prestazione di – ad. es.- 29 giorni che – avendo le caratteristiche della continuità e del coordinamento funzionale – è occasionale dal punto di vista della D.lgs. n. 276/2003 ma genera redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente ai sensi della legislazione fiscale, oppure – al contrario – un prestazione senza le caratteristiche della coordinazione e della continuità di – ad. es. – 6000 euro che sarà (probabilmente) una prestazione a progetto secondo il decreto delegato mentre costituirà reddito occasionale dal punto di vista fiscale.
Ulteriore elemento di problematicità è l’esclusione della Pubblica Amministrazione dall’applicazione delle disposizioni in oggetto, di cui ci occupiamo al punto 5).
Tra tante incertezze ci sono anche elementi chiarificatori: il comma 3 dell’art.61 si premura di precisare che le professioni intellettuali per l’esercizio delle quali è prevista l’iscrizione ad un albo professionale non possono mai configurarsi sotto forma di collaborazioni coordinate e continuative o prestazioni occasionali: ciò conferma la tradizionale posizione del Ministero delle Finanze – dettata ai fini I.V.A. – secondo cui l’iscrizione ad albo professionale è già di per se stessa indicativa di professionalità ed abitualità e necessita quindi di partita I.V.A. con conseguente emissione della fattura nell’ambito di un’attività di lavoro autonomo.
Su tutti questi aspetti è auspicabile un intervento chiarificatore dell’Agenzia delle Entrate con l’emanazione di specifiche circolari.
Si può quindi fondatamente affermare che non si è ancora compiuta quella unificazione e coordinamento tra i vari aspetti del problema, favorendo così, nell’ambiguità, la proliferazione dei comportamenti incongrui se non apertamente simulatori.
4) Il ricorso alle collaborazioni coordinate e continuative nelle amministrazioni pubbliche
Negli ultimi anni gli enti pubblici non si sono sottratti ad un ampio ricorso all’istituto della collaborazione coordinata e continuativa, anche per ovviare alla rigidezza delle piante organiche ed ai “blocchi delle assunzioni” disposti dalle ultime leggi finanziarie. Tale ricorso è avvenuto sulla base dell’art.7, comma 6 del decreto legislativo n. 165/2001 (il c.d. Testo unico dell’impiego pubblico) che dispone che “per esigenze cui non possono far fronte con personale in servizio, le amministrazioni pubbliche possono conferire incarichi individuali ad esperti di comprovata competenza, determinando preventivamente durata, luogo, oggetto e compenso della collaborazione”.
Dalla lettura della norma si evince chiaramente che le amministrazioni pubbliche devono in via generale provvedere con il proprio personale al perseguimento dei compiti istituzionali, al fine di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’azione amministrativa (art.97 Cost.), nonché la salvaguardia ed il contenimento della spesa pubblica. Proprio per non vanificare i suddetti principi, la norma sottopone il conferimento degli incarichi esterni ad una serie di rigorosi limiti, peraltro già da tempo individuati dalla costante giurisprudenza del giudice contabile.
La Corte dei Conti (cfr., ex multis, Corte Conti, Sez. I 18 gennaio 1994 n. 7 e 7 marzo 1994 n. 56; Sezioni Riunite 12 giugno 1998 n. 27; Sez. II 22 aprile 2002 n. 137; Sezione controllo enti, deliberazione n. 33 del 22 luglio 1994) ha ripetutamente affermato che il conferimento di incarichi esterni da parte delle amministrazioni pubbliche soggiace alla verifica della sussistenza di determinate condizioni:
1) la rispondenza dell’incarico agli obiettivi dell’amministrazione conferente;
2) l’impossibilità per l’amministrazione conferente di procurarsi all’interno della propria organizzazione le figure professionali idonee allo svolgimento delle prestazioni oggetto dell’incarico;
3) la specifica indicazione delle modalità e dei criteri di svolgimento dell’incarico;
4) la temporaneità dell’incarico;
5) la proporzione tra i compensi erogati all’incaricato e le utilità conseguite dall’amministrazione conferente.
La Corte dei Conti ha inoltre precisato che, nel caso in cui abbia a difettare anche una sola delle riferite condizioni, il conferimento dell’incarico sarebbe illecito e il compenso ad esso conseguente costituirebbe ingiusto depauperamento delle finanze dell’Ente (cfr. Sezioni Riunite, 12 giugno 1998 n. 27).
Alla luce della giurisprudenza del giudice erariale, si può affermare quindi che il ricorso sistematico da parte delle amministrazioni pubbliche alle collaborazioni coordinate e continuative costituisce violazione dei principi costituzionali di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa (art.97 Cost.) ed un aggiramento del principio di accesso alle amministrazioni pubbliche mediante concorso (artt.51 e 97 Cost.). A tal proposito risulta particolarmente appropriata l’affermazione contenuta nella deliberazione n. 33 del 22 luglio 1994 della Corte dei Conti, Sezione controllo enti, circa il fine di evitare che gli affidamenti di incarichi a terzi "si traducano in forme atipiche di assunzione". Parimenti appropriata risulta l’affermazione della Corte Costituzionale nella sentenza n. 1/99, secondo cui “in un ordinamento democratico - che affida all’azione dell’amministrazione, separata nettamente da quella di governo (politica per definizione), il perseguimento delle finalità pubbliche obiettivate dall’ordinamento - il concorso pubblico resta il metodo migliore per la provvista di organi chiamati ad esercitare le proprie funzioni in condizioni di imparzialità ed al servizio esclusivo della Nazione. Valore, quest’ultimo, in relazione al quale il principio posto dall’art.97 della Costituzione impone che l’esame del merito sia indipendente da ogni considerazione connessa alle condizioni personali dei vari concorrenti”.
5) L’esclusione delle amministrazioni pubbliche nella normativa di riforma del mercato del lavoro.
Le recenti normative di riforma del mercato del lavoro hanno escluso dal proprio ambito di applicazione le amministrazioni pubbliche.
La legge delega n. 30/2003 di riforma del mercato del lavoro all’art.6 prevede che “le disposizioni degli articoli da 1 a 5 non si applicano al personale delle pubbliche amministrazioni ove non siano espressamente richiamate”. Allo stesso modo l’articolo 1, comma 2 del D.lgs. n. 276/2003 attuativo della legge delega prevede che “il presente decreto non trova applicazione per le pubbliche amministrazioni e per il loro personale”.
Trattandosi di norme di recentissima emanazione, l’approccio interpretativo deve essere molto prudente.
Come è stato evidenziato in uno dei primi commenti (cfr. BELLAVISTA, Alcune considerazioni sulla legge n. 30/2003, in Il lavoro nella giurisprudenza 2003,706), la ragione di tale esclusione può essere ricondotta allo scopo espressamente dichiarato dell’intervento legislativo di aumentare il tasso di occupazione e favorire la crescita occupazionale. Nel settore pubblico, che è caratterizzato da un eccesso di personale rispetto ai reali bisogni, non avrebbe senso pensare a misure volte ad ampliare il numero di occupati.
Dal punto di vista sistematico emerge una inversione di tendenza rispetto alle riforme legislative dell’ultimo decennio sul pubblico impiego, che si sono sviluppate secondo il percorso della trasposizione al lavoro pubblico delle norme e degli istituti del lavoro privato, ivi compresi quelli relativi ai contratti di lavoro flessibile o atipici. Infatti l’art.36, comma 1 del D.lgs. n. 165/2001 dispone che le pubbliche amministrazioni si avvalgono delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa. Risulta pertanto difficile pensare che esisterà una regolamentazione differenziata delle collaborazioni tra la P.A. ed il restante mondo del lavoro, altrimenti, come è stato evidenziato nei primi commenti (cfr. ZOPPOLI, La subordinazione tra persistenti di eguaglianze e tendenze neo-autoritarie, sul sito internet www.unicz.it/lavoro e SANTUCCI, Contrattazione collettiva e lavori flessibili nelle pubbliche amministrazioni, in Dir. Rel. Ind. 2003,114) si profilerebbero dubbi di legittimità costituzionale in relazione all’articolo 3 della Costituzione.
Di tale incongruenza in qualche modo ha avuto sentore anche il legislatore, prevedendo all’art.86, comma 8 del D.lgs. n. 276/2003 che “il Ministro per la funzione pubblica convoca le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche per esaminare i profili di armonizzazione conseguenti alla entrata in vigore del presente decreto legislativo entro sei mesi anche ai fini della eventuale predisposizione di provvedimenti legislativi in materia”.
Occorre infine evidenziare che l’art.11 del disegno di legge finanziaria per il 2004 sembra contenere una possibile estensione della collaborazione a progetto come configurata nella L. n. 30/2003 e nel D.lgs. n. 276/2003 anche al settore pubblico.
(*) Funzionari dell’Ufficio Legale e Tributario dell’Università di Pisa.
Premesso che le opinioni espresse nel presente articolo sono state elaborate e condivise da entrambi gli autori, si precisa che la stesura dei paragrafi 2 e 3 è stata curata da Rolando Vivaldi, mentre quella dei paragrafi 4 e 5 da Luca Busico.