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Articoli e note

n. 2/2007 - © copyright

Massimo G. Urso

La natura giuridica delle società partecipate
dagli enti pubblici e la disciplina applicabile

Conseguenze sul cd. decreto Bersani e sul disegno di legge
governativo di riforma dei servizi pubblici locali

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SOMMARIO: 1. La natura giuridica delle società partecipate da enti pubblici. 2. La giurisdizione della Corte dei conti sugli amministratori delle società pubbliche. Profili critici. 3. La disciplina applicabile alla società di proprietà pubblica. 3.1. La natura giuridica degli atti di nomina e di revoca dell’amministratore e del rapporto tra l’ente pubblico e il suo rappresentante. 3.2 Autonomia statutaria, modelli di governance e controlli. 3.3. La riforma della legge n. 241 del 1990 e la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004. 3.4. L’affidamento degli appalti sotto-soglia da parte delle società pubbliche. 4. Il requisito della prevalenza dell’attività, la extraterritorialità e il cd. decreto Bersani. 5. Conclusioni e cenni al disegno di legge governativo in materia di servizi pubblici.

1 . La natura giuridica delle società partecipate da enti pubblici

La soluzione dei problemi finanziari e di efficienza delle pubbliche amministrazioni viene sempre di più affidata all’utilizzo del modello di gestione dei servizi in società di capitali, sul presupposto che il modello dell’impresa commerciale sia la panacea di tutti i mali della burocrazia pubblica [1]. Si ritiene comunemente che il modello privatistico garantisca il più agevole perseguimento degli obiettivi di economicità ed efficienza, grazie al connaturale scopo di lucro della società commerciale [2] ed alla maggiore flessibilità gestionale. Il successo dello strumento della società di capitali, che ha soppiantato nella prassi gli altri modelli gestori previsti dalla normativa [3], anche grazie al favor che il legislatore ha mostrato [4]  (almeno fino al cd. decreto Bersani che sembra aver invertito la rotta [5]), giustifica l’approfondimento dei temi relativi alla natura giuridica delle società in esame, con un accenno alla complessa questione della disciplina applicabile.

Particolare interesse conserva l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale che ha caratterizzato la nota e ampiamente dibattuta questione della natura giuridica delle società di gestione dei servizi, nonostante le tendenze dottrinali e giurisprudenziali attuali sembrano spingere verso la valorizzazione degli aspetti sostanziali e dell’attività rispetto a quelli formali e della veste giuridica adottata.

Si vedrà, infatti, come parte della dottrina e della giurisprudenza qualificano le società in esame (in particolare le società interamente pubbliche) come veri e propri enti pubblici, mostrando di non ritenere affatto superata la questione della loro natura giuridica [6]; ma, soprattutto, si vedrà come la natura giuridica privata, unitamente alla disciplina applicabile per volontà legislativa, rappresentino elementi fondamentali ai fini della risoluzione dei problemi che l’utilizzo di questo strumento indubbiamente pone [7].

La dottrina ha, infatti, in più occasioni evidenziato come la figura dell’ente pubblico, con tutto ciò che ne segue in termini di applicabilità della normativa e degli istituti pubblicistici, non sia incompatibile con la veste giuridica di società di capitali attribuita ad un soggetto. Sulla scia dell’impostazione “sostanziale” di matrice comunitaria, che influenza fortemente la giurisprudenza, alcuni autori sono propensi a dare prevalenza a quella che viene considerata la reale natura del soggetto giuridico piuttosto che alla struttura formale utilizzata. In questo senso è comunemente accettata la cd. neutralità del modello societario rispetto alle finalità perseguite e parte della dottrina  si esprime nel senso dell’ammissibilità di enti pubblici organizzati in società di capitali.

A questo punto il problema si è spostato sui requisiti della pubblicità, i quali vengono individuati, innanzi tutto, nella proprietà pubblica di almeno la maggioranza delle azioni o delle quote, fattore, tuttavia, considerato insufficiente, richiamandosi gli ulteriori e necessari caratteri della “indisponibilità del fine e, quindi, dell’esistenza della figura soggettiva” [8]. Altri Autori legano la natura pubblica al possesso dell’intero pacchetto azionario e, quindi, alle ipotesi di società in house, pur senza trarne la naturale conclusione in ordine alla disciplina applicabile [9], mentre altri, pur accettando l’idea della società – ente pubblico, la considerano un fenomeno eccezionale, da circoscrivere ai casi in cui emerga una chiara scelta del legislatore [10].

Anche in giurisprudenza la questione è stata ampiamente dibattuta. La Corte di Cassazione è stata tradizionalmente diffidente nei confronti della pubblicizzazione delle società di capitali partecipate da soggetti pubblici [11], anche se di recente ha mostrato delle aperture [12]; lo stesso può dirsi della giurisprudenza amministrativa più remota, la quale si è più volte espressa nel senso della natura privata delle società partecipate da soggetti pubblici, le quali per comodità verranno chiamate in questo scritto “società pubbliche” [13].

 Un sommario excursus, tuttavia, non può che partire da quello che è considerato il “leading case” affrontato dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 1990 [14]. In questa importante decisione prende corpo la tesi cd. privatistica, la quale si fonda sulla sufficienza ed indispensabilità del provvedimento concessorio ai fini della pubblicità, con la conseguente giurisdizione del giudice degli interessi legittimi. Soltanto il concessionario, in quest’ottica, in quanto “organo indiretto” [15] della p.a. e investito di pubbliche funzioni, emana atti amministrativi e presenta profili nettamente pubblicistici. In caso di assenza di tale provvedimento, pertanto, la natura giuridica privatistica della società che gestisce il servizio non subisce alcuna modificazione e la competenza non può che radicarsi nel giudice dei diritti soggettivi.

Questa impostazione, tenuta ferma per quasi un decennio [16],  non ha trovato concorde il Giudice amministrativo, il quale si è ben presto dissociato. Il Consiglio di Stato [17], infatti, traendo spunto e sostegno dalle statuizioni pronunciate dal Giudice delle leggi in una nota decisione del 1993 [18], pur richiamando, senza contestarlo, il costrutto basato sulla natura di organo indiretto del concessionario, sembra sganciare la valutazione sulla pubblicità da quest’ultimo presupposto, fondando la natura pubblica sul permanere in capo alla società della funzione di cura di “rilevanti interessi pubblici” ed ergendo ad elemento centrale del fenomeno le “funzioni” rimaste inalterate.

L’esigenza di affrancarsi dalla concessione, presente embrionalmente nella citata decisione, viene successivamente affermata senza tentennamenti in un successivo arresto del 1998 [19], seguito dalle successive pronunce [20]. In estrema sintesi il supremo organo della giustizia aministrativa, richiamando una precedente pronuncia del 1996 [21], abbandona il riferimento al provvedimento concessorio e al concetto di organo indiretto (considerato “improprio”) per la risoluzione dei problemi di pubblicità delle società in esame, affidandosi al concetto di organismo di diritto pubblico coniato dal diritto comunitario e confermando che ciò che rileva è “la verifica della struttura e delle attività” esercitate dalle società pubbliche [22].

A seguito dell’evoluzione giurisprudenziale, cui si è fatto cenno, la Cassazione si è avvicinata alle posizioni del Giudice amministrativo, anche se non in modo chiaro ed esplicito, dapprima con due timide pronunce del 1998 [23], poi con successive decisioni del 1999 [24] - alcune delle quali oscure nella motivazione [25] -, per giungere nel 2000 alla conclusione finale che, a seguito dell’emanazione del d. lgs. n. 80/1998, che individua la giurisdizione “indipendentemente dalla natura pubblica o privata del soggetto coinvolto” - essendosi spostato il criterio discriminante dal soggetto all’oggetto -, il conflitto tra la stessa Cassazione e il C.d.S. può considerarsi “sfumato se non addirittura superato” [26].

Alla luce della “epocale” [27] decisione della Corte Costituzionale n. 204/2004 [28], tuttavia, la questione del riparto di giurisdizione ha trovato una soluzione nel criterio basato sulla natura del potere esercitato dalla p.a., con importanti riflessi, come vedremo, anche sul tema affrontato in questo scritto.

Parte della dottrina ha, tuttavia, evidenziato dubbi e perplessità sulle scelte della giurisprudenza, la quale viene accusata di reagire al diffuso utilizzo degli strumenti privatistici per perseguire interessi pubblici con una complessa “riqualificazione pubblica” di tali soggetti, al fine di poter applicare la relativa disciplina pubblicistica. Si è pertanto, proposta una verifica caso per caso di quale normativa indirizzata alle p.a. sia applicabile alle società pubbliche “sulla base delle finalità perseguite e degli interessi tutelati” [29]. Altra dottrina si esprime in termini di “variabilità del regime giuridico applicabile alla medesima persona giuridica”, nel senso che la disciplina applicabile non dipende dalla natura giuridica del soggetto ma “dai caratteri giuridici della fattispecie” [30].

Le osservazioni critiche della citata dottrina, seppur non completamente soddisfacenti per la indeterminatezza dei criteri suggeriti, inducono ad alcune, seppur succinte, riflessioni.

Se il legislatore ha previsto esplicitamente la possibilità per gli enti pubblici di utilizzare gli strumenti privatistici per il perseguimento degli interessi di cui sono portatori, in alternativa alla gestione diretta o all’utilizzo di strumenti più marcatamente pubblicistici, come l’azienda speciale o l’ente pubblico economico, ciò evidentemente ha fatto con lo scopo di far penetrare nel pubblico strumenti e mentalità privatistiche [31].

In altre parole, non ha alcun senso riconoscere tale possibilità (ad onor del vero poco discussa, anche in virtù della generale capacità di diritto privato riconosciuta in capo agli enti pubblici da giurisprudenza costante, ex art. 11 del codice civile [32]) e poi annullare ogni differenza pretendendo l’applicazione sostanzialmente senza limiti della disciplina pubblicistica [33].

Ed ancora, se il legislatore ha sentito la necessità di estendere in modo esplicito ai soggetti in esame alcune specifiche norme indirizzate agli enti pubblici, per esempio in materia di accesso agli atti [34] o di dichiarazioni sostitutive [35], non può che trarsi la conseguenza che negli altri casi l’estensione della disciplina pubblicistica non dovrebbe così facilmente avvenire, se non privando di ogni significato queste previsioni legislative.

 D’altronde la dottrina tradizionale si è ben guardata dal considerare pubblici i soggetti privati esercenti pubbliche funzioni (disconoscendo spesso la loro qualificabilità come organi indiretti [36]), negando tale natura pubblica, in particolare per le società a partecipazione pubblica [37].

 Perplessità solleva, altresì, il richiamo della giurisprudenza ad istituti del diritto comunitario,  come l’organismo di diritto pubblico [38],  al fine di risolvere questioni che nulla hanno a che vedere con le ipotesi in cui il legislatore ha previsto queste figure – in particolare le procedure di scelta del contraente negli appalti di lavori, forniture e servizi -[39]. In particolare suscita dubbi quella giurisprudenza che pretenderebbe di ricavare dalla qualifica di un soggetto come organismo di diritto pubblico “un effetto più ampio di assoggettamento alle regole di evidenza anche per le procedure sottosoglia, con gli intuibili precipitati in tema di giurisdizione esclusiva del G.A.” [40].

 

2.La giurisdizione della Corte dei conti sugli amministratori delle società pubbliche. Profili critici.

Altrettanti dubbi suscita anche la completa estensione della giurisdizione della Corte dei conti sull’attività di gestione delle società partecipate, attuata dalle S.U. della Cassazione con la nota decisione del 2004 [41], questione che meriterebbe ben ampio approfondimento sulla compatibilità di questa svolta (sempre che possa essere considerata tale [42]) con la normativa costituzionale, con la natura privata delle società in esame e con le scelte del legislatore.

La dottrina ha, infatti, evidenziato i seguenti punti critici della controversa questione in esame: a) L’art. 103, secondo comma, della Costituzione non sembra poter supportare tale estensione di competenza, in assenza di una espressa previsione normativa; b) la necessità di rispettare il principio di legalità, in quanto il d.l. n. 47 /1995, che attribuiva espressamente alla giurisdizione della Corte dei conti le controversie per i danni causati da componenti di organi di amministrazione e controllo, nonché da funzionari e dipendenti degli enti pubblici economici e delle società sulle quali lo stato esercita il controllo in ragione della partecipazione sociale, non ha superato il vaglio parlamentare, nonché in virtù della scelta del legislatore del codice civile di assoggettare le società pubbliche alla medesima disciplina di quelle private, fatta eccezione per le deroghe di cui agli artt. 2449-2450 c.c. [43]; c) l’eccessiva dilatazione della nozione di “rapporto di servizio”.

La giurisprudenza contabile, sostenuta da una parte della dottrina [44], evidenzia, tuttavia, che l’impostazione restrittiva risulta ormai superata dal rilievo centrale assunto dall’“aspetto finalistico dell’attività” della società pubblica, tesa al soddisfacimento di bisogni di interesse generale, nonché dall’esigenza fondamentale di apprestare efficaci rimedi a tutela del patrimonio pubblico [45]. In altre decisioni il giudice contabile richiama l’art. 7 della legge n. 97/2001, che impone di comunicare al Procuratore regionale della Corte dei conti le sentenze penali pronunciate contro dipendenti e amministratori di enti a prevalente partecipazione pubblica, desumendone un indirizzo legislativo favorevole a riconoscere la responsabilità contabile nei confronti dei soggetti degli organi delle società pubbliche, almeno in ordine alle fattispecie penalmente rilevanti

Dall’esame della citata giurisprudenza emerge il desiderio del giudice contabile di sganciare la responsabilità dei soggetti in esame dal criterio del rapporto di servizio, individuando nella natura pubblica delle risorse finanziarie il presupposto della giurisdizione contabile [46].

L’orientamento estensivo non sembra, tuttavia, definitivamente consolidato, anche nell’ambito della stessa giurisprudenza contabile, la quale si è talvolta espressa ancora nel senso che l’attività d’impresa degli enti pubblici economici o delle aziende municipalizzate “deve essere intesa  come quella strettamente diretta al trasferimento di beni ed alla prestazioni di servizi, quella cioè che può essere riguardata come manifestazione di attività economica e che è effettivamente sottratta alla cognizione di questo giudice” [47].

Ad onor del vero la giurisprudenza non ignora questi problemi, ma, al fine di superare le obiezioni di incostituzionalità – soprattutto in ordine alla giurisdizione esclusiva in materia di appalti pubblici, che cozzerebbe con l’art. 103 Cost., il quale delimita la giurisdizione amministrativa con l’inciso “per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione”- accoglie una nozione di pubblica amministrazione “oltre modo allargata <<idonea a comprendere, limitatamente a quelle attività sottoposte a particolare regime pubblicistico, anche soggetti formalmente privati>>”[48].

A ben vedere, la ricostruzione in chiave pubblicistica del fenomeno delle società in mano pubblica attuata dalla giurisprudenza risulta scarsamente compatibile anche con la teoria dell’ente pubblico. La dottrina e la giurisprudenza hanno ampiamente discusso in ordine al criterio guida al fine di individuare l’ente pubblico, in particolare nei casi dubbi. Partendo dalla teoria del fine pubblico, che individuava la caratteristica dell’ente pubblico nella presenza di un fine istituzionalmente pubblico, la giurisprudenza ha successivamente adottato il noto criterio dei cd. indici di riconoscibilità, in base al quale la natura pubblica di un soggetto emerge dalla presenza di alcuni indizi, tra i quali la presenza di “poteri d’impero”, l’essere stato istituito da un ente pubblico e la sottoposizione a controlli pubblici.

La dottrina e la giurisprudenza hanno evidenziato, tuttavia, i limiti delle due teorie, poiché anche in soggetti indiscutibilmente privati si possono trovare gli indici di riconoscibilità della pubblicità, nonché enti pubblici e privati possono presentare fini analoghi. Superate (ma non in modo definitivo, almeno per quanto attiene il criterio degli indici di riconoscibilità) le teorie sopra esposte, si affaccia la tesi del rapporto di servizio, la quale si fonda sulla natura degli interessi di cui risulta portatore l’ente, che devono far emergere un rapporto di servizio di diritto pubblico tra il soggetto la cui natura è discussa e l’ente pubblico.

Da ultimo la dottrina e la giurisprudenza hanno spesso accolto un criterio fondamentale e ancora attuale ai nostri fini: l’ente pubblico è quello qualificato come tale dal legislatore. A ben vedere trattasi del criterio maggiormente compatibile con la riserva di legge costituzionale in materia di organizzazione di cui all’art. 97 Cost, nonché con il chiaro disposto dell’art. 4 della l. 20 marzo 1975 n. 70, il quale recita : “Nessun nuovo ente pubblico può essere istituito o riconosciuto se non per legge”. Da ciò deve trarsi la conseguenza che l’ordinamento intende riservare il compito di individuare la presenza di un ente pubblico solo ed esclusivamente al legislatore, anche al fine di evitare il fenomeno della proliferazione di enti pubblici, diffuso in passato. Si tenga, altresì, conto del fatto che, anche quando la dottrina fa riferimento agli indici di riconoscibilità, essa riconosce che “l’indice per antonomasia (e indiscutibile)” è la qualificazione normativa [49].

In conclusione : se la legge mette a disposizione di un ente pubblico la possibilità di avvalersi di uno strumento di diritto privato, quale la società di capitali, proprio al fine di sfruttarne la flessibilità gestionale, non sembra ragionevole pubblicizzare tale soggetto sulla base dei fini, degli interessi o della natura dell’attività prestata, ignorando la volontà legislativa.

D’altronde, se è diffusa l’opinione in base alla quale l’indagine sulla natura di ente pubblico di un soggetto giuridico trova “l’unico limite ermeneutico nell’espressa qualificazione legislativa della pubblicità dell’ente” [50], non si vede come questo limite possa non operare nel caso di chiara opzione legislativa o amministrativa (supportata dalla previsione normativa) verso l’utilizzo di uno strumento privatistico, come la società di capitali.

Come vedremo, deve essere riconosciuto un significato logico, oltre che giuridico, alla tendenza del legislatore ad abbandonare le figure dell’ente pubblico economico e dell’azienda speciale a favore della società di capitali. Se il legislatore ha deciso di superare lo schema degli enti pubblici economici, i quali, come si è rilevato, “ormai non hanno quasi più dei tratti pubblicistici” [51], favorendo l’utilizzo delle società di capitali, ciò non può avere altro significato che quello di voler affrancare da qualsivoglia forma di pubblicità l’esercizio dei servizi pubblici sotto forma societaria[52] (fatte salve, naturalmente, le eccezioni legislativamente previste), anche al fine di superare i problemi di politicità indotta (le ingerenze dei politici nella gestione dirette a piegare il soggetto privato a fini di parte).

Delle due l’una: o si ritiene che la società in mano pubblica conservi quei residuali aspetti pubblicistici che caratterizzano l’ente pubblico economico [53]  (ma non si comprenderebbe più la differenza tra i due modelli) o si deve dare un senso alla scelta legislativa di superare l’utilizzo del modello dell’ente pubblico economico (e, quindi, dell’azienda speciale) a favore della società pubblica, con tutto quello che ne segue in termini di disciplina applicabile[54].

 

3. La disciplina applicabile al soggetto privatistica di proprietà pubblica. 3.1. La natura giuridica degli atti di nomina e di revoca dell’amministratore e del rapporto tra l’ente pubblico e il suo rappresentante.

In ordine alla disciplina applicabile alle società in esame, un cenno merita l’importante questione, più volte esaminata dalla dottrina e dalla giurisprudenza, della natura giuridica dell’atto di revoca dell’amministratore di nomina pubblica, anche per gli importanti riflessi sugli effettivi poteri del socio pubblico rispetto agli amministratori e alla società.

In dottrina troviamo sostenute le tesi opposte: per l’opinione tradizionale tale atto si deve inquadrare in un ottica pubblicistica, sulla scorta del rapporto fiduciario che si instaura tra l’ente pubblico e l’amministratore della società; quest’ultimo viene considerato un funzionario pubblico, coerentemente con il riconoscimento della natura pubblicistica dell’atto di nomina. Altri autori, invece, prediligono una visione privatistica, anche sulla scorta dell’art. 2458, ult. comma, c.c., che equipara, quanto a diritti e doveri, gli amministratori di nomina pubblica a quelli di nomina assembleare [55]. La conseguenza della qualificazione del rapporto tra amministratore di nomina pubblica ed ente pubblico in termini di preposizione organica e di relazione fiduciaria, presente nella tesi pubblicistica ed in quella intermedia, comporta come naturale conseguenza il potere per l’ente locale socio di indirizzare l’attività della società mediante l’emanazione di direttive vincolanti [56].

La giurisprudenza sembra propendere verso la soluzione codicistica ed ha riconosciuto la natura di “atto essenzialmente privatistico” alla revoca dell’amministratore, sulla base della considerazione che nella fattispecie manca il potere pubblico (che si fonda sulla legge, mentre nel caso specifico tale potere si fonda su una disposizione pattizia) e con l’atto in esame non si realizza la cura di un interesse pubblico, non senza supporto dottrinale [57].

Si tratta di una impostazione degna di attenzione, anche perché, ragionando diversamente, non si comprenderebbe il motivo per il quale il legislatore ha sentito il bisogno di estendere lo spoil system alle nomine degli organi di vertice e dei componenti dei consigli di amministrazione delle società controllate o partecipate dallo Stato effettuate nei sei mesi precedenti la scadenza della legislatura [58], in quanto, secondo l’ottica fiduciaria, in qualsiasi momento l’organo politico può far cessare tale rapporto [59]. Pur non disconoscendo i profili di difficoltà per l’ente pubblico nella efficace tutela dell’interesse pubblico, non possono essere ignorate le ragioni dell’impostazione privatistica fondate sull’esigenza di garantire l’autonomia dell’amministrazione societaria e sulla coerenza con le regole del modello gestionale societario scelto (e non imposto), in particolare per quanto attiene la revoca degli organi di controllo di nomina pubblica, la quale andrebbe sottoposta alle verifiche dell’A.G. previste dall’art. 2400 c.c., al fine di garantirne l’imparzialità [60].

Non mancano, tuttavia, le voci critiche, le quali temono, nell’ottica pubblicistica accennata, che la configurazione privatistica abbasserebbe i livelli di tutela dell’amministratore in caso di revoca, a causa dell’impossibilità dell’annullamento dell’atto di revoca da parte del Giudice ordinario e che i poteri decisionali dei vertici politici sarebbero estesi “oltre misura”, ampliando l’ambito del merito e dunque l’insindacabilità della scelta [61]. Nella giurisprudenza amministrativa più recente, infatti, sono presenti decisioni orientate a riconoscere in materia la vigenza dei principi pubblicistici, in particolare per quanto attiene le norme sul procedimento amministrativo, riconoscendo la “forte componente fiduciaria” che caratterizzerebbe le nomine dei rappresentanti comunali e provinciali in Enti, Aziende ed Istituzioni ed il conseguente ampio potere, altamente discrezionale, in capo all’ente pubblico socio nella nomina e nella revoca del rappresentante [62].

La preferenza per la sottoposizione della materia alla disciplina giuridica civilistica dello strumento prescelto dalla p.a. comportano che l’amministratore di nomina pubblica è tenuto a difendere gli interessi dell’ente pubblico socio soltanto nel caso in cui coincidano con l’oggetto sociale e in caso di conflitto sarà tenuto ad astenersi o a dare prevalenza all’interesse della società, pena la responsabilità per danni e quella contabile, soprattutto nella s.p.a. [63]. Gli amministratori sono, pertanto, i soggetti titolari e responsabili della gestione aziendale, ai quali, come si è visto, è possibile indirizzare atti di indirizzo o “direttive confidenziali del capitale di comando”, senza che, tuttavia, essi possano ritenersi in alcun modo vincolati dal punto di vista giuridico, anche se è verosimile ritenere che non potranno ignorarli, pena la mancata riconferma o la revoca dell’incarico, coerentemente con la regola generale vigente in materia di società private, salvo il diritto al risarcimento del danno in assenza di giusta causa [64], ex art. 1383 comma 3 c.c. [65]. A maggior ragione l’amministratore societario non dovrà adeguarsi a direttive che contrastino con l’interesse societario

A ben vedere, la posizione degli amministratori della società non è così debole come si potrebbe pensare a prima vista, in quanto l’organo politico che revochi ingiustamente l’amministratore  arrecherà un danno all’ente derivante dall’obbligo del risarcimento del danno a favore del soggetto revocato, comportamento che potrà essere sanzionato dalla Corte dei conti in sede di verifica del relativo debito fuori bilancio.

Non dovrebbero, poi, porsi problemi per l’applicabilità  dell’art. 2476 c.c., attesa l’equiparazione tra amministratori di nomina pubblica e di nomina assembleare [66].

3.2 Autonomia statutaria, modelli di governance e controlli.

In materia di società pubbliche è opportuno che l’ente pubblico socio faccia buon uso dell’autonomia statutaria riconosciuta, in particolare, dal legislatore del 2003, in ordine alle società a responsabilità limitata, soprattutto per quanto concerne i controlli. L’art. 2477 c.c., infatti, lascia all’atto costitutivo la facoltà di prevedere la nomina di un collegio sindacale o di un revisore, fatte salve le ipotesi di cui ai commi 2° e 3° del medesimo articolo in cui la costituzione dell’organo di controllo è obbligatoria.

La delicatezza della questione è intuitiva, in quanto da un lato sono in gioco interessi e risorse pubbliche e dall’altro vengono meno i normali controlli politici ed amministrativi esercitati in seno all’ente locale dal Consiglio comunale e dagli organi del controllo interno (revisori dei conti,  controllo di gestione, controllo amministrativo e, per certi aspetti, nucleo di valutazione).

E’, pertanto, opportuno che si valuti attentamente la possibilità di prevedere gli organi di controllo interno (collegio sindacale o, nelle società di minori dimensioni, il revisore unico), soprattutto nelle s.r.l. che hanno un capitale vicino a quello della s.p.a., anche in considerazione del fatto che queste società sono a rischio di sopravvivenza, per le influenze politiche che subiscono i loro amministratori.

Anche alla luce del ridimensionamento dei controlli esterni giudiziari (l’eliminazione dell’omologazione e la più ristretta possibilità di effettuare la denunzia di cui all’art. 2409) [67], solo parzialmente compensati dal controllo oggi riconosciuto in capo alla Corte dei conti (ancora tutto da sperimentare) e dai pur ampi poteri di controllo riconosciuti  ai soci [68], lasciare queste società prive di organi di controllo interno risulta alquanto sconveniente ed espone gli enti locali al rischio di dover ricostituire il capitale sociale con debiti fuori bilancio, ipotesi normativamente prevista ma di non semplice e scontata attuazione [69]. La giurisprudenza contabile ha, infatti, evidenziato che l’ente locale rimane il titolare del servizio e conserva l’obbligo giuridico di controllare l’operato degli amministratori, la cui omissione può produrre responsabilità erariale nei casi di cattiva gestione [70].

Per gli stessi motivi alcuni propendono per il modello tradizionale o latino, in cui vi è una netta distinzione funzionale ed organica tra amministrazione e controllo e nel quale il collegio sindacale ha rivestito un ruolo centrale e fondamentale, tale da spingere a parlare di quest’organo come di “elemento naturale dei sistemi di controllo” [71].

Altri autori evidenziano, invece, gli aspetti positivi del sistema dualistico nel caso della società partecipata da enti pubblici, sostanzialmente individuati nella maggiore autonomia di cui godrebbe il consiglio di gestione rispetto all’ente locale socio, che nomina soltanto il consiglio di sorveglianza [72].

Altri ancora vedono nel sistema di governance di origine tedesca il modello più adatto alle società in esame, che consentirebbe ad un organo dotato di maggiori professionalità (il consiglio di sorveglianza) di rapportarsi in modo “più proficuo” con l’organo gestorio [73].

Poco adatto alla realtà delle società pubbliche appare il sistema monistico di ispirazione anglosassone, per la poco opportuna commistione tra la funzione gestoria e quella di vigilanza, anche se, dall’altra parte, si evidenzia la possibilità di mitigare i rischi con l’istituzione del sistema di controllo interno (previsto espressamente dal codice solo in questa ipotesi) e si evidenzia l’aspetto positivo del ruolo di partecipazione attiva dei controllori all’attività societaria [74]. Da rilevare, tuttavia, lo scarso successo riscosso dai due modelli di governance introdotti con la riforma nella prassi operativa di tutte le imprese [75].

3.3. La riforma della legge n. 241 del 1990 e la sentenza della Corte costituzionale n. 204 del 2004.

Un accenno deve, altresì, essere fatto ai commi 1-bis e 1-ter della legge 7 agosto 1990 n. 241 introdotti dalla legge 11 febbraio 2005 n. 15. Il comma 1-bis citato, con il prevedere che “La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente”, codifica un principio che farà molto discutere : l’attività non autoritativa della p.a. è normalmente regolata dalle norme di diritto privato, salvi i casi in cui la legge disponga diversamente. Al di là del valore rivoluzionario o meno del comma in esame [76], non si può disconoscere che il principio affermato appare tutt’altro che scontato [77] : è la legge a stabilire i casi in cui si debbano applicare le norme di diritto pubblico all’attività che non è espressione del potere amministrativo e nelle restanti ipotesi si applicano le norme del diritto privato. La norma citata assume, quindi, una importanza centrale al fine della risoluzione della questione in esame ed è difficile negare che il legislatore avesse proprio come scopo anche quello di risolvere i problemi di disciplina applicabile alle fattispecie oggetto di esame in questo scritto, come riconosciuto da autorevole dottrina in sede di primi commenti alla riforma della disciplina dell’azione amministrativa [78].

Ancora più interessante, infine, il comma 1 ter : “I soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative  assicurano il rispetto del principi di cui al comma 1” e cioè i principi di economicità, efficacia, pubblicità ed il neo introdotto principio di trasparenza, nonché i principi dell’ordinamento comunitario. In questa sede preme soltanto evidenziare che il legislatore: a) fa riferimento ai soggetti privati “preposti all’esercizio di attività amministrative”, cioè di rilievo pubblico [79]; b) estende a questi soggetti solo l’applicazione dei principi sopra esposti, implicitamente escludendo l’applicazione generalizzata di tutta la normativa pubblicistica [80].

Un richiamo merita, infine, la decisione della Corte Costituzionale n. 204/2004, in quanto, dall’esame della stessa, emerge un profilo poco esplorato e recentemente messo in luce, seppur in senso critico, dalla dottrina. Si è, infatti, rilevato che, da un attento esame della sentenza in esame, è possibile dedurre “l’asserita equivalenza tra la <<attività negoziale>> della pubblica amministrazione e la <<attività privatistica>> del comune operatore privato”[81].  Lo sfavore con cui il Giudice delle leggi vede l’attribuzione alla giurisdizione esclusiva di <<materie>> che prescindono dalla natura delle situazioni soggettive e l’affermata necessità della presenza, almeno come presupposto, del potere autoritativo, danno autorevole supporto alle osservazioni che il giudice a quo nel medesimo procedimento ha espresso ed, in particolare, sulla “tendenziale uguaglianza tra le parti nella fase successiva alla costituzione del vincolo, regolata dalle nome del diritto privato”. La presenza di diritti soggettivi e la competenza del Giudice ordinario  in ordine a fattispecie in cui non vi è esercizio di potere amministrativo portano alla normale conseguenza che, in questi casi, è il diritto privato a disciplinare i rapporti, fisiologicamente paritari, tra p.a. e privati.

Superata, pertanto, la fase di costituzione della società e di affidamento del pubblico servizio da parte del Consiglio comunale, si è di fronte a diritti soggettivi, le posizioni delle parti (ente territoriale e società pubblica) sono paritarie [82], la competenza è del Giudice Ordinario e i rapporti non possono che essere governati dal diritto privato[83]

4.4. L’ affidamento degli appalti sotto-soglia  da parte delle società pubbliche.

Nell’ottica privatistica non può che apparire fondato l’orientamento dottrinale e giurisprudenziale contrario all’applicazione agli appalti cd. sotto soglia delle regole previste per gli organismi di diritto pubblico che debbano aggiudicare appalti di valore superiore alla soglia comunitaria [84] (pur non mancando in giurisprudenza decisioni di segno opposto [85]), anche se non vi è dubbio che, in virtù del citato art. 1 comma 1 ter della legge n. 241/1990, è da ritenere che, se la società pubblica pone in essere attività amministrativa, si applicano i principi di pubblicità e trasparenza, nonché i principi dell’ordinamento comunitario, soluzione, a dire il vero, già sostenuta dalla dottrina anche in assenza della citata norma [86].

Il rispetto dei principi generali di non discriminazione, parità di trattamento e trasparenza non potrà, tuttavia, comportare l’applicazione integrale della normativa in materia di appalti sopra-soglia, pena l’eliminazione di ogni differenza tra l’agire delle p.a. e quello dei soggetti aventi natura giuridica privata [87], quantomeno per gli acquisti di importo modesto. Come parametro di un corretto bilanciamento degli interessi in gioco, nell’ipotesi di società pubblica che svolga attività amministrativa, potrebbe essere utilizzato il d.p.r. n. 384 del 2001, in materia di forniture e servizi in economia delle amministrazioni pubbliche, anche in considerazione del fatto che la recente giurisprudenza ha ritenuto le procedure suddette (tra le quali, per gli importi di modesto valore, è prevista anche la possibilità di effettuare affidamenti diretti) pienamente legittime [88]. Potrà essere valutata l’opportunità, oltre un certo importo, di prevedere forme di pubblicità della procedura (per esempio, pubblicazione all’Albo pretorio del Comune della lettera di invito) e di partecipazione anche delle imprese non espressamente invitate e in possesso dei requisiti, fissando regole precise e non discriminatorie per l’aggiudicazione degli appalti [89].

Per questi motivi è da condividere l’opinione dottrinale a giurisprudenziale che esclude l’applicazione della normativa pubblicistica per l’aggiudicazione degli appalti di valore comunitario agli appalti sotto-soglia banditi dalla società pubblica o mista, in considerazione del fatto che non esiste nell’ordinamento alcuna norma che preveda tale estensione [90], fatta eccezione per l’ipotesi in cui la società interamente pubblica decida di subaffidare in toto i lavori, le forniture o i servizi affidatigli in house.

Tuttavia la giurisprudenza più recente, come si è visto, sembra orientata nel senso opposto, affermando che “per i soggetti ordinariamente tenuti ad applicare la normativa nazionale e comunitaria nella scelta dell’altro contraente, il rispetto delle norme sull’evidenza pubblica è da intendersi regola generale, che vale quindi anche per gli appalti pubblici sotto soglia “ [91].

4. Il requisito della prevalenza dell’attività, la extraterritorialità e il cd. decreto Bersani.

Per quanto attiene il requisito della prevalenza dell’attività della società a favore dei soggetti proprietari, contenuto nell’art. 113 del d. lgs n. 267/2000, la dottrina propone di applicare, in via analogica, il principio sancito dal d. lgs. n. 158/1995, riconoscendo la rispondenza al modello legislativo “qualora l’80% della cifra d’affari realizzata derivi dalla fornitura di servizi ad essa affidati da parte degli enti locali titolari del capitale” [92].

E’ stato esattamente rilevato che il criterio dell’80% appare troppo rigido e non consente di valutare concretamente la situazione concreta, anche dal punto di vista qualitativo [93].

Il tema, allo stato della legislazione vigente a seguito del citato decreto Bersani, risulta superato dall’introduzione nell’ordinamento del cd. divieto della “extraterritorialità”, che non consente per il momento alle società pubbliche che godono di affidamenti diretti di aggiudicarsi – anche mediante gara – appalti di lavori, forniture e servizi banditi da enti non proprietari e, quindi, al di fuori del loro territorio. Si è richiamato tale criterio in quanto esso, in realtà, poteva rappresentare un sufficiente contemperamento delle esigenze societarie con i principi della concorrenza, come dimostra il fatto che esso nasce proprio nell’ambito della giurisprudenza comunitaria.

Sul tema della extraterritorialità, in verità,  la giurisprudenza amministrativa si era espressa in modo chiaro nel senso dell’ammissibilità, anche se a certe condizioni.

Talvolta il Giudice Amministrativo si è espresso in termini restrittivi, richiedendo che:

a) l’attività al di fuori del territorio di pertinenza da parte delle società pubbliche legate con un “vincolo teleologico al soddisfacimento dei bisogni della collettività locale” è subordinata alla dimostrazione che l’ampliamento della propria sfera di attività fosse finalizzato a soddisfare una specifica esigenza della medesima collettività, che non si traduca in un mero ritorno di carattere imprenditoriale, ritenendo non ammissibile tale estensione extraterritoriale se vi sia “una concreta incompatibilità con gli interessi della collettività di riferimento, determinata da una distrazione di risorse e mezzi effettivamente apprezzabile e realisticamente in grado di arrecare pregiudizio allo svolgimento del servizio pubblico locale”;

b) “le attività extraterritoriali della società mista non si traducano in pregiudizio e aumento di costi della collettività territoriale, in contrasto con i principi di efficienza e di equa misura di tasse e tariffe e che, dall’altro lato, la società mista, una volta immessa sul mercato, vi operi in condizioni di effettiva concorrenza e parità con gli imprenditori privati, senza costituzione di una situazione di privilegio derivante dalla possibilità di usufruire, in violazione delle norme comunitarie e nazionali sugli aiuti pubblici alle imprese, di una dote economico – finanziaria costituita da denaro pubblico e, dunque, in definitiva, a carico della collettività” [94].

Gli orientamenti giurisprudenziali citati suscitano alcune perplessità, cui si può solo accennare: 1) si attribuisce alla commissione di gara dell’Amministrazione aggiudicatrice (e al Giudice amministrativo in sede di verifica della legittimità del suo operato) un compito che spetta esclusivamente agli enti proprietari ed, eventualmente, alla luce degli orientamenti sopra esposti, alla Corte dei conti, cioè la prevenzione e la sanzione di comportamenti di cattiva gestione  della società; 2) si impone alle società partecipate dagli enti territoriali un onere aggiuntivo rispetto alle imprese private, questo sì lesivo del principio della parità di trattamento tra imprese pubbliche e private, sancito dall’ordinamento comunitario; 3) la normativa prevede già dei sistemi finalizzati ad evitare che le imprese possano aggiudicarsi le gare con eccessivi ribassi, che mettano in pericolo la qualità del servizio o dell’opera (si pensi alla disciplina sulle offerte anomale); 4) alla luce della citata decisione 6325/2004, è possibile affermare che “l’esperimento di una procedura di gara ai fini dell’aggiudicazione di un servizio inerente l’oggetto sociale rappresenta già di per sé una garanzia”; 5) la giurisprudenza  applica all’attività extraterritoriale delle società pubbliche i principi ed i limiti elaborati per le aziende speciali, nonostante l’evidente ed indubbia differenza strutturale tra le suddette forme di gestione dei servizi [95]; 6) come è stato già ampiamente evidenziato, la  Cassazione a Sezioni Unite [96] e una parte della giurisprudenza amministrativa [97] si sono espresse nel senso che la società pubblica è un soggetto autonomo rispetto all’ente pubblico proprietario e quest’ultimo non ha poteri ulteriori rispetto a quelli ad esso attribuiti in qualità di socio; 7) il divieto di extraterritorialità darebbe vita ad “un’impresa dimezzata” [98], con tutte le conseguenze del caso in termini di perdita di efficienza e qualità dei servizi. 8) infine, il legislatore prevede esclusivamente nell’ambito della gestione dei servizi pubblici che l’attività deve essere rivolta a realizzare “fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunità locali” [99]; ne segue che tali principi non sono applicabili all’ipotesi in cui la società sia stata costituita anche per la gestione di appalti di servizi, attività che trova il proprio supporto normativo nell’art. 11 del codice civile e nell’art. 1, comma 1 bis, della legge n. 241/1990.

Appaiono, pertanto, maggiormente rispettose dell’ordinamento giuridico quelle decisioni che ammettono l’impegno extraterritoriale “anche qualora esso comporti, pressoché esclusivamente, meri ritorni di carattere economico o finanziario”, anche se con il limite del mantenimento di congrue risorse e mezzi adeguati da destinare alla soddisfazione dei bisogni della collettività di riferimento” [100], quantomeno in ordine a società pubbliche che hanno come finalità prevalente la gestione di appalti e si fondano sull’autonomia negoziale delle p.a., ex art. 11 del c.c. [101]. In particolare il Consiglio di Stato, pur confermando la necessità che l’impegno extraterritoriale debba apportare effettive utilità e non distolgliere “in maniera rilevante risorse e mezzi dalla collettività di riferimento”, ha recentemente riconosciuto il diritto delle società pubbliche di svolgere attività extraterritoriale, alla luce dei principi comunitari e della differenza strutturale tra le società di capitali pubbliche e le aziende speciali, rigettando l’argomentazione della ricorrente, la quale lamentava l’alterazione del principio della par condicio  arrecato dai sovvenzionamenti pubblici di cui godrebbe la società partecipata da enti pubblici [102].

Di particolare interesse, per le argomentazioni elaborate fuori dagli schemi tradizionali, è una recente decisione di primo grado, di cui si riporta integralmente un fondamentale passo: “Deve rilevare il Collegio che, in astratto, risponde all’interesse pubblico locale partecipare alla gestione del servizio di altri enti locali, sia in termini di accrescimento di competenze e di esperienza, con possibilità quindi di migliorare il servizio per la propria comunità locale  e sia in termini economici, poiché i proventi dell’attività imprenditoriale svolta con margini di lucro verso terzi committenti sono necessariamente ricapitalizzati ed investiti nel servizio svolto in favore della comunità locale, la quale può quindi beneficiare della conseguente riduzione dei costi o del miglioramento di qualità dell’azione della società mista” [103]. Con la pregevole decisione il Giudice amministrativo siciliano contesta anche la diffusa convinzione in base alla quale le società pubbliche agirebbero senza rischi, in quanto farebbero uso di risorse economiche pubbliche, alterando il naturale equilibrio del mercato,  ed evidenzia i rischi maggiori che il “campanilismo localista” può arrecare al sistema, escludendo dal confronto concorrenziale le imprese pubbliche con maggiore esperienza nei settori dei servizi, giungendo ad un effetto che è l’opposto di quello che intende perseguire l’economia di mercato: aumentare l’efficienza e l’economicità delle imprese e la riduzione delle tariffe attraverso la più ampia concorrenza [104].

Alla luce delle considerazioni sopra riportate e dell’evoluzione giurisprudenziale in materia di extraterritorialità, non poche perplessità pone l’art. 13 del cd. decreto Bersani [105], che interviene, in maniera non del tutto chiara, nella materia delle attività extraterritoriali delle società in house e di quelle miste, richiamando l’esigenza di “evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori” e confermando l’orientamento contrario del legislatore verso la possibilità per le società pubbliche di “diversificare il business” [106]. Si è, infatti, visto che la presenza sul mercato di operatori specializzati pubblici favorisce il mercato stesso e le stesse imprese pubbliche, costrette a confrontarsi con altre realtà concorrenti al fine di aggiudicarsi le gare, nonché che il principio di parità di trattamento di origine comunitaria impone di non discriminare un’impresa soltanto perché di proprietà pubblica.

Altri dubbi di applicazione deriveranno dal riferimento, contenuto nel comma uno, alle società pubbliche che producono “beni e servizi strumentali” all’attività degli enti locali proprietari e dall’esclusione dell’applicazione della norma alle società che gestiscono servizi pubblici (oggetto di apposito disegno di legge). La normativa sembra riferirsi, pertanto, esclusivamente alle società che gestiscono appalti di fornitura di beni e servizi a favore degli enti soci (a titolo di esempio il servizio di pulizia dei locali comunali o di gestione del centro elaborazione dati e dei servizi informatici), mentre ne sarebbe esclusa l’applicazione alle cd. utilities, cioè alle società che prestano servizi a favore della collettività.

L’esperienza concreta dimostra, tuttavia, che, accanto alle società che gestiscono esclusivamente servizi pubblici (il servizio idrico o quello di igiene ambientale per esempio), ve ne sono molte di più aventi un oggetto sociale molto ampio, comprendente appalti pubblici di servizi e servizi pubblici in senso proprio (le cd. multiservizi). Per quest’ultime si dovrebbe giungere alla discutibile conclusione che esse non possano partecipare a gare indette da altri enti aventi ad oggetto appalti di fornitura di beni e servizi, mentre possano continuare a svolgere l’attività extraterritoriale in materia di servizi pubblici, con un differente trattamento giuridico difficilmente comprensibile. Come si è visto, invece, è proprio la materia degli appalti di servizi a risultare priva di profili attinenti la funzione pubblica e a giustificare l’esercizio della capacità imprenditoriale, anche al di fuori del territorio degli enti soci, mentre qualche dubbio può, in effetti, porsi per i servizi pubblici, i quali conservano profili di pubblicità, che non snaturano, tuttavia, la natura giuridica dei soggetti gestori.

Ed ancora, il riferimento all’oggetto sociale esclusivo richiama quell’orientamento giurisprudenziale amministrativo, soprattutto di primo grado, che estendeva il principio della strumentalità dell’attività di gestione e del vincolo funzionale di scopo, tipico delle aziende speciali, alle società pubbliche e che, come si è visto, è stato superato dalla giurisprudenza più recente con argomentazioni convincenti.

Profondamente opinabile, infine, appare il divieto di partecipare ad altre società o enti, fortemente limitativo in un contesto di competitività che richiede aggregazioni e alleanze, al fine di realizzare economie di scala. Dal punto di vista del diritto dell’economia, infatti, fa parte del naturale e fisiologico andamento del mercato la ricerca di partership e collaborazioni tra imprese, che possono andare dagli accordi esterni (quali i consorzi) agli accordi più stretti, mediante acquisti di quote, fusioni, acquisizioni. Tutto ciò fa parte delle dinamiche economiche. Negare ai proprietari delle società di capitali in house, soltanto perché pubblici, di porre in essere le operazioni societarie più opportune per far crescere le proprie imprese e migliorare l’efficienza delle medesime (di riflesso migliorando la qualità dei servizi) non appare coerente con la spinta verso l’aziendalizzazione e la privatizzazione del pubblico, che ha caratterizzato il movimento riformatore della p.a. degli ultimi anni.

L’esperienza dimostra che gli amministratori degli enti pubblici soci di società di dimensioni medio-piccole sono normalmente restii ad avallare operazioni di fusione, che comportano la mortificazione dell’identità della società più piccola, nonché la tanto temuta perdita di controllo sullo strumento societario. La soluzione  di compromesso tra le esigenze del mercato e della competitività e quelle dei decisori pubblici è apparsa spesso la cessione di quote societarie ad una società pubblica di maggiori dimensioni, in quanto, come rilevato dalla dottrina, il gruppo di società consente di sfruttare le opportunità economiche derivante dalle dimensioni più grandi di un’impresa con la conservazione di una relativa autonomia e flessibilità gestionale [107].

Se la finalità del decreto è quella di migliorare la qualità  e ridurre i costi dei servizi pubblici offerti alla collettività, nonché di limitare la spesa delle pubbliche amministrazioni, la scelta di tarpare le ali alle società pubbliche non appare felice, in quanto avrà come conseguenza la perdita di competitività ed efficienza delle società pubbliche, le quali, senza la spinta proveniente dal mercato, si limiteranno a gestire un mercato protetto con certamente minore attenzione ai profili dell’economicità gestionale o l’abbandono da parte degli enti locali di questo strumento, esito davvero non auspicabile.

 Unico aspetto positivo della norma in esame appare il richiamo alla società mista, il cui modello gestionale sembrava superato alla luce della giurisprudenza comunitaria sopra riportata [108].   

De iure condendo, le preoccupazioni delle imprese e del mercato (oltre che per esigenze connesse con la gestione della finanza pubblica) potrebbero essere agevolmente soddisfatte con un’unica significativa modifica normativa, la quale, recependo l’orientamento restrittivo recente della Corte dei conti [109], modifichi l’art. 194, comma 1, lett. c, d. lgs n. 267 del 2000 – il quale prevede la possibilità di riconoscere la legittimità di debiti fuori bilancio derivanti da “ricapitalizzazioni, nei limiti e nelle forme previste dal codice civile o da norme speciali, di società di capitali costituite per l’esercizio di servizi pubblici locali” - inserendo una norma che preveda l’obbligo per l’ente locale socio, che intenda ricapitalizzare la società pubblica in crisi a causa di comportamenti di cattiva gestione, di accertare le cause del dissesto e la sussistenza delle condizioni  per superare la fase critica, con conseguente previsione esplicita (laddove ve ne fosse bisogno) di responsabilità erariale per gli amministratori locali che violassero questo obbligo, in virtù della corretta argomentazione in base alla quale il denaro pubblico non può essere considerato capitale di rischio.

5. Conclusioni e cenni al disegno di legge governativo in materia di servizi pubblici. Un salto indietro di un secolo.

In conclusione è possibile affermare che l’ente pubblico non gode di particolari poteri che vanno oltre quelli previsti dal codice civile e dalla normativa speciale in capo al socio di una normale società di capitali, conseguenza naturale della natura privatistica della società partecipata da enti pubblici, che opera sul mercato come un normale operatore economico [110].

Si è visto in precedenza quali siano i dubbi e le tendenze della dottrina e della giurisprudenza amministrativa e civile sulla natura giuridica, ma le pur apprezzabili ragioni poste a fondamento della pubblicizzazione della società pubblica non convincono. Né, d’altro canto, il riferimento che viene fatto da una parte della dottrina e della giurisprudenza all’attività della società, come elemento centrale del fenomeno, può portare, come si è evidenziato, a snaturare il modello societario e ad ignorare la chiara scelta del legislatore verso i modelli privatistici, con le necessarie conseguenze in ordine alla disciplina applicabile [111].

La naturale conclusione di questo percorso argomentativo è che la società partecipata da enti pubblici è soggetta alle normali regole che governano e regolamentano la società privata, con le dovute eccezioni previste esplicitamente dalla normativa vigente, che è auspicabile si riducano al minimo possibile.

Qualche dubbio pone l’opinione dottrinale in base alla quale, per regola generale, soltanto la costituzione della società deve essere preceduta da una deliberazione pubblicistica, mentre le altre decisioni successive alla costituzione non richiedono tale passaggio pubblicistico preventivo, soprattutto nelle ipotesi in cui le scelte societarie comportino dei riflessi sul bilancio dell’ente locale  (si pensi alla delibera di aumento di capitale, a titolo di esempio) [112].

Non risultano condivisibili, pertanto, le pur autorevoli opinioni di quegli autori [113] che qualificano le società in esame come “speciali” e tendono a riconoscere tra ente pubblico e società un rapporto autonomo rispetto a quello che il diritto societario prevede tra azionista (o quotista) e società, né appare sostenibile l’impostazione che considera le società pubbliche diverse rispetto alle imprese cd. “vere” [114]. Non sembra giustificato, altresì, l’orientamento recente che distingue tra società mista (considerato “soggetto privato tout court”) e società interamente posseduta da enti pubblici (con natura giuridica pubblica), il quale  riconosce la possibilità di godere di affidamenti in house solo alla seconda [115].

Le considerazioni poste a fondamento dell’impostazione criticata sono, ad onor del vero, suggestive. Infatti non può disconoscersi, come si è visto, che l’ente locale non cessa di essere il titolare del servizio e il responsabile della sua gestione nei confronti della collettività, anche quando decida di gestirlo a mezzo di società di capitali partecipata da enti pubblici [116]. Interessante è, altresì, il tentativo di valorizzare il disposto dell’art. 42, comma 2, lett. g, del d. lgs. n. 267/2000, il quale attribuisce al Consiglio comunale la competenza ad indicare gli “indirizzi da osservare da parte delle aziende pubbliche e degli enti dipendenti, sovvenzionati o sottoposti a vigilanza”, norma che permetterebbe di definire “particolare” la posizione del socio pubblico rispetto alla società [117].

Tuttavia, come è stato più volte evidenziato dalla Cassazione a Sezioni Unite [118] (ma anche da una parte della giurisprudenza amministrativa [119]), la società pubblica è un soggetto autonomo rispetto all’ente pubblico proprietario e quest’ultimo non ha poteri ulteriori rispetto a quelli ad esso attribuiti in qualità di socio [120].

La legislazione, dalla quale non si può prescindere, offre numerose norme a sostegno della bontà della tesi cd. “privatistica”. Innanzi tutto, il legislatore del 1942 ha previsto l’applicazione della disciplina del codice civile alle società pubbliche, con le sole eccezioni di cui agli artt. 2449 e 2450, come esplicitamente chiarito nella relazione ministeriale [121]. Ed ancora una recente norma prevede che: “Le pubbliche amministrazioni, nell’esercizio dei diritti dell’azionista (corsivo nostro) nei confronti delle società di capitali a totale partecipazione pubblica, adottano le opportune direttive per conformarsi ai principi di cui al presente comma” [122].

Non si può, d’altronde, ignorare la necessità, prevista dall’art. 113 del d. lgs. 267/2000, che i rapporti tra ente pubblico e società pubbliche vengano regolati da un “contratti di servizio”. Non si comprende, infatti, per quale ragione sia stato ritenuto necessario dal legislatore prevedere la sottoscrizione un contratto [123] tra ente pubblico e società di gestione dei servizi, generatore di obbligazioni, se l’ente pubblico potesse esercitare un potere autonomo sulla società [124].

L’obbligo di stipulare il contratto di servizio e le considerazioni già esposte sulla natura privata ed autonoma della società in questione pongono, come si è già accennato, seri dubbi sulla solidità dell’intera costruzione della società controllata come organo indiretto (o come “ordinaria ripartizione interna ad uno stesso sistema amministrativo di funzioni e di servizi”) e alla configurazione del rapporto ente pubblico socio – società partecipata in termini di subordinazione gerarchica, come riconosce anche il Consiglio di Stato. quando afferma che la Commissione UE richiede un controllo così penetrante da parte dell’ente locale proprietario, ai fini degli affidamenti in house, da dover assimilare la fattispecie de qua “al fenomeno giuridico delle aziende municipalizzate di cui al r.d. 15 ottobre 1925 n. 2578” [125], così snaturando lo strumento societario, se interpretato nel senso criticato, ricostruzione oltretutto non necessaria al fine del soddisfacimento del requisito del “controllo analogo” [126].

La disciplina della società in esame non sembra, pertanto, potersi distaccare dal modello tipico di diritto comune, come riconosciuto dalla maggioranza degli autori [127], anche se è da condividere l’osservazione di chi ha evidenziato come il diritto societario “subisce sempre più l’influenza continua e costante di singole leggi speciali che, incoerentemente, tendono a sottrarlo alle regole proprie del codice civile” [128]; una certa “specialità” non sembra, tuttavia, potersi disconoscere almeno alla società con partecipazione pubblica minoritaria [129].

Nessun problema di disciplina si pone, invece, per le società costituite dagli enti sulla base della loro generale capacità di diritto privato per espletare attività economiche, le quali, come si è visto, sono interamente sottoposte alla normativa codicistica [130].

L’impostazione privatistica, storicamente affermata e riconosciuta dalla giurisprudenza civilistica [131], ha trovato, come si è visto, ampi riconoscimenti da parte del giudice amministrativo, anche risalenti nel tempo.

In una recente decisione il Consiglio di Stato esclude la possibilità per l’ente locale socio di sciogliersi dal vincolo sociale esercitando un potere di recesso unilaterale, anche se fondato sull’autotutela amministrativa, una volta che la società abbia concretamente iniziato la sua attività, affermando che “dal momento della costituzione della società, e quindi dalla nascita di tale nuovo soggetto giuridico, quest’ultimo è assoggettato al particolare regime disciplinare che lo governa, ed in particolare alle norme del diritto comune” [132]. In altra occasione un giudice amministrativo di primo grado ha recentemente risolto la questione sottoposta al suo giudizio facendo prevalere il particolare regime privatistico che regola le società in esame rispetto alle conseguenze giuridiche pubblicistiche che sarebbero normalmente derivate dall’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo [133]. Infine, nella più volte citata decisione n. 7345 del 2005, il Consiglio di Stato definisce senza mezzi termini “società privata” una società posseduta al 99% da un soggetto pubblico, facendo ben sperare sul superamento del criticato indirizzo tendente alla pubblicizzazione.

Le citate decisioni suscitano interesse, in quanto riconoscono che la società pubblica è un soggetto autonomo, dotato di vita propria, titolare di diritti e regolato dal diritto privato e  sembrano costituire, pertanto, una inversione di tendenza rispetto all’orientamento, ampiamente esposto, tendente a pubblicizzare queste figure.

Alla luce delle conclusioni cui si è giunti nel presente scritto appaiono non privi di ombre il cd. decreto Bersani e il disegno di legge sui servizi pubblici.        

Per quanto riguarda il primo, se la finalità del decreto è quella di migliorare la qualità  e ridurre i costi dei servizi pubblici offerti alla collettività, nonché di limitare la spesa delle pubbliche amministrazioni, non sembra, come si è evidenziato, che tale provvedimento colga nel segno, in quanto avrà come probabile conseguenza la perdita di competitività ed efficienza delle società pubbliche, le quali, senza la spinta proveniente dal mercato, si limiteranno a gestire un mercato protetto (con certamente minore attenzione ai profili dell’economicità gestionale) o l’abbandono da parte degli enti locali di questo strumento a favore di un non auspicabile ritorno all’azienda speciale o, ancor peggio, alla gestione diretta.

Alla facile obiezione in base alla quale la soluzione ottimale sarebbe allora quella di sopprimere tali società o, in alternativa, di limitare fortemente la loro espansione, si risponde con un interrogativo che ci si dovrebbe sempre porre prima di affrontare lo spinoso argomento delle società pubbliche: esiste nell’ordinamento un diritto del soggetto pubblico di organizzare in proprio i servizi da rendere alla collettività e di autogestirsi in ordine a quelli strumentali alla propria attività?

Se con onestà si risponderà positivamente in virtù del cd. “principio dell’autoproduzione” [134] non sarà così semplice e scontato mortificare il diritto degli enti locali di organizzarsi senza imposizioni normative (anche in virtù del principio di sussidiarietà verticale, oggi costituzionalizzato) attraverso quella peculiare forma di gestione diretta che è rappresentata dalla gestione in house [135].

Il legislatore, in sostanza, dovrebbe pensarci due volte prima di obbligare gli enti locali a rivolgersi al mercato sempre o comunque o a gestire “in economia” (cioè con mezzi e personale propri) i servizi, in quanto ciò riporterebbe i servizi pubblici indietro di un secolo, costringendo i Comuni che non intendano perdere il controllo diretto della gestione del servizio a internalizzare le attività e i servizi, con tutte le conseguenze in termini di inefficienza e burocratizzazione che la letteratura giuridica ed economica hanno evidenziato nel corso di più di un secolo di evoluzione degli strumenti di gestione dei serviz i[136].

Sarebbe, infine, opportuno tener conto delle esigenze dei Comuni medi e piccoli (la maggioranza) di fornire servizi efficienti, economici e in modo continuativo. L’esperienza concreta non è sempre negativa. Molti enti locali hanno risposto, nel corso di questi anni, alle difficoltà derivanti dalla costante diminuzione dei trasferimenti statali e regionali e al divieto di assunzioni con la scelta di associarsi tra di loro  attraverso lo strumento societario, il quale ha consentito di rispondere con celerità ed efficienza alle esigenze dell’utenza. Si pensi alle difficoltà che può incontrare un piccolo Comune nella gestione delle gare e ai vantaggi in termini di flessibilità e stabilità dei contratti che l’affidamento in house consente [137], secondo un modello ritenuto legittimo e coerente anche dalla giurisprudenza più recente [138].

Non si ignora l’esigenza di spingere la concorrenza e, attraverso questa, lo sviluppo delle imprese, ma non si deve dimenticare che, come ha evidenziato la Corte costituzionale [139], esistono più mercati, per settori e ambiti territoriali, per cui non sempre il ricorso al mercato può risultare soddisfacente per l’utenza. In altre parole dovrebbe valutarsi se il principio prevalente sia la tutela, sempre e comunque, della concorrenza quale valore in sé o se, invece, debba prevalere il soddisfacimento degli interessi dei cittadini-utenti, il quale rappresenta, a ben vedere, lo scopo ultimo dell’attività dei soggetti pubblici.

Ferma restando l’ampiamente condivisa necessità di regolamentare un settore, quale dei servizi pubblici, in cui la giurisprudenza ha dovuto supplire al vuoto normativo (dalla definizione del concetto di servizio pubblico alla individuazione del requisito del controllo analogo, solo per citare due esempi), si dovrebbe riflettere sulle conseguenze dell’introduzione di regole eccessivamente restrittive. Sarebbe opportuno, altresì, che il legislatore si occupasse, in sede di riforma, anche della centrale questione della politicità indotta derivante dalla eccessiva ingerenza degli organi politici degli enti pubblici soci sugli organi amministrativi societari (che potrebbe essere attenuata con l’introduzione del principio della distinzione delle funzioni [140]), del rilevante tema dei meccanismi di selezione del personale, come evidenziato dalla Corte costituzionale [141] o del problema  della distorsione del meccanismo della tariffa, che scarica sull’utente finale le inefficienze gestionali (si pensi alla materia degli ATO rifiuti e acque).

E’ davvero preferibile che un ente locale torni a gestire in economia (quindi in proprio), normalmente in maniera antieconomica (c’è sempre il bilancio comunale che copre tutte le inefficienze!), i servizi o non è poi così scellerata l’opzione di quei Comuni che hanno deciso di gestire tali servizi in forma associata attraverso lo strumento societario, correttamente gestito, con le condivisibili sanzioni per gli enti locali e per gli amministratori societari nelle ipotesi di bilanci chiusi in perdita [142]?

La questione appare quantomeno assai dubbia.

 

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[1]   Si veda, infatti, la diffusione del c.d. New public management quale filone organizzativo che predica l’applicazione di tecniche e sistemi di gestione mutuati dall’impresa privata.

[2] L’art. 2247 c.c. prevede espressamente che con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica “allo scopo di dividerne gli utili”. Cfr. GALGANO, Diritto commerciale – Le società, 15 : “Perché possa dirsi, dunque, di essere in presenza di una società non basta l’esercizio di una attività di impresa: occorre (…) che l’impresa collettiva sia esercitata a scopo di lucro o di profitto”.

Rileva, tuttavia, G. F. CAMPOBASSO, Manuale di diritto commerciale, 125, che, accanto alle società cd. lucrative, il codice civile prevede società mutualistiche, società consortili e società “istituzionalmente senza scopo di lucro oggettivo e/o soggettivo”, quali “le società per azioni che per legge dovevano perseguire scopi esclusivamente pubblici e palesemente incompatibili con la causa lucrativa o economica”. Per l’Autore le previsioni legislative speciali che prevedono ipotesi di società che per legge non devono perseguire o possono non perseguire uno scopo di lucro (come ad esempio le società di gestione dei mercati regolamentati di strumenti finanziari, di cui all’art. 61 TUF) “devono essere tuttavia valutate come norme eccezionali ed in quanto tali da esse non è consentito desumere che sia legittima la costituzione di società senza scopo di lucro, al di fuori dei casi previsti per legge”.

Cfr. Cass., S.U., 2 marzo 1982, n. 1282, la quale, pur riferendosi agli enti pubblici economici, enuncia un principio a maggior ragione estensibile alle società pubbliche: “Il conseguimento degli utili – cioè il fine di lucro – se non in chave di pura redditività, deve essere inteso come diretto a realizzare almeno quanto occorre per compensare i fattori produttivi impiegati e, se non costituisce lo scopo ultimo della creazione degli enti pubblici economici (rappresentato dalla pubblica finalità per la quale essi vengono costituiti), deve normalmente essere soddisfatto al fine di consentire all’ente di vivere ed operare, essendo gli utili connessi al modo in cui l’attività economica viene svolta”.

Anche Cons. Stato, sez. V, 21.6.2005, n. 3264, Foro Amm. CDS. 2005, 1797, conferma, riferendosi ad una società pubblica, “la naturale proiezione lucrativa della forma giuridica societaria”.

[3]   Lo afferma chiaramente M. CLARICH in Servizi pubblici e diritto europeo della concorrenza : l’esperienza italiana e tedesca a confronto, Rivista trimestrale di diritto pubblico, n. 1/2003, 118, il quale rammenta “la scomparsa pressoché totale dell’ente pubblico economico e dell’azienda-organo ampiamente diffusi fino a un decennio fa e il dominio ormai incontrastato del modello societario di diritto comune”.

[4] Così si esprime M. DUGATO, La società per la gestione dei servizi pubblici locali, 2001, 36, il quale, dallo speciale procedimento di trasformazione delle aziende speciali in società per azioni previsto dalla l. 15.05.1997 n. 127 (trasformazione resa molto semplice e conveniente), trae la conclusione che  “il legislatore del 1997 ha manifestato con più chiarezza l’intenzione di fare della società di capitali lo strumento ordinario di gestione dei servizi a valenza imprenditoriale”.

Anche M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo, 1993, 235, evidenzia la tendenza dell’ordinamento verso il superamento delle figure dell’ente pubblico imprenditoriale e delle aziende autonome, a favore delle società di capitali.

La  preferenza per il modello organizzativo societario del legislatore emerge chiaramente anche dall’excursus fatto da S. CASSESE in La nuova costituzione economica, 2004, il quale evidenzia come la maggioranza degli enti pubblici economici sia stata trasformata in s.p.a. e come si sia assistito ad uno “slittamento” di tutti i tipi di impresa pubblica (impresa-organo e impresa-ente pubblico economico) verso il modello societario.

Conferma questa tendenza anche l’inserimento del comma 7-ter nell’art. 115 del d. lgs. n. 267 del 2000 da parte della legge 2.12.2005, n. 248, in base al quale la norme sulle privatizzazioni si applicano anche agli enti e alle aziende regionali.

[5] Cfr. l’art. 13 del D.l.  4 luglio 2006, n. 223, convertito con legge 4 agosto 2006, n. 248, in G.U.R.I. n. 186 dell’11.8.2006.

[6] La giurisprudenza amministrativa ritiene, infatti, ancora presente “un problema di individuazione della effettiva natura del soggetto (…), al di là della sua formale qualificazione come persona giuridica privata” : da ultimo, Cons. Stato, sez.  IV, 04.02.2005 n. 316;  sez. IV, 31.1.2006, n. 308.

[7] Concorda circa l’attualità di questa impostazione R. RORDORF, Le società <<pubbliche>> nel codice civile, Le società n. 4/2005,  430.

[8] G. ROSSI, Gli enti pubblici in forma societaria,  Servizi pubblici e appalti, n. 2/2004; E. CASETTA, Manuale di diritto amministrativo, 92, ritiene ammissibile configurare un ente pubblico in caso di società  pubbliche che non possano disporre della propria esistenza e del proprio oggetto; anche G. GRUNER, Considerazioni intorno alle società pubbliche dello Stato,  Servizi pubblici e appalti, n. 4/2004,  706 ss., partendo dalla considerazione che “la scienza giuridica, superato l’ambiguo criterio dei così detti indici rivelatori della natura pubblica degli enti, ha individuato il minimo comune denominatore di tutti gli enti pubblici – pur nella loro profonda diversità – nel carattere necessario della loro esistenza”, ne trae la logica conseguenza che le società partecipate dagli enti pubblici prive di tale caratteristica rimangono enti privati e ad essi si applica “per l’intero la disciplina dettata dal diritto comune, salve le deroghe consentite in via generale dagli artt. 2449 e 2450 del codice civile”.

Cfr., altresì,  I.M. MARINO, Servizi pubblici e sistema autonomistico,1986,  157 : “…il riferimento all’attività è divenuto talmente preminente da consentire di inserire organismi, che permangono privati, nel disegno organizzativo pubblico”, nonché S. LICCIARDELLO, Profili giuridici della nuova amministrazione pubblica, 2000, 106: “Si giunge ad una più spiccata oggettivizzazione del <<pubblico>> che mette definitivamente in crisi i tentativi di definizione per soggetti. (…). Si giunge così ad individuare il pubblico prescindendo dalla ‘struttura’, in modo decisamente <<sostanziale>>”.

Infine, anche M. CLARICH, Servizi, cit.,  119, ritiene che meriterebbe maggiore attenzione da parte della dottrina l’orientamento giurisprudenziale volto a “ripristinare la categoria della società per azioni-ente pubblico”.

[9] F. FRACCHIA, Studio delle società <<pubbliche>> e rilevanza della prospettiva giuspubblicistica, Foro Italiano 2005, III,  38: “Un ulteriore dubbio attiene al fatto che alcune delle società pubbliche delineate dalla legislazione (in particolare quelle inserite nelle relazioni in house), nella sostanza, potrebbero configurarsi addirittura come enti pubblici. Basti fare qui cenno alla giurisprudenza che ritiene applicabili ai relativi amministratori la normativa sulla responsabilità amministrativa”. Tuttavia, l’Autore ritiene che “una volta scelta – o imposta – una via <<privatistica>>, il soggetto pubblico debba accettare le consequenziali regole comuni, sicché l’applicazione dei principi pubblicistici andrebbe considerata come una possibilità eccezionale e sussidiaria, così arginando l’ingerenza pubblicistica”.

[10] F.G. SCOCA, Il punto sulle c.d. società pubbliche, Il diritto dell’economia, n. 2/2005.: “Non si può escludere del tutto (o in via di principio) che alcune società di diritto speciale debbano essere valutate alla stregua di enti pubblici”. L’Autore, tuttavia, alla fine, considera società pubbliche da inquadrare “nell’ambito (composito e variegato) dell’amministrazione pubblica propriamente detta”, esclusivamente le società  che la legge espressamente qualifica come tali, definendo, invece, “società private in mano pubblica” le società “che svolgono attività economica più o meno direttamente connessa con interessi pubblici, anche qualora il capitale sociale sia totalmente pubblico ed incedibile”, senza che rilevino i compiti oggettivamente pubblici assegnati.

[11] Cfr. Cass. S.U., 26.4.1940 n. 1337, la quale, nel cassare la decisione del Consiglio di Stato  n. 33 del 19.1.1939 sul caso Agip, evidenzia che la regola generale è nel senso opposto alla qualificazione pubblica del soggetto al quale partecipa lo Stato come azionista; per la Corte, per riconoscere  la presenza di un soggetto pubblico, si deve  “accertare il concorso di elementi, da valutarsi volta per volta, che agiscano specificamente e profondamente sulla base strutturale degli ordinari organismi economici di diritto privato”.

[12] Ci si riferisce a Cass., S.U., 15.4.2005, n. 7799 e a S.U. 3.5.2005, n. 9096. Nella prima decisione la Suprema Corte rileva: “Va osservato, ai fini della risoluzione della questione di giurisdizione, che indubbiamente anche un ente a struttura societaria può assumere natura pubblicistica, qualora ciò sia espressamente previsto dalla legge (v. ad es. art. 18  l. 22.12.1984 n. 887 per l’AGE Control s.p.a.) ovvero ricorrono determinate condizioni (comportanti una consistente alterazione del modello societario tipico, v. ad es. Poste Italiane s.p.a.)”, anche se poi precisa che : “Normalmente (…) la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato” ed esclude “alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale”.  Nella seconda decisione citata la Cassazione, richiamando le precedenti proprie decisioni con le quali è stata riconosciuta la giurisdizione della Corte dei conti sugli amministratori delle società in esame, afferma che : “La qualificazione di un ente come società di capitali non è di per sé sufficiente ad escludere la natura di istituzione pubblica dell’ente stesso. Ma si deve procedere ad una valutazione concreta in fatto, caso per caso” (la Corte ha, pertanto, respinto il ricorso presentato dal Consiglio degli Avvocati di Roma avverso la decisione con la quale il Consiglio Nazionale Forense aveva considerato l’AMA s.p.a.  “istituzione pubblica” ai fini dell’iscrizione di un legale assunto dalla medesima società nell’elenco speciale degli avvocati).

[13] Cfr. F. G. SCOCA, Il punto sulle c.d. società pubbliche cit., pag. 240: “Fino al momento in cui, nei secondi anni ottanta e negli anni novanta, il ricorso a forme societarie è divenuto quasi una costante del legislatore (…) nessuno dubitava del carattere autenticamente privato delle società a partecipazione pubblica, né queste sembravano sottostare ad un regime derogatorio rispetto alla disciplina generale, dettata dal codice civile”. 

In controtendenza la decisione del Cons. Stato, sez. IV, 19.1.1938, n, 33, Le grandi decisioni del Consiglio di Stato, pag. 235. Per la verità la citata decisione n. 33/1938 è maturata in un contesto politico particolare, come emerge dalla lettura della motivazione: “Necessità d’ordine superiore determinano e giustificano la tendenza di attribuire la qualifica di enti pubblici anche a persone giuridiche le cui esigenze di vita sono intrinsecamente diverse da quelle dello Stato; discussione per di più inopportuna, perché in aperto contrasto con le direttive del Regime, intese ad assicurare, in ogni campo, quella autarchia per cui l’A.G.I.P. fu costituita”. Dalla motivazione della decisione sopra esaminata emerge l’inattualità dell’orientamento finalizzato alla pubblicizzazione delle società partecipate da enti pubblici.

Rileva G. PASQUINI, commento a Cons. Stato n. 33/1938, Le grandi decisioni del Consiglio di Stato,  242 ss. : “ In effetti, rispetto alla precedente giurisprudenza, la posizione del Consiglio di Stato nel caso Agip, e, soprattutto la tendenza alla pubblicizzazione dei soggetti giuridici, ha rappresentato un caso piuttosto isolato”. A tal proposito l’autore richiama : Cons. stato, sez. IV, 4.4.1930,  n. 129; sez. IV, 20.8.1946,  n. 266; sez. V, 2.2.1951, n. 205; sez. V, 7.11.1969, n. 1181.

[14] Cfr. la nota decisione Cass. S.U. 29.12.1990 n. 12221, Foro Amm. 1991,  655.

[15] “Organo”, in quanto svolge attività di natura amministrativa connessa alle pubbliche funzioni esercitate, “indiretto”, perché i soggetti in esame non sono organi in senso tecnico, poiché sono privi della titolarità di uffici pubblici e, pertanto, non agiscono in nome della p.a. che gli ha trasferito le funzioni pubbliche : cfr. Cass. S.U. 12221/90 cit. Si vedrà quale suggestione questa figura ancora oggi riesca ad infondere nella giurisprudenza, in particolare in tutte le ipotesi in cui si pongono problemi di tutela della concorrenza e di affidamenti in house.

[16] Conformi Cass. S.U. 18.03.1992 n. 3359, Foro it. 1993, I, 2328; S.U. 6.5.1995 n. 4989, Foro Amm. 1996, 32; S.U. 06.05.1995 n. 4991, Giur. It. 1996, I, 493; S.U. 27.03.1997 n. 2738, Guida al diritto n. 34/1997, le quali hanno dato corso  alla cd. “applicazione al contrario della teoria dell’organo indiretto” : in assenza di concessione non vi è pubblicità e non si radica la giurisdizione del Giudice Amministrativo.

[17] Cons. Stato, sez. VI, 20.05.1995 n. 498, Giur. It. 1996, III, 1, 164.

[18] Corte Costituzionale 28.12.1993 n. 466, Foro Italiano 1994, I, 325, nella quale la Corte afferma che “la dicotomia tra ente pubblico e società di diritto privato si sia andata, di recente, tanto in sede normativa che giurisprudenziale, sempre più stemperando” e che “le società per azioni derivate dalla trasformazione dei precedenti enti pubblici conservano connotazioni proprie della loro originaria natura pubblica”, da cui la “natura differenziata e speciale” di codeste società.

[19] Si tratta della fondamentale decisione della VI ^ Sezione del Cons. stato  28.10.1998 n. 1478,  Guida al diritto, 50/1998. Questa impostazione è stata di recente confermata dal Giudice delle leggi con la decisione n. 29 del 1° febbraio 2006, nella quale la norma della Regione Abruzzo, che stabilisce l’obbligo per le società pubbliche di selezionare il personale con le procedure imposte agli enti locali, è stata ritenuta conforme a Costituzione in quanto finalizzata “a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 della costituzione rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubblico, ancorché formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giuridico, ad enti pubblici”.

[20] Cons. Stato, sez. V, 7.6.1999 n. 295, Urbanistica e appalti n. 9/1999; sez. V, 31.10.2000 n. 5894, Foro Italiano 2001, III, 161; sez. VI, 02.03.2001 n. 1206, Urb. e appalti n. 5/2001, con il richiamo – già utilizzato in passato - all’art. 18 comma 9 della l. n. 887/1984 come norma che, prevedendo la costituzione di una s.p.a. “con personalità giuridica di diritto pubblico”, consentirebbe di superare “i dubbi sull’astratta compatibilità tra la struttura societaria e la natura pubblica di un ente trasformato in S.p.a.”.

[21] Trattasi di Cons. Stato, 20.12.1996 n. 1577,  Giur. It. 1997, III, 1, 261.

[22] Cfr, per esempio, Cons. Stato, sez. VI, 01.04.2000 n. 1885,  urb. e appalti n. 5/2000, 534, per la quale nessun problema si pone ad affermare la “natura pubblica” della società partecipata da enti pubblici sulla scorta delle seguenti considerazioni: a) la forma societaria è neutra; b) anche le s.p.a. si possono presentare come un’articolazione organizzativa dell’ente o degli enti di riferimento; c) il perseguimento di uno scopo pubblico non è in contraddizione con il fine societario lucrativo; c) determinante è, sotto il profilo strutturale, la partecipazione pubblica quasi totalitaria e, sul piano funzionale, il fine della gestione di un servizio pubblico.

Sostanzialmente nei medesimi termini, ma con l’aggiunta del discusso richiamo al concetto di organismo di diritto pubblico – tra l’altro in una fattispecie in cui non rilevava, trattandosi di appalti “sotto soglia” – Cons. Stato, sez. VI, 02.03.2001 n. 1206, Urb. e appalti n. 5/2001 : “Tale qualificazione come organismo” (di diritto pubblico) “contribuisce a confermare la natura pubblica di Poste Italiane S.p.a. sulla base di un criterio di pubblicità, non già formale, ma sostanziale, fondato sul dato relativo, sul piano strutturale, all’esercizio da parte dei poteri pubblici di un’influenza dominante sulla proprietà e sull’attività di gestione e, sul piano funzionale, al fine della gestione di un servizio pubblico”; nella stessa sentenza si legge, altresì, che l’alterazione del modello societario tipico, determinata da regole di funzionamento le quali condizionano l’esercizio dei diritti di azionista, rivela la completa attrazione nell’orbita pubblicistica della s.p.a.; in termini assai simili sui requisiti della pubblicità Cons. stato 17.09.2002 n. 4711.

Di recente, tuttavia, Cons. Stato, sez. V, 13.06.2003 n. 3346, Foro Amm. C.d.S. 2003, 3020, intervenendo nella complessa questione del Giudice competente a decidere in ordine alla revoca degli amministratori di società miste, ha precisato che “i provvedimenti che, per la loro finalizzazione alla cura dell’interesse pubblico e per la loro conseguente natura amministrativa, rilevano …sono solo quelli che dispongono autoritativamente in merito alla gestione del servizio od alle attività direttamente strumentali al suo espletamento, quali ad esempio le determinazioni che incidono immediatamente sulla relazione tra l’ente ed il soggetto gestore, e non anche quelli che solo indirettamente, quali la revoca degli amministratori della società titolare del servizio, si riflettono sulla vita di quest’ultima, non condizionandone l’operatività e non modificando il presupposto rapporto convenzionale”. Quest’ultimi sono, pertanto, atti tipicamente societari soggetti alla giurisdizione del Giudice Ordinario, coerentemente con l’impostazione seguita da Cons. Stato,  7.6.1999 n. 295, per il quale i soggetti privati si qualificano p.a. in senso soggettivo “laddove operino come amministrazioni aggiudicatrici e quindi limitatamente agli atti della serie procedimentale di evidenza pubblica”; ancora per Cons. Stato, sez. V, 22.08.2003 n. 4748, Giornale di diritto amministrativo n. 1/2004, 29 “permane la qualificazione pubblicistica sottesa ai fini perseguiti”.

Come accennato, il problema dell’individuazione “della effettiva natura del soggetto … al di là della sua formale qualificazione come persona giuridica privata in quanto società a responsabilità limitata” rimane, comunque, al centro dell’attenzione del Consiglio di Stato, per il quale “rilevano tanto il carattere strumentale o meno dell’ente societario rispetto al perseguimento di finalità pubblicistiche (e dunque se esso agisca o meno in forza di poteri autoritativi delegatile dalla P.A. e nella fedele esecuzione di disposizioni e provvedimenti da questa emanati), quanto l’esistenza o meno di una disciplina derogatoria rispetto a quella propria dello schema societario, sintomatica, in particolare, della strumentalità della società rispetto al conseguimento di finalità pubblicistiche” (Cons. Stato, sez. IV, 04.02.2005 n. 316 cit.; sez. IV, 31.1.2006 n. 308 cit.)

La citata decisione n. 316/2005 cit. è interessante in quanto contiene una esaustiva elencazione degli elementi che occorre analizzare al fine di “appurare se ci si trovi dinanzi ad un caso di privatizzazione solo formale dell’esercizio di pubbliche funzioni, tale da sottrarre la (…) ad un inquadramento nella sfera del diritto privato e da configurare, in definitiva, la società stessa come una longa manus ed una portatrice di poteri autoritativi propri”.

Tra gli altri:

·         quali siano gli atti (anche di diritto privato) con i quali l’ente pubblico ha posto vincoli funzionali di qualsivoglia natura all’attività del soggetto;

·         quali siano, a qual titolo ed a quanto ammontino le erogazioni di capitale pubblico in qualunque modo e forma connesse all’attività gestionale dei soggetti;

·         quali siano l’atto costitutivo, lo statuto, gli eventuali patti parasociali e gli atti di nomina degli amministratori e degli organi di revisione e controllo;

·         se vi sia ingerenza, a qualunque titolo, anche indirettamente esercitata dall’ente pubblico nella gestione del soggetto;

·         quali siano le partecipazioni finanziarie che l’ente pubblico detenga nel capitale di soggetti comunque quotisti, anche per via indiretta, del soggetto in esame;

·         quali siano gli atti emanati dall’ente pubblico nell’esercizio dei diritti derivanti dalla partecipazione al capitale sociale;

·         quali siano e se vi siano atti che prevedano casi in cui l’autonomia funzionale degli organi societari sia a qualunque titolo, anche indirettamente, compressa mediante subordinazione a vincoli, intese, direttive e simili di organi pubblici.

[23] Cass. S.U. 28.08.1998 n. 8541, Giust. Civ. mass. 1998, 1795, con la quale, pur senza ripudiare la teoria dell’organo indiretto, attribuisce rilevanza al carattere oggettivamente amministrativo degli atti; S.U. 2.12.1998 n. 12200,  Urbanistica e appalti, 1999, 378, che ha deciso in una fattispecie in cui la gara era stata espletata da un soggetto privato “non nell’interesse proprio ma quale concessionaria di un’amministrazione pubblica”.

[24] Trattasi di Cass. S.U. 5.2.1999 n. 24,  Giurisprudenza Italiana, 1999, 1510;  S.U. 13.02.1999 n. 64, Foro Italiano 1999, III, 2275;  S.U. 12.06.1999 n. 332, Cons. Stato 1999, II, 1846; S.U. 30.06.1999 n. 363, Cons. Stato 1999, II, 1875; tuttavia in Cass. S.U. 02.03.1999 n. 107 si legge ancora un riferimento al titolo concessorio quale elemento idoneo a fondare la pubblicità di un soggetto, con ciò dimostrando il travaglio che questo Giudice ha vissuto lungo la strada dell’abbandono del discusso concetto dell’organo indiretto.

[25] Ci si riferisce a Cass. S.U. n. 64/1999 cit.

[26] Cass. S.U. 24.2.2000 n. 40.

[27] La definisce così M. A. SANDULLI, Le nuove frontiere del Giudice Amministrativo tra tutela cautelare ante causam  e confini della giurisdizione esclusiva. Introduzione al tema, Supplemento al n. 12/2004 del Foro. Amm.-T.A.R., pag. 10.

[28] Corte Costituzionale 6 luglio 2004 n. 204, Foro Amm. CDS 2004, pag. 1901.

[29] G. NAPOLITANO, Pubblico e privato nel diritto amministrativo, 2003 e dello stesso Autore Soggetti privati <<enti pubblici>>?, Diritto Amministrativo – Rivista trimestrale n. 4/2003 pag. 801; M. CAMMELLI e A. ZIROLDI, Le società a partecipazione pubblica nel sistema locale, 1997, 119, affermano a chiare lettere che: “ La partecipazione pubblica in organismi regolati dal diritto privato è stata da sempre considerata del tutto inidonea ad alterare la naturale qualificazione privatistica del tipo societario”.

[30] MARIO P. CHITI, Impresa pubblica e organismo di diritto pubblico:nuove forme di soggettività giuridica o nozioni funzionali, Servizi pubblici e appalti, supplemento al n. 4/2004, 70. L’autore critica il criterio definito del “semel-semper”, cioè l’automatica e generalizzata applicazione delle regole pubblicistiche e, richiamando la recente giurisprudenza della Cassazione, accoglie, invece, la tesi cd. relativistica in base alla quale  “la qualificazione di un soggetto in senso pubblicistico può riguardare anche solo un determinato settore della sua attività”.

[31] F. FRACCHIA, La costituzione delle società pubbliche e i modelli societari, Il diritto dell’economia, ¾-2004, 611, osserva: “A voler prendere sul serio le scelte del legislatore, tuttavia, il riferimento allo schema della società dovrebbe comportare un arretramento del diritto pubblico e l’applicazione, salvo espressa deroga, della disciplina privatistica”.

[32]  M.S. GIANNINI, Diritto Amministrativo, 352: “Se si accede alla tesi prevalente, secondo cui le persone giuridiche private nel nostro diritto positivo hanno soggettività piena e legittimazione illimitata, per le persone giuridiche pubbliche valgono le stesse regole. (…) Deroghe sussistono per singoli enti pubblici e per singoli tipi di enti pubblici, se e in quanto previste da norme espresse”.

Da ultimo G. MONTEDORO, Leasing pubblico e capacità generale di diritto privato della p.a., www.Giustizia-amministrativa.it, il quale riporta le due tesi della piena capacità di diritto privato della pubblica amministrazione e della capacità speciale della p.a., evidenziando, tuttavia, che : “Sul punto la giurisprudenza amministrativa dopo una notevole chiusura, e ripetute oscillazioni, sembra orientata nel senso del riconoscimento pieno della capacità generale alle persone giuridiche pubbliche, allineando la loro posizione a quella delle persone giuridiche private”.

Negli stessi termini V. CERULLI IRELLI, Note critiche in tema di attività amministrativa secondo moduli negoziali, Diritto Amministrativo n. 2/2003, 218: “Sulla questione della sussistenza in capo agli enti pubblici o alle pubbliche Amministrazioni (…) di una generale capacità di diritto privato, la risposta affermativa è da ritenersi un dato ormai acquisito in dottrina; e anche in giurisprudenza”, con ampio riferimento alla dottrina e alla giurisprudenza in materia. In particolare merita un richiamo la decisione del Cons. Stato, sez. VI, 12.3.1990, n. 374.

Cfr. anche l’art. 1, comma 1 bis, della legge n. 241/1990, che verrà esaminato in proseguo.

[33] Cfr. G. CORSO, Impresa pubblica, organismo di diritto pubblico, ente pubblico: la necessità di un distinguo, Servizi pubblici e appalti, supplemento al n. 4/2004, 92, per il quale la giurisprudenza amministrativa, negando nella sentenza del Cons. Stato  n. 1206/2001 cit. la trasformazione del soggetto pubblico azienda postale da ente pubblico economico in soggetto privato s.p.a. “mostra di ignorare la volontà del legislatore (anche in senso formale) ed il relativo canone interpretativo: la volontà di cambiare lo stato di cose esistenti (da pubblico a privato)”; l’autore aggiunge che “se, quindi, i privati possono perseguire fini pubblici (…) non è lecito desumere dal fatto che un soggetto giuridico impersonale persegua fini pubblici la sua qualificazione come ente pubblico” anche perché “il sistema normativo non consente di unificare in uno stesso soggetto la qualifica di società e quella di ente pubblico”, ex artt. 11, 12 e 13 del codice civile che distinguono nettamente le persone giuridiche pubbliche da quelle private e sulla base dell’art. 4 della l. n. 70/1975, che sancisce il divieto di istituire o riconoscere enti pubblici se non per legge.

Cfr., altresì, M. P. CHITI, Impresa, cit., 71 : “Con l’applicazione generalizzata delle regole pubblicistiche risulta formalmente assicurata l’evidenza pubblica e si precludono possibili elusioni alla sfera della sicura pubblicità. In senso contrario vale però il criterio per cui in tal modo si determina una (ri)espansione del diritto pubblico per fattispecie e materie che il legislatore ha voluto sottoporre di regola al diritto comune; così invertendo il rapporto tra regola (il diritto comune) e l’eccezione (il diritto pubblico)”. L’autore rileva, altresì, che queste questioni non sono state risolte dalla decisione dell’A.P. del Cons. Stato  n. 9/2004, nonostante il tema di fondo sottoposto alla sua attenzione da parte della VI sezione fosse proprio “quello della sottoponibilità alle regole pubblicistiche di tutta l’attività dei soggetti che, quale che sia la loro forma giuridica, sono per una parte della loro attività sicuramente sottoposti a regole pubblicistiche”, mostrando “l’imbarazzo del Consiglio di Stato a dirimere questioni generali su cui la stessa Corte di giustizia europea è reticente”.

In senso critico nei confronti dell’orientamento giurisprudenziale citato anche F. G. SCOCA, Il punto sulle c.d. società pubbliche cit. : “Mi permetto di osservare, in senso moderatamente critico, che in questo modo non si tiene conto né della natura privatistica del modello scelto dal legislatore, né della circostanza che le società di cui si tratta esercitano attività commerciali, né, infine, del fatto che esse operano in regime di concorrenza”;  da ultimo cfr. S. DEL GATTO, Natura privata e <<sostanza pubblica>>. Il Consiglio di Stato torna a pubblicizzare un ente privatizzato ope legis, Foro Amm. CDS 2006, 579.

[34] L. 7.8.1990 n. 241. Recentemente il legislatore è intervenuto sul capo V della legge n. 241/1990 con la legge 11.02.2005 n. 15 (in G.U. n. 42 del 21.02.2005), affermando che per “pubblica amministrazione” si intendono “tutti i soggetti di diritto pubblico e i soggetti di diritto privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario”,  ma con l’importante precisazione che ciò vale solo ai fini del capo V citato; il legislatore, altresì, conferma che l’art. 22 sul diritto di accesso agli atti si applica anche ai gestori di pubblici servizi. Il sistema vigente, pertanto, riconosce l’applicazione generalizzata delle norme in materia di accesso ai soggetti privati limitatamente all’attività funzionalizzata di cura del pubblico interesse (CERULLI  IRELLI), nonché ai soggetti privati gestori di pubblici servizi, senza distinzione in ordine al tipo di attività svolta (in questi termini si era già espressa la giurisprudenza : cfr. TAR Veneto, I, 14.03.2005 n. 975).

Nonostante il chiaro disposto normativo potesse, anche prima dell’intervento legislativo sopra riportato, da solo giustificare l’accesso agli atti delle società in mano pubblica che gestiscono servizi pubblici, la giurisprudenza sente l’esigenza di riconosce tale diritto sulla scorta di una “lettura sostanzialistica” della società in esame e, richiamando i propri precedenti, qualifica questo strumento organo indiretto, traendone la conseguenza che essa “costituisce un modello organizzativo e gestionale sì alternativo a quello dell’azienda speciale, ma non per questo del tutto alieno a connotati e finalità sostanzialmente pubblici”: C.d.S., V, 09.12.2004 n. 7900, Guida agli enti locali n. 72/2005.

[35] D.p.r. 28.12.2000 n. 445, art. 2.

[36] Per una interessante ricostruzione delle posizioni dei Maestri del diritto amministrativo (V.E. Orlando, S. Romano, O. Ranelletti, F. Cammeo, G. Zanobini, G. Miele e M.S. Giannini) in ordine alle problematiche connesse all’esercizio privato di pubbliche funzioni e alla figura dell’organo indiretto, cfr. F. DE LEONARDIS, Il concetto di organo indiretto:verso nuove ipotesi di applicazione dell’esercizio privato di funzioni pubbliche, pubblicato sulla rivista  Diritto Amministrativo, n. 3/1995, 347. Dall’esame delle opinioni della dottrina citata emerge chiaramente la diffidenza verso la possibilità di trasformare la natura giuridica di soggetto privato per il solo fatto dell’esercizio di poteri e funzioni pubbliche.

[37] Cfr. M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo cit., 236: “Si è discusso se possano esistere società commerciali-enti pubblici. La risposta, in teoria, non può essere che affermativa, poiché la qualità di ente pubblico è di mero diritto positivo. Nei diritti positivi, però, le società commerciali sono figure giuridiche definite, almeno finora, per tratti solo privatistici. L’esempio che si adduceva da noi, di società commerciale ente pubblico, l’Azienda tabacchi italiani – Ati, a più attento esame si rileva essere una società per azioni in mano all’amministrazione autonoma dei monopoli di Stato”.

A.M. SANDULLI, Manuale di diritto amministrativo, 1989, 2, 1153 è dell’opinione che anche nei molti casi in cui “addirittura l’intero capitale sociale è nelle mani di enti pubblici (…) neanche ciò basta però a trasformare l’impresa in ente pubblico”.

[38] E’ noto come questo istituto sia stato elaborato in sede U.E. al fine di consentire l’applicazione della normativa comunitaria indipendentemente dalla qualificazione pubblicistica del soggetto operante sul mercato, accogliendo l’impostazione cd. sostanziale. I requisiti normativi che devono essere contemporaneamente presenti sono: a) la personalità giuridica, che non pone problemi per le società di capitali; b) l’influenza dominante da parte dello Stato, degli enti locali o di altri organismi di diritto pubblico, la quale può manifestarsi in tre forme alternative:il finanziamento maggioritario, la nomina della maggioranza dei componenti gli organi di amministrazione, direzione o vigilanza, il controllo sulla gestione; c) il fine di soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale e commerciale.

Su quest’ultimo requisito di recente cfr. Corte Giust. CE, V, 22.05.2003 (causa C-18/01), Foro Amm. CDS 2003,  1498 con nota di L. R. Perfetti e con nota di C. Guccione su Giornale di diritto amministrativo n. 10/2003, 1032.

Per una sintesi della giurisprudenza formatasi su questo istituto cfr. D. CASALINI, L’organismo di diritto pubblico, l’impresa pubblica e la delimitazione soggettiva della disciplina sugli appalti pubblici, nota a Cons. Stato, sez. V, 22.08.2003 n. 4748, Foro Amm. CDS 2003, 3827; F. CARINGELLA, Corso di diritto amministrativo, I, 562 ss. e M. P. CHITI, L’organismo di diritto pubblico e la nozione comunitaria di pubblica amministrazione, 2000.

[39] Si esprime in questi termini G. NAPOLITANO, Soggetti privati cit., 810 : “Non sono condivisibili gli orientamenti giurisprudenziali che si interrogano sulla natura di organismo di diritto pubblico di un ente quando applicano norme che non fanno riferimento ad esso:ad esempio per risolvere controversie in materia di accesso”.

Anche G. CORSO, Impresa pubblica cit., 93, è dell’opinione che il C.d.S. “attribuisca al termine organismo di diritto pubblico un significato diverso da quello in cui l’intende  il legislatore europeo: e che, soprattutto, gli attribuisca una portata generale che è del tutto estranea al diritto comunitario”. Per l’Autore con l’introduzione della figura dell’organismo d.d.p. il legislatore comunitario ha inteso allargare l’area della concorrenza e del mercato contrastando i comportamenti elusivi delle p.a. e non ampliare l’area del pubblico.

[40] F. CARINGELLA, Corso cit., pag. 616, che critica Cons. Stato nn. 1206 e 1207/2001. Chiarisce la differenza tra le figure dell’impresa pubblica e dell’organismo di diritto pubblico M.A. SANDULLI, L’impresa pubblica: i limiti di applicabilità della normativa pubblicistica, in Il nuovo diritto degli appalti pubblici nella direttiva CE 18/2004 e nella legge comunitaria n. 65/2004 a cura del medesimo Autore e di R. GAROFOLI. Nel testo si accoglie la figura del cd. “organismo di diritto pubblico in parte qua”, che comporta l’attribuzione della suddetta qualifica di organismo di diritto pubblico (e l’applicazione della relativa disciplina) “all’esercizio di quelle attività nelle quali non prevale il fine di lucro e non sussiste il rischio d’impresa”. Si rileva nel citato scritto, altresì, come la tendenza espansiva “determinerebbe una poco coerente (ri)espansione del diritto pubblico in settori che il legislatore ha voluto sottoporre di regola al diritto comune, così invertendo il rapporto tra la regola (il diritto comune) e l’eccezione (il diritto pubblico)” e “una definitiva abdicazione ai vantaggi del modello imprenditoriale in favore di un nuovo irrigidimento del sistema”.

[41] Ci si riferisce a Cass. S.U. 26.02.2004 n. 3899, Foro Italiano 2005, I, 2674 ss. In quest’ultima decisione il Giudice dei conflitti di giurisdizione fonda la responsabilità erariale sul “rapporto di servizio” che si configurerebbe tra la società pubblica e l’ente proprietario, “ravvisabile ogni qual volta si instauri una relazione (non organica ma) funzionale caratterizzata dall’inserimento del soggetto esterno nell’iter procedimentale dell’ente pubblico come partecipe dell’attività a fini pubblici di quest’ultimo”.

Conferma questo orientamento Cass., S.U., 25.5.2005, n. 10973, per la quale è “irrilevante il quadro di riferimento – pubblico o privato – nel quale si colloca la condotta produttiva del danno erariale”.

[42] Cfr. G. D’AURIA, Amministratori e dipendenti di enti economici e società pubbliche:quale <<revirement>> della Cassazione sulla giurisdizione di responsabilità amministrativa?, Foro Italiano 2005, I, 2683.  L’autore, infatti, confrontando le motivazioni delle decisioni che riconoscono la giurisdizione della Corte dei conti nei confronti degli amministratori e dipendenti degli enti pubblici economici (S.U. n. 19667/03, Foro Italiano 2005, I, pag. 2674 ss. ) e delle società partecipate da enti pubblici (S.U. n. 3899/2004 citata) nell’ambito dell’attività imprenditoriale, contesta la volontà della Cassazione di realizzare una vera svolta per quanto attiene l’attività delle società pubbliche. Mentre, infatti, gli enti pubblici economici vengono qualificati “soggetti pubblici per definizione” che esercitano attività amministrativa, cui segue naturaliter la giurisdizione contabile, per fondare la responsabilità degli amministratori e dipendenti delle società pubbliche la Suprema Corte richiede la sussistenza del “rapporto di servizio”, “con la conseguenza che tali figure in nulla differiscono, ai fini di cui si tratta, da tutti gli altri soggetti privati (…) che, in quanto parti di un <<rapporto di servizio>> con un’amministrazione, abbiano recato danno ad essa” o ad altra amministrazione. Per il D’Auria, pertanto, “Si tratterebbe di verificare, di volta in volta, se la figura soggettiva privata costituisca uno strumento dell’amministrazione (nel senso, per quanto qui interessa, di essere a questa legata da un <<rapporto di servizio>>) per lo svolgimento di suoi compiti istituzionali, ovvero se la società operi al di fuori dell’amministrazione, nel senso di agire in situazioni di concorrenza sul mercato”.

[43] Cfr. G. BARZAZI, La giurisdizione della Corte dei conti nei confronti degli amministratori di società pubbliche tra tutela dell’interesse pubblico e uniformità di normazione, I contratti dello Stato e degli Enti pubblici, n. 4/2004, 521 ss.; L. TORCHIA, Responsabilità civile e responsabilità amministrativa per le società in partecipazione pubblica: una pericolosa sovrapposizione, Servizi pubblici e appalti, n. 2/2006, 230, la quale rileva “forti caratteri di arbitrarietà” nell’approccio <<sostanzialista>>, che non riconoscerebbe la dovuta importanza “agli elementi che militerebbero per una affermazione del regime privatistico, quali la natura dell’attività e la rilevanza del modello adottato”. L’autore rileva, altresì, l’assenza nell’ordinamento di una norma che preveda la sottoposizione della amministratori delle società pubbliche alla giurisdizione contabile.

[44] Le ragioni della Corte dei conti sono espresse da  S. PILATO, La giurisdizione della Corte dei conti sugli enti a prevalente partecipazione pubblica nella l. 27 marzo 2001 n. 97, Il Consiglio di Stato, II, 673, il quale evidenzia “il rischio della immunità di fatto” degli amministratori delle società partecipate da soggetti pubblici che si corre accogliendo l’interpretazione restrittiva della giurisdizione contabile, in particolare nelle ipotesi di comportamenti che contraddistinguono la devianza finanziaria, quali “l’abuso d’impresa per atti esterni strumentali al conseguimento dell’illecito profitto in pregiudizio della finanza pubblica” e “l’atto d’organizzazione d’impresa strumentale alla attribuzione di indebiti vantaggi ed utili economici all’interno dell’apparato aziendale”. L’autore evidenzia l’opportunità di accogliere i criteri di individuazione della giurisdizione contabile fondati sul “vincolo finalistico di destinazione sulla provvista finanziaria erogata dalla P.A. a soggetto privato per la gestione di un’attività di interesse pubblico” e sull’assenza del rischio d’impresa nella gestione di diritto privato. Il medesimo autore, Trasparenza amministrativa e devianza finanziaria negli enti locali, Osservatorio di diritto comunitario e nazionale sugli appalti pubblici, www.jus.unitn/appalti/home.html,  evidenzia i rischi di infiltrazioni criminali nell’impresa pubblica e la necessità di tutelare il pubblico erario con un ampio ventaglio di controlli, tra i quali quelli della corte dei conti.  

[45] Da ultimo cfr. Corte dei conti, sez. I d’appello, 3.11.2005, n. 356, Foro Amm. C.d.S. 2005, 3428. In questa decisione la Corte, richiamando la giurisprudenza civilistica in  materia di responsabilità dell’amministratore nei confronti della società, chiarisce che l’attività gestionale, anche di natura discrezionale, degli amministratori di società pubbliche è sindacabile dal giudice contabile “quando contravvenendo  a criteri di efficacia ed economicità si concreti in <<abusi, arbitri od omissioni>> produttive di danno patrimoniale alla società, ma anche  quando contrastino o siano comunque estranee ai fini pubblici che la società, per la sua caratura pubblicistica, deve perseguire”. 

Per un approfondimento dei vari profili di responsabilità degli amministratori delle società partecipate da enti pubblici cfr. C. PINOTTI, La responsabilità degli amministratori di società, tra riforma del diritto societario ed evoluzione della giurisprudenza, con particolare riferimento alle società a partecipazione pubblica, Rivista della Corte dei conti n. 5/2004, 312.

Di recente Corte dei conti, sez. giur. Lazio, 30.12.2005, n. 3008, ha riconosciuto in capo alla società pubblica che gestisca il servizio parcheggi la qualifica di agente contabile, cui segue l’obbligo della resa del conto giudiziale.

[46] Cfr. Corte dei conti, sez. giur. Lombardia, 9.2.2005, n. 32/o, Foro Amm. T.A.R. 2005, 561, per la quale si assiste al “passaggio dalla responsabilità amministrativa dei soli amministratori e dipendenti pubblici per il danno patrimoniale da essi determinato alle finanze dell’amministrazione d’appartenenza in relazione alla violazione degli obblighi di servizio, alla responsabilità finanziaria, intesa come una generale forma di responsabilità patrimoniale per danno alle pubbliche finanze in cui possono incorrere tutti i soggetti che abbiano maneggio o che utilizzino pubbliche risorse, e che si configura, in via generale, in relazione alla violazione degli obblighi nascenti in capo al soggetto stesso dalla finalizzazione delle risorse pubbliche” (cfr. anche Corte conti Molise, 7,10,2002 n. 234, citata nella decisione in esame).

[47] Corte dei conti, sez. II d’appello, 23.5.2005, n. 182, Foro Amm. C.d.S. 2005, 1633.

[48] Così F. CARINGELLA, Corso cit., 611, il quale richiama Cons. Stato, sez. V, 7.6.1999 n. 295. Cfr. il medesimo testo per quanto attiene le critiche rivolte dalla dottrina in ordine alla sufficienza dell’elemento della natura pubblica dell’attività espletata per desumere la pubblicità soggettiva dell’ente e per il richiamo alla decisione della Cass. 24.2.2000 n. 40, la cui affermazione sull’idoneità dell’art. 103 Cost. a legittimare “l’espansione potenzialmente illimitata della giurisdizione amministrativa esclusiva” risulta palesemente smentita dalla recentissima sentenza della Corte Cost. 5.7.2004 n. 204, Guida al diritto n. 29/2004,  88, che non è possibile approfondire perché esulerebbe dall’oggetto di questo scritto.

Di particolare interesse la recente paradigmatica decisione della Corte dei conti, sez. giur. d’appello per la Regione Siciliana, 28.10.2005, n. 220, Rassegna amministrativa siciliana n. 1/2006, 241, la quale riconosce la natura pubblica della società Poste Italiane, “in quanto società di diritto speciale ancora interamente posseduta dallo Stato” e in considerazione del fatto che la società continuerebbe “ad agire per conseguire finalità pubblicistiche”. La Corte ribadisce che ciò che rileva per radicare la giurisdizione contabile “non è la qualificazione giuridica del soggetto o la natura degli strumenti operativi, siano essi di diritto pubblico o di diritto privato, (…) ma l’appartenenza, sia pure indiretta, del soggetto danneggiato alla P.A. globalmente intesa, con utilizzo di risorse finanziarie e patrimoniali pubbliche, nel perseguimento di finalità anch’esse pubbliche e riferibili ad un pubblico interesse”.

Cfr., da ultimo, Corte dei conti, sez. reg. controllo per la Lombardia, 30.10.2006, n. 17, la quale ritiene, in relazione al fenomeno delle società pubbliche, che “in questo modo viene creato un ente che, pur avendo natura formale di società di capitali, presenta le caratteristiche proprie di un ente pubblico. (…) anche in presenza della forma societaria se l’ente utilizza risorse pubbliche è da considerare a tutti gli effetti ente pubblico”.

[49] A.M. SANDULLI, Diritto Amministrativo cit., 1, 193 ss.: “Oggi più che mai, l’elemento al quale occorre rifarsi per stabilire, nei casi dubbi (…) se si sia in presenza di un ente pubblico, non può essere cercato tanto negli interessi (…) che l’ente persegue, quanto nel regime (trattamento) che ai singoli enti faccia il diritto positivo (e cioè nell’aspetto formale)”. Per l’Autore “l’indice per antonomasia (e indiscutibile) è rappresentato dal fatto che la legge designi l’ente come pubblico”. 

Per una sintesi delle teorie in materia di ente pubblico si veda  M. S. GIANNINI, Diritto Amministrativo cit., 1, 185 ss.  Perplessità suscita, pertanto, l’affermazione di E. CASETTA, Manuale cit., 63 ss., in base alla quale  “è da ammettere il riconoscimento della natura pubblicistica di un soggetto anche in contrasto con la definizione fornita dalla legge, quando ricorrano gli elementi della pubblicità”  cui fa riferimento la giurisprudenza, il quale giunge alla discutibile conclusione che “l’ente pubblico è quello che, al di là della definizione normativa, la giurisprudenza ritiene tale superando la rigida lettera della legge”. E’ noto, infine, come per il Casetta l’indice più importante di pubblicità sia l’indisponibilità della propria esistenza da parte del soggetto. 

Cfr., altresì, F. G. SCOCA, Il punto sulle c.d. società pubbliche cit., 247: “A me sembra che per poter imprimere ad una società la qualificazione pubblicistica sia necessaria l’espressa previsione legislativa in tal senso”.

[50] A. PATRONI GRIFFI, Commento alla decisione  del C.d.S., VI, 25.5.1979, n. 384, Le grandi decisioni del Consiglio di Stato,  500.

[51] M.S. GIANNINI, Diritto Amministrativo, 1, 220, per il quale l’unico tratto pubblicistico dell’ente pubblico economico “è la sussistenza del rapporto potestà-soggezione, che si concreta in un contenuto atipico, per  cui lo Stato  (o la Regione) può emanare direttive di indirizzo d’impresa per l’attuazione di un proprio indirizzo politico o amministrativo”.

Cfr., altresì, F. GALGANO, Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, vol. 29, Il nuovo diritto societario, 445, il quale ritiene che l’ipotesi di società totalmente posseduta da soggetti pubblici “tenderà a coincidere, pur senza coincidere del tutto, con quella dell’ente pubblico economico”, pur evidenziando poi che “gli organi sociali saranno pur sempre vincolati dalle norme comuni sulla società per azioni”.

In senso contrario, tuttavia, la citata sentenza della Cassazione S.U. n. 19667/2003: “Ancorché in forme privatistiche, gli enti pubblici economici – soggetti pubblici per definizione e che perseguono  fini del pari pubblici attraverso risorse di eguale natura – svolgono dunque anch’essi attività amministrativa, rispetto alla quale  tali forme costituiscono nient’altro che lo strumento a tali fini utilizzabile ed utilizzato”.

[52] Per un esame del rapporto tra ente pubblico economico e società di capitali si veda V. OTTAVIANO, voce Ente pubblico economico, Scritti giuridici, II,  260 (par. 1, cap. 6). L’autore rileva come “ove risulti chiara la volontà del legislatore di costituire enti nella forma delle società per azioni, sarebbe arbitrario escludere che ad essi si applichi la relativa normativa (…) e siffatto intento del legislatore, per quanto possibile, non può essere disconosciuto dall’interprete”. Diversamente e coerentemente “la loro qualificazione come enti pubblici” (economici)  “non può essere priva di significato (…) importerà, comunque, che gli enti così denominati sono da riportare all’apparato pubblico”.

[53]  V. OTTAVIANO, voce Ente pubblico economico cit., par. III, sez. I, Gli aspetti pubblicistici.

[54] Cons. Stato, sez. V, 27.9.2004, n. 6325, Foro Amm. C.d.S. 2004, 2620, evidenzia chiaramente le differenze tra il modello dell’azienda speciale e quello della società mista: “Mentre l’azienda speciale è configurabile quale ente strumentale del comune, nell’apparato organizzativo di questo compiutamente integrata, la società mista pubblico-privata è, innanzitutto, un soggetto imprenditoriale, rientrante nello schema organizzativo gestionale proprio delle società di capitali e, pertanto, non sottoposto alle limitazioni di attività cui soggiacciono le aziende speciali”.

In ordine alla centrale questione della differenza strutturale, giuridica ed economica della società pubblica rispetto all’azienda speciale cfr., da ultimo, V. VACCARI, Imprese a partecipazione pubblica: possibili sistemi di governance, Servizi pubblici e appalti n. 2/2006, 220: “La azienda municipalizzata è espressione dell’Ente Locale nel senso che ne è strumento operativo e ha uno specifico conto economico all’interno del bilancio dell’Ente Locale. (…) da un punto di vista giuridico e contabile l’azienda municipalizzata è, quindi, struttura dell’ente Locale”.

Sulla necessità di superare l’impostazione del fenomeno delle società in house  in termini di organo indiretto e la configurazione del rapporto tra ente locale proprietario e società partecipata quale rapporto di subordinazione gerarchica, in virtù delle differenze strutturali tra azienda speciale e società pubblica, nonché sulla compatibilità con l’ordinamento comunitario di tale impostazione mi permetto di rinviare a M. URSO, Il requisito del controllo analogo negli affidamenti in house, nota a Cons. stato, sez. V, 30.8.2006, n. 5072, Urbanistica e appalti n. 12/2006, 1424.

[55] Cfr. M. SPINOZZI, Revoca degli amministratori di società mista:problemi di giurisdizione, nota  a commento della decisione C.d.S. 3346/2003, Foro Amm. C.d.S. 2003, 3025 e gli autori citati nella nota 9. Per il commentatore sarebbe preferibile la tesi privatistica, in considerazione del fatto che gli articoli in esame rappresentano l’unica deroga alla disciplina generale delle s.p.a. e sono “un mezzo per riconoscere cittadinanza ad una forma di controllo pubblico sul regolare svolgimento dell’oggetto sociale”, oltre che uno strumento per tutelare l’interesse pubblico, che non giustifica, però, ulteriori deroghe alla disciplina privatistica. Per questi motivi l’Autore ritiene che debba essere riconosciuta la garanzia della giusta causa. Per la tesi privatistica si esprime anche  F. GALGANO.

Per V. OTTAVIANO, Sull’impiego a fini pubblici della società per azioni, Rivista delle società, 1960 e Scritti giuridici, II,  160, l’atto di nomina dell’amministratore della società “ha natura analoga all’atto di nomina di ogni altro pubblico funzionario”, l’amministrazione di nomina pubblica può “ritenersi preposto ad un ufficio dell’ente e come tale può considerarsi suo funzionario, dovendo ritenersi tale chiunque, mediante atto di natura pubblica, viene dall’ente destinato a svolgere compiti di sua spettanza” ed “essi sono tenuti a esercitare i loro poteri di amministratori o sindaci secondo le direttive impartite dall’ente” pubblico che li ha nominati. L’Autore precisa, comunque, che la volontà della società deve essere formata ed espressa dagli organi della società e ritiene che, al fine di evitare “inframmettenze illecite”, tendenti a favorire una parte politica, la sostituzione degli amministratori prima della scadenza del mandato dovrebbe “ritenersi illegittima, ove l’ente non chiarisse i motivi che lo hanno indotto a così operare”, mentre l’inosservanza delle direttive può rappresentare giusta causa di revoca dell’amministratore nell’ipotesi in cui l’assemblea abbia fatto proprie le direttive medesime.

Per M. CAMMELLI e A. ZIROLDI, Le società cit., 159: “E’ opinione pressoché concorde, sia pure con qualche voce contraria che l’esercizio della revoca da parte dell’ente pubblico debba avvenire nelle forme tipizzate di attività della Pubblica Amministrazione, ossia con atto amministrativo”; gli stessi Autori sono contrari all’utilizzo del paradigma della giusta causa di revoca “letteralmente previsto (…) proprio per la revoca assembleare”. Propende per la natura pubblica dell’atto di nomina anche M. DUGATO, Le società cit., 132.

Corte dei conti, sez. giur. Lazio n. 3008/2005 cit., inquadra il rapporto tra ente locale società per azioni “nell’ambito di un modulo essenzialmente pubblicistico”, richiamando la decisione del Consiglio di Stato, II, 28.2.1996, n. 366.

Per una tesi intermedia cfr., di recente, R. URSI, Riflessioni sulla governance delle società in mano pubblica, Diritto Amministrativo, n. 4/2004, 753 ss., il quale aderisce alla ricostruzione della fattispecie in esame in termini di “procedimento misto, nel corso del quale, ad una fase retta da principi eminentemente pubblicistici ed avente ad oggetto la scelta dell’amministratore, segue una fase retta dal diritto civile avente ad oggetto l’imputazione della scelta alla società e il perfezionamento del mandato gestorio”.

[56] Cfr. R. URSI, Riflessioni cit.,  755. 

[57] Trattasi di Cons. Stato, sez. V, 13.06.2003 n. 3346, Foro Amm. 2003, 3020, che riconosce l’applicabilità degli articoli 2449 e 2450 c.c. alla s.r.l. ed afferma, senza equivoci, che la facoltà di revoca è attribuita agli enti pubblici “nella loro qualità di soci”, confermando la sottoposizione di queste società al diritto privato e la marginalità dei profili pubblicistici. Questa impostazione era già stata seguita da Cons. Stato 4.2.2003 n. 708, con espresso richiamo alla giurisprudenza della Corte di Cassazione (S.U. 3.8.2000 n. 532). Negli stessi termini T.A.R. Liguria, sez. II, 13.05.2004 n. 756, Foro Amm. T.A.R. n. 5/2004, 345, che qualifica l’atto in questione di “natura privatistica”, fondato su un potere-dovere “che trova fondamento specifico nello statuto della società” e, da ultimo, T.A.R. Calabria, Catanzaro, sez. II, 18.12.2006, n. 1984, dirittodeiservizipubblici.it, il quale riconosce in capo all’ente locale socio che agisce con la nomina  o la revoca del proprio rappresentante presso la società partecipata “un potere che è sostitutivo delle ordinarie competenze assembleari e che è destinato  ad incidere su organi societari che operano in ogni caso secondo il diritto privato”, con le naturali conseguenze in ordine alla giurisdizione del Giudice ordinario.

Di recente Cass. S.U., 15.4.2005, n. 7799 ha confermato che: “La facoltà attribuita all’ente pubblico dal citato art. 2458 c.c. è, quindi, sostitutiva della generale competenza dell’assemblea ordinaria, trovando la sua giustificazione nella peculiarità di quella tipologia di soci, e deve essere qualificata estrinsecazione non di un potere pubblico, ma essenzialmente di una potestà di diritto privato, in quanto espressiva di una potestà attinente ad una situazione giuridica societaria, restando esclusa qualsiasi sua valenza amministrativa”. Per tali motivi ha riconosciuto la giurisdizione del g.o. in ordine all’atto di revoca di un amministratore di società con partecipazione pubblica nominato dall’ente pubblico socio; da ultimo cfr. Tribunale Pescara, decreto 22.3.2006, www.lexitalia.it, per il quale, attesa la natura giuridica privata delle società pubbliche, “la incidenza dell’azionista pubblico sulla componente amministrativa e sindacale della società partecipata potrà spiegarsi soltanto attraverso l’esercizio degli ordinari poteri ‘negoziali’ e privatistici assembleari”.

In dottrina R. RORDORF, Le società  <<pubbliche>> cit., 427: “Gli atti di nomina (e di revoca), da ritenersi immediatamente produttivi dei propri effetti senza necessità di alcun formale recepimento ad opera dell’assemblea, tengono in tutto e per tutto luogo di atti di nomina (e di revoca) altrimenti spettanti alla medesima assemblea e ne condividono la natura essenzialmente negoziale”.

[58] Art. 6, comma 1, l. 15.7.2002 n. 145, il quale sancisce una deroga al principio privatistico nella fattispecie indicata con precisione nella norma. In senso contrario cfr.  Cons. Stato n. 132/2005 cit., per il quale l’art. 6 cit. “è espressione del generale principio della revocabilità dei rappresentanti dell’Amministrazione”.

[59] Per R. RORDORF, Le società <<pubbliche>> cit. “ciò equivale ad aver inserito nell’ordinamento una sorta di giusta causa legale di revoca, circoscritta entro i limiti obiettivi dianzi ricordati. Ne risulta così implicitamente confermata la necessità che per eventuali atti di revoca degli amministratori di nomina pubblica posti in essere al di fuori di quei limiti si pone la questione dell’esistenza in concreto di una giusta causa, secondo i principi generali dettati dal codice civile”.

[60] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 16.11.2005, n. 6407 e R.  RORDORF, Le società <<pubbliche>> cit.,  429.

[61] Cfr. R. URSI, L’ultima frontiera della privatizzazione: la giurisdizione del giudice ordinario in materia di revoca degli amministratori di nomina pubblica, nota a commento di Cass. S.U. n. 7799/2005 cit., Foro Italiano 2005, I, 2728 ss., il quale rileva che l’opzione della Cassazione comporterebbe “l’impossibilità di verificare la rispondenza della revoca agli interessi pubblici che presiedono alla nomina: se non è sindacabile la scelta dell’assemblea di revocare gli amministratori, parimenti non è sindacabile la scelta del vertice politico di rimuovere l’amministratore e che l’impostazione criticata “oblitera la circostanza che le risorse impiegate nella società non sono capitale di rischio nella disponibilità del vertice politico, ma sono attribuite dalla collettività all’ente per la gestione di un servizio o di un’attività di interesse pubblico”.

[62] Già in passato C.G.A. 18.1.1964 n. 69, Foro Amministrativo 1964, 114, ha ritenuto che “la natura privatistica della società per azioni a partecipazione dello Stato o di altri enti pubblici (…) non toglie che nella fase della determinazione della volontà, trattandosi di un ente pubblico (la cui azione deve sempre tendere, o in via strumentale o in via diretta, alla soddisfazione dell’interesse pubblico, e quindi conformarsi alle esigenze di tale interesse), debba necessariamente intervenire l’elemento pubblicistico”.  Per il giudice siciliano, pertanto, “è da ritenersi conseguentemente implicita nell’atto stesso” (di nomina e revoca dell’amministratore) “una determinazione amministrativa adottata nel pubblico interesse”.

Cfr., altresì, Cons. Stato, sez. V, 28.1.2005, n. 178, Foro Amm. C.d.S., 122: “La norma contenuta nell’art. 50 comma 8, d.lg. 8 agosto 2000 n. 267 (…) definisce anche la regola, di portata generale (…) secondo cui le nomine e le designazioni di rappresentanti delle amministrazioni locali presso altri enti, rispettivamente, di competenza del sindaco e del presidente della provincia, devono considerarsi di carattere fiduciario, nel senso che riflettono il giudizio di affidabilità espresso attraverso la nomina, ovvero la fiducia sulla capacità del nominato di rappresentare gli indirizzi di chi l’ha designato, orientando l’azione dell’organismo nel quale si trova ad operare in senso quanto più possibile conforme agli interessi di chi gli ha conferito l’incarico. (…) La norma in esame è, dunque, espressione, nell’ambito dell’ordinamento degli enti locali, del principio della revocabilità dei rappresentanti dell’amministrazione comunale e provinciale”.

Il T.A.R. Catania, I, 26.1.2005, n. 118, Rassegna Amministrativa Siciliana, n. 1/2005, 210, inquadra l’atto di revoca tra gli atti amministrativi di secondo grado, il quale deve essere preceduto dall’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento. A ben vedere, tuttavia, il giudice siciliano fonda tale affermazione sulla discutibile norma vigente in Sicilia, in base alla quale:  “Il sindaco, con provvedimento motivato, può revocare e sostituire i rappresentanti del comune presso enti, aziende ed istituzioni anche prima della scadenza del relativo incarico” (art. 26, comma 2, l.r. 26.8.1992 n. 7). Il T.A.R. Catania richiede, comunque, che l’atto di revoca non sia svincolato da “fatti oggettivi, quali ad esempio accertate inefficienze o inadempienze, errori tecnici, incapacità di proficua gestione, tali da menomare il rapporto fiduciario e delle quali dare contezza nell’atto di revoca”.

Cfr., altresì, T.A.R. Reggio Calabria, 21.02.2005, n. 132,  che si riferisce alla fattispecie di esercizio del potere di revoca di un amministratore di una fondazione da parte del Presidente della Provincia, ha ritenuto legittima la revoca che si fondi sulla mera cessazione del rapporto fiduciario. Il Tribunale reggino precisa che : “Nell’ambito della rappresentanza di interessi la posizione di vantaggio conseguita dal rappresentante  non può mai essere mantenuta in contrasto con la volontà del rappresentato”, nonché che  il potere di revoca è “immanente al rapporto che lega il rappresentante all’Ente Locale che lo ha nominato”. Nella decisione citata il Giudice Amministrativo chiarisce che non può escludersi a priori la necessità per l’Amministrazione revocante di rispettare la norme sul procedimento amministrativo ed, in particolare, sull’obbligo di comunicare l’avvio del procedimento, la cui obbligatorietà viene nella fattispecie concreta esclusa solo perché non sembrava potersi configurare “una qualche utilità all’azione amministrativa sul piano del merito e della legittimità”.

Conferma la giurisdizione amministrativa e il carattere fiduciario e intuitu personae della designazione, in quanto fondata su un “giudizio sulle qualità del nominato ed espressione della volontà di prescerglielo per la ritenuta maggiore affidabilità che lo stesso garantisce rispetto all’indirizzo politico gestionale dell’amministrazione procedente” T.A.R. Puglia, Bari, 15.5.2006, n. 1759, Foro Italiano 2006, 565, nonostante venga riconosciuta nella medesima decisione “la natura (privatistica) dell’incarico da conferire”, anche se, nella fattispecie, esclude che l’omessa comunicazione del provvedimento conclusivo del procedimento possa invalidare l’atto di revoca, in quanto tale omissione determinerebbe esclusivamente lo slittamento della data di decorrenza del termine decadenziale per adire il giudice amministrativo.

[63] Lo rileva correttamente M. DUGATO, La società cit., 134. Esprime lo stesso concetto A. GUACCERO, Alcuni spunti in tema di governance delle società pubbliche dopo la riforma del diritto societario, Rivista delle società, n. 4/2004, 842 ss., il quale evidenzia come “in passato … la prevalenza di interessi extrasociali poteva comunque realizzarsi in concreto attraverso l’intervento dell’assemblea che autorizzasse gli amministratori – con il relativo effetto di esonero da responsabilità – al compimento di atti gestori in tale direzione”. Nel sistema novellato della s.p.a., invece, rileva l’A., anche nella società a partecipazione pubblica “il parametro operativo esclusivo per gli amministratori si conferma l’interesse sociale a matrice lucrativa” e l’organo amministrativo, a cui spetta in via esclusiva la gestione dell’impresa,  “potrebbe essere chiamato direttamente a rispondere dei danni causati alla società per la deviazione dall’interesse sociale, sia pure in conformità alla volontà dell’azionista pubblico eventualmente espressa in assemblea”, fatta salva l’ipotesi in cui “si dimostri in concreto la rimodulazione dell’interesse sociale secondo connotazioni pubblicistiche”.

E’, tuttavia, opinione diffusa che le due azioni, civile e contabile, contro l’amministratore della società, possano anche coesistere, anche se alla fine dei procedimenti non saranno ammissibili duplicazioni risarcitorie: cfr. Corte dei conti, sez. giur. Toscana, 26.4.2006, n. 265; sez. I d’appello n. 356/2006 cit.

[64] Cfr. R. RORDORF, Le società <<pubbliche>> cit. : “La giusta causa andrebbe apprezzata non già facendo riferimento all’eventuale rottura del rapporto fiduciario tra l’ente designante ed il designato, bensì unicamente con riguardo a fatti rilevanti nella sfera dell’ordinamento societario”.

[65] Cfr. F. GALGANO, Il nuovo diritto societario cit.,  449.

[66] N. R. DI TORREPADULA, Aspetti di diritto societario delle società per azioni con partecipazione comunale, Rivista delle società, 1997, 156.

[67] S. FORTUNATO, I <<controlli>> nella riforma del diritto societario, Rivista delle società, luglio/agosto 2003, 863 ss evidenzia come la riforma si sia indirizzata verso una “direzione verticistica e di sostanziale arretramento delle tutele apprestate agli interessi dei singoli azionisti a tutto vantaggio di una maggiore stabilità delle scelte gestionali e di una più difficile messa in discussione dell’operato degli amministratori”.

Una parte della giurisprudenza ritiene che l’art. 2409 c.c. non sia applicabile alle s.r.l. in virtù dell’abrogazione del precedente richiamo contenuto nell’art. 2488 c.c., ult. comma, nonché della speciale disciplina prevista dall’art. 2476c.c. per le ipotesi di responsabilità degli amministratori: in questi termini Tribunale Terni, decreto 9.4.2004; cfr. anche Corte d’Appello di Trieste, ord. 5.11.2004, che ha dichiarato non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2409, 1° e 7° comma, 2476, comma 3 e 2477, comma 4, nella parte in cui escludono la possibilità del controllo giudiziario di s.r.l., per violazione dell’art. 76 Cost. Altra giurisprudenza è, invece, dell’opinione che il controllo giudiziario ex art. 2409 c.c. è ammissibile nelle s.r.l. nei casi in cui sia obbligatoria la nomina del collegio sindacale: Tribunale Roma, decreto 6.7.2004. Le decisioni citate sono pubblicate su Foro Italiano 2005, I, pag. 868 e ss.

[68] L. DE ANGELIS, Amministrazione e controllo nella società a responsabilità limitata, Rivista delle società, n. 2-3/2003,  484 ss. evidenzia come i soci possano visionare qualsiasi documento, nessuno escluso, su cui in precedenza il controllo era riservato al collegio sindacale, con evidenti rischi “sotto il profilo del diritto alla riservatezza”.

[69] Possibilità esplicitamente presa in considerazione dall’art. 194, comma 1, lett. c) del d. lgs. n. 267/2000.

La Corte dei conti, sez. Giurisdizionale per la Regione Marche, 12.7.2005, n. 492,  ha riconosciuto la responsabilità erariale nell’operato di un Comune ha operò la ricapitalizzazione di una società partecipata dal medesimo ente, in quanto “prima di assumere la decisione il consiglio comunale avrebbe dovuto valutare accuratamente le ragioni del dissesto e, soprattutto, accertare se esistevano le condizioni per ripianare la Società e renderla veramente operativa”.

Per M. DUGATO, Il finanziamento delle società a partecipazione pubblica tra natura dell’interesse e procedimento di costituzione,  Diritto Amministrativo – Rivista, n. 3/2004, 573, occorre tener conto della disciplina europea sugli aiuti di Stato, per cui “possono essere destinati alla società finanziamenti da parte dello Stato o di altri enti pubblici soci e non soci, soltanto quando essi appaiano giustificati da una ragionevole strategia d’impresa, non anche quando si risolvano in un ripiano delle perdite conseguenti ad una cattiva gestione dell’attività”. La soluzione, tuttavia, può cambiare se si accoglie l’impostazione giurisprudenziale che esclude la terzietà nell’ipotesi di affidamenti in house, in quanto, come rileva l’Autore, non si pongono problemi di alterazione della concorrenza. Per lo stesso Autore, nelle altre ipotesi di svolgimento di un servizio economico, il finanziamento è ammissibile quando ciò appare giustificato “nell’ottica del comune imprenditore” e nel caso di “attribuzione di compiti oggettivamente non remunerativi di interesse pubblico e nella misura strettamente corrispondente alla copertura di quei costi”.

[70] Cfr. Corte dei conti, sez. giur. Lazio, n. 3008/2005.          

[71] S. FORTUNATO, I <<controlli>> cit.,  avanza seri e fondati dubbi sulla efficacia dei controlli nel “sistema dualistico”, in cui il consiglio di sorveglianza (che nomina il consiglio di gestione) ha una natura ibrida “a mezzo fra le regole dell’organo di controllo e dell’organo gestorio”; negli stessi termini si esprime l’A. in ordine al “sistema monistico”, in cui  il comitato per il controllo sulla gestione è costituito all’interno dello stesso consiglio di amministrazione, concludendo nel senso che  “la commistione tra funzione gestoria e funzione di vigilanza rende il modello ancor meno desiderabile dal punto di vista della tutela degli interessi in gioco”.

[72]  A. GUACCERO, Alcuni spunti cit., 861, per il quale “Il sistema dualistico consente quindi di conformare statutariamente un sistema che managerializzi l’organo gestorio lasciando l’esercizio dell’influenza del proprietario pubblico, o del soggetto pubblico comunque dotato di poteri di nomina, al consiglio di sorveglianza, al quale limitare le attribuzioni ex artt. 2449-2450”.

[73] Così A. BUSANI, Molte opportunità ancora da valutare, Il sole 24 ore del 13.08.2004, per il quale gli enti pubblici “stante la loro fisiologica e istituzionale incapacità di vivere da protagonisti un’esperienza societaria, possono trovare opportuno avvalersi di un nucleo di soggetti, i <<sorveglianti>> appunto, che, senza avere dirette competenze gestionali, abbiano invece le capacità, in ragione della loro qualificazione professionale, di instaurare un rapporto con l’organo amministrativo assai più proficuo di quello che i soci potrebbero realizzare”.

[74] A. GUACCERO, Alcuni spunti cit.,  862, per il quale “Anche il sistema monistico potrebbe porsi quale modello di governance eleggibile da società pubbliche, per le quali si ponga un problema di costi di amministrazione e controllo e sia avvertito il tema dell’accesso diretto alle informazioni gestorie”.

[75] Cfr. G. NEGRI, Nuove società, vecchia governance, su Il sole 24 ore del 13.08.2004, dal quale emerge che le imprese da gennaio 2004 hanno optato in larga maggioranza per il modello tradizionale ( n. 7.985), mentre soltanto poche hanno scelto il modello monistico (n. 190) o il modello dualistico (n. 44).

[76] V. CERULLI IRELLI, Osservazioni generali sulla legge di modifica della l. n. 241/90 – I parte, www.giustamm.it: “Da un punto di vista sistematico la norma vuol significare una inversione di tendenza rispetto all’impostazione tradizionale, secondo la quale il diritto pubblico è il diritto normale dell’amministrazione e in caso di dubbio interpretativo sono sempre le norme di diritto pubblico a doversi applicare da parte delle pubbliche Amministrazioni e non quelle di diritto comune. L’agire secondo il diritto pubblico è la regola per le pubbliche amministrazioni; l’agire secondo il diritto privato l’eccezione, da tenere limitato ai casi espressamente previsti dalla legge. Questo principio, peraltro, da ritenere superato sia nella prassi applicativa delle pubbliche Amministrazioni, sia nelle impostazioni dottrinali e giurisprudenziali, viene ribaltato dalla norma in esame. Secondo essa infatti l’agire secondo il diritto pubblico dev’essere oggetto di espressa previsione normativa; ché altrimenti le pubbliche Amministrazioni agiscono secondo il diritto privato”. Per l’A. l’articolo citato “come norma di legge ordinaria non ha ovviamente la forza di derogare la legislazione positiva, peraltro da essa espressamente richiamata. Ben altro impatto avrebbe avuto, come ovvio, la norma di analogo tenore che la Commissione D’Alema (L. Cost. 1/97) aveva proposto di introdurre in Costituzione”; ciò non toglie, tuttavia, che la norma “esprime un principio tendenziale dell’ordinamento (…) e diviene operativa soltanto nei casi in cui le Amministrazioni agiscono instaurando rapporti con soggetti terzi non previsti da specifiche norme di diritto pubblico”.

Evidenzia il rischio di “gravi e pericolosi equivoci” F. SATTA, La riforma della legge 241/90: dubbi e perplessità, www.giustamm.it. Per l’autore la norma potrebbe essere interpretata nel senso che la p.a. “è svincolata dalla regola dell’interesse pubblico e che persegue viceversa interessi propri, alla stregua di qualsiasi privato”. Anche G. VIRGA, Le modifiche ed integrazioni alla legge n. 241 del 1990 recentemente approvate. Osservazioni derivanti da una prima lettura www.lexitalia.it, ammonisce dal trarre conclusioni fuorvianti dalla norma in esame e  invita il lettore ad attribuire maggiore importanza al contenuto dell’art. 1 comma 1 ter, poiché “è in questo secondo senso che va muovendosi il nostro ordinamento.”.

[77]Cfr. F. CARINGELLA, La riforma del procedimento amministrativo – Profili generali della  riforma, Urbanistica e appalti n. 4/2005, 377 : “La norma si limita a esternare un principio ormai assodato da circa un ventennio, ossia quello della generale capacità negoziale della pubblica amministrazione e della soggezione dell’attività paritetica alle normali regole del diritto comune”.

[78] Cfr. A. DE ROBERTO, La legge generale sull’azione amministrativa, 13, per il quale il comma 1 bis dell’art. 1 della legge n. 241 del 1990 “ha alla sua base la preoccupazione legislativa di frenare l’espansione di regole di diritto pubblico relative all’attività autoritativa in campi di azione rimessi alla gestione paritetica (di diritto comune o no). Solo in presenza di una previsione legislativa (non, ad es., in via analogica) potranno, perciò, ritenersi operanti norme di diritto pubblico nell’ambito di rapporti paritetici tra amministrazioni o tra privato ed amministrazioni”.     

[79] V. CERULLI  IRELLI, Osservazioni generali cit.: “Le attività di rilievo pubblico svolte dal soggetto una volta che esso viene privatizzato restano cionondimeno assoggettate alla disciplina dell’azione amministrativa. Solo la parte coperta dal munus” (cioè l’attività espressione di funzioni pubbliche) “resta tuttavia sottoposta al rispetto delle norme  e dei principi del diritto amministrativo, nonché al sindacato del giudice amministrativo; restando viceversa esclusa quella parte di attività che gli stessi soggetti pongono in essere nell’ambito della loro autonomia privata”.

Cfr. anche A. DE ROBERTO, La legge generale .. cit., pag. 14 : “Vengono, per la prima volta, espressi principi in tema di attività esplicata da soggetti privati con provvedimento amministrativo (attività pubblicistica di soggetti privati): si pensi ai concessionari”.

G. NAPOLITANO, L’attività amministrativa e il diritto privato, Giornale di diritto amministrativo n. 5/2005, 487, evidenzia che : “La soluzione normativa in commento riduce la necessità di improprie operazioni di <<riqualificazione pubblica>> della natura giuridica dei soggetti privati (…) in quanto si limita a imporre una funzionalizzazione flessibile, per principi, rispettosa dell’autonomia organizzativa ed operativa dei privati”.

[80] In senso contrario V. CERULLI IRELLI, il quale, nella nota precedente, sembra propendere verso l’estensione ai soggetti privati presi in considerazione dalla norma in esame  tutte le norme del diritto amministrativo, seppur con i limiti sopra esposti.

[81] S. GIACCHETTI, Giurisdizione amministrativa e legge n. 15/2005: verso la riscoperta dell’unitarietà dell’interesse pubblico o verso una riserva indiana, Il Consiglio di Stato 2005, 388: “Il dictum della Corte contiene almeno due premesse logiche che sono vere e proprie mine vaganti”, tra cui “l’asserita equivalenza tra la <<attività negoziale >> della pubblica amministrazione e la <<attività privatistica>> del comune operatore privato”.

[82] Altra questione è se le posizioni siano realmente paritarie. In materia cfr. G. ROSSI, Diritto pubblico e diritto privato nell’attività della pubblica amministrazione: alla ricerca della tutela degli interessi, Diritto pubblico 1998, 661: “Sono, infine, gli stessi privatisti più saggi a far rilevare che sotto l’apparente posizione di uguaglianza garantita dal rapporto privatistico può nascondersi una più subdola prevaricazione del più forte: <<la formula del negozio giuridico, scrive Rescigno, si è prestata a coprire le disuguaglianza sostanziali dietro lo schema della parità dei cittadini dinanzi alla legge e nell’uso dei mezzi forniti dal diritto per creare o mutare le situazioni personali o parrimonial>>”.

[83] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 17.5.2005, n. 2461, Foro Amm. C.d.S, 2005, 1474, il quale ha stabilito che, in caso di rapporto convenzionale tra un Comune e una società mista da esso partecipata (nella fattispecie avente ad oggetto la gestione delle entrate comunali), appartiene alla cognizione dell’Autorità Giudiziaria Ordinaria  la controversia promossa dalla società mista con la quale si contesta la sussistenza degli inadempimenti addebitati dal Comune e posti a fondamento della risoluzione del contratto e, di conseguenza, si richiede la permanente validità del contratto medesimo. Ciò sul presupposto che  “In materia di  contratti della pubblica amministrazione sono devolute alla cognizione del giudice ordinario tutte le controversie sorte nella fase di esecuzione del contratto in quanto hanno ad oggetto posizioni di diritto soggettivo inerenti il rapporto di natura privatistica sorto a seguito della stipula del contratto. (…) Gli atti suddetti, infatti, sebbene rappresentino anche il risultato di valutazioni discrezionali da parte dell’amministrazione, operano pur sempre nell’ambito paritetico del contratto e non costituiscono esplicazione di un potere di natura pubblicistica, ma esercizio di una facoltà accordata dalla legge e dalla convenzione ad uno dei contraenti”.

[84] F. CARINGELLA, Corso cit.,  616, che critica C.d.S. 1206 e 1207/2001. Cfr. anche M. DUGATO, Le società cit., 163, il quale con riferimento agli appalti sotto soglia ritiene “doversi escludere qualsiasi procedimentalizzazione dei contratti, posto che non esiste una norma di contabilità dell’ordinamento nazionale che estenda l’obbligo dell’evidenza pubblica a soggetti diversi dagli enti pubblici”.

In giurisprudenza Cass., S.U., 20.11.2003, n. 17635; Cons. Stato, sez. V, 18.11.2004, n. 7554, Urbanistica e appalti n. 6/2005, 703, il quale ha escluso che una s.p.a. pubblica, anche se qualificabile come organismo di diritto pubblico, sia tenuta ad osservare le procedure di evidenza pubblica previste dalla normativa comunitaria in materia di appalti o quelle previste dalla normativa sulla contabilità generale dell0 Stato di cui a r.d. n. 2240/1923 e al r.d. n. 827/1924, “che riguardano solo le Amministrazioni statali e gli enti pubblici per i quali ne è stata prevista l’estensione per effetto di norme specifiche”; di recente T.A.R. Lazio, sez. II ter, 26.5.2006, n. 3921, Foro Amm. TAR 2006, 1709, ha confermato che una società pubblica, pur qualificabile come organismo di diritto pubblico,”non è tenuta ad applicare le procedure ad evidenza pubblica di cui alla normativa sulla contabilità generale dello Stato”.

Cfr., altresì, l’interessante decisione del T.A.R. Lecce, II, 23.9.2005, n. 4318, la quale, riprendendo la distinzione impresa pubblica (“soggetto che svolge attività imprenditoriale a tutti gli effetti -con la sola particolarità che l’azionista è lo Stato o un’altra P.A.-”) e organismo di diritto pubblico (“istituito per soddisfare specificamente bisogni di interesse generale aventi carattere non industriale o commerciale”), ritiene che alla prima non si applichi la disciplina comunitaria sugli appalti pubblici di servizi e la procedura per l’affidamento dei servizi medesimi abbia natura privatistica.

[85] Da ultimo T.A.R. Lazio, Roma, II, 18.08.2004 n. 7763 su Foro Amm. – T.A.R. n. 7-8/2004, 2175, il quale, richiamandosi alla citata decisione del C.d.S. n. 1206/2001 e alla giurisprudenza comunitaria – in particolare ord. Corte di Giustizia CE 03.12.2001 in C 59/00 -, afferma che “per i soggetti ordinariamente tenuti ad applicare la normativa nazionale e comunitaria nella scelta dell’altro contraente, il rispetto delle norme sull’evidenza pubblica è da intendersi regola generale, che vale quindi anche per gli appalti pubblici sotto soglia “; negli stessi termini T.A.R. Campania, Napoli, I, 20.05.2003 su Diritto processuale amministrativo – Rivista trimestrale n. 2/2004, 497 con nota di D. MARRAMMA, L’organismo di diritto pubblico e gli appalti di servizi e di forniture sotto-soglia.  Di recente cfr. C.G.A. Sicilia, 19.10.2005, n. 682, per il quale l’organismo di diritto pubblico va equiparato in toto alle Amministrazioni pubbliche e, di conseguenza, detto soggetto “è tenuto all’osservanza della direttiva in materia di appalti pubblici” (nella fattispecie di lavori) “per tutte le attività poste in essere e cioè anche per quelle che non siano riconducibili al soddisfacimento di bisogni di interesse generale non aventi carattere commerciale o industriale”.

In ordine, tuttavia, agli appalti di lavori occorre tener conto di quanto disposto dall’art. 2, comma 2, lett. b, della legge 11.02.1994 n. 109, il quale stabilisce che le norme della legge sui lavori si applicano “alle società di cui agli articoli 113, 113-bis, 115 e 116 del citato testo unico ( n. 267/2000 n.d.r.), alle società con capitale pubblico, in misura anche non prevalente, che abbiano ad oggetto della propria attività la produzione di beni o servizi non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza”, estensione, viceversa, non prevista dai decreti legislativi n. 358/1992 (in materia di appalti pubblici di forniture) e n. 157/1995 (in materia di appalti pubblici di servizi).

[86] M. GRECO, Gli acquisti di beni e servizi delle spa miste degli enti locali, www. appaltiecontratti.it, 2004, il quale riteneva applicabili agli appalti de quibus espletati dai soggetti in esame “i limiti indicati dai principi generali del diritto comunitario (non discriminazione, parità di trattamento, trasparenza) e dalle esigenze di corretto e imparziale impiego delle risorse pubbliche”, suggerendo, a causa della inapplicabilità diretta delle norme di contabilità di Stato (r.d. n. 827/1924 e d.p.r. 573/1994 per le forniture sotto soglia), la regolamentazione interna. 

[87] Lo evidenzia efficacemente D. MARAMMA, L’organismo di diritto pubblico e gli appalti di servizi e forniture sotto-soglia, Diritto processuale amministrativo 2003, 500, il quale è dell’opinione che le sollecitazioni della corte Ce al rispetto del principi fondamentali del Trattato anche nelle ipotesi di commesse di modico valore “non possono essere tradotte sic et simpliciter in un richiamo ad applicare le direttive appalti anche in tali frangenti”.

Di opinione opposta D. CASALINI, Giurisdizione sugli appalti di valore inferiore alla soglia comunitaria, obbligo di osservanza dei principi comunitari a tutela della concorrenza e nozione di <<amministrazione aggiudicatrice>>, Foro Amm. C.d.S. 2005, 151, per il quale : “Si prospetta la necessità di una procedura di scelta del contraente per la stipulazione dei contratti di appalto inferiori alla soglia di rilievo comunitario che attui una comparazione tra aspiranti contraenti (c.d. gara informale o trattativa privata procedimentalizzata) ispirata a trasparenza, proporzionalità, parità di trattamento (…). In applicazione dei richiamati principi comunitari e nazionali, un organismo di diritto pubblico dovrebbe pubblicizzare la propria intenzione di acquisire determinati servizi e forniture (…); definire in maniera non discriminatoria le condizioni di partecipazione al confronto concorrenziale e l’oggetto dell’appalto (…); svolgere un minimo di confronto concorrenziale tra le imprese che hanno manifestato interesse alla prestazione richiesta (…); applicare criteri di scelta del contraente non discriminatori o casuali (per cui è difficile immaginare alternative al criterio del prezzo più basso e dell’offerta economicamente più vantaggiosa)”.

[88] Cons. Stato, sez. V, 8.3.2005, n. 954; non sembra condividere questa opinione, invece, Cons. Stato, sez. V, 13.12.2005, n. 7058.

[89] La società pubblica potrà avvalersi dei sistemi di acquisto “in economia”, mediante l’adozione di un apposito regolamento : cfr. A. CANCRINI e F. PETULLA’, L’affidamento diretto nell’appalto, 2003, pag. 183, i quali sostengono, però, che tale possibilità è ammessa “nelle ipotesi e nei limiti di importo fissati dagli specifici regolamenti adottati da ciascuna Amministrazione partecipante alla società medesima”, soluzione che non appare fondata su alcuna norma e che risulta  invasiva dell’autonomia della società.

[90] Diversamente, per le aziende speciali degli enti locali,  il d.p.r. 4.10.1986, n. 902 prevede procedure concorsuali per la scelta dei contraenti privati in materia di lavori, servizi o forniture, norma ancora in vigore : cfr. D. CASALINI, Giurisdizione cit.,  138.

[91] T.A.R. Lazio, Roma, II, 18.08.2004 n. 7763,  Foro Amm. – T.A.R.  2004, 2175, il quale richiama la citata decisione del C.d.S. 1206/200 e la giurisprudenza comunitaria – in particolare ord. Corte di Giustizia CE 03.12.2001 in C 59/00 -.;  negli stessi termini T.A.R. Campania, Napoli, I, 20.05.2003 su Diritto processuale amministrativo – Rivista trimestrale n. 2/2004, 497.

R. DE NICTOLIS, nota di commento alla decisione della Corte Ce n. 2603/2005, Urbanistica e appalti n. 3/2005, in ordine agli appalti indetti dalla società mista, effettua la seguente distinzione: a) affidamento a terzi di lavori e servizi affidati alla società in sede di costituzione. L’ipotesi va assimilata “a quella del subappalto/subconcessione, di cui seguirà le regole (non necessità di procedura di evidenza pubblica) (…) considerato che vi è già stata una procedura di evidenza pubblica”; b) lavori e servizi che autonomamente la società intenda affidare a terzi. In questo caso l’Autore,  prendendo spunto dal citato art. 2 della legge n. 109/1994, ritiene che sarà necessaria l’adozione di procedura di evidenza pubblica; c) lavori o servizi che la società abbia ricevuto dopo la propria costituzione e che intenda subaffidare a terzi. In questa fattispecie, sarà possibile derogare alle procedure concorsuali solo nell’ipotesi in cui vi sia stata gara per l’affidamento dei suddetti lavori o servizi.

La Commissione Ce, Libro verde relativo ai partenariati pubblico-privati cit., ritiene che : “Se l’entità mista funge da organismo aggiudicatore, tale funzione implica anche il rispetto del diritto applicabile in materia di appalti pubblici e di concessioni, laddove tale diritto assegni al partner privato dei compiti che l’amministrazione aggiudicatrice non abbia bandito precedentemente alla costituzione dell’impresa mista. Il partner privato non può, infatti, approfittare della propria posizione privilegiata nell’entità mista per riservarsi alcuni compiti senza procedere preliminarmente ad un bando”.

[92] Cfr. M. A. SCINO, il quale, nella nota a commento della decisone della Corte di giustizia delle Comunità europee 11.01.2005, causa C-26-03,  Guida al diritto n. 4/2005, 110, evidenzia come a seguito della decisione citata “può, invero, ritenersi che la regola dell’80% è stata smentita e con essa si sia ritornati al modello delle aziende speciali”.

[93] Cfr. le conclusioni dell’Avvocato Generale STIX-HACHL nel procedimento C-26/03, nelle quali si esclude la trasponibilità della regola dell’80% in considerazione del fatto che “la rigidità di una percentuale fissa può anche costituire un ostacolo per una soluzione corretta. Inoltre essa non consente di prendere in considerazione elementi qualitativi”, nonché sulla scorta “della circostanza che si tratta di una disposizione eccezionale contenuta in una direttiva valida solo per taluni settori”. Cfr., altresì, le Conclusioni del medesimo Avv. Gen. del 12.1.2006 n C. 340/04, nelle quali viene effettuato un analitico esame del requisito della prevalenza dell’attività.

Di recente T.A.R. Sicilia, Catania, II, 13.2.2006, n. 198, ha escluso il rispetto del requisito della prevalenza dell’attività (e di conseguenza ha annullato l’affidamento diretto ad una società partecipata di un servizio) in una fattispecie in cui la società pubblica aveva realizzato, nell’anno solare, “solo il 62% del proprio fatturato in sevizi resi” a favore del Comune proprietario.

[94] C.d.S., VI, n. 5843/2004; C.d.S., V, 03.09.2001 n. 4586.

Di recente, C.d.S., V, 30.5.2005, n. 2756 ha affermato che : “La capacità, in termini di mezzi tecnici e finanziari, della società mista ad assumere, in aggiunta a quelle derivanti dal servizio svolto per l’ente di riferimento, anche il servizio oggetto della specifica gara alla quale chiede di partecipare, attiene alla legittimazione della società a partecipare alla gara ed assume quindi la valenza di un requisito soggettivo che, in quanto tale, deve essere assoggettato a verifica” da parte della commmissione di gara dell’ente appaltante. In mancanza di tale accertamento l’aggiudicazione è illegittima.

Nella decisione n. 5204 del 3.10.2005, la IV^ sez. del C.d.S. supporta le medesime conclusioni cui è giunta la giurisprudenza sopra riportata sulla scorta delle seguenti  considerazioni : “Essendo la società mista un vero e proprio imprenditore economico e rischiando, quindi, nello svolgimento della propria attività il capitale che, però, non è di sua proprietà, ma costituisce strumento di cui è stato dotato dal Comune (…) e che appartiene, quindi, collettivamente alla relativa comunità locale (ed è solo amministrato dal comune), il concreto svolgimento di attività extraterritoriale impone la concreta ed effettiva dimostrazione – evidentemente secondo il ragionevole principio dell’id quod plerumque accidit – che essa sia vantaggiosa e che non comporti danni o pregiudizi per la comunità locale 8laddove per l’attività che si svolge intra moenia vi è una sorta di presunzione iuris et de iure che la relativa attività sia utile e vantaggiosa per la comunità locale)”. Diversamente opinando il Giudice Amministrativo configura “gravissime ripercussioni sul corretto funzionamento del mercato e con stravolgimento dei fondamentali principi di concorrenza e parità di trattamento tra imprese pubbliche ed imprese private, atteso che proprio il rischio imprenditoriale, in definitiva, e la conseguente perdita del capitale non incomberebbe sulla società in quanto tale ma sulla collettività (…) che in ogni caso non potrebbe in alcun caso esercitare alcun controllo (neppure politico, attraverso cioè la scelta dei propri rappresentanti, nel caso si ammettesse una definitiva ed ineludibile cesura tra ente locale e società mista)”.

[95] Per un approfondimento delle caratteristiche dell’azienda speciale e delle differenze strutturali con la società di capitali pubblica cfr. C.d.S., V, 3.9.2001, n. 4586; in materia di aziende speciali cfr., altresì, C.d.S., V, 17.4.2002 n. 2012, Rivista Corte conti, n. 2/2002, 291 : “Soltanto quando sia accertata la sproporzione tra mezzi impiegati ed utilità per l’Ente locale, in via residuale, si può fare riferimento alla carenza di un collegamento funzionale per inibire l’attività extraterritoriale della azienda municipalizzata”; C.d.S., V, 21.6.2005, n. 3264, Foro Amm. C.d.S. 2005,  1792, il quale dà per presupposto che il c.d. <<vincolo funzionale>> è “imposto logicamente dalla natura di ente strumentale (del comune) rivestita dall’azienda speciale”. Solo in ordine alla azienda speciale a all’istituzione, infatti, l’art. 114 del d. lgs. n. 267/2000 parla, rispettivamente, di “ente strumentale” e di “organismo strumentale”.

[96]  Cass. S.U. n. 3/1993; S.U. n. 4989/1995; S.U. n. 2738/1997. Di recente Cass., S.U., 7799/2005. ha riconfermato che : <<Normalmente, come è stato già sottolineato da questa Corte (Cass. Sez. Un. 6.5.1995, n. 4989; 6.6.1997, n. 5085; 26.8.1998, n. 8454) la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggano le azioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera “nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico”: il rapporto tra la società e l’ente locale “è di assoluta autonomia, sicché non è consentito al Comune incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali”. Invero, la legge non prevede “alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale… La posizione del Comune all’interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla “prevalenza” del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l’ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società … avvalendosi non già di poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società (v. art. 2459 c.c.)”>>.

[97] Cfr. C.d.S., V, 18.09.2003 n. 5361; da ultimo T.A.R. Toscana, II, 14.10.2005, n. 4677: “La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il rapporto tra il comune e la società per azioni costituita dallo stesso comune per la gestione di un servizio pubblico è di assoluta autonomia, sicchè una società del genere opera come persona giuridica privata, senza alcun collegamento con l’ente pubblico )cfr. Cass. SS.UU. 6 maggio 1995 n. 4989 e 4991). Tali società quindi, in quanto dotate di personalità giuridica  e di autonomia imprenditoriale, operano secondo i comuni principi di concorrenza al pari di tutte le altre”, anche se, nel caso esaminato dal TAR Toscana, si trattava di una società con partecipazione minoritaria del comune di Arezzo.

[98] Cfr. R. CAVALLO PERIN – D. CASALINI, L’in house providing: un’impresa dimezzata, Diritto Amministrativo n. 1/2006, 51.

[99] Art. 112, comma 1, del d. lgs. n. 267/2000.

[100] C.d.S., V, 21.6.2005, n. 3264, Foro Amm. C.d.S. 2005, 1792; V, 28.9.2005, n. 5196, la quale evidenzia la differenza con l’azienda speciale e la conseguente necessaria “maggiore flessibilità nel dimensionare il vincolo funzionale”, nonché nega che possa considerarsi violato il principio di parità di trattamento per il solo fatto che partecipi ad una gara un soggetto che gode di sovvenzioni, citando la decisione della corte di Giustizia Ce 7.12.2000.

Cfr. anche C.d.S., sez. V, 25.6.2002, n. 3448, che ammette “l’impegno extraterritoriale ove questo comporti apprezzabili ritorni di utilità e soprattutto non distolga in maniera rilevante risorse e mezzi dalla collettività di riferimento” e sez. V, 27.9.2004, n. 6325, la quale, dalla differente natura della società mista rispetto all’azienda speciale, trae la conclusione che “è possibile affermare che l’ordinamento giuridico non pone, in linea di principio, alcun limite all’assunzione, da parte di società miste, di compiti ultronei alla mission assegnata all’ente locale”.

[101] Il T.A.R. Abruzzo, Pescara, 25.7.1998, n. 507, TAR 1998, I, 3785 ammette la possibilità per le società pubbliche di svolgere attività extraterritoriale senza richiedere alcun vincolo funzionale tra il servizio espletato al di fuori del proprio territorio e le necessità della comunità locale e rigetta, in una condivisibile ottica privatistica, l’impostazione proposta dal ricorrente di assimilare le società partecipate da enti pubblici alle aziende speciali.

[102] Cfr. C.d.S., V, 28.9.2005, n. 5196: “Non possono evidenziarsi particolari problemi per quanto attiene alla dimensione territoriale di riferimento delle società miste a maggioranza pubblica, stante la necessità che per queste, costituite appositamente per lo svolgimento di servizi pubblici, si addivenga, a differenza del modello delle aziende speciali, ad una maggiore flessibilità nel dimensionare il vincolo funzionale”. Particolarmente interessante, nell’ottica complessiva di questo scritto, il rilievo in base al quale “mentre l’azienda speciale è configurabile quale ente strumentale del Comune, nell’apparato organizzativo di questo compiutamente integrata, la società mista pubblico-privata è, innanzitutto, un soggetto imprenditoriale, rientrante nello schema organizzativo gestionale proprio delle società di capitali e, pertanto, non sottoposto alle limitazioni di attività cui soggiacciono le aziende speciali”.Particolarmente pregnante, infine, il richiamo all’art. 86 del Trattato di Roma  e alla direttiva 92/50/CEE, i quali “prevedono che le Società pubbliche possano agire in regime di parità di trattamento con le imprese private e che tra i prestatori di servizi sono inclusi i soggetti pubblici che forniscono servizi”. Naturale la conclusione del percorso argomentativo della decisione in esame (tutt’altro che isolata: cfr. la decisione ivi richiamata n. 6325/2004) : “con il che è esclusa ogni limitazione alla facoltà dei soggetti pubblici fornitori di servizi di partecipare alle gare pubbliche”.

[103] T.A.R. Sicilia, Catania, I, 22.12.1005, n. 2494, Rassegna Amministrativa Siciliana n. 1/2006, 151.

[104] T.A.R. Catania n. 2494/2005 cit.: “Così verrebbero escluse dal confronto concorrenziale d cui all’art. 113 comma 5 lett. ‘b’ proprio le compagini societarie con la maggiore e più qualificata esperienza nel settore corrispondente a quel tipo di servizi pubblico locale per il quale sta procedendo; ed inoltre si indebolirebbe il sistema di concorrenza tra gestori locali di pubblici servizi che, nel mercato, consente di migliorare con la competizione il livello della qualità dei servizi”.

[105] D.l.  4 luglio 2006, n. 223, convertito con legge 4 agosto 2006, n. 248, in G.U.R.I. n. 186 dell’11.8.2006.

[106] L’espressione è utilizzata da T.A.R. Campania, Salerno, I, 19.7.2005, n. 1290, Foro Amm. TAR 2005, 3501.

Si tenga presente che già il comma 6 dell’art. 113 del d. lgs n. 267/2000, introdotto dall’art. 35 della l. 448/2001, era sopravvissuto alla riforma del 2003 e, pertanto, continuava a vietare la partecipazione alle gare di cui al comma 5 del medesimo articolo alle “società che, in Italia o all’estero, gestiscono a qualunque titolo servizi pubblici locali in virtù di un affidamento diretto, di una procedura non ad evidenza pubblica, o a seguito dei relativi rinnovi”, anche se alla fine di un periodo transitorio.

[107] Cfr. G. CAMPOBASSO, Manuale di diritto commerciale, per il quale il gruppo di società, molto diffuso tra gli operatori economici, consente di “combinare i vantaggi dell’unità economica della grande impresa con quelli offerti dall’articolazione in più strutture formalmente distinte ed autonome: snellezza operativa e (relativa) autonomia decisionale; delimitazione e separazione del rischio d’impresa delle singole unità operative”. Per l’Autore questo fenomeno appare fisiologico, in quanto risponde “ad esigenze di razionalizzazione e di maggiore efficienza del sistema produttivo”.

[108] In ordine ai profili critici dell’orientamento comunitario contrario alle società cd. miste, in cui sia presente un soggetto privato, mi permetto di rinviare a M. G. URSO, Il requisito del controllo analogo negli affidamenti in house, Urbanistica e appalti n. 12/2006, 1420.

[109] Cfr. Corte dei conti, sez. Giurisdizionale per la Regione Marche, 12.7.2005, n. 492, che ha riconosciuto la responsabilità erariale nell’operato di un Comune ha operò la ricapitalizzazione di una società partecipata dal medesimo ente, in quanto “prima di assumere la decisione il consiglio comunale avrebbe dovuto valutare accuratamente le ragioni del dissesto e, soprattutto, accertare se esistevano le condizioni per ripianare la Società e renderla veramente operativa”.

[110] Cfr. A.M. SANDULLI, Manuale cit., 1152, il quale afferma che gli enti di gestione delle partecipazioni statali “possono influenzare l’attività delle stesse” (delle società) “solo attraverso l’esercizio dei comuni poteri dell’azionista”.

Cfr., altresì, N. R. DI TORREPADULA, Aspetti cit., 157: per l’auore l’opinione corrente è che la società sia un normale imprenditore commerciale e di conseguenza “anche le società con partecipazione dell’ente pubblico territoriale sono vere e proprie imprese che devono operare secondo le regole del mercato” (V. Buonocore richiamato dall’autore).

Conferma questa impostazione V. DOMENICHELLI, Giurisdizione e <<controversie societarie pubbliche>>, Diritto processuale amministrativo n. 2/2005, 276: “Il legislatore ha favorito l’ingresso delle amministrazioni pubbliche nel sistema delle società consentendo loro di servirsi dello strumento societario proprio per superare le limitazioni del diritto amministrativo, per aggiungere rapidità e responsabilità alle decisioni pubbliche in un’area, quella dei servizi pubblici, nella quale il legislatore chiede iniziativa imprenditoriale e concorrenza. Anche per questo non ritengo che l’amministrazione pubblica-socia possa pretendere uno <<statuto particolare>> nell’ambito delle società, per cui il socio pubblico goda di privilegi che gli attribuisca un potere di veto nei confronti degli altri soci, invocando il rispetto delle proprie regole particolari del diritto amministrativo”. 

[111] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 3.9.2001, n. 4586, il quale, in materia di extraterritorialità, pur esprimendosi in termini di  “natura speciale e ‘ibrida’” della società pubblica, ritenuta non del tutto aliena “a finalità e connotati ancora sostanzialmente pubblicistici”, riconosce che “il pur apprezzabile fine di non snaturare lo scopo per il quale la società è sorta non può portare, a sua volta, a snaturare completamente il, seppur speciale, modello privatistico prescelto”; negli stessi termini T.A.R. Campania, Salerno, I, 19.7.2005, n. 1290, Foro Amm. TAR 2005, 3501.

[112] Cfr. V. DOMENICHELLI, Giurisdizione cit. : “Del resto, non c’è alcuna disposizione normativa che stabilisca un condizionamento giuridico fra deliberazioni amministrative dell’ente-socio e deliberazioni societarie (…). Potremo fissare almeno come regola generale che il contratto di società – come tutti i contratti – deve essere preceduto dalla deliberazione amministrativa che autorizza l’ente e i suoi rappresentanti a contrarre; ma che, una volta costituita, la società opera con i suoi organi e secondo le regole fissate dal codice e dallo statuto ai quali le amministrazioni pubbliche si sono sottoposte una volta deciso di servirsi dello strumento societario”.

Cons. Stato, sez, VI, 1.4.2005, n. 1610 ha, tuttavia, rilevato, in materia di operazioni societarie, che “prima della realizzazione della serie negoziale privatistica, per principio generale, è necessario che gli enti pubblici proprietari delle azioni e/o delle quote delle predette società, evidenzino le ragioni di interesse pubblico che sono a fondamento delle scelte negoziali divisate”.

[113] Si veda in particolare V. OTTAVIANO, Note sulle società miste per la gestione dei servizi pubblici locali, su Rivista delle società, 1999,  237 ss.

[114] Il T.A.R. Veneto, 16.5.2005 n. 2025, rigetta la tesi sostenuta dai ricorrenti in base alla quale la società pubblica “non sarebbe una impresa qualunque e se le fosse consentito di porsi sul mercato in concorrenza con le imprese <<vere>> ciò costituirebbe una anomalia e una violazione principi di tutela della concorrenza e di parità di condizioni tra soggetti interessati”. Il Giudice Amministrativo conclude che : “La soluzione data al tema dibattuto appare corretta anche nella prospettiva di una graduale equiparazione tra società miste e privati”.

[115] Sulla questione mi permetto di rinviare a M. URSO, Il requisito del controllo analogo negli affidamenti in house cit.

[116] Cfr. A. ROMANO,  Profili della concessione di pubblici servizi, Dir. Amm. 1994,  484 ss.; F. FRACCHIA, La costituzione cit., 613, rileva che “l’amministrazione non è un socio qualunque, ma il titolare dell’attività svolta dalla società, che esibisce un marcato rilievo organizzativo e strumentale”. Ciò non impedisce, tuttavia, all’Autore di affermare la “necessità di adottare la prospettiva privatistica nell’approccio ai problemi ricostruttivi dell’istituto societario pubblico”.

[117] A. BARBIERO, Le problematiche inerenti il rapporto tra l’Ente Locale socio e gli amministratori di una s.p.a. partecipata, www.dirittodeiservizipubblici.it, il quale sottolinea come gli amministratori non possano ignorare tali direttive, anche se poi individua la soluzione nella “composizione di adeguate clausole statutarie” che possano “consentire la rimessione alla deliberazione assembleare dell’autorizzazione di atti afferenti scelte strategiche per le s.p.a., intese come scelte di grande respiro, comportando pertanto anche il riconoscimento del <<peso>> dell’Ente Locale socio”. Ciò sulla scorta dell’art. 2364 c.c., il quale non esclude la possibilità per l’assemblea di deliberare “sulle autorizzazione eventualmente richieste dallo statuto per il compimento di atti degli amministratori, ferma in ogni caso la responsabilità di questi per gli atti compiuti”.

[118]  Cass. S.U. n. 3/1993 cit.; S.U. n. 4989/1995 cit.; S.U. n. 2738/1997 cit.. Di recente Cass., S.U., 7799/2005 cit. ha riconfermato che : <<Normalmente, come è stato già sottolineato da questa Corte (Cass. Sez. Un. 6.5.1995, n. 4989; 6.6.1997, n. 5085; 26.8.1998, n. 8454) la società per azioni con partecipazione pubblica non muta la sua natura di soggetto di diritto privato solo perché lo Stato o gli enti pubblici (Comune, Provincia, etc.) ne posseggano le azioni, in tutto o in parte, non assumendo rilievo alcuno, per le vicende della medesima, la persona dell’azionista, dato che tale società, quale persona giuridica privata, opera “nell’esercizio della propria autonomia negoziale, senza alcun collegamento con l’ente pubblico”: il rapporto tra la società e l’ente locale “è di assoluta autonomia, sicché non è consentito al Comune incidere unilateralmente sullo svolgimento del rapporto medesimo e sull’attività della società per azioni mediante l’esercizio di poteri autoritativi o discrezionali”. Invero, la legge non prevede “alcuna apprezzabile deviazione, rispetto alla comune disciplina privatistica delle società di capitali, per le società miste incaricate della gestione di servizi pubblici istituiti dall’ente locale… La posizione del Comune all’interno della società è unicamente quella di socio di maggioranza, derivante dalla “prevalenza” del capitale da esso conferito; e soltanto in tale veste l’ente pubblico potrà influire sul funzionamento della società … avvalendosi non già di poteri pubblicistici che non gli spettano, ma dei soli strumenti previsti dal diritto societario, da esercitare a mezzo dei membri di nomina comunale presenti negli organi della società (v. art. 2459 c.c.)”>>.

[119] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 18.09.2003 n. 5361 cit.; da ultimo T.A.R. Toscana, II, 14.10.2005, n. 4677: “La giurisprudenza ha avuto modo di precisare che il rapporto tra il comune e la società per azioni costituita dallo stesso comune per la gestione di un servizio pubblico è di assoluta autonomia, sicchè una società del genere opera come persona giuridica privata, senza alcun collegamento con l’ente pubblico ) cfr. Cass. SS.UU. 6 maggio 1995 n. 4989 e 4991). Tali società quindi, in quanto dotate di personalità giuridica  e di autonomia imprenditoriale, operano secondo i comuni principi di concorrenza al pari di tutte le altre”, anche se, nel caso esaminato dal TAR Toscana, si trattava di una società con partecipazione minoritaria del comune di Arezzo.

[120] In questi termini M. CAMMELLI e A. ZIROLDI, Le società cit., 25, i quali, alla nota 24, richiamano la medesima opinione di G. Corso.  e N. Rocco di Torrepadula, Aspetti cit.

[121] Cfr. F. GALGANO, Il nuovo diritto societario cit., 439 : “Al fenomeno dell’azionariato pubblico (…) il codice civile non dedica che poche norme, quelle degli artt. 2449-51. Ciò non denota scarsa considerazione legislativa per il fenomeno: ciò denota, tutto all’opposto, un preciso intento degli artefici del codice civile, quello di assoggettare la società in mano pubblica, salvo quanto disposto dalle norme ora citate, alla medesima disciplina applicabile alla società in mano privata. Nella relazione ministeriale, n. 998, è detto espressamente che <<la disciplina comune della società per azioni deve applicarsi anche alle società con partecipazione dello Stato o di enti pubblici senza eccezioni, in quanto norme speciali non dispongano diversamente>>”.

[122] Art. 1, comma 9, d.l. 12.07.2004 n. 168, convertito con l. 30.07.2004 n. 191 recante “Interventi urgenti per il contenimento della spesa pubblica”, il cui testo coordinato è pubblicato sulla G.U.R.I.  31.07.2004 n. 178. Un analogo inciso si trova nel comma 17 dell’art. 1 della l. 30.12.2004 n. 311 (legge finanziaria 2005 ) pubblicata sulla GURI n. 306 del 31.12.2004.  Particolarmente interessante la Deliberazione della Corte dei Conti - sezione regionale di controllo per la Lombardia del 24.09.2004 n. 2, www.appaltiecontratti.it, la quale, premesso che è diffuso il ricorso (definito “non sempre giustificato”) agli incarichi di consulenza nell’ambito delle società pubbliche, ha evidenziato che il legislatore ha imposto alle amministrazioni pubbliche di inviare alle società, nell’esercizio dei poteri dell’azionista, le opportune direttive per conformarsi a quanto stabilito dalla citata legge, “poiché le società di capitali, benché a partecipazione pubblica, sono disciplinate dal codice civile”. Ne segue che la normativa in esame non è direttamente applicabile alle predette società pubbliche.

[123] Cfr M. DUGATO, Le società cit., pag. 115, per il quale la convenzione ente-società ha natura privatistica e contrattuale, anche perché, per l’Autore, “qualora si dovesse riconoscere natura pubblica al contratto di servizio (…) davvero non sarebbe dato comprendere in che cosa l’atto in oggetto differisca dall’ordinaria concessione traslativa”.

[124] Lo stesso V. OTTAVIANO, Note cit., 247 ss., è dell’opinione che la società in esame conserva “natura privata” e ha difficoltà a riconoscere la fattispecie del contratto “ove ci si trovi di fronte ad unità appartenenti al medesimo complesso organizzativo”, in quanto “anche se entrambe godono di propria personalità, già sussiste il vincolo dell’unità sottordinata di agire secondo l’indirizzo indicato da quella sovraordinata”. Il medesimo Autore, Sull’impiego cit., alla nota n. 54, riconosce che :“Atteso che si fa ricorso all’istituto della società, bisognerà applicare la regolamentazione propria di questa, salvo le deroghe che siano espressamente disposte”.

[125] Cons. stato, sez. V, 22.04.2004 n. 2316 cit, il quale richiama la nota della Commissione europea del 26.06.2002 cit. 

[126] Cfr. in materia M.G. URSO, Il requisito cit., nel quale si è rilevato come la Corte Ce non neghi la compatibilità con l’ordinamento comunitario delle ipotesi di affidamenti “quasi in house”, in cui il soggetto affidatario è una persona giuridicamente distinta, ma richieda esclusivamente che il soggetto pubblico socio eserciti, “nel contempo”, sulla persona di cui trattasi un controllo soltanto “analogo” a quello esercitato sui propri servizi. Non si parla, infatti, nella nota decisione “Teckal”, di rapporto di subordinazione gerarchica, ma il Giudice comunitario fonda il sistema esclusivamente sul controllo della società affidataria e sulla possibilità di indirizzarne l’attività.

[127] Cfr. V. OTTAVIANO, Sulla sottoposizione dell’impresa pubblica alla medesima regolamentazione di quella privata cit. 91 ss. : l’impresa pubblica “in quanto deve competere con quelle private su un piano di eguaglianza deve poter agire con la medesima rapidità degli imprenditori privati e deve offrire ai terzi con cui entra in rapporti d’affari le stesse condizioni di sicurezza di traffico giuridico che offre un’impresa privata”; l’A. precisa che con la costituzione di società per azioni per svolgere attività d’impresa “si dà luogo, nel modo più semplice, alla creazione di un organismo autonomo rispetto all’amministrazione o altro ente pubblico, e sottoposto, per la sua stessa natura, al diritto privato”.  Lo stesso Autore, nello scritto Sull’impiego a fini pubblici della società per azioni cit., chiarisce che “adattando l’istituto della società per azioni al conseguimento indiretto di fini pubblici, la legge ha finito col modificarlo, almeno per quanto riguarda l’esigenza di perseguire il massimo utile, senza, peraltro, creare con ciò un ente pubblico”. Nel medesimo intervento l’Ottaviano riassume efficacemente l’impossibilità di ignorare la scelta legislativa : “Invero, le varie leggi, che prevedono la costituzione di società del tipo in esame, fanno riferimento alle norme sulla società per azioni, sicché la disciplina da queste stabilità dovrà applicarsi per volontà di legge, finché non risulti derogata, esplicitamente o implicitamente, da altre disposizioni”. L’Autore,  Impresa pubblica cit., pag. 193 ss.,  supporta l’esistenza di un vero e proprio principio in base al quale di norma le imprese pubbliche sono sottoposte alla medesima regolamentazione di quelle private, basandosi sugli artt. 2093 e 2201 c.c.  Sulla scorta, in particolare, di quanto previsto nell’ultimo comma dell’art. 2093 c.c., l’A. ritiene che “ogni deroga alla disciplina generale sull’impresa e che sia tale da incidere nelle sfere dei terzi, deve sottostare al principio di legalità”.  Il medesimo concetto viene espresso in Enti pubblici economici e natura della loro organizzazione per l’esercizio dell’impresa, Il Consiglio di Stato, 1990, II, pag. 1544: il legislatore codicistico “nel dettare le norme sull’impresa gestita da enti pubblici, intese sottoporre la stessa alla medesima disciplina dettata per l’impresa privata (…). Perché dunque l’organizzazione dell’impresa pubblica abbia una disciplina differente da quella dell’impresa privata, occorre che la legge disponga in tal senso”.

Per I.M. MARINO, Servizi pubblici cit., 44, quanto alla regolamentazione, la funzione è sottoposta alle regole del diritto pubblico, l’impresa “di massima alle regole del diritto privato” ed il servizio pubblico “è in regime <<misto>>, per certi aspetti pubblicistico e per taluni privatistico”.

A. ROMANO, Profili cit., 499, evidenzia come “Il gestore del servizio pubblico, se è un soggetto privato, tendenzialmente è un normale imprenditore. Che opera secondo le regole del mercato”.

Per M.S. GIANNINI, Diritto amministrativo cit., I, 232, pur premettendo che dal punto di vista funzionale le società comunali di gestione dei pubblici servizi sono “equivalenti di organizzazioni pubbliche”, evidenzia come “dal punto di vista strutturale (…) le società di capitali, per azioni o per quote, in cui l’ente pubblico (Stato o altro) è socio, sono regolate internamente dal codice civile, e le poche questioni che in passato erano sorte, sono disciplinate da apposite norme dello stesso codice civile, agli artt. 2458, 2459 e 1460 (…). Per il resto le società con partecipazione pubblica sottostanno integralmente al regime privatistico ordinario (ossia non danno neppur luogo ad un diritto privato speciale)”.

A.M. SANDULLI, Manuale cit., 1153, si esprime nel senso del carattere privato delle società per azioni in mano pubblica, che “rimangono soggette allo statuto di tutte le altre società”.

A..QUARANTA, Lineamenti  di diritto amministrativo, 61, in materia di enti pubblici ritiene che nei casi dubbi debba prevalere la configurazione privatistica “poiché quella pubblica deve considerarsi un’eccezione nel sistema”.

A. ZIROLDI, Il controllo giudiziale sulle società a partecipazione pubblica locale, Contratto e impresa, n. 1/1998, 398, afferma, altresì, che: “Una volta formalizzata la scelta organizzativa e individuati i soci si delinea una equiparazione pressoché totale – che corrisponde del resto al diritto vivente, che non conosce distinzioni di natura ontologica tra società in ragione del tipo di soci – tra la costituenda società a partecipazione pubblica e quella totalmente privata”; lo stesso Autore conferma questa impostazione nel testo scritto con M. CAMMELLI (Le società cit., 119), ricordando come “la partecipazione pubblica in organismi regolati dal diritto privato è stata da sempre considerata del tutto inidonea ad alterare la naturale qualificazione privatistica del tipo societario, comportando di conseguenza l’applicazione, quantomeno in via residuale, della disciplina del codice civile” e aggiungendo che a siffatta conclusione “la giurisprudenza è pervenuta da più di un cinquantennio, a partire dalla ormai storica sentenza sulla natura dell’AGIP, Cass. 7 marzo 1940”.

G. NAPOLITANO, Pubblico e privato cit.,  148, infine, pur qualificando le società pubbliche  a causa lucrativa “enti speciali”, sostiene che a questi enti “per tutto quanto non dispone la relativa legislazione, si applica integralmente la normativa generale relativa al tipo adottato (associazione, fondazione, società)”. Lo stesso A., d’altronde, evidenzia come il diritto privato si applica anche alla stessa p.a. nel campo del contratto, dell’obbligazione, della responsabilità aquiliana e dell’attività economica d’impresa. Si rimanda al citato scritto di Napolitano per una approfondita disamina dei rapporti, dei meccanismi e delle fattispecie di integrazione tra diritto pubblico e diritto privato, con particolare attenzione alla normativa applicabile alle società pubbliche. 

F. FRACCHIA, la costituzione cit., è dell’opinione che : “Il ricorso al modello societario, dunque, ha ripercussioni sul ‘modo di essere’ e sul ‘modo di agire’ del soggetto. (…) Il punto di maggior tensione rispetto a questo quadro è costituito dalle società in house, che si configurano come organizzazioni strumentali (…) cui si applica una disciplina per larghi tratti derogatoria rispetto alla disciplina comune. In ogni caso, la scelta di far ricorso al tipo societario – oltretutto per esercitare compiti che non sono ‘immancabilmente pubblici’, ma che potrebbero essere affidati a privati – non può essere senza conseguenze, implicando la necessità di applicare la disciplina codicistica, salvo espressa eccezione normativa”.

R. RORDORF, Le società <<pubbliche>> cit., evidenzia che  con l’espressione conclusiva del terzo comma dell’art. 2449 c.c., che fa esplicitamente salve le disposizioni delle leggi speciali, “il legislatore ha inteso anche e soprattutto ribadire che il fenomeno della partecipazione pubblica in società di diritto privato, quando non diversamente disciplinato da leggi speciali (…) è destinato sempre e soltanto a trovare la propria regolamentazione nelle norme del codice civile”. In tal senso l’A. richiama, altresì, la Relazione al codice del 1942, in cui si legge che: “E’ lo Stato medesimo che si assoggetta alla legge delle società per azioni per assicurarne alla propria gestione maggiore snellezza di forme e nuove possibilità realizzatrici”.

[128] N.R. DI TORREPADULA, Aspetti cit.,  158. Cfr. Anche F. FONTANA, G. PANASSIDI e M. ROSSI, Utilities nel pantano della riforma limitata, Guida agli enti locali n. 37/2004,  7 ss, evidenziano e riportano la molteplicità di normative di settore che gravano sulla materia dei servizi pubblici. Un esempio di incomprensibile deroga pubblicistica al regime codicistico è, per esempio, rappresentato dal disposto dell’art. 1 del d.l. 16.05.1994 n. 293, convertito con l. 15.07.1994 n. 444, il quale estende i limiti della prorogatio degli organi pubblici anche agli organi di amministrazione attiva, consultiva e di controllo delle “persone giuridiche a prevalente partecipazione pubblica”. Nonostante l’interpretazione restrittiva della norma, suggerita da A. GUACCERO, Alcuni spunti cit., pag. 857, che la intende riferita soltanto agli organi amministrativi di nomina pubblica diretta, l’estensione appare assolutamente inopportuna, oltre che incompatibile con gli artt. 8 e 9 della prima direttiva comunitaria in materia di società (68/151/CEE), come rilevato dall’Autore da ultimo citato.

M. DUGATO, Il finanziamento cit., 569, rileva, altresì, che; “Se le società pubbliche che svolgono attività d’impresa sono ormai caratterizzate solo in piccola misura da discipline particolari, vi sono però società che vivono di regole speciali, dettate per legge o per provvedimento e giustificate dalla stretta e diretta funzionalizzazione all’interesse pubblico”.

[129] A. ZIROLDI, Il controllo cit.,  412.

[130] V. OTTAVIANO, Note cit., 238; G.F. CAMPOBASSO, La costituzione delle società miste per la gestione dei servizi pubblici locali:profili societari, Rivista delle società, 1998,  392.

[131] Cfr. Cass. S.U. 26.4.1940 n. 1337 cit.

[132] Cons. Stato, sez. V, 20.10.2004 n. 6867, Foro Amm. C.d.S. n. 10/2004, 2894. Il collegio afferma, altresì, che “Una volta intervenuta la costituzione della società, ciascuno dei soci ha facoltà di recesso nei casi in cui la legge o le previsioni statutarie gli conferiscano il relativo diritto”.

[133] TAR Campania, Napoli, I, 30.3.2005 n. 2784: “Nell’ipotesi di costituzione di una società, il nesso eziologico sussistente tra il provvedimento amministrativo costitutivo e gli atti fondamentali della società appare meno stretto, essendo (…) stata data vita ad un nuovo ed autonomo soggetto; conferma di tale assunto deriva proprio dalla norma speciale in materia di nullità delle società di capitali (art. 2332 c.c.) che, discostandosi dai principi generali, disciplina una forma patologica meno grave (…). Ne consegue che, ai fini che qui interessano, seppur il vizio delle deliberazioni di Consiglio comunale (…) ha comportato effetti invalidanti nei confronti della Napolipark s.r.l., tale situazione patologica negoziale è destinata ad operare entro i ristretti limiti di cui all’art. 2332 c.c.”.

[134] Cfr. G. BASSI, La riforma dei servizi pubblici: i nuovi vincoli imposti agli enti locali nell’utilizzo del modello societario, tra proposte governative e resistenze localistiche, appaltiecontratti.it, il quale rileva che “il nostro ordinamento, già nel lontano 1990 , aveva recepito con l’art. 9 della L. 287/90 recante <<Norme per la tutela della concorrenza e del mercato>>, il principio dell’autoproduzione, di chiara derivazione comunitaria. Tale principio, elevato dalla norma citata al rango di specifico diritto soggettivo, si pone quale manifestazione del canone costituzionale della libertà d’impresa; ogni sua compressione è dunque tutelata da specifica riserva assoluta di legge (art. 41 Cost.)”. L’autore evidenzia, altresì, che tale principio, pur formulato per il privato imprenditore, deve valere anche per il soggetto pubblico, in virtù del principio della parità di trattamento.

In giurisprudenza, cfr., da ultimo, T.A.R. Liguria, sez. I, 13.7.2006, n. 829, Foro Amm. TAR 2006, 2393,  il quale riconosce l’esistenza di un “potere di autorganizzazione riconosciuto alle amministrazioni pubbliche”.

[135] Sulla tendenza della giurisprudenza amministrativa a qualificare l’amministrazione in house dei servizi attraverso le società partecipate (definite “enti strumentali del Comune”) quale gestione diretta si rimanda a M. G. URSO, Il requisito cit., nel quale si è riportata anche la terminologia normalmente utilizzata dal Giudice degli interessi legittimi per definire il rapporto tra società ed ente pubblico: “ordinaria ripartizione interna ad uno stesso sistema amministrativo di funzioni e di servizi” (Cons. Stato, sez. V, 09.05.2001, n. 2605, Foro Amm. 2001, 1172), “rapporto riconducibile alla delegazione interorganica”, “soggetti di un unico plesso amministrativo” (TAR Campania, sez, I, 6.11.2003 n. 1494, Foro Amm. T.A.R. 2003),  “prolungamento amministrativo”, “proiezione amministrativa” o “gestione diretta” (Cons. Stato, sez. V, 30.06.2003 n. 3864, Il Consiglio di Stato n. 5-6/2003, 1434).

[136] Per tutti si rinvia a S. CASSESE,  La nuova costituzione economica cit., nel quale viene riportata l’evoluzione storica dell’impresa pubblica dall’impresa-organo all’impresa-ente pubblico economico, fino ad arrivare, quale terminale della suddetta evoluzione, all’utilizzo della strumento societario.

[137] Mentre infatti un contratto pluriennale con la società partecipata può essere costantemente modificato, per adeguarlo alle necessità che nascono durante il periodo di affidamento – per esempio nuove aree da manuntentere – , un contratto rogato a seguito di un’sta pubblica è immodificabile in virtù della par condicio tra i partecipanti alla gara. Cfr., ex multis, T.A.R. Lazio, sez. I bis, 11.7.2006, n. 5766, Foro Amm. TAR 2006, 2470: “Non è consentito alle amministrazioni appaltanti rinegoziare con il soggetto prescelto come contraente, a seguito di procedura di evidenza pubblica, gli elementi fondamentali del contratto, tra cui sono da comprendere senz’altro l’oggetto dell’appalto e il relativo prezzo, in quanto attraverso una successiva modulazione di questi, in sostanza, si determina uno svilimento della stessa procedura selettiva attraverso l’introduzione di elementi del tutto  nuovi o diversi, per qualità e quantità, tali da alterare irrimediabilmente gli stessi risultati di gara, che ove condotta sulla base dei rinnovati elementi avrebbe potuto avere diverso sviluppo, attraverso una diversa componente partecipativa della stessa, ed anche, in ipotesi, diversa conclusione, con l’individuazione di altro contraente”.

[138] Cfr. Cons. Stato, sez. V, 13.12.2006, n. 7369, dirittodeiservizipubblici.it, la quale riconosce che “Gli enti locali, ed il comune in particolare, sono enti a fini generali dotati di autonomia organizzativa, amministrativa e finanziaria (art. 3 T.U.E.L.), nel senso che essi hanno la facoltà di determinare da sé i propri scopi e, in particolare, di decidere quali attività di produzione di beni ed attività, purché genericamente rivolte a realizzare fini sociali ed a promuovere lo sviluppo economico e civile della comunità locale di riferimento (art. 112 T.U.E.L.), assumere come doverose”. Il Giudice amministrativo evidenzia, altresì, che la scelta del Comune di Genova di affidare in house ad una propria società le attività di manutenzione delle strade, degli impianti di illuminazione pubblica e del verde pubblico è perfettamente legittima, anche in considerazione del fatto che in tal modo l’ente “ha inteso superare una gestione frammentaria e disomogenea degli interventi, assumendoli come altrettanti servizi pubblici al dichiarato fine di garantirne l’assolvimento in maniera coordinata e continuativa”.

[139] Cfr. Corte cost. 27.7.2004, n. 272, Foro Amm. C.d.s. 2004, 1971, in materia di servizi privi di rilevanza economica.

[140] In materia mi permetto di rinviare a M.G. URSO, Il principio di distinzione tra funzioni di indirizzo politico e di gestione negli enti locali e nelle società partecipate da enti pubblici, Rivista della Corte dei conti n. 3/2006.

[141] Cfr. Corte Costituzionale, 1.2.2006, n. 29, Foro Italiano 2006, 3311, la quale, in relazione alla dedotta questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 4, lettera f), della legge della Regione Abruzzo 5.8.2004, n. 23, nella parte in cui prevede che le società a capitale interamente pubblico, affidatarie del servizio pubblico, sono obbligate al rispetto delle procedure di evidenza pubblica imposte agli enti locali per l’assunzione di personale dipendente, ha evidenziato che “La disposizione in esame non è volta a porre limitazioni alla capacità di agire delle persone giuridiche private, bensì a dare applicazione al principio di cui all’art. 97 della Costituzione rispetto ad una società che, per essere a capitale interamente pubblico, ancorché formalmente privata, può essere assimilata, in relazione al regime giuridico, ad enti pubblici”. Pur non condividendo in questa sede la asserita equiparazione tra enti pubblici e società partecipate da soggetti pubblici, è opportuno rilevare come l’autorevolezza della fonte debba spingere ad interrogarsi sull’opportunità di porre dei limiti o delle regole nella selezione del personale, in applicazione dei principi di trasparenza e pubblicità, che possono riconnettersi al principio costituzionale del buon andamento, anche se una equiparazione totale con il soggetto pubblico può portare ad una eccessiva compressione dell’elasticità e della flessibilità gestionale, che giustifica il ricorso allo strumento societario.

[142] Ci si riferisce a quanto disposto dal comma 734 dell’ art. 1, della legge  27.12.2006, n. 296  (finanziaria 2007): “Non può essere nominato amministratore di ente, istituzione, azienda pubblica, società a totale o parziale capitale pubblico chi, avendo ricoperto nei cinque anni precedenti incarichi analoghi, abbia chiuso in perdita tre esercizi consecutivi”.


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