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n. 1/2008 - © copyright

ANTONIO TEDESCHI

Il terzo mandato consecutivo dei Sindaci ed il sindacato
giurisdizionale nei confronti degli interventi del Ministero dell’Interno

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SOMMARIO: 1. La limitazione del numero dei mandati di sindaco e di presidente della provincia. La norma originaria, le successive modifiche ed i tentativi di abrogazione. 2. L’interpretazione sistematica della normativa vigente. 3. L’inoppugnabilità della declaratoria di decadenza e l’applicazione dell’art. 141 del d.l.vo 267/2000. 4. Il caso di Salerano Canavese. 5. Il sindaco eletto a Castelbottaccio. 6. I sindaci al terzo mandato rieletti in Sardegna.   7. I sindaci rieletti al terzo mandato nella primavera del 2006. 8. La circolare n. 3/2007-UCO del 19 febbraio 2007. 9. L’impugnazione al TAR dei commissariamenti prefettizi. 10. L’appello al Consiglio di Stato e la sentenza n. 5309 del 10 luglio-9 ottobre 2007.

1. La limitazione del numero dei mandati di sindaco e di presidente della provincia. La norma originaria, le successive modifiche ed i tentativi di abrogazione.

L’istituto dell’elezione diretta del sindaco e del presidente della provincia è stato introdotto nel nostro ordinamento, per la prima volta, con la legge 25 marzo 1993, n. 81, nell’ambito della più generale riforma elettorale attuata, in più riprese, dalla XI e dalla XII legislatura e che ha visto trasformare, oltre che il sistema di elezione degli enti locali, anche quello del Parlamento e delle Regioni.

La legge prevedeva, tra l’altro (art. 2), la riduzione temporale del mandato stesso (da cinque a quattro anni), nonché il divieto di ricoprire più di due mandati.

È stato detto che il legislatore, nel riformare il sistema di elezione del sindaco e del presidente della provincia si era ispirato, paradossalmente ma sostanzialmente, a quella del sistema presidenziale USA, con il conferimento di un mandato di forte legittimazione (in quanto popolare) e di vasti poteri (in quanto alla giunta vengono conferite la quasi totalità delle competenze prima attribuite al consiglio comunale, lasciando di fatto a quest’ultimo organo solo un potere di controllo sugli atti) ad un soggetto che non doveva affezionarsi al potere, ma che anzi era stimolato a fare presto e bene.

Di qui, il limite dei mandati, previsto al fine di favorire il ricambio ai vertici delle amministrazioni locali e di evitare la soggettivizzazione dell’uso del potere, in modo da spezzare i vincoli personali tra elettori ed eletti. E questo, come evidenziano gli atti parlamentari, «per sostituire alla personalità del comando l’impersonalità di esso ed evitare clientelismo».

Ulteriore ratio del divieto è quella di evitare che il sindaco, alla scadenza di un doppio consecutivo suo mandato, possa approfittare di «un più incisivo vantaggio, ai fini di conseguire di nuovo la carica, dello stesso soggetto ripetutamente eletto quale sindaco (peraltro rimanendo in quella medesima posizione durante l’iter della elezione)» (Cass. civ., I, 5 giugno 2007, n. 13181).

Nondimeno, l’art. 2 della legge n. 81/1993 era subito messo in discussione, nella sua interezza, da numerosi amministratori locali, preoccupati di vedersi precludere la continuità dell’azione amministrativa degli enti locali da loro diretti, alcuni dei quali tradizionalmente gestiti, anche per decenni, dalle stesse persone.

Le pressanti richieste di modificare tale norma venivano parzialmente soddisfatte dalla legge 30 aprile 1999, n. 120, che, all’art. 7, riportava la durata del mandato a cinque anni.

La nuova norma, a giudizio dello scrivente, era diretta a ottenere il gradimento anche di chi pretendeva la previsione del terzo mandato consecutivo, in quanto, senza arrivare a tanto (e, cioè, un mandato complessivo di dodici anni), consentiva agli amministratori di allungare la durata totale dei propri mandati di ulteriori due anni (da otto a dieci anni).

Nella stessa direzione, la legge n. 120/1999 consentiva (art. 2) un terzo mandato consecutivo nel caso in cui di durata inferiore a due anni, sei mesi e un giorno di uno dei due mandati precedenti, per causa diversa dalle dimissioni volontarie.

Ciò nonostante, i tentativi di abrogare normativamente il divieto del terzo mandato o, quantomeno di mitigarlo, sono continuati nel tempo, anche in seguito all’inserimento della disposizione nel nuovo Testo unico degli enti locali, adottato con il decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267, all’art. 51, comma 2.

Ma i partiti maggiori del nostro sistema costituzionale, oramai ripresisi dalla cd. crisi della prima Repubblica, erano contrari a rinnovellare la norma preferendo, piuttosto, un ritorno al vecchio sistema ante-1993.

In pratica questa è stata la causa della mancata, definitiva approvazione di un disegno di legge che prevedeva l’eliminazione del divieto del terzo mandato per i sindaci dei comuni con popolazione fino a 3.000 abitanti, che pure, nel marzo del 2004, aveva superato il vaglio del Senato con larghissima maggioranza.

La circostanza del passaggio al Senato del disegno di legge (insieme alla pubblicazione della sentenza 6 novembre 2003 n. 1485 del TAR Campania-Salerno, che aveva definito causa di ineleggibilità e non di incandidabilità il terzo mandato consecutivo) forniva lo spunto ad alcuni sindaci, che in quell’anno stavano terminando il loro secondo mandato, di candidarsi per un terzo incarico.

L’esito delle elezioni amministrative del 12/13 giugno 2004 vedevano un solo sindaco eletto al terzo mandato, quello di Salerano Canavese, un paese della provincia di Torino di 532 abitanti.

2. L’interpretazione sistematica della normativa vigente.

Il principio della limitazione dei mandati di cui all’art. 51, comma 2, del d.l.vo n. 267/2000, è inserito in un sistema complesso di norme (alcune da tempo previgenti, altre successivamente intervenute), concernenti le attribuzioni del consiglio comunale e le competenze dei prefetti e del Ministero dell’Interno, quali titolari della funzione di controllo sugli organi.

Anzitutto, deve sgombrarsi il campo da un equivoco ricorrente. Il divieto del terzo mandato deve essere qualificato come causa di ineleggibilità e non come causa di incandidabilità e la sanzione da irrogare in caso di violazione è quella tipica per le cause di ineleggibilità: la decadenza dalla carica, con tutte le conseguenze previste dalla legge: scioglimento degli organi elettivi ed affidamento dell’amministrazione dell’ente al vice sindaco ed alla giunta fino al primo turno elettorale utile.

Di conseguenza, il divieto non può essere opposto prima delle consultazioni elettorali (p.es. in sede di presentazione delle candidature [1]) e la terza elezione consecutiva non soggiace alla sanzione della nullità ex art. 58, comma 4, d.l.vo 267/2000 [2].

Ciò posto, la causa di ineleggibilità può essere rilevata dal consiglio comunale in sede di convalida degli eletti (art. 41 d.l.vo 267/2000): invero, nonostante la mancata espressa indicazione dell’art. 51 fra le cause da esaminare in sede di convalida degli eletti (l’art. 41 dispone letteralmente che: «Nella prima seduta il consiglio comunale e provinciale, prima di deliberare su qualsiasi altro oggetto, ancorché non sia stato prodotto alcun reclamo, deve esaminare la condizione degli eletti a norma del capo II titolo III», mentre l’art. 51 è inserito nel capo I), è opinione comune che il consiglio comunale abbia il potere-dovere di procedere alla verifica di tutte le cause ostative previste da qualsiasi norma di legge e, quindi, anche di quella relativa al numero dei mandati ricoperti.

Ma, in caso di inerzia del consiglio comunale, il divieto può essere rilevato anche dal giudice ordinario, per il tramite dell’azione popolare di cui all’art. 70 decreto legislativo n. 267/2000.

L’azione si colloca, infatti, su un piano di autonomia rispetto alla delibera consiliare di convalida delle elezioni; essa può essere promossa in ogni ipotesi di decadenza, sia per cause originarie che per cause sopravvenute (Corte Cost. n. 160 del 1997 e Cass. n. 2986/2000), dagli elettori dell’ente ovvero dal Prefetto, espressamente legittimato all’esperimento dell’azione popolare in qualità di rappresentante della collettività, deputato a garantire il rispetto della legge.

3. L’esecutività della declaratoria di decadenza e le diverse ipotesi previste dall’art. 141 del d.l.vo 267/2000.

In caso di declaratoria di decadenza (accertata in consiglio comunale ovvero in sede giurisdizionale) viene adottato il provvedimento di scioglimento di cui all’art. 141, comma 1, lett. b) n. 1 del d.l.vo 267/2000, che prevede lo scioglimento degli organi elettivi e l’affidamento dell’amministrazione dell’ente al vice sindaco ed alla giunta fino al primo turno elettorale utile.

Tuttavia, in caso di azione popolare, è necessario attendere il giudicato della sentenza. Invero, l’ordinamento vigente non prevede l’esecutività della sentenza di primo grado (art. 84, comma 3, del D.P.R. 570/1960: «L’esecuzione delle sentenze emesse dal tribunale civile – in materia di ineleggibilità – resta sospesa in pendenza di ricorso alla corte d’appello») e prevede, invece, per la parte soccombente in un giudizio d’appello che intenda proporre ricorso per cassazione, la possibilità di richiedere la sospensione dell’esecutività della sentenza di secondo grado (art. 373 c.p.c.: il «giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata ... [può disporre] che la esecuzione sia sospesa» fino alla decisione della Suprema Corte).

Il problema era già stato esaminato dal Consiglio di Stato in sede consultiva che, con parere n. 1392/2002 del 22 maggio 2002, chiariva il concetto di “definitività della sentenza di secondo grado”.

In proposito, il Supremo Consesso aveva affermato che «solo la sentenza passata in giudicato o la sentenza di ultima istanza determina un accertamento irretrattabile della illegittimità …, mentre tale non è la sentenza (ancorché esecutiva) soggetta a ricorso ad una istanza giurisdizionale superiore, con la conseguenza che – ai fini della convocazione dei comizi elettorali e della connessa legittimazione del commissario prefettizio fino alla convalida degli eletti – deve farsi esclusivo riferimento alla data in cui l’accertamento giudiziario è divenuto incontrovertibile».

Sull’argomento, il Consiglio di Stato asseriva di essere consapevole degli «inconvenienti pratici che può comportare l’eccessivo dilatarsi dei tempi in attesa di una sentenza definitiva»; ma «tutte le esigenze di opportunità prospettate dall’amministrazione, pur essendo certamente apprezzabili, sono da ritenere, tuttavia, recessive di fronte all’esigenza … che il rispetto della volontà degli elettori (che è un principio sostanziale della vigente Costituzione, sul quale si fonda la “democraticità” stessa della Repubblica) venga comunque affermato accertando in modo definitivo ed incontrovertibile la eventuale illegittimità della elezione o la ineleggibilità degli eletti».

Semmai, più facilmente percorribile potrebbe essere l’utilizzo di «un turno elettorale eccezionale, da effettuarsi ad hoc, in ogni caso, nei termini più brevi possibili rispetto al momento della “definitività” della pronuncia giurisdizionale». Il Supremo Consesso rammentava che tale soluzione poteva essere praticabile con appropriati interventi legislativi, posto che proprio la legge 30 aprile 1999, n. 120, aveva previsto (art. 8) un unico turno annuale ordinario da tenersi tassativamente tra il 15 aprile ed il 15 giugno “se le condizioni che rendono necessario il rinnovo si sono verificate entro il 24 febbraio”, ovvero nello stesso periodo dell’anno successivo, se le condizioni suddette si sono verificate oltre tale data.

Il parere del Consiglio di Stato, se astrattamente ineccepibile sotto il profilo ermeneutico, escludeva la possibilità, per il Ministero dell’Interno, di intervenire sollecitamente in caso di violazione del divieto; d’altro canto, di modificare la legge n. 120/1999 a così breve distanza dalla sua entrata in vigore, la classe politica non ne voleva assolutamente sentir parlare. Pertanto, verificata l’impraticabilità del suggerimento, si cominciò a prendere in considerazione una diversa ipotesi: quella prevista dall’art. 141, comma 1, lett. a), concernente lo scioglimento del consiglio comunale «per gravi e persistenti violazioni di legge».

La norma, mutuata dall’art. 39 della legge n. 142/1990, era stata fino ad allora raramente applicata e, comunque, per motivazioni differenti da quelle della fattispecie in argomento.

Ovviamente, per azionare il rimedio, occorreva supportare adeguatamente il provvedimento di rigore sotto il profilo dei presupposti richiesti dalla legge, anche al fine di evitare ogni rischio di censura sul piano giurisdizionale, configurando la “gravità” della violazione nella circostanza che la mancata declaratoria di illegittimità delle elezioni avrebbe riguardato un profilo fondamentale per la vita dell’ente locale, quale è quello che attiene alla legittimità dell’investitura elettiva, e comprovando la “persistenza” attraverso preliminari atti di diffida all’organo elettivo da parte del Prefetto a revocare la delibera di convalida.

4. Il caso di Salerano Canavese.

Nelle consultazioni del 2004, Elio Ottino, sindaco del comune di Salerano Canavese, in provincia di Torino, era l’unico ad ottenere la sua terza investitura popolare. A seguito della sua proclamazione, il Prefetto di Torino, richiamava il consiglio comunale a valutare la causa di ineleggibilità di quell’amministratore, ostativa all’atto di convalida.

Ma il consiglio comunale, nella seduta del successivo 1° luglio, deliberava, quasi all’unanimità, la convalida di Elio Ottino, con la motivazione di non poter “censurare” la causa di ineleggibilità segnalata dal Prefetto di Torino, ritenendo che l’art. 41 del decreto legislativo 267/2000 escludeva la possibilità di esaminare la causa ostativa relativa al divieto del terzo mandato. Per tale motivo, il Prefetto veniva invitato ad azionare la procedura di cui all’art. 70 del decreto legislativo 267/2000, in quanto unico rimedio idoneo a rimuovere la causa di ineleggibilità in argomento.

A seguito di una successiva diffida del Prefetto di Torino, il consiglio comunale di Salerano Canavese, nuovamente riunitosi il 22 luglio 2004, confermava la convalida delle elezioni comunali, ribadendo, peraltro, l’invito al Prefetto ad azionare nei confronti del sindaco la procedura di cui all’art. 70.

In conseguenza, il Ministero dell’Interno veniva interessato al fine di attivare la procedura di scioglimento del consiglio comunale di Salerano Canavese per gravi e persistenti violazioni di legge.

In attesa della sottoscrizione dello schema di D.P.R. da parte del Presidente della Repubblica (predisposto il 4 agosto 2004), il Prefetto di Torino riteneva, comunque, utile azionare anche il rimedio giurisdizionale di cui all’art. 70 d.l.vo 267/2000 e, pertanto, chiedeva all’Avvocatura dello Stato del capoluogo di adire il Tribunale Civile di Torino di annullare le deliberazioni n. 5, dell’ 1 luglio 2004, e n. 7, del 22 luglio 2004, relative alla convalida di Ottino e di dichiarare la sua decadenza dalla carica.

Il successivo 25 agosto interveniva il D.P.R. di scioglimento, con la nomina di un commissario straordinario per la gestione dell’ente fino alla successiva tornata elettorale.

Ma, quasi contestualmente, l’azione popolare per la declaratoria di decadenza del sindaco di Salerano Canavese proposta dal Prefetto di Torino veniva dichiarata inammissibile dal Tribunale civile di Torino, poiché presentata dall’Avvocatura dello Stato in nome del Ministero dell’Interno, che, invece, non aveva legittimazione ad agire (sentenza 17 settembre 2004, n. 34746).

La decisione coglieva tutti di sorpresa, ma oramai non si poteva più riproporre una nuova azione popolare, in quanto erano oramai decorsi i termini dall’ordinamento, stabiliti in «trenta giorni dalla data finale di pubblicazione della deliberazione» (art. 82, comma 1, del D.P.R. n. 570/1960).

Non restava, pertanto, che tentare di ottenere diversa interpretazione della norma da parte di una corte superiore e, pertanto, l’Avvocatura dello Stato, sempre in nome e per conto del Ministero dell’Interno, appellava la sentenza davanti alla Corte d’Appello di Torino.

Contestualmente, con due ricorsi al TAR Piemonte, Elio Ottino e alcuni consiglieri comunali chiedevano l’annullamento del citato decreto del Presidente della Repubblica del 25 agosto 2004 e degli atti connessi.

In particolare, il ricorso di Elio Ottino conteneva, per lo più, argomentazioni di carattere politico, relativamente alla “ingiustizia” della limitazione dei mandati: si rappresentava, infatti, che l’art. 51, comma 2, d.l.vo n. 267/2000 era ingiustamente e irragionevolmente limitativo del diritto di elettorato passivo ed attivo, nella parte in cui non consentiva al sindaco di un comune, eletto per la seconda volta consecutiva, di essere eletto nuovamente alla medesima carica, in violazione degli artt. 1, 2, 3, 48, 51, 97 e 118 Cost. Si chiedeva, quindi, di dichiarare, in via pregiudiziale, la non manifesta infondatezza della rilevata questione di legittimità costituzionale.

I consiglieri comunali, nel loro ricorso, ribadivano la tesi già espressa in consiglio comunale, in sede di convalida degli eletti, rappresentando di non avere il potere di censurare la causa di ineleggibilità di cui all’art. 51, comma 2, per cui non ritenevano di avere commesso gravi e reiterate violazioni della legge. Rilevavano, inoltre, l’assenza di una congrua motivazione in ordine alle ragioni che avevano indotto l’Amministrazione a tale provvedimento, tenuto conto dei ripetuti appelli del consiglio comunale all’esercizio del potere prefettizio di cui all’art. 70 d.l.vo 267/2000.

Nel frattempo, con sentenza n. 1911 del 19 novembre 2004, la Corte d’Appello di Torino rigettava il ricorso in appello proposto dall’Avvocatura dello Stato avverso la sopra richiamata sentenza del Tribunale di Torino (la decisione veniva poi confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n. 4254 del 24 febbraio 2006).

Il giudizio amministrativo instauratosi innanzi al TAR Piemonte si concludeva, invece, con la sentenza n. 296, pubblicata il 14 febbraio 2005.

Al riguardo, il TAR rigettava il ricorso proposto da Elio Ottino, dichiarandone la parziale inammissibilità.

Veniva, infatti, rilevata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sia dell’art. 51, comma 2, sia dell’art 41, comma 1, del decreto legislativo n. 267/2000, e la genericità delle altre censure in ragione ai prospettati vizi di istruttoria, illogicità, irragionevolezza, vessatorietà, contraddittorietà, carenza/assenza di motivazione, ingiustizia manifesta.

Invece, il ricorso proposto dai consiglieri comunali veniva accolto, ed il decreto del Presidente della Repubblica 25 agosto 2004 veniva annullato per i seguenti motivi:

1) Sotto i profili del travisamento dei fatti e della carente motivazione, in quanto mancava, nella relazione del Ministro dell’Interno, ogni riferimento alle affermazioni contenute nelle premesse delle due deliberazioni consiliari che il Consiglio comunale aveva adottato, in data 4 luglio e 22 luglio 2004, in riscontro alle richieste del Prefetto di Torino di non convalidare l’elezione del sindaco e dei consiglieri comunali, e quindi «non rende giustizia al reale svolgimento dei fatti», nel senso che omette di prendere atto delle motivazioni formulate dal Consiglio comunale nelle predette deliberazioni;

2) Sotto il profilo del vizio per difetto e/o erronea motivazione, oltre che per travisamento dei fatti, in quanto il DPR impugnato non controdeduce in merito alle argomentazioni giuridiche prospettate dal Consiglio comunale, relative alla impossibilità di censurare la causa di ineleggibilità prevista di cui all’art. 51.

Anche tale sentenza coglieva di sorpresa un po’ tutti gli interessati: il sindaco Ottino, che puntava anzitutto sulla declaratoria di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 51, per farne un caso politico a tutela di tutti gli amministratori degli enti locali “minori”, ed il Ministero dell’Interno, nei cui confronti mai fino ad allora era stato annullato un provvedimento di scioglimento di un ente locale per carenza di motivazione.

In ogni modo, poiché il TAR non aveva avuto modo di esaminare il merito, e pertanto non aveva né affermato né negato la sussistenza del potere del consiglio comunale di dichiarare la ineleggibilità del sindaco per avere già espletato due mandati di durata superiore a due anni, sei mesi e un giorno, il Ministero dell’Interno decise di predisporre con sollecitudine un nuovo DPR di scioglimento, questa volta con le precisazioni ritenute indispensabili dal TAR.

Nel frattempo, forse inopportunamente, con nota del 19 febbraio 2005, il Prefetto di Torino comunicava ad Elio Ottino ed ai consiglieri comunali che:

“Con riferimento alla situazione del Comune di Salerano Canavese determinatasi a seguito della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, n. 296/2005, si significa che sono in corso approfondimenti ai fini della verifica dei presupposti per l’adozione di un nuovo provvedimento di scioglimento del civico consesso. Tutto si comunica ai sensi e per gli effetti dell’art. 7 della legge 241/90”.

Successivamente, con DPR del 21 febbraio 2005, munito di una motivazione più complessa ed articolata, si disponeva nuovamente lo scioglimento del consiglio comunale di Salerano Canavese.

Nella relazione al Presidente della Repubblica si rappresentava che «in relazione alle motivazioni della sentenza di annullamento, permane il potere di adottare un provvedimento di scioglimento emendato dai vizi rilevati dal Tribunale Amministrativo Regionale», per cui «permangono i presupposti di fatto e di diritto che hanno dato luogo allo scioglimento della suddetta rappresentanza ai sensi dell’articolo 141, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. d.l.vo 267/2000». Ciò posto, si afferma che «l’assunto sostenuto dal consiglio comunale di Salerano Canavese di non poter censurare la causa di ineleggibilità», non può essere accettato, in quanto «una lettura sistematica della norma in armonia con i principi dell’ordinamento giuridico non consente di escludere la sussistenza del potere-dovere del consiglio comunale di procedere alla verifica delle condizioni di eleggibilità dei suoi componenti e del sindaco con riguardo otto a tutte le cause ostativa e comunque previste dalla norma e di legge, quale che sia la fonte legislativa che le disciplina singolarmente».

Il DPR del 21 febbraio 2005, ovviamente impugnato, veniva anch’esso annullato dal TAR Piemonte, con sentenza n. 3278 del 22 ottobre 2005, per violazione degli artt. 3, 7, 8 e 10 della legge n. 241/1990: «l’Amministrazione, pur comunicando l’avvio del procedimento, ha concluso il medesimo nello stesso giorno, non consentendo agli interessati una effettiva partecipazione allo stesso, partecipazione particolarmente necessaria nel caso di specie, ove la univocità del testo normativo e i sicuri tentativi del consiglio comunale di proporre una soluzione alternativa, escludevano la presenza di attività vincolata dell’Amministrazione nel disporre la massima sanzione di rigore, contrariamente a quanto ritenuto dalla stessa».

Il Collegio, per completezza, anche se non era necessario, specificava che la norma dell’art. 41, comma 1, del d.l.vo 267/2000, era «sufficientemente chiara nell’indicare, tra gli adempimenti della prima seduta del consiglio comunale, quello di “esaminare la condizione degli eletti a norma del capo II Titolo III e dichiarare la ineleggibilità di essi quando sussista alcuna delle cause ivi previste, provvedendo secondo la procedura indicata dall’articolo 69”. Se il legislatore avesse voluto prevedere anche l’esame della condizione degli eletti a norma del capo I del Titolo III, non avrebbe avuto difficoltà a rappresentarlo nel testo normativo ovvero, se pure avesse preferito ricorrere all’implicito richiamo a principi generali, avrebbe previsto che il consiglio comunale provvedesse ad esaminare la condizione degli eletti “ai sensi dei principi generali dell’ordinamento”».

La vicenda è finita con quella sentenza, senza impugnarla innanzi al Consiglio di Stato, a ciò ostandovi, evidentemente, non tanto le argomentazioni giuridiche ivi contenute, quanto i comportamenti incerti ed imprudenti dall’Amministrazione dell’Interno e dalla difesa erariale. Questa serie di concause esterne, estranee ai profili giuridici conseguenti all’elusione del disposto normativo, ha consentito al sindaco di Salerano Canavese di mantenere l’incarico, che a tutt’oggi ricopre.

5. Il sindaco eletto a Castelbottaccio.

In occasione delle elezioni amministrative della primavera del 2005, l’esempio di Elio Ottino dava luogo ad un prevedibile effetto a catena.

Invero, altri Sindaci, seguendo l’esempio di Ottino, si ricandidavano e due di essi venivano rieletti: Amerigo Niro, sindaco di Castelbottaccio, in provincia di

Campobasso, e Giovanni Soro, sindaco di Tinnura, in provincia di Oristano.

La vicenda relativa al comune di Castelbottaccio (che si concludeva in maniera favorevole per lo Stato) ha dato modo alla Suprema Corte di riesaminare gli assunti del TAR Piemonte e di esprimere il proprio orientamento sulla ricostruzione della normativa.

Esperita l’azione popolare, il Tribunale Civile di Campobasso dichiarava rapidamente, con sentenza del 7 luglio 2005, la decadenza del Sig. Amerigo Niro.

Nella motivazione della sentenza, il Collegio riteneva manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione normativa relativa alla limitazione dei mandati, di cui al citato art. 51, condividendo l’esigenza di pubblico interesse, ad essa sottesa, di evitare “pericolose incrostazioni di potere nelle mani di singole persone”. I giudici molisani evidenziavano, in proposito, che l’entrata in vigore della legge 2 luglio 2004, n. 165, aveva inserito tra i principi fondamentali espressi dal nuovo testo dell’art. 122 della Costituzione quello della non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto.

Inoltre, il Collegio rilevava che, in effetti, il raffronto tra la formulazione testuale dell’art. 51 e quella dell’art. 41, lascia ragionevolmente escludere che il consiglio comunale possa delibare in merito alla causa di ineleggibilità in argomento (con ciò confermando l’assunto di TAR Piemonte n. 3278/2005 e sconfessando il Ministero dell’Interno); ma che, comunque, lo strumento dell’azione popolare è idoneo ad acclarare, in via generale, ogni ipotesi di ineleggibilità prevista dall’ordinamento.

Successivamente la Corte di appello di Campobasso, con sentenza n. 291/05 in data 26 ottobre 2005, rigettava l’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale Civile di Campobasso, aderendo alle tesi espresse dal Tribunale e non accogliendo la richiesta del P.G. intervenuto di annullare la delibera consiliare che aveva convalidato l’elezione del Niro, asserendo che il giudice adito in sede di azione popolare non può procedere ad annullamenti e, comunque, che è sufficiente la declaratoria della decadenza dell’eletto.

Il giudizio, portato innanzi la Corte di cassazione, si concludeva con la sentenza n. 11895/06 del 12 aprile 2006, con la reiezione del ricorso avverso la sentenza della Corte di appello di Cambobasso.

Le tesi dei giudici molisani erano tutte sostanzialmente accolte, ma veniva prospettata una diversa interpretazione del sistema normativo, più vicina a quella ab origine delineata dal Ministero dell’Interno.

·         Per quanto riguarda il contenuto precettivo contenuto nell’art. 51, esso rappresenta una «causa tipizzata d’ineleggibilità originaria alla carica di sindaco, preclusiva non già della candidabilità bensì della eleggibilità del soggetto che versi in essa, siccome reputata ostativa all’espletamento del terzo mandato consecutivo»; detto divieto «contiene in sé la sanzione in caso di sua violazione, che non può che essere rappresentata, ove l’elezione venga nondimeno convalidata, dalla declaratoria di decadenza».

·         Per quanto riguarda l’art. 41, «il consiglio comunale ben avrebbe potuto e dovuto rilevare [la causa d’ineleggibilità], applicando la decadenza ovvero non convalidando l’elezione, siccome organo legalmente preposto alla verifica sull’assenza di cause ostative all’eleggibilità».

·         Infine, per quanto riguarda l’art. 70, secondo la Suprema Corte, in assenza della declaratoria di ineleggibilità da parte del consiglio comunale, legittimamente il prefetto aveva esercitato l’azione popolare, prevista in piena autonomia rispetto alle decisioni assunte dal consiglio comunale al fine di impedire «che si consolidino posizioni irregolari che il consiglio comunale non rilevi per motivi di opportunità, per logiche interne alla politica, ovvero perchè non può rilevare».

Questa la vicenda processuale; su quella posta in essere dal Ministero dell’Interno per procedere allo scioglimento dell’ente, non può sostenersi che l’intervento repressivo dello Stato sia stato in grado di intimidire i trasgressori della norma in argomento e scoraggiare altre, eventuali intenzioni di violare la norma.

Infatti, l’11 novembre 2005, a seguito della notifica della sentenza della Corte di appello di Campobasso che aveva dichiarato la decadenza del Niro dalla carica di sindaco (sei mesi dopo il suo insediamento), le funzioni apicali dell’ente venivano assunte dal vicesindaco, il quale, con provvedimento del 16 novembre 2005, nominava il medesimo Niro assessore esterno, attribuendogli la quasi totalità delle deleghe di giunta.

Il procedimento di scioglimento dell’ente veniva, invece, avviato dal Ministro dell’Interno, in conformità al citato parere n. 1392/2002 del 22 maggio 2002 del Consiglio di Stato, all’esito del giudizio presso la Corte di cassazione, conclusosi il 20 maggio 2006, giorno in cui la sentenza n. 11895/06 veniva depositata in cancelleria. Poiché quella data era troppo avanti per preparare le consultazioni elettorali (indette per tutti i comuni interessati solo una settimana dopo, il 28 e 29 maggio 2006), il comune di Castelbottaccio andava a rinnovarsi nelle consultazioni elettorali successive, svoltesi il 27 e 28 maggio 2007, consentendo, di fatto, al Niro di amministrare illegittimamente, senza soluzioni di continuità, per oltre due anni.

6. I sindaci al terzo mandato rieletti in Sardegna.

Il mutato quadro normativo che, in Sardegna, ha recentemente attribuito al Presidente della Regione il controllo sugli organi degli enti locali e, conseguentemente, il potere di scioglimento dei consigli comunali ex art. 141 del d.l.vo 267/2000 (art. 2 della legge regionale della Sardegna n. 13 del 7/10/2005, poi modificata dalla L.R. n. 8/2006), ha visto affermarsi una inattesa ma decisa posizione interventista nei confronti dei sindaci eletti al terzo mandato.

Invero, nei confronti di Tinnura, rinnovatosi come detto nel 2005, di Castiadas (Cagliari) e Torralba (Sassari), rinnovatisi nel 2006, la Regione Sardegna sceglieva di far proprio l’orientamento del Ministero dell’Interno, cassato dai giudici piemontesi ma sostanzialmente confermato dalla appena intervenuta sentenza Cass. n. 11895/06, e diffidava i consigli comunali a non convalidare la causa di ineleggibilità del sindaco.

Non avendo ottemperato alla diffida, il consiglio comunale di Tinnura veniva sciolto con decreto del presidente della Regione Sardegna del 15 dicembre 2005.

Il consiglio comunale di Torralba si uniformava, nei termini, all’atto di diffida, revocando la parte della delibera che aveva convalidato l’elezione del sindaco. Peraltro, per una malintesa interpretazione dell’art. 141 (dovuta, evidentemente, all’inesperienza dei funzionari sardi), l’ente veniva sciolto per gravi e persistenti motivi, anziché per la declaratoria di decadenza. Il decreto del presidente della Regione Sardegna (n. 76 del 10 agosto 2006) veniva poi annullato, limitatamente a tali motivi, dal TAR Sardegna (sentenza n. 99/2007).

Anche il consiglio comunale di Castiadas veniva sciolto con decreto del presidente della Regione Sardegna del 3 luglio 2006. L’atto, impugnato dai consiglieri comunali e dal sindaco innanzi al TAR Sardegna, veniva confermato con sentenza n. 98/07 del 29 novembre 2006.

Con la decisione, pubblicata il successivo 8 febbraio 2007, i giudici sardi censurano i comportamenti di tutti i protagonisti della vicenda: i consiglieri comunali ed il Sindaco di Castiadas, i suoi consulenti legali (non a caso, gli stessi di Salerano Canavese) e, indirettamente, i giudici amministrativi piemontesi.

In particolare, con riferimento alla censura di mancata osservanza del principio di partecipazione al procedimento, viene ritenuto idoneo allo scopo l’atto di diffida, che «conteneva tutti gli elementi idonei a consentire agli interessati di partecipare al procedimento, il cui avvio dipendeva inoltre dall’avverarsi di un fatto addebitabile ai suoi diretti destinatari (inottemperanza alla diffida)».

Per quanto riguarda la prospettata carenza di motivazione, il TAR afferma che «neanche può sostenersi che il provvedimento impugnato fosse immotivato, poiché, oltre alle considerazioni che lo sorreggono autonomamente, è chiaro al suo interno il sufficiente riferimento agli argomenti contenuti nell’atto collegiale della giunta e nella proposta dell’assessore».

In relazione, infine, alla prospettata mancanza delle gravi e persistenti violazioni di legge richieste dalla norma per giungere allo scioglimento, il TAR rileva che proprio da una specifica argomentazione della difesa del ricorrente, secondo la quale il consiglio sarebbe stato obbligato a rispettare e prendere atto della volontà popolare, «traspare la gravità della violazione di legge posta in essere dal consiglio» in quanto «nessuna volontà popolare può rendere disapplicabili» le leggi dello Stato.

Invero, con la diffida della Regione il consiglio era stato reso consapevole della norma che sanciva l’ineleggibilità del sindaco per il terzo mandato «ed altrettanto consapevolmente ne ha ignorato la dovuta applicazione, trincerandosi dietro le argomentazioni di alcune pronunce giurisprudenziali, peraltro isolate e già all’epoca superate da una decisione della Cassazione [la n. 11895/06 n.d.r.] inequivoca nello stabilire che fosse compito del consiglio procedere anche alla verifica dei requisiti di eleggibilità del sindaco legalmente previsti … Ma questo atteggiamento, da parte di soggetti destinati a governare un ente locale in ossequio al sistema di norme vigenti, contiene in sé il nucleo della gravità della violazione, al di là delle giustificazioni formali date ad un certo comportamento».

7. I sindaci rieletti al terzo mandato nella primavera del 2006.

Le elezioni amministrative della primavera del 2006, anche sotto la spinta demagogica dell’A.N.P.C.I. (la neonata associazione piemontese dei piccoli comuni, che cercava di cavalcare l’onda per ottenere visibilità a livello nazionale, riuscendo a portare dalla propria parte pure l’A.N.C.I.), vedeva un numero smisurato di sindaci in scadenza del secondo mandato candidarsi nuovamente e, di conseguenza, un cospicuo numero di sindaci rieletti al terzo mandato.

Più precisamente, oltre ai citati comuni di Castiadas e Torralba, erano confermati al terzo mandato anche i sindaci di Castelletto Monferrato (Alessandria); Casalbore, Santo Stefano del Sole, Sirignano e Mugnano del Cardinale (Avellino); Guardialfiera (Campobasso); Liberi e Dragoni (Caserta); Novedrate (Como); Sgurgola (Frosinone); Veggiano (Padova); Taurianova e Varapodio (Reggio Calabria); Pescorocchiano (Rieti); Alfano (Salerno); San Marzano di S. Giuseppe (Taranto); Monteu da Po e Favria’ (Torino).

A seguito delle rispettive delibere di convalida degli eletti, il Ministero dell’Interno dava istruzione ai prefetti interessati di instaurare l’azione popolare presso i rispettivi Tribunali, escludendo l’adozione di più pregnanti interventi.

A metà gennaio 2007, le azioni popolari attivate dai prefetti non avevano ancora avuto definitivo esito, essendo giunte solo alla fase dell’appello ed una sola pendente presso la corte di cassazione (mentre i consiglieri comunali di Guardialfiera si erano dimessi prima della declaratoria di decadenza).

Ma ormai non si trattava più di uno o due comuni (come, rispettivamente, nel 2004 e nel 2005): il numero cospicuo di sindaci in carica al terzo mandato non poteva far ulteriormente tollerare il loro plateale e pervicace comportamento, che contraddiceva la loro figura di “primo garante della legalità”.

Il comportamento antigiuridico di quegli amministratori arrivava al punto che, come nel caso di Castelbottaccio (in quel momento non ancora conclusosi), i sindaci dichiarati decaduti a seguito della conclusione dell’appello continuavano ad amministrare l’ente nella improbabile carica di assessore esterno.

Pertanto, poiché rebus sic stantibus gli enti locali interessati sarebbero andati a rinnovarsi non prima della primavera del 2008, cominciava a farsi strada la necessità di agire, entro l’ormai prossimo il termine ultimo del 24 febbraio, previsto dalla normativa vigente per inserire i comuni da rinnovare per motivi diversi dalla scadenza naturale nella tornata elettorale della primavera del 2007, nei confronti di tutti i sindaci sanzionati dalla decadenza con sentenza esecutiva anche se non inoppugnabile, sulla base di una diversa e fino ad allora inedita ricostruzione della fattispecie giuridica.

Invero, veniva fatto notare che la natura ‘originaria’ della causa di decadenza per violazione del divieto del terzo mandato, ribadita anche dalla Suprema Corte nella citata sentenza n. 11895/2006, non poteva non coinvolgere gli atti adottati dal sindaco, affetti da vizio di invalidità ab origine, ivi compresi la nomina del vicesindaco e della giunta.

Di qui, la configurazione della fattispecie non più come art. 19 del regio decreto 3 marzo 1934, n. 383 (tuttora vigente “per la parte compatibile con l’ordinamento vigente” ai sensi dell’art. 273, comma 5, del d.l.vo 267/2000), al fine di reggere le amministrazioni comunali interessate «qualora non possano, per qualsiasi ragione, funzionare»: rimedio che non prevede lo scioglimento dell’ente locale, ma solo il suo commissariamento fino alle prime consultazioni elettorali utili.

8.  La circolare n. 3/2007-UCO del 19 febbraio 2007.

Sulla base di tali considerazioni, il Ministro dell’Interno, con circolare (rectius, direttiva) n. 3/2007-UCO del 19 febbraio 2007, nel prendere atto che nei confronti della quasi totalità dei sindaci in carica per il terzo mandato «i giudici di appello si sono conformemente già pronunciati respingendo i relativi ricorsi già proposti», prescriveva ai Prefetti di Alessandria, Avellino, Caserta, Como, Frosinone, Padova, Reggio Calabria, Rieti, Salerno e Torino di procedere ai sensi «dell’art. 19 R.D. n. 383/1934, mediante la nomina da parte del Prefetto di un commissario per la provvisoria amministrazione dell’ente ».

Nella circolare si affermava che «la percorribilità di tale rimedio trova supporto nella considerazione che l’ineleggibilità originaria riveste natura dichiarativa, sussistendo sin dall’origine del suo verificarsi e producendo perciò effetti ex tunc[3]. La giurisprudenza [4] ha evidenziato che detta ineleggibilità rappresenta causa ostativa all’espletamento del terzo mandato consecutivo. Dalla accertata assenza del presupposto legittimante la carica di Sindaco deriva, in linea di stretta consequenzialità, l’illegittimità della composizione del consiglio, in virtù del vigente sistema elettorale di attribuzione dei seggi. Viene, inoltre, meno la legittimazione alla permanenza in carica della giunta e del vicesindaco in quanto le relative nomine, espressione del rapporto fiduciario con il sindaco, sono travolte dalla caducazione del presupposto unico e determinante. Caducazione acclarata con sentenza esecutiva del giudice d’appello».

I comuni che dovevano essere censurati dai prefetti erano quattordici: Castelletto Monferrato, Santo Stefano del Sole, Sirignano, Liberi, Dragoni, Novedrate, Sgurgola, Veggiano, Taurianova, Varapodio, Pescorocchiano, Alfano, Monteu da Po e Favria’.

Invece, nei confronti di Casalbore, Mugnano del Cardinale e San Marzano di S. Giuseppe, essendovi ancora pendenza del giudizio di appello, la direttiva chiedeva procedersi alla formalizzazione di un atto di diffida rivolto al consiglio comunale per la revoca dell’atto di convalida, al fine di procedere successivamente al rimedio di cui all’art. 141, per gravi e persistenti motivi, che l’intervenuta sentenza TAR Sardegna n. 98/07 aveva, finalmente, reso legittima.

Questa parte della direttiva rimaneva, peraltro, impraticabile a causa dell’ormai prossimo sopraggiungere della data del 24 febbraio 2007, che avrebbe, comunque, impedito agli enti di essere inseriti nei decreti di indizione dei comizi elettorali. Nel caso di San Marzano di S. Giuseppe, il Prefetto di Taranto procedeva, il successivo 20 marzo 2007, al commissariamento ex art. 19, a seguito della esecutività della sentenza della corte territoriale, ma il decreto veniva annullato del TAR Lazio con sentenza n. 9414 del 12 luglio 2007 che, alla data odierna, non risulta essere impugnata.

Quanto, invece, al primo gruppo di 14 comuni, interessati del provvedimento ex art. 19 R.D. n. 383/1934, il commissariamento è stato piuttosto travagliato, fino a costringere alcuni commissari ad interrompere, più volte, il loro incarico fino al rinnovo elettorale dell’ente.

9. L’impugnazione al TAR dei commissariamenti prefettizi.

Una volta vistisi notificare il provvedimento di commissariamento, quasi tutti i sindaci interessati adivano il TAR per la sospensione cautelare del provvedimento: rimanevano acquiescenti alla loro ‘rimozione’ solo i sindaci di Alfano, Castelletto Monferrato e Novedrate.

Quasi tutti i sindaci che avevano adito il TAR ottenevano la sospensiva: solo il TAR di Reggio Calabria la negava per Taurianova e Varapodio.

Il TAR di Reggio Calabria accoglieva la tesi del Prefetto di Reggio Calabria argomentando, in proposito, che il provvedimento prefettizio con cui si era intervenuti nei confronti di una situazione di “incompatibilità originaria” «spiega i suoi effetti “ex tunc”e i provvedimenti emanati “medio tempore” risultano illegittimi, al di là della sua formale denominazione [ed, inoltre,] che la situazione di fatto che determina l’“incompatibilità” non deve essere accertata con sentenza passata in giudicato» (ordd. n. 142-143/07).

Gli altri TAR aditi (Roma, Salerno e Venezia) accoglievano, invece, la domanda incidentale di tutela cautelare o, direttamente, il ricorso, disponendo il reinsediamento del consiglio comunale “irregolare”.

I provvedimenti in questione (TAR Lazio nn. 149, 1322, 1323, 1854, 2238, 2239, 5797, 5802, 7976, 8044; TAR Campania-Salerno n. 288 e TAR Veneto n. 1487) contengono tutti la stessa, identica, motivazione, dando l’impressione che i componenti dei diversi collegi abbiano preventivamente concordato l’esito dei procedimenti.

In quelle decisioni si afferma, sostanzialmente:

- che sussistendo tra la norma di cui all’art. 141 del d.l.vo 267/2000 e quella di cui all’art. 19, comma 4, R.D. n. 383/1934 «un rapporto di “genus ad speciem”», prevale il potere ordinario di cui all’art. 141;

- «che, nella circostanza, non si poteva (e non si può) parlare di un’obiettiva impossibilità di funzionamento dell’ente “commissariato” », in quanto, in caso di decadenza del Sindaco, il Consiglio comunale e la Giunta restano in carica «fino alle nuove elezioni;

- che il rinnovo elettorale presuppone sempre lo scioglimento del consiglio comunale, «da effettuarsi con apposito D.P.R., su proposta del Ministro dell’Interno»;

- che, secondo quanto precisato da C.d.S., n.1392/2002, non può procedersi a nuove elezioni finché la sentenza la sentenza di decadenza non passi in giudicato;

- che alle sentenze di declaratoria di decadenza non può esser attribuita efficacia retroattiva e, quindi, «gli atti adottati dal Sindaco (tra cui, appunto, la nomina del vice-sindaco) sino alla data della relativa pronuncia sono da ritenersi pienamente validi».

Il ragionamento viene ulteriormente approfondito nelle tre cause passate in decisione, con le sentenze (sempre di identico tenore) TAR Veneto n. 1487 del 27 aprile 2007 (Veggiano) e TAR Lazio nn. 5797 (Pescorocchiano) e 5802 del 10 maggio 2007 (Sgurgola).

Secondo tali sentenze, la legge non distingue tra le due ipotesi di decadenza, né attribuisce loro effetti diversi, per cui sia la fattispecie successiva alla regolare elezione del Sindaco sia quella pronunciata con effetto ex tunc devono essere ricondotte alla medesima disciplina di cui alla lett. b. punto 1 dell’art. 141 (decadenza dell’organo di vertice dell’ente).

10. L’appello al Consiglio di Stato e la sentenza n. 5309 del 10 luglio-9 ottobre 2007.

Ma l’impugnazione ‘a tappeto’ delle citate decisioni di primo grado innanzi al Consiglio di Stato vede il ribaltamento della tesi dei TAR e la loro riforma, sia pure in via cautelare (p.es. n. 2119/07; n. 2570/07; n. 2575/07; n. 2576/07; n. 2640/07; n. 3548/07).

Tutte le citate ordinanze cautelari contengono le seguenti considerazioni:

«il presente contenzioso investe il procedimento elettorale in comune con popolazione inferiore a 15.000 abitanti; in tale ipotesi non è consentito agli elettori il c.d. voto disgiunto, per cui l’elezione dei consiglieri comunali si caratterizza per uno stretto legame con l’elezione del Sindaco … a sua volta, la composizione della giunta e la nomina del vice-Sindaco sono espressione di scelte fiduciarie riservate a chi rivesta la carica di Sindaco; in relazione a quanto su esposto, nei casi di accertata ineleggibilità del Sindaco al terzo mandato si determina un effetto a catena che inficia la composizione e la rappresentatività di tutti gli organi politici del Comune, appunto anche a motivo della riconosciuta causa originaria di ineleggibilità; siffatta evenienza appare giustificare l’esercizio dei poteri di commissariamento del Prefetto previsti dall’art. 19 del r.d. n. 383/1934, quale organo di garanzia della regolare costituzione degli organi elettivi degli enti locali e del loro corretto funzionamento; sul piano cautelare, si configura prevalente l’interesse pubblico perseguito con il provvedimento di commissariamento, perché teso al rinnovo della tornata elettorale, in corretta applicazione delle regole per la scelta e costituzione degli organi esponenziali della comunità locale».

Solo una causa del Consiglio di Stato è passata alla decisione: quella che ha riformato la sentenza del TAR Veneto.

Il Collegio, prima di esaminare le questioni di diritto, ha ritenuto in dovere di stigmatizzare la vicenda sub judice, in quanto «caratterizzata da una palese violazione» di legge, non solo ben conosciuta dal sindaco e dal consiglio comunale di Veggiano, ma «giustificata con una valutazione opinabile», relativamente alla sua “ingiustizia ed incostituzionalità”.

Viene, inoltre, stigmatizzata la nomina, da parte del vicesindaco subentrato a seguito della declaratoria di decadenza conseguente all’azione ex art. 70 D. Lgs. n. 267/2000, del sindaco decaduto quale componente esterno della Giunta, con una delega particolarmente ampia.

Passando al merito, il Collegio ricostruisce la fattispecie giuridica in maniera del tutto inedita.

Anzitutto, viene affermata l’incompiutezza della previsione di legge («il sistema è monco, perché non prevede una sanzione per “un fatto illegittimo”»); ma, soprattutto, viene espressa totale insoddisfazione per la soluzione individuata dalla Corte di Cassazione: «la soluzione interpretativa non sembra però pienamente adeguata alla realtà fattuale, dal momento che parifica la causa originaria a quelle sopravvenute di ineleggibilità (come se la prima dovesse impedire, al pari delle seconde, il conflitto di interessi nell’esercizio della carica), con il risultato di obliterare la ratio della particolare causa di ineleggibilità, che è quella di assicurare, oltre che il ricambio nel governo dell’ente locale, la genuinità della competizione elettorale».

Portando il ragionamento della Suprema Corte alle estreme conseguenze, «il TAR e gli appellati danno una lettura dell’art. 53, dell’art. 141 e dello stesso art. 70 TUEL, senz’altro coerente dal punto di vista formale», poiché la declaratoria di decadenza disposta dal giudice ordinario, anche nel caso di ineleggibilità originaria e non rimuovibile, non può che avere effetti ex nunc.

Ma, in realtà, i giudici sono partiti da un presupposto errato: quello di ritenere che «la sola norma di chiusura del sistema è rappresentata dal menzionato art. 70». Invece, la vera norma di chiusura è quella individuata dal- l’Amministrazione dell’Interno, per avere fatto ricorso al potere di cui all’art. 19, comma 4, del R. D. n. 383/1934, da interpretarsi, per la fattispecie in esame, in combinato disposto con l’art. 14, comma 1 e 2, del decreto legislativo n. 300/1999, il quale attribuisce, tra l’altro, al Ministero dell’Interno “le funzioni ed i compiti spettanti allo Stato in materia di: garanzia della regolare costituzione degli organi elettivi degli enti locali e del loro funzionamento”.

Invero, «é proprio questa norma di chiusura che garantisce un efficace controllo di legalità, che la procedura ex art. 70 TUEL (letto unitamente agli artt. 53 e 141 TUEL) non assicura pienamente». Solo l’applicazione del rimedio previsto dall’art. 19 può legittimamente rappresentare «una adeguata risposta ad una situazione di chiara, consapevole illegalità».

Conclusivamente, l’appoggio del Consiglio di Stato alla tesi del Ministero dell’Interno, oltre a consentire il rinnovo di tutti i comuni commissariati entro la prima parte del 2007, sembra aver finalmente imposto la natura precettiva del divieto del terzo mandato e ribadito la funzione deterrente della norma.

 

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[1] TAR Toscana, sentenza 26 gennaio 2005 n. 316; TAR Lazio, sentenza 7 settembre 2005 n. 6608.

[2] Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 15 giugno 2005 n. 3338.

[3] Sottolineato dall’a.

[4] Non espressamente indicata [n.d.a.]


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