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Giurisprudenza
n. 4/2005 - © copyright

TAR LOMBARDIA - BRESCIA - sentenza 21 marzo 2005 n. 168 - Pres. Mariuzzo, Est. Mielli - Sintesi S.p.a. (Avv. Caia, Salvadori) c. Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici (Avv.ra Stato) e Ingg. Provera e Carrassi S.p.a. (Avv. Wongher, Balestrieri) - (accoglie).

Contratti della P.A. – Appalti lavori pubblici – Parametri di valutazione - Aggiudicazione – Discrezionalità dell’amministrazione appaltante – Disapplicazione - Art. 21. L. n. 109 del 1994 - Norme comunitarie – Art. 30 Direttiva 93/37.

L’art. 30, n. 1 della direttiva 14 giugno 1993 n. 93/37, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici, è incompatibile con una normativa nazionale che, ai fini dell’aggiudicazione di appalti di lavori pubblici mediante procedure di gara aperte o ristrette, imponga, in termini generali ed astratti, alle amministrazioni aggiudicatici di ricorrere unicamente al criterio del prezzo più basso.

Deve pertanto essere disapplicato l’art. 21 della legge 11.2.1994 n. 109, nel testo antecedente alle modifiche ad esso apportate dalla legge 1.8.2002 n. 166, in quanto dichiarato incompatibile con le regole generali dell’ordinamento comunitario ricavate in sede di interpretazione dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nell’esercizio dei compiti ad essa attribuiti dall’art. 234 (ex art. 177) del Trattato (1).

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Documenti correlati:

CORTE DI GIUSTIZIA DELLE COMUNITA EUROPEE, SEZ. II - sentenza 7 ottobre 2004 (le disposizioni nazionali che prevedono per gli appalti pubblici unicamente il criterio dell’offerta più bassa contrastano con l’art. 30 della Direttiva CE n. 93/1993), pag. http://www.lexitalia.it/p/corte/cortegiustce_2004-10-07.htm

 

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(1) Commento di

ALBERTO SALVADORI
(Avvocato - Cultore di diritto amministrativo
presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Brescia)

Diritto comunitario e sistema italiano di aggiudicazione
dei lavori pubblici: alcuni spunti di riflessione

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SOMMARIO: 1.- Introduzione. 2.- La tesi a favore della legittimità dell’art. 21 della L. 11.2.1994 n.109 (“legge Merloni”). 3.- La decisione del Tar Lombardia Sez. di Brescia del 21.3.2005 n. 168. 4.- L’influenza del diritto comunitario sul diritto amministrativo nazionale.  5.- Una nuova forma del diritto amministrativo comunitario.

1.- Introduzione.

 La recente sentenza del T.A.R. Brescia n. 168 del 21 marzo 2005, che si annota, resa alla luce della sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee C-247/2002 del 7.10.04 [1], offre interessanti spunti di riflessione sulla corretta applicazione del principio della libera concorrenza da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, nonché, più in generale, sull’influenza esercitata dal diritto comunitario sul diritto amministrativo nazionale.

I fatti che hanno determinato la controversia in esame possono essere così sintetizzati.

L’amministrazione appaltante, al fine di realizzare un parcheggio pubblico, assegnava il relativo appalto facendo ricorso al sistema di aggiudicazione europeo previsto dall’art. 30 della direttiva 93/37, ai sensi del quale le amministrazioni aggiudicatrici possono indifferentemente utilizzare il criterio del prezzo più basso o dell’offerta economicamente più vantaggiosa; il criterio perseguito dall’amministrazione, veniva, tuttavia, contestato da un’impresa privata la quale, senza esperire alcuna azione giurisdizionale, denunciava all’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici la presunta violazione dell’art. 21 della legge italiana n. 109 del 1994 (cd. “legge Merloni”) secondo cui le aggiudicazioni dei pubblici appalti di lavori dovevano, invece, avvenire esclusivamente per mezzo del criterio del prezzo più basso.

L’Autorità, ritenendo sussistente la violazione della legge italiana, emanava un provvedimento nel quale affermava che “l’aggiudicazione dei pubblici appalti può avvenire soltanto con l’applicazione del criterio del prezzo più basso, essendo possibile fare ricorso a quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa nelle sole ipotesi dell’appalto concorso.”

Siffatta determinazione veniva impugnata avanti il Tar dall’amministrazione appaltante, convinta della legittimità del suo operato.

Nasceva, pertanto, un contenzioso amministrativo nel quale l’amministrazione appaltante contestava la conformità del sistema di aggiudicazione italiano, di cui all’art. 21 della Legge n. 109 del 1994, con il sistema di aggiudicazione europeo, di cui all’art 30 della direttiva 93/37.

Appariva, quindi, necessario al Tar sottoporre alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee la soluzione di questioni pregiudiziali relative all’interpretazione e alla “portata” dell’art. 30 n. 1 della direttiva 14.6.1993 n. 93/37 in relazione al richiamato art.21 della L.109/94 [2].

2.- Le argomentazioni giuridiche a favore della legittimità dell’art. 21 della “legge Merloni”.

Prima di ricordare il ragionamento seguito dalla Corte di Giustizia e recepito dal Tar remittente, appare opportuno, per una maggior comprensione del caso, evidenziare quali fossero le argomentazioni giuridiche a fondamento della legittimità dell’operato del legislatore italiano.

L’art. 21 della “legge Merloni” potrebbe, infatti, apparire conforme alla direttiva in esame se si ritiene che la disciplina europea, prevedendo due criteri di aggiudicazione, abbia obbligato il legislatore nazionale a sceglierne almeno uno e questo perché sia il criterio del prezzo più basso che quello dell’offerta più vantaggiosa appaiono, in astratto, idonei a garantire la concorrenza.

In altri termini, poiché ogni direttiva vincola lo Stato al raggiungimento di un risultato e poiché il risultato perseguito dalla direttiva 93/37 è, evidentemente, la garanzia della concorrenza, il legislatore italiano bene avrebbe fatto ad optare per uno dei criteri previsti dalla fonte comunitaria, sul rilievo che il mercato comunitario può dirsi davvero concorrenziale nel momento stesso in cui lo Stato si limita ad introdurre, nel proprio ordinamento, anche uno solo dei criteri indicati dalla direttiva [3].

La concorrenza, cioè, non potrebbe ritenersi garantita attraverso l’esercizio dell’opzione esercitata dall’amministrazione aggiudicatrice, ma verrebbe tutelata “a monte” dalla norma statale la quale, stabilendo quale criterio utilizzare nell’assegnazione dei lavori pubblici, assicura comunque lo scopo perseguito dalla direttiva in esame.

La legittimità del sistema di aggiudicazione previsto dalla “legge Merloni” potrebbe, inoltre, trovare un fondamento nelle argomentazioni espresse dalla sentenza n. 482/1995 [4] della Corte Costituzionale, la quale esprimeva parere favorevole sulla conformità della legge italiana al dettato costituzionale, dichiarando, in proposito, che “la legge quadro in materia di lavori pubblici stabilisce, negli appalti di opere pubbliche, il principio della gara per la selezione del contraente cui affidare la realizzazione delle opere; essa ammette la trattativa privata solo in ambiti più ristretti e rigorosi di quanto non prevede la normativa comunitaria, che peraltro configura il ricorso alla procedura negoziata come una eccezione rispetto alla regola della procedura aperta o della procedura ristretta, le quali implicano una gara tra le imprese concorrenti; la norma nazionale assicura in modo ancora più esteso la concorrenza e non determina una lesione del diritto comunitario, che consente, ma non impone la trattativa privata”.

Dalle considerazioni espresse dalla Corte Costituzionale si potrebbe quindi estrapolare un principio generale, secondo il quale il legislatore nazionale al momento della trasposizione di una fonte comunitaria nel diritto interno, può legittimamente predisporre una legge di adattamento più rigida di quella comunitaria: la norma comunitaria, cioè, rappresenterebbe un limite normativo al di fuori del quale il legislatore nazionale non può spingersi, ma all’interno del quale qualsiasi normativa restrittiva è consentita.

Secondo questo ragionamento, pertanto, il legislatore italiano, prevedendo una disciplina normativa più rigida di quella europea, non avrebbe valicato il limite normativo imposto dalla direttiva e, conseguentemente, la “legge Merloni” non potrebbe considerarsi incompatibile col diritto comunitario.

Tale conclusione troverebbe conforto anche dal preambolo della direttiva, laddove, all’ottavo “considerando”, si precisa che lo sviluppo della effettiva concorrenza è garantito dalla pubblicazione di bandi di gara contenenti tutte le informazioni sullo svolgimento della gara stessa. La direttiva, quindi, non mirava ad istituire una completa armonizzazione delle procedure selettive bensì fissava regole comuni finalizzate al coordinamento ed avvicinamento delle più generali procedure contrattuali dei singoli Stati membri [5].

3.- La decisione del Tar Lombardia Sez. di Brescia.

Il Tribunale amministrativo, sulla scorta dell’interpretazione formulata dalla Corte di Giustizia, ha, invece, dichiarato l’incompatibilità dell’art. 21 della “legge Merloni” con la direttiva 93/37.

Il Tar, infatti, pur riconoscendo che la direttiva in esame non mira alla realizzazione di una disciplina generale in tema di appalti pubblici [6], fa proprie le ragioni della Corte di Giustizia secondo cui la citata direttiva persegue il fine di rendere effettiva la libera concorrenza, consentendo, quindi, alle amministrazioni di valutare, in concreto, quale criterio sia più opportuno adottare in ogni singolo appalto per il raggiungimento del fine di cui sopra [7].

La previsione di un unico criterio astratto di aggiudicazione, previsto dalla legge italiana, si pone, dunque, in contrasto con tale fine.

La legge italiana, imputata di incompatibilità con la direttiva europea, aveva, peraltro, già subìto una rivisitazione da parte dello stesso legislatore italiano che con legge n. 166 del 2002 ha modificato l’art. 21 L. 109/94, manifestando, in tal modo la propria perplessità nei confronti della precedente impostazione normativa.

Ai sensi della nuova legge, infatti, “l'aggiudicazione degli appalti mediante pubblico incanto o licitazione privata può essere effettuata con il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa” e, pertanto, il rigido sistema di assegnazione lavori previsto dalla “legge Merloni” è stato dallo stesso legislatore italiano abrogato.

Peraltro, ancor prima dell’intervento della legge n. 166/2002, la ratio della normativa italiana appariva in contrasto con una sua interna disposizione: se è vero, infatti, che l’articolo 21, comma 1 della “legge Merloni” aveva il fine di escludere qualsiasi spazio di discrezionalità dell’amministrazione aggiudicatrice, onde, evidentemente, riparare alla grave crisi avvertita all’inizio degli anni ’90 [8], è anche vero che l’articolo 21 comma 2 della stessa legge prevedeva una ipotesi di discrezionalità amministrativa in relazione agli appalti concorso e alla concessione di costruzione e gestione di lavori pubblici posto che la loro aggiudicazione avveniva secondo il criterio della offerta economicamente più vantaggiosa.

La ratio del sistema di aggiudicazione italiano in esame, pertanto, non poteva essere unicamente individuata nella volontà del legislatore italiano di escludere la discrezionalità della stazione appaltante poiché, come sopra ricordato, la stessa “legge Merloni” nel medesimo articolo perseguiva due differenti scopi.

A prescindere da quanto sopra, comunque, l’incerto quadro normativo realizzato dalla “legge Merloni” è stato, come si è detto, riconosciuto non idoneo a garantire il principio della effettività della libera concorrenza.

La sentenza in commento, infatti, ha stabilito un importante principio guida per la corretta applicazione della direttiva comunitaria al fine di garantire la conformità delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici alla libera concorrenza, prevedendo che il rispetto di tale principio avviene solo nel caso in cui il criterio di aggiudicazione, fatto proprio dall’amministrazione, risponda alle reali caratteristiche del singolo appalto e non sia, pertanto, conseguenza di una generica e acritica applicazione di una norma di legge.

Secondo il Tar-Brescia, cioè, l’introduzione, nelle procedure di aggiudicazione, di criteri valutativi che non si limitino al prezzo ma che riguardino anche il valore tecnico, i tempi di consegna, la redditività o i sistemi di pagamento, rappresenta una condizione propulsiva per la partecipazione delle imprese le cui offerte, per l’appunto, rileveranno anche in riferimento alla qualità del prodotto [9].

È evidente, infatti, che la possibile utilizzazione da parte dell’amministrazione di entrambi i criteri previsti dalla direttiva, ha come effetto immediato quello di consentire un accesso indiscriminato a tutte le imprese interessate, rimettendo “in gioco” anche quelle che, pur trovandosi nella impossibilità di abbassare i costi della propria opera, possono, comunque, rendere appetibile la propria prestazione in riferimento ad elementi diversi dal prezzo.

Secondo il Tar, pertanto, in forza della corretta interpretazione della direttiva n.93/37, deve essere consentito alle amministrazioni pubbliche la scelta del criterio più opportuno al caso di specie, onde permettere alle stesse di individuare la metodologia migliore da applicare nello svolgimento della gara per il raggiungimento dei fini che caratterizzano il particolare appalto [10].

Se, quindi, la concorrenza è concretamente garantita attraverso un’analisi dell’impatto del metodo di gara sul mercato, ne consegue che solo ed esclusivamente le valutazioni discrezionali dell’amministrazione possono rendere la gara concorrenziale posto che soltanto quest’ultima può parametrare il mercato e determinare quale sia tra i criteri previsti quello che garantisca, nel caso concreto, l’effettività della concorrenza.

Stante quanto sopra, appare, pertanto, condivisibile la decisione del Tar che ha disapplicato l’art. 21 della “legge Merloni” perché, imponendo quest’ultimo alle amministrazioni di aggiudicare gli appalti unicamente con il criterio del prezzo più basso, non lascia alle stesse alcuno spazio discrezionale, vincolandole all’applicazione, per qualsiasi gara, di un criterio che si rivela, nel concreto, non rispettoso del principio della libera concorrenza [11].

4.- L’influenza del diritto comunitario sul diritto amministrativo nazionale: il diritto amministrativo comunitario.

Il percorso giuridico tracciato dalla sentenza in commento, consente, inoltre, di soffermarsi su un’importante questione, correlata al caso in esame, e relativa all’evoluzione del diritto amministrativo comunitario, la cui funzione, come è noto, appare fondamentale per l’integrazione degli ordinamenti giuridici degli Stati membri [12].

Il diritto comunitario, infatti, esercita costantemente un effetto plasmante sull’attività amministrativa nazionale, sia attraverso l’ art. 5 del Trattato comunitario, che impone agli Stati membri di collaborare congiuntamente con la Comunità Europea per garantire l’adozione delle decisioni comunitarie, sia, più efficacemente, per mezzo del principio della disapplicazione della norma nazionale che appare difforme o che non ha trasposto tempestivamente la direttiva comunitaria: in queste ultime due ipotesi, infatti, il diritto sostanziale applicato dalle amministrazioni degli Stati membri è diritto comunitario e, pertanto, le amministrazioni, divenendo, di fatto, organi di esecuzione comunitaria, possono contribuire alla diffusione del diritto amministrativo comunitario, poiché al momento dell’esecuzione devono conformarsi anche a tutti gli altri principi comunitari applicabili al caso concreto [13].

Il principio della disapplicazione, tuttavia, è invocabile unicamente in presenza di due indefettibili condizioni, costituite, l’una, dall’inadempimento, da parte dello Stato membro, dell’obbligo di emanare leggi di adattamento conformi alla fonte comunitaria e l’altra dalla presenza di una direttiva analitica e dettagliata che non lascia alcun margine discretivo all’amministrazione così da rendere meramente esecutiva la sua concreta attività.

Da quanto appena affermato, pertanto, si ricava che l’attività dell’amministrazione che traspone nell’ambito nazionale il diritto sostanziale comunitario appare legittima solo se vincolata e, quindi, conforme ad una direttiva comunitaria dettagliata, mentre, qualora l’esecuzione della direttiva lasci un certo ambito di discrezionalità, prevale il principio della sovranità nazionale, in forza del quale, come è noto, il diritto comunitario si ferma “sulla soglia degli Stati,” [14] e solo lo Stato membro è il soggetto preposto ad eseguire al proprio interno l’atto comunitario [15].

5.- Una nuova forma di diritto amministrativo comunitario.

Recentemente, tuttavia, occorre segnalare un nuovo fenomeno, di cui la sentenza in commento è prova, e che appare fondamentale per lo sviluppo del diritto amministrativo comunitario, nonché per l’avvicinamento degli ordinamenti giuridici degli Stati membri.

Sempre più spesso, infatti, è possibile individuare direttive nelle quali manca la tipica caratteristica di vincolare lo Stato nel risultato, lasciandolo, comunque, libero nella ricerca dei mezzi più idonei al raggiungimento dello scopo, e in cui, invece, è chiaramente manifesta l’intenzione del legislatore comunitario di impartire vincoli giuridici direttamente alle amministrazioni.

Secondo questo nuovo modello, infatti, il legislatore comunitario, con l’evidente proposito di rendere più incisivi gli effetti del diritto comunitario sugli ordinamenti degli Stati membri, conferisce alle amministrazioni nazionali il potere di agire in assenza di una legge “interna” e cioè, in altri termini, il potere di applicare il principio comunitario non più come rimedio alle inadempienze degli Stati bensì in qualità di organi, questa volta di diritto, della Comunità europea.

Il legislatore comunitario, infatti, attraverso l’emanazione di direttive ad hoc, ha provveduto a regolamentare direttamente settori specifici del diritto amministrativo nazionale, sostituendosi “d’ufficio” agli Stati membri.

Stante quanto sopra, la dottrina ha iniziato ad abbandonare l’originario approccio allo studio del diritto amministrativo comunitario, ritenendo, in proposito, che fosse assai limitativo soffermarsi esclusivamente sull’analisi degli effetti del diritto comunitario europeo sul diritto amministrativo nazionale, senza, al contempo, considerare che vi erano direttive che non si limitavano a influenzare i diritti amministrativi nazionali, ma, addirittura, si sostituivano all’attività legislativa degli Stati membri realizzando, in determinati settori strategici, quale quello degli appalti pubblici, una vera e propria “regolazione comunitaria” [16].

Lo spazio futuro destinato all’affermazione del diritto amministrativo comunitario riguarderà, quindi, anche i casi in cui l’amministrazione nazionale potrà agire a prescindere da qualsiasi comportamento dello Stato membro d’appartenenza, divenendo, in tal modo, un organismo di esecuzione del diritto comunitario.

Inoltre, a parere di chi scrive, il diritto amministrativo comunitario potrà consolidarsi non solo, come verrebbe naturale ritenere, per mezzo dell’attività vincolata dell’amministrazione nazionale esecutrice del dettagliato principio normativo espresso nella direttiva, ma anche, se non soprattutto, attraverso l’espletamento di attività discrezionale.

Infatti, come si è potuto ricavare dall’analisi dal caso risolto dalla sentenza in commento, solo la discrezionalità dell’amministrazione riesce a garantire il rispetto dei principi fondamentali del diritto comunitario, e, di conseguenza, nei casi come quelli della fattispecie, solo tale tipo di attività potrà garantire lo sviluppo e il consolidamento del diritto amministrativo comunitario.

I principi espressi dalle decisioni della Corte di Giustizia e del Tar Brescia appaiono, pertanto, importanti segnali che lasciano intravedere l’inizio di una nuova fase nel settore degli appalti pubblici nella quale lo sviluppo del diritto amministrativo europeo sarà affidato alle amministrazioni nazionali, posto che, soltanto quest’ultime possono consentire un più efficace rispetto dei fondamentali principi del diritto comunitario.

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[1] Pubblicata in questa Rivista, pag. http://www.lexitalia.it/p/corte/cortegiustce_2004-10-07.htm

[2] Il Giudice comunitario ai sensi dell’art. 234 del Trattato CE, non può esprimersi sulla incompatibilità di una norma nazionale con l’ordinamento comunitario, ma deve limitarsi ad offrire la corretta interpretazione della fonte comunitaria. La Corte di Giustizia, infatti, è stata chiamata, dal Tar remittente, ad esprimersi sulle seguenti questioni pregiudiziali: 1) se l’art. 30, n. 1 della direttiva 16.6.1993, n. 93/37, laddove attribuisce alle singole Amministrazioni la scelta del criterio d’aggiudicazione, individuato alternativamente nel prezzo più basso o nell’offerta più vantaggiosa, costituisca applicazione del principio di libera concorrenza già sancito dall’art.85 [ora art.81 CE] del Trattato, che esige che ogni offerta nelle gare indette all’interno del mercato unico sia valutata in modo che non sia impedito, ristretto o falsato il confronto fra le stesse; 2)  “Se l’art. 30, n. 1, della direttiva 14.6.1993, n. 93/37, laddove attribuisce alle singole amministrazioni aggiudicatrici la scelta del criterio d’aggiudicazione, individuato alternativamente nel prezzo più basso o nell’offerta più vantaggiosa, costituisca conseguente applicazione del principio di libera concorrenza già sancito dall’art. 85 (ora art. 81) del Trattato, che esige che ogni offerta nelle gare indette all’interno del mercato unico siano valutate in modo che non sia impedito, ristretto o falsato il confronto fra le stesse”.

[3] Il criterio relativo al prezzo più basso, appariva, peraltro, giustificato anche dal tentativo di ridurre l’ambito discrezionale dell’amministrazione la quale, attraverso tale metodologia, rimaneva, evidentemente, vincolata ad una procedura selettiva matematica, con l’evidente scopo di tutelare l’erario pubblico da spese eccessive e da potenziali azioni criminose. È noto, infatti, che la L.Merloni è stata emanata a seguito delle note indagini giudiziarie dei primi anni ’90 che hanno messo in evidenza una illegale prassi politico-amministrativa nel sistema dell’aggiudicazione degli appalti pubblici. In un tale quadro sociale, la reazione del legislatore, quindi, era volta a garantire il ripristino della legalità attraverso la limitazione della discrezionalità in sede di aggiudicazione e l’imposizione di procedure trasparenti. Secondo il ragionamento del legislatore, quindi, la trasparenza e la eliminazione della discrezionalità sono le condizioni ideali per garantire la concorrenza.

[4] Per un primo commento si veda, Cons. Stato, 1995, II, p.1927.

[5] La direttiva, infatti, mira a limitare l’ambito di discrezionalità delle amministrazioni, imponendo alle stesse di stabilire fin dall’inizio della procedura concorsuale le regole e i metodi dello svolgimento della gara. Al riguardo, si segnala una recente controversia nella quale il ricorrente contestava all’amministrazione di aver pubblicato un bando di gara nel quale non erano predeterminate le regole da utilizzarsi per l’aggiudicazione dei lavori: si tratta della sentenza della Corte di Giustizia C-19/00 del 18 ottobre 2001, pubblicata sul sito http://www.curia.eu.int/it/actu/activites, nella quale si è giustamente osservato che “un'amministrazione aggiudicatrice che ha scelto di aggiudicare un appalto all'offerta economicamente più vantaggiosa, può aggiudicare il lavoro secondo il diverso criterio del prezzo più basso a seguito di una perizia di un esperto, a patto che la parità di trattamento degli offerenti sia stata rispettata, il che presuppone che la trasparenza e l'obiettività della procedura siano state assicurate e in particolare, che il suddetto criterio di aggiudicazione sia stato chiaramente menzionato nel bando di gara o nel capitolato d'oneri”.

[6] Si tratta della sentenza della Corte di Giustizia C.285 286 del 27 novembre 2001 nella quale, espressamente, si afferma “Per quanto riguarda questo primo aspetto delle questioni pregiudiziali, dal titolo e dal secondo considerando della direttiva risulta che quest'ultima ha semplicemente per oggetto il coordinamento delle procedure nazionali di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, cosicché essa non prevede un sistema completo di norme comunitarie in materia”.

[7] Si osservi, peraltro, che già la sentenza della Corte di Giustizia del 27.11.2001 C.285-286, riportata nella nota precedente, aveva riconosciuto che non era fondamentale verificare se la direttiva in esame realizzasse o meno una disciplina completa ed esaustiva: al riguardo, infatti, si è affermato che “La direttiva tuttavia, come risulta dal preambolo nonché dal secondo e decimo considerando, mira ad eliminare le restrizioni alla libertà di stabilimento ed alla libera prestazione dei servizi in materia di appalti pubblici di lavori al fine di aprire tale settore ad una concorrenza effettiva tra gli imprenditori degli Stati membri. L'obiettivo fondamentale della direttiva è pertanto quello di aprire alla concorrenza il settore degli appalti pubblici di lavori. Infatti, proprio tale apertura alla concorrenza comunitaria in conformità delle procedure previste dalla direttiva garantisce contro il rischio di favoritismi da parte dei pubblici poteri”.

[8] Si veda nota 4.

[9] Cfr. M.Zoppolato, Commento all’art. 7, in Tassan Mazzocco-Angeletti-Zoppolato, Legge quadro sui lavori pubblici, Milano, 1999, p. 321 ss.

[10] Le osservazioni del Tar e della Corte di Giustizia trovano conforto nella nuova direttiva comunitaria del 31 marzo 2004 n.2004/18/CE, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi, pubblicata nella Gazzetta ufficiale n. L 134 del 30/04/2004 pag. 114 – 240. In tale direttiva, infatti, si stabiliscono con precisione le essenziali condizioni che devono essere perseguite al momento dell’aggiudicazione degli appalti comunitari: da un lato si afferma che “L’aggiudicazione dell'appalto deve essere effettuata applicando criteri obiettivi che garantiscano il rispetto dei principi di trasparenza, di non discriminazione e di parità di trattamento e che assicurino una valutazione delle offerte in condizioni di effettiva concorrenza. Di conseguenza occorre ammettere soltanto l'applicazione di due criteri di aggiudicazione: quello del "prezzo più basso" e quello della "offerta economicamente più vantaggiosa”; e dall’altro, cheSpetta quindi alle amministrazioni aggiudicatrici indicare i criteri di aggiudicazione nonché la ponderazione relativa attribuita a ciascuno di tali criteri e questo in tempo utile affinché gli offerenti ne siano a conoscenza quando preparano le loro offerte”.

[11] Si veda Cass. 23.01.1987 n. 634, in Rep. Foro it., 1987, n.297, p. 532. Secondo la Corte, infatti, “Il potere-dovere del giudice nazionale di disapplicare la norma dell’ordinamento interno, per incompatibilità con il diritto comunitario, deve essere riconosciuto, anche alla stregua dei principi fissati dalla corte costituzionale con le sentenze n. 170 del 1984 e 113 del 1985, tanto nel caso in cui il conflitto insorga con una disciplina prodotta dagli organi della Cee, mediante regolamento, quanto nel caso in cui esso si ponga in contrasto con regole generali dell’ordinamento comunitario, ricavate, in sede d’interpretazione dell’ordinamento stesso, dalla corte di giustizia della Cee nell’esercizio dei compiti istituzionali affidatile dall’art. 177 del trattato”.

[12] Oggetto della seguente riflessione sarà unicamente il diritto amministrativo nazionale influenzato dalle fonti europee, senza, quindi, soffermarsi sulle problematiche relative al diritto amministrativo prodotto direttamente dalle amministrazioni comunitarie. Cfr. G.Greco, Effettività del diritto amministrativo nel sistema comunitario (e recessività nell’ordinamento nazionale?), in Dir. amm., 2003, p.27; S.Cassese, Il diritto comunitario della concorrenza prevale sul diritto amministrativo nazionale, in Giornale dir. Amm., 2003, p.1132. Per un inquadramento del problema si veda  E. Klein., L’influenza del diritto comunitario sul diritto amministrativo degli stati membri, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1993, 6;  S.Cassese, L’influenza del diritto amministrativo comunitario sui diritti amministrativi nazionali, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1993, p.329; G. Falcon, Alcune osservazioni sullo sviluppo del diritto amministrativo comunitario, in Riv. trim. dir. pubbl., 1993, p.74; S. Cassese, I lineamenti essenziali del diritto amministrativo comunitario, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1991, p.3; A.Weber, Sviluppi nel diritto amministrativo europeo, in Riv. it. dir. pubbl. comunitario, 1998, 58; E. Chiti e C.Franceschini, L’integrazione amministrativa europea, Il Mulino, Bologna, 2003, p.91 ss.

[13] Si veda Corte giustizia Comunità europee, 26-09-2000, n. 225/98. In questa sentenza, avente ad oggetto, peraltro, la direttiva n. 93/37, è stato sostenuto che “conformemente all’art. 30 n. 1 della direttiva 93/37, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, i criteri sui quali le amministrazioni aggiudicatrici possono fondarsi per l’aggiudicazione degli appalti sono unicamente il prezzo più basso ovvero, quando l’aggiudicazione si fa a favore dell’offerta economicamente più vantaggiosa, diversi criteri variabili secondo l’appalto, come il prezzo, il termine di esecuzione, il costo di utilizzazione, la redditività, il valore tecnico; in quest’ultimo caso, le amministrazioni aggiudicatrici sono tenute a menzionare questi criteri nel bando di gara o nel capitolato d’oneri; ciononostante, la detta disposizione non esclude che le amministrazioni aggiudicatrici possano ricorrere ad un criterio come la condizione connessa alla lotta contro la disoccupazione, ammesso che una siffatta condizione rispetti tutti i principi fondamentali del diritto comunitario, in particolare il principio di non discriminazione, quale si desume dalle disposizioni del trattato in materia di diritto di stabilimento e di libera prestazione dei servizi; inoltre, anche se un siffatto criterio non è di per sé incompatibile con la direttiva 93/37, la sua applicazione deve aver luogo nel rispetto di tutte le norme procedurali della detta direttiva, in particolare delle disposizioni di questa in materia di pubblicità; ne consegue che un criterio di aggiudicazione connesso alla lotta contro la disoccupazione deve essere espressamente menzionato nel bando di gara affinché gli imprenditori siano posti in grado di conoscere l’esistenza di una siffatta condizione”. La sentenza è reperibile in Raccolta, 2000, I, 7445.

[14] Cfr. S. Cassese, diritto amministrativo comunitario e diritti amministrativi nazionali, in Trattato di Diritto amministrativo europeo, Vol. I, Giuffrè, 1997, p.3 ss.

[15] Cfr. T.a.r. Puglia, sez. II, 15-11-1996 n. 735,  in Trib. amm. reg., 1997, I, 307. Secondo tale orientamento, infatti, “la norma transitoria introdotta dall’art. 21, 1º comma bis ultimo periodo l. 11 febbraio 1994 n. 109, in tema di esclusione automatica delle offerte c.d. anomale, non risulta conforme alla disciplina dettata dall’art. 30 n. 4 della direttiva del consiglio n. 93/37/Cee del 14 giugno 1993 - che è norma direttamente efficace nel nostro ordinamento in quanto incondizionata e sufficientemente dettagliata - e pertanto deve essere disapplicata dall’amministrazione che intenda procedere ad un appalto di opere pubbliche”. Inoltre, sempre secondo tale statuizione la regola generale che vuole che le direttive vincolino gli Stati Membri nel fine perseguito, lasciando questi ultimi liberi nella scelta delle modalità di attuazione, trova una eccezione in presenza di direttive “le cui prescrizioni siano incondizionate, sì da non lasciare margini di discrezionalità agli Stati membri” (e alle amministrazioni pubbliche, di conseguenza) “ in ordine alle modalità della loro attuazione, e sufficientemente precise, nel senso che la fattispecie astratta da esse prevista e il contenuto del precetto ad essa applicabile sono determinati con compiutezza in tutti i loro elementi”.

[16]  Il diritto comunitario, quindi, non si limita a influenzare, ma questa volta, incide direttamente sugli ordinamenti degli Stati membri. Si veda, al riguardo, Santiago Gonzalez-Varas Ibanez,la problematica actual del derecho administrativo europeo, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, n. 6, 1996, p. 1.

 

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REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia - Sezione staccata di Brescia - ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n.   244 del 2001 proposto da

SINTESI S.p.A.,

in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata  e difesa dagli Avv.ti Giuseppe Caia e Vito Salvadori   ed elettivamente domiciliata    presso il loro studio in Brescia, via V. Emanuele n. 4

contro

l’AUTORITA’ per la VIGILANZA sui LAVORI PUBBLICI,

in persona del legale rappresentante pro tempore, costituitasi in giudizio, rappresentata  e difesa dall’Avvocatura distrettuale dello Stato e domiciliata ope legis in Brescia, via S. Caterina n. 6;

e nei confronti

della INGG. PROVERA e CARRASSI S.p.A,

in persona del legale rappresentante pro tempore, costituitasi in giudizio, rappresentata  e difesa dagli Avv.ti Marina Wongher e Stefano Balestrieri ed elettivamente domiciliata    presso lo studio di quest’ultimo in Brescia, via Gramsci n. 30;

per l’ANNULLAMENTO

della determinazione dell’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici 7.12.2000 n. 53/2000, pervenuta a Sintesi S.p.A. il 17.1.2001, nella quale si è espresso l’avviso che: “1) nel sistema della legge quadro sui lavori pubblici n. 109/94 l’aggiudicazione può avvenire soltanto con l’applicazione del criterio del prezzo più basso essendo possibile fare ricorso a quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa nelle sole ipotesi dell’appalto-concorso e della concessione di sola costruzione e gestione dei lavori pubblici; 2) le regole indicate trovano applicazione nel caso di appalti di lavori di qualsiasi importo e non soltanto inferiore alla soglia comunitaria, e la relativa disciplina non può ritenersi contrastante con il comma 1 dell’art. 30 della Direttiva CEE 93/37/CEE; 3) qualora nei casi consentiti dalla legge e diversi da quello preso in esame, nella concreta applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa sia prevista la valutazione del valore tecnico per consentire detta valutazione occorre che il progetto sia modificabile da parte dei concorrenti” .

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio della resistente e della controinteressata;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle proprie difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Designato quale relatore, alla pubblica udienza del 14.1.2005  , il dott. Stefano Mielli; 

Uditi i difensori delle parti;

Ritenuto in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Con deliberazione della Giunta 4.12.1989, n. 5688, ratificata dal Consiglio con atto 18.1.1990, n. 190/2357, il Comune di Brescia ha approvato il progetto concernente la realizzazione di un parcheggio interrato in località Fossa Bagni, il relativo bando per l’affidamento in concessione della costruzione e della gestione dello stesso parcheggio e la bozza di atto di concessione.

Nel febbraio del 1991 il Comune di Brescia affidava alla società Sintesi, per mezzo di una convenzione di concessione, la costruzione e la gestione di un parcheggio sotterraneo.

Il testo definitivo della convenzione tra il Comune di Brescia e Sintesi S.p.A. è stato approvato solo con deliberazione della Giunta 28.10.1998, n. 1725, a causa di una vicenda giudiziaria sorta con riferimento ad un vincolo indiretto di tipo storico-artistico sulle aree destinate al visto parcheggio, definitivamente conclusasi solo nel 1998.

La convenzione conclusa, nel dicembre 1999, tra il Comune di Brescia e la Sintesi S.p.A. prevedeva l’obbligo per la società concessionaria di aggiudicare l’esecuzione dei lavori tramite licitazione privata da esperirsi mediante gara europea, secondo la normativa comunitaria vigente in materia di lavori pubblici.

In data 23.1.1999, Sintesi S.p.A. ha pubblicato un primo bando di gara, che ha poi revocato a seguito di impugnativa dello stesso da parte del collegio costruttori edili di Brescia.

Con successivo bando pubblicato il 22.4.1999, la ricorrente ha indetto una gara da aggiudicarsi secondo il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, da valutarsi in base agli elementi del prezzo, del valore tecnico e del tempo necessario per la realizzazione dell’opera.

Anche detto bando è stato impugnato dal medesimo soggetto, il quale, tuttavia, ha poi rinunciato.

A seguito della fase di preselezione, la Sintesi S.p.A. trasmetteva alle imprese selezionate la lettera di invito alla presentazione delle offerte e, in allegato, la documentazione di gara.

La Ingg. Provera e Carrassi S.p.A., rientrante tra le società invitate alla presentazione delle offerte, chiedeva ed otteneva una proroga del termine di consegna.

Tuttavia questa, con lettera in data 25.10.1999, trasmessa per conoscenza anche all’Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici, ha comunicato a Sintesi S.p.A. che non avrebbe partecipato alla gara, contestualmente rilevando l’illegittimità di quest’ultima.

Alla richiamata nota contenente gli indicati rilievi Sintesi S.p.A. ha replicato con lettera 15.11.1999, n. 99/2685, trasmettendone copia all’Autorità.

In data 5.4.2000 la “Ingg. Provera e Carrassi S.p.A.” ha inoltrato all’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici un ulteriore esposto, nel quale ha puntualizzato che oggetto della propria contestazione era non già il bando di gara, bensì “la successiva procedura per l’espletamento della stessa”.

Il Servizio ispettivo dell’Autorità, con lettera 19.4.2000, n. 7001/00/ISP, ha informato Sintesi S.p.A. di tale esposto ed ha chiesto alla stessa indicazione “delle imprese che a seguito dell’invito hanno presentato l’offerta… e del termine entro cui…la Commissione di gara proporrà per l’aggiudicazione l’offerta economicamente più vantaggiosa”.

Il 28.4.2000 Sintesi S.p.A. ha informato l’Autorità dell’imminenza dell’aggiudicazione definitiva dell’appalto.

Il 29 maggio 2000, individuata l’offerta economicamente più vantaggiosa, la Sintesi S.p.A. procedeva all’aggiudicazione dell’appalto.

Con nota 26.7.2000, n. 15934/00/ISP, il Servizio ispettivo dell’Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici ha comunicato a Sintesi S.p.A. che “a seguito di nuovo esposto” il Consiglio dell’Autorità “ha riesaminato il caso”, deliberando di considerare la procedura di aggiudicazione dell’appalto di non conforme alla legge n. 109/1994 e, in data 7 dicembre 2000, emanava la determinazione n. 53/2000 che così recita: «1) Nel sistema di legge quadro sui lavori pubblici n. 109/1994, l’aggiudicazione dei pubblici appalti può avvenire soltanto con l’applicazione del criterio del prezzo più basso, essendo possibile fare ricorso a quello dell’offerta economicamente più vantaggiosa nelle sole ipotesi dell’appalto‑concorso e della concessione di costruzione e gestione di lavori pubblici;

2) le regole indicate trovano applicazione nel caso di appalti di lavori di qualsiasi importo e non soltanto inferiore alla soglia comunitaria, e la relativa disciplina non può ritenersi contrastante con il comma 1 dell’art. 30 della direttiva del Consiglio 93/37/CEE (…);

3) qualora, nei casi consentiti dalla legge e diversi da quello preso in esame, nella concreta applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa sia prevista la valutazione del valore tecnico, per consentire detta valutazione occorre che il progetto sia modificabile da parte dei concorrenti».

La determinazione dell’Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici è stata impugnata per i seguenti motivi di censura:

1) incompetenza assoluta ai sensi dell’art. 4 della L. 11.2.1994, n. 109, che disciplina i poteri dell’Autorità;

2) eccesso di potere per violazione di principi generali del diritto amministrativo;

3) violazione degli artt. 7, 8 e 10 della L. 7.8.1990, n. 241;

4) eccesso di potere sotto il profilo della carenza di istruttoria; ulteriore violazione dei principi di cui agli artt. 7 e seguenti della L. 7.8.1990, n. 241, nonché dell’art. 3 della medesima legge; violazione di legge per inosservanza dell’art. 30, paragrafo 1 della Direttiva del Consiglio 93/37/CEE del 14.6.1993.

5) eccesso di potere per irragionevolezza della statuizione secondo la quale, nel caso d’applicazione del criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per la valutazione del “valore tecnico” occorre che il progetto sia modificabile da parte dei concorrenti.

Si sono costituite in giudizio l’Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici, nonché la Società controinteressata, deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.

A seguito della pubblica udienza del 22.1.2002, in cui il ricorso è stato trattenuto in decisione, questa Sezione con sentenza non definitiva 26 giugno 2002, n. 996, respinte le eccezioni in rito, ha sospeso il processo in attesa della definizione della questione pregiudiziale, sollevata con contestuale ordinanza, avanti la Corte di Giustizia delle Comunità Europee.

Avverso detta sentenza l’Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici ha proposto appello, dichiarato inammissibile con decisione del Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 agosto 2003, n. 4752.

Attesa la natura pregiudiziale ed assorbente del quarto motivo introdotto, con il quale l’istante ha affermato di aver dato puntuale applicazione all’art. 30, n. 1, della direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/37/CEE, questa Sezione, con ordinanza del 26 giugno 2002, n. 997, sottolineando che il parcheggio di cui trattasi sarà situato nel centro storico della città di Brescia e conseguentemente l’opera da realizzare richiedeva una valutazione degli elementi tecnici per consentire di individuare l’impresa più idonea alla quale affidare i lavori, ha sottoposto alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se l’art. 30, n. 1, della direttiva 14.6.1993, n. 93/37, laddove attribuisce alle singole Amministrazioni aggiudicatici la scelta del criterio d’aggiudicazione, individuato alternativamente nel prezzo più basso o nell’offerta più vantaggiosa, costituisca conseguente applicazione del principio di libera concorrenza già sancito dall’art. 85 [ora art. 81 CE] del Trattato, che esige che ogni offerta nelle gare indette all’interno del mercato unico sia valutata in modo che non sia impedito, ristretto o falsato il confronto fra le stesse.

2) Se, in via strettamente conseguente, l’art. 30 della direttiva 14.6.1993, n. 93/37, osti a che l’art. 21 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, precluda per l’aggiudicazione degli appalti a procedura aperta e ristretta in materia di lavori pubblici la scelta da parte delle Amministrazioni aggiudicatici del criterio dell’offerta più vantaggiosa, prescrivendo in via generale solo quello del prezzo più basso».

La Corte di Giustizia delle Comunità Europee, con sentenza 7 ottobre 2004, n. C-247/02, ha dichiarato che l’art. 30, n. 1, della direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici, dev’essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale la quale, ai fini dell’aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici mediante procedure di gara aperte o ristrette, imponga, in termini generali ed astratti, alle amministrazioni aggiudicatici di ricorrere unicamente al criterio del prezzo più basso.

Con memorie, depositata nell’imminenza della pubblica udienza, l’Autorità per la Vigilanza dei Lavori Pubblici insiste per l’accoglimento dell’eccezione di difetto di interesse della ricorrente e la controinteressata chiede il rigetto del ricorso.

Alla pubblica udienza del 14 gennaio 2005 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO

1. Le prime due eccezioni in rito sollevate dalla controinteressata sono state respinte con la sentenza non definitiva 26 giugno 2002, n. 996.

La prima, concernente la competenza territoriale del Giudice adito, non è stata accolta per difetto delle formalità previste dall’art. 31 della L. 6.12.1971, n. 1034, atteso che non è sufficiente eccepire l’incompetenza territoriale, ma è necessario indicare il Tribunale ritenuto competente con memoria notificata alla controparte.

La seconda, concernente l’inammissibilità del ricorso per invalidità della procura conferita dall’istante, non è stata accolta in quanto radicalmente infondata in fatto, posto che il signor Egidio Papetti, che si è a tal fine espressamente qualificato come legale rappresentante pro tempore della Sintesi S.p.A., consta aver sottoscritto la procura alle liti, sottoscrivendola con grafia leggibile, debitamente autenticata dal procuratore alla lite.

1.2 La terza eccezione in rito è stata sollevata dall’Autorità per la Vigilanza dei Lavori Pubblici, secondo cui l’atto impugnato sarebbe “volto a rendere un’interpretazione di carattere generale della normativa esaminata priva di rilevanti riferimenti al caso concreto” e, pertanto, non potrebbe profilarsi alcuna reale ed effettiva controversia in difetto di ogni possibile concreta incisione sugli atti della gara bandita dalla ricorrente.

L’eccezione è stata respinta con la già menzionata sentenza non definitiva, in quanto l’impugnata determinazione dell’Autorità, emanata a seguito della conclusione del procedimento avviato nell’esercizio dei suoi poteri di vigilanza, possiede un’indubbia autorevolezza, di per sé capace di incidere in via immediata e diretta sulla sfera giuridica del ricorrente, mettendo in dubbio la correttezza della procedura di gara e di tutti gli atti già posti in essere, oltre a quelli ulteriori pertinenti il compimento dell’opera e la fase della sua futura gestione.

Avverso tale statuizione della sentenza l’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici ha proposto appello dichiarato inammissibile dal Consiglio di Stato, con ordinanza della Sez. VI, 22 agosto 2003, n. 4752, in quanto la definizione delle questioni preliminari in rito compiuta dal Giudice di primo grado è da considerarsi limitata all’esame dell’ammissibilità della questione pregiudiziale sottoposta al vaglio della Corte di Giustizia e, pertanto, è priva di un proprio contenuto decisorio, avendo la natura di ordinanza nonostante il nomen di sentenza non definitiva.

Osserva il Giudice di appello che, una volta sollevata la questione pregiudiziale da un giudice nazionale, un giudice nazionale diverso da quello che ha sollevato la questione rimane privo del potere di esaminare l’ammissibilità e la rilevanza della medesima questione, che vanno valutate esclusivamente dalla Corte di Giustizia presso la quale pende una diversa fase del giudizio.

1.3 Con memoria del 7 dicembre 2004, l’Autorità insiste per l’accoglimento dell’eccezione, in quanto il provvedimento impugnato non avrebbe natura autoritativa o cogenza ed efficacia concreta ed attuale, ma di manifestazione di giudizio non vincolante per i soggetti che operano nel settore.

Si osserva che la determinazione impugnata appare in ogni caso lesiva dell’interesse della ricorrente.

Infatti con riguardo alle funzioni assegnate all’Autorità, l’art. 4, comma 4, della legge 109 del 1994 alle lettere d) ed f) prevede il compito di segnalazione e “referto” al Governo ed al Parlamento circa fenomeni particolarmente gravi di inosservanza o di applicazione distorta della normativa sui lavori pubblici e l’art. 4 comma 9, a sua volta, prevede che qualora accerti “l'esistenza di irregolarità, l'Autorità trasmette gli atti ed i propri rilievi agli organi di controllo e, se le irregolarità hanno rilevanza penale, agli organi giurisdizionali competenti”, con l’ulteriore prescrizione che, “qualora l'Autorità accerti che dalla realizzazione dei lavori pubblici derivi pregiudizio per il pubblico erario, gli atti e i rilievi sono trasmessi anche ai soggetti interessati e alla Procura generale della Corte dei conti”.

Ove si ritenesse inammissibile ricorrere contro determinazioni come quella impugnata, l’amministrazione dovrebbe soggiacere senz’altro, senza potersi tutelare in alcun modo, alla possibilità che l’Autorità, nel segnalare e comunque nel riferire al Governo ed al Parlamento circa disfunzioni e violazioni di legge riscontrate nel settore delle concessioni di lavori pubblici, formuli osservazioni critiche che, oltre a riguardare aspetti di carattere generale dell’azione amministrativa svolta, possono incentrarsi anche su illegittimità e disfunzioni relative a casi particolari.

Occorre aggiungere che in realtà, la persistenza in vita della determinazione dell’Autorità potrebbe autorizzare la controinteressata a proporre azione di risarcimento del danno.

Se è vero infatti, che la Ingg. Provera e Carrassi S.P.A. non ha impugnato il bando, essa ha comunque conseguito tramite l’Autorità una affermazione di illegittimità della procedura che, pur in difetto di un suo annullamento, potrebbe aprire la strada ad un’azione civile; e ciò anche per il recente orientamento delle Sezioni Unite della Cassazione (cfr. ordinanza 26 maggio 2004 n. 10180) in tema di pregiudiziale amministrativa che ha disatteso l’orientamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (cfr. decisione 26 marzo 2003, n. 4).

Sussiste pertanto in capo alla ricorrente l’interesse a vedere accertata in sede giurisdizionale l’annullamento della declaratoria di illegittimità della svolta procedura espressa nei suoi confronti dall’Autorità, in quanto questa contiene valutazioni che potrebbero persistere nel tempo, ledendo in modo immediato e diretto la sua sfera giuridica in dipendenza della affermazione di non correttezza del proprio operato.

L’impugnabilità di determinazioni come quella in esame avanti agli organi di giustizia amministrativa, costituisce dunque l’unico rimedio contro il verificarsi di tali vicende, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso e l’annullamento della determinazione dell’Autorità implicano che l’Autorità stessa, nel segnalare e riferire a Governo e a Parlamento, non possa tenere conto dell’illegittimità accertata nel caso particolare e posta nel nulla dal Giudice amministrativo (cfr. Tar Veneto, Sez. I, 27 aprile 2002, n. 1601).

2. Nel merito devono essere esaminati il primo ed il secondo motivo di ricorso, con i quali si lamenta l’incompetenza assoluta ai sensi dell’art. 4 della legge 109 del 1994 che disciplina i poteri dell’Autorità e l’eccesso di potere per violazione dei principi generali del diritto amministrativo.

Le censure sono infondate, in quanto il provvedimento impugnato rientra certamente nell’ambito delle attribuzioni di vigilanza ed ispettive che il legislatore ha affidato all’Autorità con l’art. 4 della legge n. 109 del 1994.

Infatti in base a quanto dispone l’art. 4, comma 4, lettere b), d) ed f), l’Autorità:

-          lett. b) vigila sull'osservanza della disciplina legislativa e regolamentare in materia verificando, anche con indagini campionarie, la regolarità delle procedure di affidamento dei lavori pubblici;

-          lett. d) segnala al Governo e al Parlamento, con apposita comunicazione, fenomeni particolarmente gravi di inosservanza o di applicazione distorta della normativa sui lavori pubblici;

-          lett. f) predispone ed invia al Governo e al Parlamento una relazione annuale nella quale si evidenziano disfunzioni riscontrate nel settore degli appalti e delle concessioni di lavori pubblici.

Con riguardo all’esercizio delle funzioni di vigilanza ispettiva, gli articoli 4 e 5 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, disciplinano un vero e proprio procedimento caratterizzato, tra l’altro:

-          dalla richiesta alle P.A. di documenti, informazioni e chiarimenti, con la fissazione di un termine entro il quale le P.A. devono inviare gli elementi richiesti;

-          dalla possibilità, per l’Autorità, ai fini dell’assunzione di notizie e di chiarimenti, di convocare i rappresentanti delle P.A. “previo congruo preavviso e con indicazione delle circostanze su cui devono esser sentiti”;

-          dall’apertura di un’istruttoria, di cui viene data comunicazione a tutti i soggetti interessati, “in merito alla situazione sottoposta ad esame”;

-          dall’assegnazione di un termine entro cui il destinatario del provvedimento può chiedere di essere sentito;

-          dalla possibilità di prendere visione degli atti del procedimento e di presentare memorie e documenti che l’Autorità ha l’obbligo di valutare se pertinenti (l’art. 5, comma 4, del D.P.R. n. 554/99 prevede l’applicabilità, al procedimento, delle disposizioni di cui alla l. n. 241 del 1990).

Pertanto la vigilanza sul rispetto della normativa in materia di lavori pubblici, sulla regolarità delle procedure e la facoltà di disporre ispezioni, oltre a concretizzarsi in una funzione di segnalazione e referto al Governo e al Parlamento e di trasmissione di atti e rilievi ai competenti organi di controllo e giurisdizionali, può dar luogo anche alla emanazione di provvedimenti particolari, relativi a situazioni specifiche e contenenti valutazioni sull’illegittimità di singole fattispecie.

L’art. 4, comma 6, della legge 109 del 1994 prevede inoltre che “nell'ambito della propria attività l'Autorità può richiedere alle amministrazioni aggiudicatrici…documenti, informazioni e chiarimenti relativamente ai lavori pubblici, in corso o da iniziare, al conferimento di incarichi di progettazione, agli affidamenti dei lavori; anche su richiesta motivata di chiunque ne abbia interesse, può disporre ispezioni, avvalendosi del Servizio ispettivo…”.

Il provvedimento impugnato costituisce quindi l’esito di un procedimento di vigilanza ispettiva avviato, nel caso di specie, a seguito della presentazione di più esposti presentati dalla Ingg. Provera e Carrassi S.p.A. e rientra dunque nella sfera delle attribuzioni dell’Autorità.

3. Il quarto motivo di ricorso, con il quale la ricorrente censura il provvedimento impugnato per inosservanza dell’art. 30, paragrafo 1 della Direttiva del Consiglio 93/37/CEE del 14.6.1993, deve essere accolto.

Con la sentenza 7 ottobre 2004, n. C-247/02, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, risolvendo la questione pregiudiziale sollevata da questa Sezione, ha dichiarato che l’art. 30, n. 1, della direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/37/CEE, che coordina le procedure di aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici, dev’essere interpretato nel senso che osta ad una normativa nazionale la quale, ai fini dell’aggiudicazione degli appalti di lavori pubblici mediante procedure di gara aperte o ristrette, imponga, in termini generali ed astratti, alle amministrazioni aggiudicatici di ricorrere unicamente al criterio del prezzo più basso.

In particolare la Corte sottolinea che la citata direttiva mira allo sviluppo di una concorrenza effettiva nel settore degli appalti pubblici e tende ad organizzare l’attribuzione di appalti pubblici in modo tale da consentire alle amministrazioni aggiudicatrici di comparare le varie offerte e di scegliere quella più vantaggiosa sulla base di criteri obiettivi.

Per tale motivo, osserva la sentenza, la direttiva prevede i criteri sui quali l’amministrazione aggiudicatrice si deve basare: unicamente il prezzo più basso o, quando l’aggiudicazione si fa in base all’offerta economicamente più vantaggiosa, in base ai diversi criteri variabili secondo l’appalto (ad esempio, il prezzo, il termine di esecuzione, il costo di utilizzazione, la redditività, il valore tecnico).

Secondo la Corte di Giustizia, quindi, la disposizione della legge italiana che impone il solo criterio del prezzo più basso, stabilisce senz’altro un criterio obiettivo, tuttavia la fissazione in termini astratti e generali di un unico criterio di attribuzione, priva le amministrazioni aggiudicatrici della possibilità di prendere in considerazione la natura e le caratteristiche di ogni appalto e di scegliere per ciascuno di essi il criterio più idoneo a garantire la libera concorrenza e ad assicurare la selezione della migliore offerta.

Nella specie, essendo la realizzazione del parcheggio un’opera complessa, l’amministrazione aggiudicatrice ha quindi tenuto utilmente conto di tale complessità scegliendo criteri oggettivi di aggiudicazione dell’appalto, diversi da quelli del prezzo più basso.

E’ pertanto necessario disapplicare l’art. 21 della legge 11 febbraio 1994 n. 109 nel testo antecedente alle modifiche ad esso apportate dalla legge 1 agosto 2002, n. 166, rilevante ratione temporis per la controversia oggetto del giudizio, in quanto dichiarato incompatibile con le regole generali dell'ordinamento comunitario ricavate in sede di interpretazione dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee nell'esercizio dei compiti ad essa attribuiti dall’art. 234 (ex art. 177) del Trattato.

Trova quindi accoglimento il quarto motivo del ricorso, con il quale l’istante ha affermato di aver dato puntuale applicazione all’art. 30, n. 1, della direttiva del Consiglio 14 giugno 1993, 93/37/CEE. Restano assorbiti il terzo ed il quinto motivo di ricorso.

Per quanto concerne le spese il Collegio, premettendo che devono essere liquidate anche quelle relative alla fase di giudizio che si è svolta avanti la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, individua quale tariffa applicabile quella per le controversie di valore indeterminabile: per le ragioni sopra esposte il valore della controversia, nella vicenda trattata, non coincide con l’importo dell’appalto, posto che non è in contestazione la sua aggiudicazione, né è stata proposta un’azione di risarcimento del danno da parte della controinteressata sul rilievo della sua dichiarata illegittimità.

Peraltro il suddetto valore appare di grado elevato per l’importanza delle questioni giuridiche trattate ed in considerazione dei plurimi effetti che, sotto vari profili di responsabilità, si configurerebbero a carico di Sintesi ove restasse ferma la statuizione in questa sede impugnata.

Tali considerazioni giustificano pertanto la liquidazione degli onorari nell’importo medio, tra il minimo ed il massimo, della tariffa.

I diritti. gli onorari e le spese sono pertanto liquidati nell’importo di € 925,49 per diritti, € 18.806,00 per onorari ed € 2.792,86 per spese borsuali comprese quelle generali, con riguardo al giudizio svolto avanti il Tribunale Amministrativo Regionale; € 578,43 per diritti, € 15.192,00 per onorari ed € 2.091,30 per spese borsuali comprese quelle generali, con riguardo al giudizio che si è svolto avanti la Corte di Giustizia delle Comunità Europee.

Sussistono tuttavia giusti motivi per disporre la compensazione parziale, nella misura del cinquanta per cento, alla somma complessiva di € 40.386,08 in ragione della peculiarità e novità delle questioni trattate, nonché della obiettiva controvertibilità e dubbiezza della lite, atteso che non erano concordi con le conclusioni raggiunte dalla Corte di Giustizia la stessa Commissione europea, il Governo ellenico e quello austriaco, intervenuti in giudizio.

In definitiva viene quindi liquidata la somma complessiva di € 20.193,04 oltre ad oneri di legge, che deve essere posta per un terzo a carico dell’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici e per due terzi a carico della controinteressata Ingg. Provera e Carrassi S.P.A., la cui condotta ha dato origine alla controversia.

P.Q.M.

il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia- Sezione staccata di Brescia - definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso e per l’effetto annulla la determinazione dell’Autorità per la Vigilanza sui Lavori Pubblici 7.12.2000 n. 53/2000. Condanna l’Autorità per la Vigilanza sui Lavori pubblici per un terzo e la Ingg. Provera e Carrassi S.P.A per due terzi, a corrispondere alla ricorrente la somma liquidata in motivazione, oltre ad oneri di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa.

Così deciso, in Brescia, il 14 gennaio 2005, dal Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, in Camera di Consiglio, con l'intervento dei Signori:

Francesco Mariuzzo Presidente

Gianluca Morri Giudice

Stefano Mielli Giudice est.

NUMERO SENTENZA

 168 / 2005

DATA PUBBLICAZIONE

18 - 03 - 2005

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