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LEONARDO SPAGNOLETTI
(Magistrato del TAR Puglia)

C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anzi d’antico: 
l’art. 13 del d.l. 12 giugno 2001, n. 217 
e la "liberalizzazione" dei fuori-ruolo dei magistrati


La rivista Internet Giust.it, con la tempestività che le è consueta, ha pubblicato il testo integrale del d.l. 12 giugno 2001, n. 217, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dello stesso giorno, a poche ore dalla sua approvazione da parte del Consiglio dei Ministri del nuovo governo, che, nella prima seduta svoltasi appunto l’11 giugno, ha messo mano alla "riforma della riforma" dei ministeri, per elevarne il numero e dettare le correlate disposizioni di organizzazione, com’era previsto e annunciato.

Non era prevedibile, né annunciato, invece, che nel contesto di quel d.l. fosse inserita una disposizione sul collocamento in aspettativa e fuori ruolo dei dipendenti pubblici che merita di essere riportata in modo testuale:

"Art. 13. Gli incarichi di diretta collaborazione del Presidente del Consiglio, del Ministro, del Vice Ministro o del Sottosegretario, possono essere attribuiti anche a dipendenti pubblici di qualsiasi ordine, grado e qualifica, appartenenti a qualsiasi Amministrazione di cui all’articolo 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29.

In tal caso essi sono collocati, su richiesta del Presidente del Consiglio, del Ministro, del Vice Ministro o del Sottosegretario, fuori ruolo o in aspettativa retribuita, per l’intera durata dell’incarico, anche in deroga alle norme ed ai criteri che disciplinano i rispettivi ordinamenti, ivi inclusi quelli del personale di cui all'articolo 2, comma 4, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29; se appartenenti ai ruoli degli organi costituzionali, si provvede secondo le norme dei rispettivi ordinamenti.".

La parte evidenziata in corsivo grassetto è quella che riveste maggiore interesse perché segna una inedita "liberalizzazione" dei fuori ruolo (o dell’aspettativa retribuita): non più limiti numerici, non lacci e lacciuoli, non limitazioni temporali ove previste dalle "norme e criteri" che disciplinano i rispettivi ordinamenti.

Ed il riferimento, anche per l’immediato accostamento al "personale di cui all’articolo 2, comma 4, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29", è soprattutto ai magistrati (ordinari, amministrativi, contabili) e agli avvocati dello Stato.

Dunque, dal 12 giugno 2001 (il decreto è entrato in vigore il giorno stesso della pubblicazione) Presidenza del Consiglio, Ministri, Vice ministri e Sottosegretari possono scegliere i propri "collaboratori" senza preoccupazioni di incorrere negli sbarramenti numerici e temporali previsti dalle leggi di ordinamento e dai criteri stabiliti dai rispettivi organi di autogoverno.

La disposizione ha già suscitato riserve in sede politica e da parte di alcuni esponenti del C.S.M., che ne discuterà, a quanto si sa, mercoledì prossimo. La richiesta è quella di sensibilizzare il Ministro della Giustizia sulla dubbia compatibilità della norma rispetto alle disposizioni costituzionali che assegnano al C.S.M., a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, l’adozione di tutti i provvedimenti relativi allo status dei magistrati, tra i quali un intuitiva importanza rivestono proprio i collocamenti fuori ruolo.

Non si hanno, al momento, notizie su iniziative analoghe degli altri organi di autogoverno delle magistrature "speciali", anche se è prevedibile un effetto di "trascinamento" perché sono vulnerate anche le loro competenze, il cui rilievo, pur in assenza di esplicita copertura costituzionale, è sottolineato, per la gran parte di essi, dalla presenza di membri laici di diretta emanazione parlamentare (si potrebbe forse parlare di organi a copertura costituzionale "implicita").

Risale, d’altro canto, a nemmeno un anno addietro la riforma del Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, introdotta dall’art. 18 della legge 21 luglio 2000, n. 205 (che tante innovazioni ha portato al processo amministrativo) e che ha rappresentato il punto d’approdo di una vicenda istituzionale segnata da uno "strappo" consumatosi nell’aprile del 1997 con le dimissioni dell’intera componente eletta in rappresentanza dei T.A.R.

E’ curioso, peraltro, che mentre si levano voci sempre più critiche sulla scarsa produttività degli organi giurisdizionali (ordinari, contabili e amministrativi) e sul negativo impatto che i lunghi tempi della giustizia inducono sullo sviluppo e sulla crescita economica e produttiva, si aumentano gli organici, si istituiscono o si prevede di istituire organi straordinari per lo smaltimento dell’arretrato (i G.O.A. per la giustizia ordinaria, le Sezioni stralcio per i T.A.R. e il Consiglio di Stato), si profili una possibile sottrazione di decine e decine di magistrati ai compiti istituzionali per destinarli al ruolo di "consiglieri" dell’esecutivo e dei suoi membri, tanto più consistente in quanto incidente per alcune magistrature su organici di poche centinaia di unità.

Nell’attesa degli eventi, non sarà inutile richiamare, in poche battute, la storia dei fuori ruolo, almeno quella svoltasi nel secolo appena trascorso, sotto l’angolo visuale particolare della magistratura amministrativa.

L’art. 6 comma primo del testo unico di cui al r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, unificando le disposizioni degli art. 2 del r.d. 30 dicembre 1923, n. 2840 ed 1 del r.d.l. 9 maggio 1920, n. 762, stabiliva in via generale che: "oltre i casi stabiliti per legge o regolamento i presidenti ed i consiglieri del Consiglio di Stato non possono ricevere o accettare incarichi o missioni estranee alle loro normali attribuzioni, se non per deliberazione del Consiglio dei Ministri".

La disposizione demandava, dunque, al Consiglio dei Ministri un amplissimo potere di utilizzazione del personale di magistratura del Consiglio di Stato (ma non di tutti: all’epoca a Palazzo Spada sedevano anche referendari e primi referendari), proprio "oltre i casi stabiliti per legge o regolamento".

Appena un anno dopo, però, fermo formalmente il disposto dell’art. 6, ci si preoccupava di fissare un numero (ancorché elevandolo) massimo di presidenti di sezione e consiglieri di Stato collocabili fuori ruolo: l’art. 1 del r.d.l. 25 ottobre 1025, n. 1791 non citava la suddetta dizione ma vi conteneva un sostanziale accenno col riferimento agli "…uffici, incarichi o missioni presso qualsiasi Amministrazione, che non consentano il regolare e continuato esercizio delle funzioni ordinarie al Consiglio di Stato".

Col decreto legislativo 5 maggio 1948, n. 642 il numero dei collocabili fuori ruolo veniva elevato a diciotto unità, ma l’art. 2 della legge 21 dicembre 1950, n. 1018 lo riduceva a dodici e si preoccupava di fissare un limite di "accesso" ai fuori ruolo (magistrati che avessero esercitato "…almeno per un triennio, le funzioni di istituto") e un limite di durata del fuori ruolo "…non…superiore a tre anni consecutivi", sancendo altresì la incollocabilità ulteriore fuori ruolo "…se non sia decorso almeno un anno di effettivo servizio al Consiglio di Stato dalla cessazione del precedente incarico".

Questi erano i fuori ruolo c.d. facoltativi, mentre l’art. 2 ultimo comma introduceva i fuori ruolo obbligatori, o di diritto, connessi alla nomina quali Ministri, Sottosegretari di Stato o Alti Commissari, per i quali non valevano i limiti numerici e temporali.

Un decisivo punto di svolta è stato costituito dalla legge 27 aprile 1982, n. 186, che per un verso demandò al neoistituito Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa (in precedenza vi era il Consiglio di Presidenza del Consiglio di Stato, composto da membri di diritto, ed il Consiglio di Presidenza dei TAR, i cui componenti erano nominati addirittura "per sorteggio") tutti i provvedimenti relativi allo status giuridico dei magistrati amministrativi e tra di essi, specificamente, il collocamento fuori ruolo, e ribadì e rafforzò i limiti numerici e temporali dei c.d. fuori ruolo facoltativi.

L’art. 29 della legge n. 186 del 1982 elevò anzitutto il limite di accesso al fuori ruolo (almeno quattro anni di svolgimento di funzioni di istituto), ribadì il limite di durata triennale del fuori ruolo, elevò il periodo di incollocabilità in ulteriore fuori ruolo (precluso se non fossero trascorsi "almeno due anni di effettivo esercizio delle funzioni di istituto"), e stabilì un nuovo limite numerico unitario, che riguardava cioè tanto i magistrati del Consiglio di Stato quanto quelli dei T.A.R.

La disposizione, al riguardo, fu anzi formulata in modo "perentorio": "In nessun caso è consentito il collocamento fuori ruolo dei magistrati oltre le 20 unità".

L’art. 9 del d.P.R. 6 ottobre 1993, n. 418, recante la disciplina generale degli incarichi consentiti ai magistrati amministrativi in attuazione della previsione dell’art. 58 comma terzo del d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, tenendo fermi i limiti numerici e temporali stabiliti dall’art. 29 della legge n. 186 del 1982, assegnò al Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa il potere di determinare "…i criteri integrativi per il collocamento fuori ruolo dei magistrati amministrativi, anche al fine di evitare il cumulo degli incarichi".

La disposizione costituiva una settoriale attuazione dei principi enunciati dai precedenti artt. 2 e 3: il primo attribuiva al Consiglio di Presidenza la definizione dei criteri generali "oggettivi e previamente adottati" per il conferimento e l’autorizzazione degli incarichi, da ispirare ad una valutazione del tipo e natura dell’incarico, del suo fondamento normativo, della sua compatibilità con l’attività d’istituto e col numero complessivo di magistrati già utilizzati dall’amministrazione richiedente, del numero e tipo degli incarichi già espletati dal magistrato nell’ultimo quinquennio, in una logica di "equa ripartizione degl’incarichi fra tutti i magistrati"; il secondo individuava con elencazione tassativa (ma con alcune fattispecie suscettibili di interpretazione più o meno restrittiva o estensiva) gli incarichi consentiti e quelli vietati (e tra i primi erano compresi quelli presso la Presidenza della Repubblica, il Parlamento, la Corte Costituzionale, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, i Ministeri, altri organi di rilevanza costituzionale, le autorità amministrative indipendenti (che andavano rapidamente fiorendo), i soggetti, enti e istituzioni con compiti di alta amministrazione e garanzia .

Per una parte di questi incarichi (cariche presso autorità amministrative indipendenti o di alta amministrazione e garanzia, incarico di segretario generale presso la Presidenza della Repubblica, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, incarico di capo di gabinetto presso i ministeri e di direttore della scuola superiore della pubblica amministrazione) l’art. 9 comma 2 del d.P.R. n. 418/1993 introduceva, o ribadiva, a seconda dei casi, il collocamento fuori ruolo obbligatorio.

Curiosamente, il terzo comma "estendeva" l’anno sabbatico dei docenti universitari ai magistrati amministrativi autorizzati dal Consiglio di Presidenza "…a svolgere attività di insegnamento, studio e ricerca, ai sensi dell’art. 17 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382".

Dunque, salvi i fuori ruolo obbligatori, che nella malcelata insofferenza del "sistema" verso preclusioni numeriche e temporali si andavano moltiplicando (si pensi ai fuori ruolo presso l’ufficio del coordinamento legislativo del Ministero delle Finanze e la scuola centrale tributaria e a quelli presso la scuola superiore della pubblica amministrazione), ad arginare l’emorraggia di magistrati amministrativi verso i più vari fuori ruolo facoltativi erano posti i limiti numerici e temporali dell’art. 29 della legge n. 186 del 1982 e i poteri riconosciuti al Consiglio di Presidenza di stabilire i criteri per il collocamento fuori ruolo, anche (e quindi evidentemente non solo) al fine di evitare il cumulo di incarichi, ovvero il fenomeno della costituzione di un numerus clausus di "super esperti" che entravano e uscivano dal ruolo (anche a seconda della prospettiva di incarichi direttivi assegnabili) salvo il periodo minimo biennale di permanenza.

Non è questa la sede ed il momento per una rassegna delle modalità applicative della disposizione sul fuori ruolo di cui all’art. 29 della legge n. 186, tesa a verificare se ed in che misura il limite numerico sia stato puntualmente rispettato, o indirettamente aggirato, anche con la proliferazione, già segnalata, di ulteriori ipotesi di fuori ruolo obbligatorio, che pure, intuitivamente, dovevano essere ristrette ad incarichi di assoluto rilievo giuridico-amministrativo, se si considera che quelle più importati erano rappresentate dalle nomine a ministro, sottosegretario di Stato o alto commissario.

La storia non si ferma, soprattutto in tempi di net-economy, e-government, e-commerce, liberalizzazioni, globalizzazioni e mondializzazioni, la triade di "oni" che ha sostituito gli "ismi" del ventesimo secolo.

E’ curioso però che ogni tanto essa sembri volgere al passato, con movimento vichiano.

Nella disposizione dell’art. 13 del d.l. n. 217/2001 s’avverte un sapore d’antico, che rinvia in qualche modo all’art. 6 del r.d. n. 1054 del 1924.

Il futuro (ri)comincia da settantasette anni fa?


V. in argomento: 

Il testo del d.l. 12 giugno 2001, n. 217

L. OLIVERI, Le nuove frontiere dello spoil system.


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