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n. 4/2006 - ©
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MARCO
SMIROLDO
(Magistrato della Corte dei conti)
La garanzia degli equilibri di bilancio degli enti della finanza pubblica allargata: la costituzionalizzazione della golden rule e la sanzione per l’inosservanza del divieto di ricorso all’indebitamento per il finanziamento di spese diverse da quelle d’investimento*
SOMMARIO: 1.- La costituzionalizzazione della golden rule e le ragioni teoriche che giustificano la restrizione del ricorso all’indebitamento al solo finanziamento delle spese d’investimento. - 2.- L’evoluzione della legislazione ordinaria d’attuazione ed integrazione dell’art. 119, comma 6, Cost. - 3.- Il contesto operativo di riferimento della golden rule: previsione costituzionale ed estensione legale del novero degli enti tenuti al rispetto del vincolo posto dall’art. 119, comma 6, Cost. - 4.- Le nozioni di indebitamento e di investimento: il problema della competenza a disciplinare legislativamente i due concetti nell’ottica del coordinamento della finanza pubblica. - 4.1.- L’indebitamento: il concetto economico e le quattro operazioni finanziarie di riferimento utilizzate dalla nozione normativa. - 4.2.- Le operazioni escluse, ed in particolare lo swap. - 5.- L’investimento: la nozione economica e quella accolta dalle leggi di contabilità. - 5.1.- La nozione legale d’investimento contenuta nell’art. 3, comma 18 e 19, della l. 24 dicembre 2003, n. 350. - 6.- Il sistema informativo sulle dinamiche dell’indebitamento nella prospettiva del coordinamento della finanza pubblica: la vigilanza e le nuove funzioni di controllo della Corte dei conti. - 7.- La tutela degli interessi erariali lesi dalla violazione della golden rule: l’art. 30, comma 15, l. 27 dicembre 2002, n. 289 e la sua natura giuridica. - 7.1.- La struttura della fattispecie sanzionatoria: i soggettivi responsabili. - 7.2. – I lineamenti della condotta sanzionata. - 7.3. - L’evento giuridico. - 7.4.- Il titolo soggettivo della responsabilità colpevole. 7.5.- La dosimetria della sanzione.
1.- La costituzionalizzazione della golden rule e le ragioni teoriche che giustificano la restrizione del ricorso all’indebitamento al solo finanziamento delle spese d’investimento.
La legge costituzionale n. 3 del 2001, attraverso la riformulazione dell’art. 119, Cost., ha dato copertura costituzionale alla c.d. golden rule. Attraverso la limitazione della possibilità di comuni, province, città metropolitane e regioni di ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese d’investimento, si è iniziato il percorso legislativo che progressivamente ha portato all’estensione all’intero settore della finanza pubblica allargata di un’autentica costante normativa in materia di finanza locale [1], rafforzando in tal modo le regole che circoscrivono la possibilità per gli enti della finanza territoriale di produrre disavanzi [2]
La regola contabile espressa dalla c.d. golden rule è, come chiarito in dottrina [3], una regola semplice, evocativa di schemi dell’economia familiare, la cui validità macro economica è legata soprattutto alla dinamica del reddito futuro prodotto nel territorio.
Sono varie le ragioni che la dottrina segnala sul piano teorico a giustificazione della restrizione del ricorso all’indebitamento al solo finanziamento delle spese d’investimento.
La più antica si fonda sulla considerazione che l’investimento finanziato a rigore dovrebbe generare maggiori entrate che derivano dalle tariffe per l’uso dell’infrastruttura, entrate che consentirebbero di pagare il servizio del debito senza aggravi di tassazione per le generazioni future.
La seconda ragione è che il bene capitale, quand’anche non generi ricavi monetari, produce utilità ripetuta nel tempo ed è quindi corretto che il suo costo sia ripartito attraverso le maggiori imposte richieste per il servizio del debito, anche sulle generazioni future, realizzando anche un obiettivo di equità intergenerazionale.
In tale contesto, alla prospettiva tecnica si associa anche quella più eminentemente politica, che vede nella golden rule lo strumento per evitare che i margini operativi degli enti siano compressi in ragione degli oneri del finanziamento contratto per finanziare spese correnti.
2.- L’evoluzione della legislazione ordinaria d’attuazione ed integrazione dell’art. 119, comma 6, Cost.
Alla costituzionalizzazione del precetto della golden rule hanno fatto seguito vari interventi del legislatore ordinario al fine di attuarne compiutamente le prescrizioni e di garantirne l’osservanza.
In sede di prima applicazione, atteso l’impatto sul sistema della finanza pubblica che il rigore del limite costituzionale in materia di ricorso all’indebitamento avrebbe sicuramente prodotto, venne limitata l’operatività del precetto sul piano temporale, escludendo l’applicazione del limite previsto dall’art. 119, comma 6, Cost., in relazione ad alcune tipologie di spese di parte corrente, costituenti debiti fuori bilancio, solo in quanto si fosse trattato di debiti maturati prima dell’entrata in vigore della riforma costituzionale.
Il riferimento è all’art. 41, comma 4, della Legge finanziaria 2002 (l. 28 dicembre 2001, n. 448), a mente del quale “Per il finanziamento di spese di parte corrente, il comma 3 dell'articolo 194 del citato testo unico di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (che ammette in questi casi il ricorso all’indebitamento), si applica limitatamente alla copertura dei debiti fuori bilancio maturati anteriormente alla data di entrata in vigore della Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3”, avvenuta il 9 novembre 2001 [4].
Con la successiva Legge finanziaria per il 2003, si provvedeva ad introdurre una disposizione sanzionatoria delle condotte poste in essere in violazione dell’art. 119, comma 6, Cost., affidando la cognizione dei relativi giudizi alla giurisdizione della Corte dei conti (art. 30, comma 15, l. 27 dicembre 2002, n. 289).
Legge finanziaria per l’anno 2004 (l. n. 350 del 2003) ha contribuito, quindi, a delineare in maniera più compiuta i profili attuativi e la portata applicativa del vincolo previsto in materia di indebitamento, estendendo la platea dei soggetti istituzionali tenuti al rispetto della golden rule (art. 1, comma 16 e 21), e fissando normativamente sia il concetto di investimento, sia quello di indebitamento (art. 1, comma 17, 18 e 20), necessari per individuarne con precisione il contesto applicativo oggettivo e soggettivo (art. 1, comma 19), ambito quest’ultimo in parte poi modificato per le Province autonome di Trento e Bolzano dall’art. 3 del d.l. 12.07.2004, n. 168, conv. in l. 30.07.2004, n. 191.
Il descritto quadro normativo è stato completato dalla Legge finanziaria per l’anno 2006 (l. 23 dicembre 2005, n. 266), la quale con l’art. 1, comma 166 e 167, confermando un’impostazione ormai consolidata, ha indicato quali pilastri dell’unità economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica, da un lato il rispetto dei limiti posti dal patto di stabilità interno e, dall’altro lato, proprio l’ottemperanza al vincolo previsto in materia di indebitamento dall’art. 119, ultimo comma della Costituzione.
Il legislatore del 2006, integrando gli strumenti tecnico-giuridici che presidiano l’osservanza del vincolo costituzionale all’indebitamento, ha affidato alle sezioni del controllo della Corte dei conti l’elaborazione dei criteri e delle linee guida da seguire nella verifica della gestione delle forme d’indebitamento, nonché il controllo della concreta attuazione delle practices operative in materia.
Il sovrapporsi nel tempo dei descritti interventi normativi ha avuto come inevitabile conseguenza quella del formarsi di un quadro legislativo composito e non sembre sistematicamente coerente, nel quale emergono alcuni profili problematici in materia di coordinamento tra la fonte costituzionale e quelle ordinarie di disciplina del fenomeno dell’indebitamento nella finanza pubblica allargata.
Il riferimento è, in primo luogo, al problema dell’individuazione del novero degli enti soggetti all’osservanza del vincolo costituzionale ed al rispetto delle distinte sfere di competenza che a questi assegna la nuova geometria istituzionale introdotta con la modifica costituzionale.
Sul piano più strettamente operativo si segnala la questione relativa all’individuazione del corretto significato dei concetti di indebitamento e di investimento, fulcro dell’intera disciplina, anche per quanto concerne poi gli aspetti relativi ai problemi applicativi concernenti la fattispecie sanzionatoria delle condotte poste in essere in violazione dell’art. 119, comma 6, Cost.
Le osservazioni che seguiranno tenteranno di fornire – anche sulla scorta della recente giurisprudenza costituzionale in materia - alcuni spunti ricostruttivi al fine di delineare alcune chiavi di lettura per orientarsi tra i vari problemi operativi posti dall’applicazione della disciplina in esame.
3.- Il contesto operativo di riferimento della golden rule: previsione costituzionale ed estensione legale del novero degli enti tenuti al rispetto del vincolo posto dall’art. 119, comma 6, Cost.
La golden rule, come detto, rappresenta oggi una delle pietre angolari del sistema di finanza territoriale introdotto con la riforma dell’art. 119, Cost. [5], soprattutto per il ruolo che essa svolge per la salvaguardia dell’equilibrio economico-finanziario degli enti che compongono i vari livelli di governo territoriale in cui si articola l’unitaria sovranità della Repubblica.
La funzione assolta dalla golden rule giustifica, quindi, la tendenza della legislazione successiva al 2001 ad ampliarne progressivamente l’ambito applicativo, in vista del rispetto, sia del Patto di stabilità interno [6], sia del Patto di stabilità e crescita.
Al riguardo, infatti, può osservarsi che già appena un anno dopo la modifica costituzionale dell’art. 119, con l’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002, rispetto agli enti declinati dall’art. 119, Cost. nel 2001, ossia Comuni, Province, Città metropolitane, e Regioni il legislatore estende a tutti gli enti territoriali [7], e quindi anche Regioni a Statuto speciale, Province autonome di Trento e Bolzano, Comunità montane, Comunità isolane e Unioni di Comuni [8], la disciplina sanzionatoria delle condotte poste in essere in violazione della golden rule.
La Finanziaria per l’anno 2004 (art. 3, comma 16 e 21, l. 27 dicembre 2003, n. 350) ha, poi, ulteriormente ampliato l’operatività del limite previsto dall’art. 119, comma 6, Cost., ben oltre la categoria dogmatica degli enti territoriali, estendendolo anche agli enti ed organismi non territoriali, ricadenti tuttavia nella sfera d’influenza dei predetti enti territoriali.
A tale stregua, oltre agli originari “enti territoriali”, tra i quali sono oggi espressamente inclusi anche le regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano, sono tenuti all’osservanza della golden rule anche i consorzi cui partecipano i predetti enti locali e territoriali (con esclusione di quelli che gestiscono attività aventi rilevanza economica ed imprenditoriale), i consorzi per la gestione dei servizi sociali, le aziende speciali, le istituzioni. A questi si aggiungono le aziende sanitarie locali ed ospedaliere, nonchè gli enti e organismi in qualunque forma costituiti, dipendenti dalla regione, i quali in virtù della legislazione regionale d’attuazione, potranno ricorrere all'indebitamento, ma solo per finanziare spese d’investimento.
Da notare, conclusivamente, come siano escluse dall’obbligo di rispetto della golden rule le sole società di capitali costituite per la gestione dei servizi pubblici.
La progressiva estensione degli ambiti operativi della golden rule ad altri enti, operata dal legislatore ordinario rispetto a quelli originariamente definiti dalla Costituzione, è stata oggetto di una precisa cesura d’incostituzionalità da parte delle Regioni a statuto speciale e della Provincia autonoma di Trento.
Quest’ultime, infatti, invocando la tutela delle forme d’autonomia differenziate garantita dall’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, hanno prospettato la tesi secondo la quale l’articolo 119, sesto comma, della Costituzione non potrebbe applicarsi alle loro forme d’autonomia differenziata costituzionalmente garantita se non nelle parti in cui comporti forme di autonomia più ampie rispetto a quelle loro già attribuite, e in ogni caso la individuazione delle nozioni di indebitamento e di investimento, ai fini dell’applicazione dell’art. 119, sesto comma, spetterebbe alla Regione.
Al riguardo, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 425 del 29 dicembre 2004 ha precisato che l’articolo 119, sesto comma, della Costituzione, nel testo novellato dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, non introduce nuove restrizioni all’autonomia regionale. Secondo il giudice delle leggi l’intervento normativo si limita alla enunciazione espressa di un vincolo – quello a ricorrere all’indebitamento solo per spese di investimento – che già nel previgente regime costituzionale e statutario il legislatore statale ben poteva imporre anche alle Regioni a statuto speciale, in attuazione del principio unitario (art. 5 della Costituzione) e dei poteri di coordinamento della finanza pubblica, nonché del potere di dettare norme di riforma economico-sociale vincolanti anche nei confronti della potestà legislativa primaria delle Regioni ad autonomia differenziata.
Così, se quest’ultimo vincolo può non trovare più applicazione, in forza della clausola di salvaguardia dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, negli ambiti nei quali le Regioni ordinarie abbiano acquisito potestà più ampie, ciò non può dirsi in ambiti, come quello dei principi di coordinamento finanziario (cfr. art. 117, terzo comma), in cui l’autonomia delle Regioni ordinarie incontra tuttora gli stessi o più rigorosi limiti (cfr. sentenza n. 536 del 2002).
La finanza delle Regioni a statuto speciale – precisa la Corte costituzionale - è infatti parte della “finanza pubblica allargata” nei cui riguardi lo Stato aveva e conserva poteri di disciplina generale e di coordinamento, nell’esercizio dei quali poteva e può chiamare pure le autonomie speciali a concorrere al conseguimento degli obiettivi complessivi di finanza pubblica, connessi anche ai vincoli europei (cfr. sentenze n. 416 del 1995; n. 421 del 1998), come quelli relativi al cosiddetto patto di stabilità interno (cfr. sentenza n. 36 del 2004).
Il nuovo sesto comma dell’art. 119 della Costituzione, nella ricostruzione operata dalla Corte costituzionale, trova dunque applicazione nei confronti di tutte le autonomie, ordinarie e speciali, senza che sia necessario all’uopo ricorrere a meccanismi concertati di attuazione statutaria. A tale stregua, quindi, deve considerarsi conforme a Costituzione l’estensione che la legge statale ha disposto, nei confronti di tutte le Regioni, della normativa attuativa, e ciò soprattutto perché non emergono dal contesto normativo di riferimento ragioni giustificatrici di una così radicale differenziazione fra i due tipi di autonomia regionale, in relazione ad un aspetto – quello della soggezione a vincoli generali di equilibrio finanziario e dei bilanci – che non può non accomunare tutti gli enti operanti nell’ambito del sistema della finanza pubblica allargata.
4.- Le nozioni di indebitamento e di investimento: il problema della competenza a disciplinare legislativamente i due concetti nella prospettiva del coordinamento della finanza pubblica
Delineata secondo i criteri descritti in precedenza la platea degli enti tenuti al rispetto della golden rule, nel descrivere i parametri operativi di quest’ultima il legislatore costituzionale utilizza due nozioni presupposte [9]: l’indebitamento e l’investimento.
Al riguardo, uno dei primi problemi affrontati è stato quello di individuare il livello di governo territoriale cui spettasse, nella nuova articolazione istituzionale della Repubblica, la potestà di legiferare in materia.
Sul punto la Corte costituzionale ha chiarito, con la ricordata sentenza n. 425 del 29 dicembre 2004, che, trattandosi di far valere un vincolo di carattere generale, la cui valenza deve essere garantita in modo uniforme per tutti gli enti, solo lo Stato può legittimamente provvedere a tali scelte, in quanto non è compatibile col disegno costituzionale che ogni ente, e così ogni Regione, faccia in proprio le scelte di concretizzazione delle nozioni di indebitamento e di investimento ai fini predetti.
Quanto ai contenuti, sempre la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire (cfr. C. cost., sent. n. 425/04) che non si tratta di nozioni il cui contenuto possa determinarsi a priori, in modo assolutamente univoco, sulla base della sola disposizione costituzionale.
Si tratta, infatti, di nozioni che si fondano su principi della scienza economica, ma che non possono non dare spazio a regole di concretizzazione connotate da una qualche discrezionalità politica.
Ciò risulta del resto evidente, se si tiene conto che proprio le definizioni che il legislatore statale ha offerto (art. 3, commi 17, 18 e 19, della legge n. 350 del 2003) derivano da scelte di politica economica e finanziaria effettuate in stretta correlazione con i vincoli di carattere sovranazionale cui anche l’Italia è assoggettata in forza dei Trattati europei, e dei criteri politico-economici e tecnici adottati dagli organi dell’Unione europea nel controllare l’osservanza di tali vincoli. In tale prospettiva, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sulla costituzionalità del sistema introdotto con l’art. art. 3, comma 16- 21, della legge 24 dicembre 2003, n. 350, sempre con la sentenza n. 425 del 29 dicembre 2004, ha ritenuto compatibile col sistema delle autonomie locali la previsione legislativa delle tipologie delle operazioni di indebitamento e delle forme di investimento,
4.1.- L’indebitamento: il concetto economico e le quattro operazioni finanziarie di riferimento utilizzate dalla nozione normativa.
In linea generale, con l’espressione ‘ricorso all’indebitamento’ si fa riferimento a quel complesso d’attività di reperimento del potere d’acquisto tramite il ricorso al credito, che per gli enti territoriali richiamati dall’art. 119, comma 6, Cost., si realizza, p. es. nel caso degli enti locali, attraverso l’accensione di mutui e altre forme di ricorso al mercato finanziario consentite dalla legge (art. 199, T.U.E.L.; art. 22, legge 19 maggio 1976, n. 335, e succ. mod. ed integr.).
Successivamente, recependo anche le indicazioni pervenute tra l’altro dalla Corte dei conti [10], il legislatore ha definito con legge ordinaria il significato tecnico-giuridico del termine ‘indebitamento’ utlilizzato dal legislatore costituzionale.
La nozione di “indebitamento” è ispirata ai criteri adottati in sede europea ai fini del controllo dei disavanzi pubblici; si tratta, in definitiva, di tutte le entrate che non possono essere portate a scomputo del disavanzo calcolato ai fini del rispetto dei parametri comunitari.
In tale prospettiva, agli effetti dell'articolo 119, comma 6, della Cost., il ricorso all’indebitamento è qualificato con riferimento alla struttura di quattro operazioni finanziarie fondamentali: l’accensione di un mutuo, l’emissione di un prestito obbligazionario, la realizzazione di un’operazione di cartolarizzazione, l’apertura di credito.
In particolare, quanto ai prestiti obbligazionari la possibilità di ricorrere a tale forma d’indebitamento è consentita nel caso di emissione di titoli obbligazionari con rimborso del capitale in unica soluzione alla scadenza, previa costituzione, al momento dell'emissione, di un fondo di ammortamento del debito, o previa conclusione di swap per l'ammortamento del debito (art. 41, comma2, L. 28-12-2001 n. 448).
Con riferimento, invece, alle cartolarizzazioni, il legislatore individua quattro forme d’indebitamento.
Si tratta, in primo luogo, delle cartolarizzazioni di flussi futuri di entrata non collegati a un'attività patrimoniale preesistente. Al riguardo si osserva che l’aver previsto come forma di ricorso all’indebitamento le cartolarizzazioni di flussi futuri di entrata non collegati a un'attività patrimoniale preesistente conferma la logica sistematica in cui si è mosso il legislatore, che è quella di adeguare le norme del nostro ordinamento alla disciplina comunitaria relativa al Patto di stabilità e rendere così omogeneo il trattamento di tali operazioni finanziarie a livello europeo [11].
Le altre ipotesi concernono: le cartolarizzazioni con corrispettivo iniziale inferiore all’85 per cento del prezzo di mercato dell'attività oggetto di cartolarizzazione valutato da un'unità indipendente e specializzata; le operazioni di cartolarizzazione accompagnate da garanzie fornite da amministrazioni pubbliche ed infine, le cartolarizzazioni e le cessioni di crediti vantati verso altre amministrazioni pubbliche (cfr. art. 3, comma 16, della legge 24 dicembre 2003, n. 350).
In tale novero si inserisce, in virtù della modifica operata col d.l. 31 marzo 2005, n. 44, conv. in l. 31 maggio 2005, n. 88, che ha aggiunto l’art. 205 bis al T.U.E.L., anche l’apertura di credito, operazione di finanziamento soggetta, al pari delle altre forme di indebitamento sopra richiamate, al monitoraggio di cui all'articolo 41 della legge 28 dicembre 2001, n. 448, nei termini e nelle modalità previsti dal relativo regolamento di attuazione, di cui al D.M. 1 dicembre 2003, n. 389 del Ministro dell'economia e delle finanze.
Stipulati in forma pubblica a pena di nullità, i contratti di apertura di credito, secondo il loro schema tradizionale, impegnano la banca ad effettuare erogazioni, totali o parziali, dell'importo del contratto in base alle richieste di volta in volta inoltrate dall'ente e previo rilascio da parte di quest'ultimo delle relative delegazioni di pagamento ai sensi dell'articolo 206.
In linea generale, il rapporto contrattuale ha una durata triennale. L'erogazione dell'intero importo messo a disposizione al momento della contrazione dell'apertura di credito, infatti, ha luogo nel termine massimo di tre anni, ferma restando la possibilità per l'ente locale di disciplinare contrattualmente le condizioni economiche di un eventuale utilizzo parziale.
Una particolare disciplina è dettata in materia di interessi. Quest’ultimi devono riferirsi ai soli importi erogati, ed il loro ammortamento - le cui rate devono essere comprensive, sin dal primo anno, della quota capitale e della quota interessi - non può superare i cinque anni dalla data dell'erogazione.
Particolarmente significativa, ai fini del controllo del rispetto del limite costituzionale posto dall’art. 119, comma 6, Cost. è poi la previsione secondo la quale deve essere indicata la natura delle spese da finanziare e, ove necessario, avuto riguardo alla tipologia dell'investimento, dato atto dell'intervenuta approvazione del progetto o dei progetti definitivi o esecutivi, secondo le norme vigenti.
4.2.- Le operazioni escluse, ed in particolare lo swap.
Rimangono fuori dall’ambito d’applicazione della normativa in esame in quanto non costituiscono indebitamento, agli effetti del citato articolo 119, le operazioni che non comportano risorse aggiuntive, ma consentono di superare, entro il limite massimo stabilito dalla normativa statale vigente, una momentanea carenza di liquidità e di effettuare spese per le quali è già prevista idonea copertura di bilancio, e più in generale le operazioni su derivati finanziari.
In questa categoria vanno ricompresi un’insieme eterogeneo di contratti ad esecuzione differita, tra i quali quelli di principale diffusione sono i future, gli options e i contratti di swap.
In generale tali tipi contrattuali consentono di porre in essere operazioni economiche che hanno come fine quello di modificare in misura significativa il profilo di rischio di una determinata operazione finanziaria. Ed infatti, possono contribuire a ridurre il rischio, quando siano utilizzati a fini di copertura (hedging), ovvero possono aumentarlo in modo esponenziale quando siano utilizzati a fini speculativi (gambling), essendo dotati di un’elevata leva finanziaria.
Particolarmente significative, in tale contesto, si rivelano le operazioni di swap, in quanto lo scambio di flussi finanziari, così come configurato da quest’ultimo istituto, costituisce appunto la presenza di una momentanea carenza di liquidità, la quale però rientra successivamente nella disponibilità di cassa dell’ente.
Questo tipo di operazioni trovano la loro disciplina sostanziale nel D.M. 1 dicembre 2003, n. 389 contenente il Regolamento concernente l'accesso al mercato dei capitali da parte delle province, dei comuni, delle città metropolitane, delle comunità montane e delle comunità isolane, nonché dei consorzi tra enti territoriali e delle regioni, ai sensi dell'articolo 41, comma 1, della L. 28 dicembre 2001, n. 448.
Il legislatore, seguendo la tecnica della tipizzazione, positivizza cinque tipi contrattuali, e prevede la possibilità che, attraverso la combinazione di elementi strutturali dei predetti tipi, le parti possano dar vita ad altre forme contrattuali più idonee a curare i reciproci interessi economico-finanziari.
Presupposti per l’operatività della normativa in esame, che si applicherà alle Regioni fino all'emanazione di specifiche normative regionali, è da un lato che le operazioni derivate siano attuate unicamente in corrispondenza di passività effettivamente dovute e siano indicizzate esclusivamente a parametri monetari di riferimento nell'area dei Paesi appartenenti al Gruppo dei Sette più industrializzati.
Dall’altro lato, è necessario che la conclusione di contratti soltanto con intermediari contraddistinti da adeguato merito di credito. Per conseguire tale qualificazione gli intermediari dovranno ottenere un apposito certificato da agenzie di rating riconosciute a livello internazionale, ciò al fine di contenere l'esposizione creditizia verso le controparti delle operazioni derivate.
Nel caso in cui l'importo nominale delle operazioni derivate complessivamente poste in essere dall'ente territoriale interessato arrivi a superare i 100 milioni di euro, l'ente dovrà progressivamente tendere a far sì che l'importo nominale complessivo delle operazioni stipulate con ogni singola controparte non ecceda il 25% del totale delle operazioni in essere.
In particolare, le operazioni di indebitamento effettuate in valute diverse dall'euro, è previsto un obbligo di prevedere la copertura del rischio di cambio mediante «swap di tasso di cambio». Di tal operazione negoziale il legislatore da una definizione normativa, come “contratto tra due soggetti che assumono l'impegno di scambiarsi regolarmente flussi di interessi e capitale espressi in due diverse valute, secondo modalità, tempi e condizioni contrattualmente stabiliti”.
Le altre tipologie contrattuali previste sono:
1) «swap di tasso di interesse» tra due soggetti che assumono l'impegno di scambiarsi regolarmente flussi di interessi, collegati ai principali parametri del mercato finanziario, secondo modalità, tempi e condizioni contrattualmente stabiliti;
2) acquisto di «forward rate agreement» in cui due parti concordano il tasso di interesse che l'acquirente del forward si impegna a pagare su un capitale stabilito ad una determinata data futura;
3) acquisto di «cap» di tasso di interesse in cui l'acquirente viene garantito da aumenti del tasso di interesse da corrispondere oltre il livello stabilito;
4) acquisto di «collar» di tasso di interesse in cui all'acquirente viene garantito un livello di tasso di interesse da corrispondere, oscillante all'interno di un minimo e un massimo prestabiliti;
5) altre operazioni derivate contenenti combinazioni di operazioni di cui ai punti precedenti, in grado di consentire il passaggio da tasso fisso a variabile e viceversa al raggiungimento di un valore soglia predefinito o passato un periodo di tempo predefinito.
Nell’area dell’atipicità vengono collocate le altre operazioni derivate finalizzate alla ristrutturazione del debito.
Queste saranno ammissibili solo qualora non prevedano una scadenza posteriore a quella associata alla sottostante passività. Dette operazioni sono consentite ove i flussi con esse ricevuti dagli enti interessati siano uguali a quelli pagati nella sottostante passività e non implichino, al momento del loro perfezionamento, un profilo crescente dei valori attuali dei singoli flussi di pagamento, ad eccezione di un eventuale sconto o premio da regolare al momento del perfezionamento delle operazioni non superiore a 1% del nozionale della sottostante passività.
Anche l’operazione di acquisto di titoli a scadenza mensile (pronti contro termine) finalizzata all’ottenimento di un accrescimento degli interessi, sicuramente maggiori rispetto al normale deposito sui conti correnti di tesoreria, potrebbe rientrare nell’ambito delle operazioni ammesse, anche se il legislatore chiede esplicitamente il rispetto della temporaneità dell’assenza di tali fondi dalle disponibilità di cassa.
5.- L’investimento: la nozione economica e quella accolta dalle leggi di contabilità.
Come per il concetto d’indebitamento, per attingere all’ubi consistam di quello d’investimento occorre ricorrere alla scienza economica.
In realtà, la nozione di spese di investimento adottata appare anzi estensiva rispetto ad un significato strettamente contabile, che faccia riferimento solo ad erogazioni di denaro pubblico cui faccia riscontro l’acquisizione di un nuovo corrispondente valore al patrimonio dell’ente che effettua la spesa: comprende infatti ad esempio i trasferimenti in conto capitale destinati alla realizzazione degli investimenti di altri enti pubblici, o gli interventi contenuti in programmi generali relativi a piani urbanistici dichiarati di preminente interesse regionale aventi finalità pubblica volti al recupero e alla valorizzazione del territorio.
Così, l’insieme delle risorse finanziarie reperite tramite l’utilizzo di tali strumenti non possono essere utilizzate per la copertura di spese diverse da quelle di investimento.
Nella teoria macroeconomica con la nozione di investimento (o formazione di capitale) si indica l’aumento reale del capitale della collettività, fondato sul sacrificio di un consumo attuale per aumentare un consumo futuro. In tale prospettiva si coglie forse l’elemento più peculiare della definizione d’investimento, che è la sua caratterizzazione negativa: l’investimento è, infatti, tutto ciò che non è acquistato per motivi di consumo.
Sul piano classificatorio, l’investimento è uno dei concetti economici che più si presta ad assumere accezioni diverse a seconda del contesto operativo in cui viene utilizzato [12].
E’ possibile, tuttavia, individuare una grande dicotomia nell’ambito della classificazione del concetto d’investimento tra investimenti diretti e investimenti di portafoglio.
Gli investimenti diretti realizzano un ‘aumento reale del capitale della collettività’.
Questi possono essere fissi, qualora siano rappresentati dall’acquisto, p. es., di attrezzature, ovvero dalla realizzazione di fabbriche o abitazioni, e se operati dalla pubblica amministrazione prendano soprattutto la forma della costruzione di strade, ponti, scuole, treni, etc.
Qualora, invece, l’investimento attenga alla predisposizione delle scorte necessarie alla produzione sarà definito come investimento in capitale circolante, ossia scorte.
Investimenti fissi e scorte rappresentano, quindi, gli investimenti che – come detto – danno luogo ad un aumento effettivo sia della capacità produttiva che del capitale reale della collettività.
Tale categoria si differenzia dai c.d. investimenti di portafoglio, che invece si limitano a registrare il passaggio della proprietà di beni di investimento già esistenti, ossia già venuti ad esistenza mediante un’investimento diretto.
In effetti, occorre registrare che in generale si parla d’investimento anche quando si compra un appezzamento di terreno ovvero si acquista un qualsiasi diritto di proprietà o una partecipazione azionaria. Ma in realtà, sul piano della teoria economica tali operazioni – nella quali un soggetto acquista o vende da o ad altro soggetto - rappresentano esclusivamente dei trasferimenti o variazioni di portafoglio; al contrario c’è investimento solo quando viene creato un capitale reale addizionale [13].
Vi sono poi gli investimenti intangibili o immateriali, quali le spese per l’istruzione, la sanità, la ricerca e sviluppo, nella misura in cui assumano la forma di investimenti diretti (scuole, ospedali, laboratori), rappresentando invece spese correnti per gli aspetti che attengono alla remunerazione del personale.
Com’è noto, nelle leggi di contabilità pubblica nazionale la nozione di ‘spese in conto capitale, o d’investimento’, unitamente a quella di ‘spese di parte corrente?, è stata inserita nel nostro ordinamento dall’art. 1 della legge 1 marzo 1964, n. 62, che, introducendo la classificazione economico-funzionale delle spese e delle entrate, ha modificato l’art. 37 della Legge di contabilità generale dello Stato, il R. D. 18 novembre 1923 n° 2440; tale classificazione è stata poi recepita nella legislazione successiva (v. art. 1, comma 3 e 4, D.lgs. 7 agosto 1997, n.279).
In particolare, per spese di investimento, o in conto capitale, si intendono le spese per “investimenti”, sia diretti che indiretti, nonché le concessioni di crediti e le anticipazioni per fini produttivi e non produttivi (art.130, comma 3, del Regolamento di contabilità dello Stato, il R.D. 827 del 1924, così come sostituito dall’art. 1 del d.P.R. 16 aprile 1973, n. 537) [14].
Sciogliendo le formule di sintesi del dato normativo, proprio all’indomani dell’entrata in vigore della c.d. “Legge Curti”, la Ragioneria generale dello Stato aveva individuato quali tipologie di spese appartenevano a quelle d’investimento, ossia: - Acquisto, costruzione, ricostruzione, ripristino e trasformazione di beni immobili, esclusi quelli destinati ai servizi militari; - acquisto e costruzione di beni mobili durevoli destinati alla produzione di redditi futuri, esclusi quelli per i servizi delle amministrazioni statali; - incremento di valore dei beni suddetti, escluse le spese di manutenzione aventi lo scopo di conservarne immutata l’efficienza; - ricerca scientifica; - sovvenzioni, contributi, concessioni di crediti e anticipazioni per attività produttive; - partecipazione al capitale ed ai fondi di dotazione di organismi economici e finanziari e acquisti di valori mobiliari.
Da quanto precede non può non rilevarsi una discrasia tra la nozione economica d’investimento e quella tecnico giuridica accolta dalla legislazione in esame.
Infatti, volendo seguire rigorosamente la classificazione della teoria economica, le spese d’investimento sono solo parte delle spese in conto capitale, nelle quali sono ricomprese anche quelle per investimenti indiretti, ossia di portafoglio, che a rigore esulano dalla categoria economica degli investimenti.
Pertanto, spesa d’investimento e spesa in conto capitale non possono considerarsi sinonimi [15].
A tale stregua, pertanto, in via esemplificativa, potrebbe concludersi che non possono essere finanziate con il ricorso all’indebitamento, non solo le “spese di parte corrente”, ma anche le spese in conto capitale diverse dalle spese d’investimento diretto, come, p. es. le spese di ricerca, l’acquisizioni di partecipazioni di capitale in un’impresa pubblica, e più in generale la partecipazione al capitale ed ai fondi di dotazione di organismi economici e finanziari e gli acquisti di valori mobiliari; a tale novero si aggiunga la concessione di contributi in conto capitale per il sostegno di investimenti di altri enti e, in generale, tutte le sovvenzioni, contributi, concessioni di crediti e anticipazioni per attività produttive e non produttive.
5.1.- La nozione legale d’investimento contenuta nell’art. 3, comma 18 e 19, della l. 24 dicembre 2003. n. 350.
Anche forse per risolvere l’aporia sopra evidenziata e chiarire la portata applicativa dei limiti previsti dalla golden rule il legislatore, utilizzando in parte le elaborazioni precedenti [16], ha successivamente precisato la nozione di investimento di cui all’art. 119, comma 6, Cost., definendo in tal modo gli ambiti di liceità del ricorso all’indebitamento.
Così secondo l’art. 3, comma 18 e 19, della l. 24 dicembre 2003. n. 350 la nozione di spesa d’investimento viene riformulata mediante una serie di casistiche e tipologie, che rappresentano il complesso di azioni ed iniziative di competenza di ciascuna p.a. finalizzate allo sviluppo e crescita [17].
In tal modo, il legislatore è intervenuto nel dettaglio, inserendo nove tipologie applicative:
1. l'acquisto, la costruzione, la ristrutturazione e la manutenzione straordinaria di beni immobili, costituiti da fabbricati sia residenziali che non residenziali;
2. la costruzione, la demolizione, la ristrutturazione, il recupero e la manutenzione straordinaria di opere e impianti;
3. l'acquisto di impianti, macchinari, attrezzature tecnico-scientifiche, mezzi di trasporto e altri beni mobili ad utilizzo pluriennale;
4. gli oneri per beni immateriali ad utilizzo pluriennale;
5. l'acquisizione di aree, espropri e servitù onerose;
6. le partecipazioni azionarie e i conferimenti di capitale, nei limiti della facoltà di partecipazione concessa ai singoli enti mutuatari dai rispettivi ordinamenti;
7. i trasferimenti in conto capitale destinati specificamente alla realizzazione degli investimenti a cura di un altro ente od organismo appartenente al settore delle pubbliche amministrazioni;
8. i trasferimenti in conto capitale in favore di soggetti concessionari di lavori pubblici o di proprietari o gestori di impianti, di reti o di dotazioni funzionali all'erogazione di servizi pubblici o di soggetti che erogano servizi pubblici, le cui concessioni o contratti di servizio prevedono la retrocessione degli investimenti agli enti committenti alla loro scadenza, anche anticipata (in tale fattispecie rientra l'intervento finanziario a favore del concessionario di cui al comma 2 dell'articolo 19 della l. 11 febbraio 1994, n. 109);
9. gli interventi contenuti in programmi generali relativi a piani urbanistici attuativi, esecutivi, dichiarati di preminente interesse regionale aventi finalità pubblica volti al recupero e alla valorizzazione del territorio.
In generale, le categorie fissate dal legislatore risultano tutte accomunate dal principio in base al quale non è possibile ricorrere all’indebitamento per spese diverse da quelle d’investimento, sia che si tratti di disavanzi determinati dalle gestioni sanitarie delle regioni, sia che riguardi la copertura della massa passiva dei comuni dissestati. In particolare, p. es., il legislatore ha specificato che le aziende sanitarie locali non possono indebitarsi, e dunque anche contrarre mutui, per coprire i disavanzi di precedenti esercizi. In tal contesto, le Regioni sono chiamate a disciplinare i casi di indebitamento di dette A.S.L., purchè gli stessi interventi siano riconducibili a spese di investimento, non ricadenti quindi nella gestione corrente [18].
Inoltre, se da un lato è indicativo che nell’ambito delle tipologie d’indebitamento il legislatore abbia inserito anche alcune operazioni di c.d. finanza derivata, dall’altro lato, non può non rilevarsi che l’esclusione al complesso delle spese ammissibili di tutti gli impegni finanziari che prendono la forma di contributi in conto capitale a soggetti diversi da enti pubblici, ovvero a soggetti interessati da un rapporto di concessione al pubblico servizio, potrebbe sortire l’effetto di impedire il ricorso al credito per spese tipiche delle amministrazioni territoriali, prime tra le quali quelle relative al co-finanziamento di alcuni dei programmi comunitari [19].
La legislazione successiva in parte ha tenuto conto dei problemi applicativi sopra ricordati, prevedendo particolari cadenze temporali per l’applicazione della golden rule. Si è consentito, infatti, con la previsione dell’art. 21 bis alle regioni ed alle province autonome di Trento e Bolzano, in deroga a quanto stabilito dall’art. 3, comma 18 della l. 350 del 2003, di ricorrere all’indebitamento per finanziare contributi agli investimenti a privati nei limiti degli impegni assunti al 31 dicembre 2003, al netto di quelli già coperti con maggiori entrate o minori spese, derivanti da obbligazioni giuridicamente perfezionate, finanziati con ricorso all'indebitamento e risultanti da apposito prospetto da allegare alla legge di assestamento del bilancio 2004 e nei limiti impegni assunti nel corso dell'anno 2004, derivanti da obbligazioni giuridicamente perfezionate e risultanti dalla elencazione effettuata nei prospetti dei mutui autorizzati alla data di approvazione della legge di bilancio per l'anno 2004, con esclusione di qualsiasi variazione in aumento che dovesse essere apportata successivamente (cfr. l’art. 3, comma 1, l. 30 luglio 2004, n. 191).
In tali casi, secondo l’art. 21-ter, l’istituto finanziatore potrà concedere i finanziamenti destinati ai contributi agli investimenti a privati soltanto se compresi nei prospetti di cui al comma 21-bis, presupposto che è tenuto a verificare acquisendo un’apposita attestazione da parte dell'ente territoriale.
Particolarmente significativo appare in tale contesto il divieto di finanziare con l’indebitamento le spese per conferimenti rivolti alla ricapitalizzazione di aziende o società, finalizzati al ripiano di perdite, divieto che, come si vedrà, è stato presidiato con un articolato sistema di monitoraggio che coinvolge anche l’istituto privato erogatore, cui la legge impone particolari obblighi di acquisizione di informazioni.
Come chiarito dalla Corte costituzionale nella più volte ricordata sentenza n. 425 del 29 dicembre 2004, le scelte espresse nei commi 17 e 18 dell’ art. 3 non possono dirsi irragionevoli. Non può dirsi tale, in particolare, la scelta di escludere dalla nozione di spese di investimento le erogazioni a favore di privati, sia pure effettuate per favorirne gli investimenti.
Queste infatti, ancorché possano indubbiamente concorrere a promuovere (con effetti che occorrerebbe peraltro definire e misurare caso per caso) lo sviluppo del sistema economico nazionale, non concorrono ad accrescere il patrimonio pubblico nel suo complesso: criterio negativo, questo, che non irragionevolmente appare aver guidato il legislatore statale in dette scelte. Lo stesso è a dirsi per le forme di co-finanziamento regionale di programmi comunitari, che di per sé possono attenere a tipologie di spese assai diverse fra di loro, non necessariamente definibili come investimenti secondo il criterio predetto.
A diverse conclusioni è giunto il Giudice delle leggi con riguardo alla disciplina introdotta dai commi 17, ultimo periodo, e 20, là dove attribuivano al Ministro dell’economia e delle finanze, sentito l’ISTAT, il potere di disporre con proprio decreto modifiche alle tipologie di “indebitamento” e di “investimenti” stabilite in detti commi ai fini di cui all’art. 119, sesto comma, della Costituzione.
Tali disposizioni, secondo la Consulta, conferiscono al Ministro una potestà il cui esercizio può comportare una ulteriore restrizione della facoltà per gli enti autonomi di ricorrere all’indebitamento per finanziare le proprie spese, e si traducono sostanzialmente in una delegificazione delle statuizioni contenute nei commi che definiscono, appunto, le nozioni di indebitamento e di investimento ai fini dell’applicazione alle Regioni e agli enti locali del vincolo di cui all’art. 119, sesto comma, della Costituzione.
I commi all’esame della Corte costituzionale non rispettando il principio di legalità sostanziale, non predeterminavano in via generale il contenuto delle statuizioni dell’esecutivo, non delimitandone la discrezionalità (cfr. sentenze n. 150 del 1982, n. 384 del 1992, n. 301 del 2003), incorrendo nella declaratoria d’incostituzionalità.
6.- Il sistema informativo sulle dinamiche dell’indebitamento nella prospettiva del coordinamento della finanza pubblica: la vigilanza e le nuove funzioni di controllo della Corte dei conti
L’importanza cruciale che assume nel contesto del rispetto dei vincoli comunitari e nazionali l’osservanza della golden rule, sancito a livello costituzionale dall’art. 119, comma 6, cost., è testimoniato dal potenziamento del sistema di monitoraggio delle dinamiche finanziarie legate agli strumenti d’indebitamento operato con la finanziaria per il 2006 [20].
In precedenza, venne concentrato presso il Ministero dell’economia, in collaborazione con Banca d’Italia ed A.B.I., il complesso delle informazioni relative al fenomeno dell’indebitamento generate dal sistema creditizio. A tal fine, con l’art. 41, l. 28 dicembre 2001, n. 448, si è previsto, al fine di permettere il coordinamento da parte del Ministero [21], che gli enti fossero “tenuti a comunicare periodicamente la propria situazione finanziaria”. Tale previsione è stata poi attuata con l’art. 1 del D.M. 389 del 2003, secondo il quale “Ai sensi dell'articolo 41, comma 1, della l. 28 dicembre 2001, n. 448, le Province, i Comuni, le unioni di Comuni, le Città metropolitane, le Comunità montane e isolane, di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, i consorzi tra enti territoriali e le Regioni comunicano entro il giorno 15 dei mesi di febbraio, maggio, agosto e novembre di ogni anno al Ministero dell'economia e delle finanze, Dipartimento del Tesoro («il Dipartimento del Tesoro»), Direzione II, i dati relativi all’utilizzo netto di forme di credito a breve termine presso il sistema bancario, ai mutui accesi con soggetti esterni alla pubblica amministrazione, alle operazioni derivate concluse e ai titoli obbligazionari emessi nonché alle operazioni di cartolarizzazione concluse”.
Tale disciplina era stata poi confermata dal legislatore nella legge finanziaria per l’anno 2004. Infatti, per finalità di controllo, trasparenza e contenimento della spesa pubblica, l’art. 3, comma 14, l.f. 2004 prevedeva in capo alla Banca d’Italia l’obbligo di trasmettere al Ministero dell’Economia le informazioni in merito alle operazioni poste in essere da singole amministrazioni pubbliche con istituzioni creditizie e finanziarie. Analogo obbligo di comunicazione era posto dall’art. 3, comma 15, l.f. 2004 in capo agli istituti finanziatori nel caso d’operazioni d’indebitamento d’amministrazioni pubbliche con onere a totale carico dello Stato. In tal caso, all’atto del perfezionamento delle transazioni, l’istituto doveva comunicare al Ministero i dati concernenti il beneficiario, l’importo dell’operazione finanziaria ed il relativo piano di rimborso.
Particolarmente significativa, in tale contesto, è anche la previsione contenuta nell’art. 3, comma 19, l.f. 2004, posta per evitare possibili aggiramenti della disciplina costituzionale in un ambito sempre più esteso e delicato, come quello dell’utilizzo di strutture istituzionali privatistiche per la gestione della cosa pubblica[22].
A tale riguardo il legislatore, dopo aver stabilito che gli enti e gli organismi tenuti al rispetto del limite previsto dall’art. 119, comma 6, Cost “non possono ricorrere all'indebitamento per il finanziamento di conferimenti rivolti alla ricapitalizzazione di aziende o società finalizzata al ripiano di perdite”, ha previsto che “l’istituto finanziatore, in sede istruttoria, è tenuto ad acquisire dall'ente l'esplicazione specifica sull'investimento da finanziare e l'indicazione che il bilancio dell'azienda o della società partecipata, per la quale si effettua l'operazione, relativo all'esercizio finanziario precedente l'operazione di conferimento di capitale, non presenta una perdita di esercizio”.
In realtà, come rilevato da più parti [23], il livello complessivo di trasparenza sulle operazioni di indebitamento degli enti tenuti al rispetto della restrizione prevista dall’art. 119, comma 6, Cost. era considerato tuttavia insoddisfacente se rapportato all’importanza che il fenomeno oramai detiene per gli equilibri della finanza pubblica ed il rispetto delle prescrizioni comunitarie.
Per superare, allora, i problemi posti dalle asimmetrie conoscitive sul fenomeno dell’indebitamento, il legislatore del 2005 ha ritenuto di potenziare il sistema informativo attraverso la previsione di specifici obblighi d’informazione sull’osservanza del vincolo previsto in materia di indebitamento dall'articolo 119, comma 6, Cost., attraverso i quali garantire una visione chiare ed affidabile del fenomeno.
Si è previsto, infatti, (art. 1, comma 166) che ai fini della tutela dell'unità economica della Repubblica e del coordinamento della finanza pubblica, gli organi degli enti locali di revisione economico-finanziaria trasmettono alle competenti sezioni regionali di controllo della Corte dei conti una relazione sul bilancio di previsione dell'esercizio di competenza e sul rendiconto dell'esercizio medesimo.
Il sistema, quindi, si avvarrà di una rete di controllo che sfrutterà le sinergie sviluppate dal rapporto tra gli organi di revisione contabile degli enti e le Sezioni regionali della Corte dei conti, alle quali perverranno a preventivo ed a consuntivo i dati relativi alla dimensione dell’indebitamento.
Il contesto giuridico – gestionale a cui fare riferimento nello svolgimento della funzione di verifica sarà stabilito dalla Corte dei conti. Quest’ultima (art. 1, comma 167) definirà unitariamente criteri e linee guida cui debbono attenersi gli organi degli enti locali di revisione economico-finanziaria nella predisposizione delle predette relazioni (comma 166). Al riguardo sembra potersi affermare che l’articolazione della Corte dei conti competente a definire le predette linee quida non possa esser altro che la Sezione autonomie della Corte; ciò sia in ragione delle finalità del controllo, che attiene alla tutela dell’unità economica della Repubblica, sia del contesto in cui si colloca l’attività di controllo in esame, ossia il coordinamento della finanza pubblica.
Sul piano contenutistico, in attesa delle linee guida elaborate dalla Corte dei conti, è possibile già rilevare che il legislatore ha previsto per le relazioni un contenuto necessario, articolato su duee punti fondamentali, ed un contenuto eventuale, consentendo così l’immediata operatività dell’intero sistema di controllo.
Quanto al contenuto necessario, infatti, le relazioni, in ogni caso, dovranno dare conto, in primo luogo, del rispetto degli obiettivi annuali posti dal patto di stabilità interno; in secondo luogo, dell'osservanza del vincolo previsto in materia di indebitamento dall'articolo 119, ultimo comma, della Costituzione. Infine, ove l’organo di revisione ne abbia rilevato la sussistenza, la relazione dovrà evidenziare ogni grave irregolarità contabile e finanziaria in ordine alle quali l'amministrazione non abbia adottato le misure correttive segnalate dall'organo di revisione.
Proprio su tale ultimo punto, ossia sulla qualificazione di grave irregolarità contabile e finanziaria si attende il necessario apporto chiarificatore delle sezioni del controllo della Corte dei conti.
Il contesto normativo sopra sinteticamente illustrato dimostra un potenziamento del ruolo e della funzione della Corte dei conti in materia, attraverso la definitiva emersione – al livello di normazione positiva - di un principio di effettività della funzione di controllo successivo sulla gestione. Infatti, qualora la Sezione accerti, anche sulla base delle relazioni di cui al comma 166, comportamenti difformi dalla sana gestione finanziaria o il mancato rispetto degli obiettivi posti con il patto, adottano specifica pronuncia e vigilano sull'adozione da parte dell'ente locale delle necessarie misure correttive e sul rispetto dei vincoli e limitazioni posti in caso di mancato rispetto delle regole del patto di stabilità interno.
7.- La tutela degli interessi erariali lesi dalla violazione della golden rule: l’art. 30, comma 15, l. 27 dicembre 2002, n. 289 e la sua natura giuridica.
La violazione del precetto costituzionale che limita il ricorso all’indebitamento al finanziamento delle sole spese d’investimento è sanzionata dall’art. 30, comma 15, l. 27 dicembre 2002, n. 289, a mente del quale “Qualora gli enti territoriali ricorrano all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle d’investimento, in violazione dell’art. 119 della Costituzione, i relativi atti e contratti sono nulli. Le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti possono irrogare agli amministratori, che hanno assunto la relativa delibera, la condanna ad una sanzione pecuniaria pari ad un minimo di cinque volte e fino ad un massimo di venti volte l’indennità di carica percepita al momento di commissione della violazione”.
Il combinarsi di precetto (art. 119, comma 6, Cost.) e sanzione (art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002) nella disposizione in esame ha dato luogo ad una soluzione normativa innovativa nell’ambito delle regole di contabilità pubblica, le quali ordinariamente, non prevedono sanzioni in caso di loro violazione [24].
Tale opzione normativa si inserisce in una nuova linea di tendenza del legislatore [25], nella quale si preferisce integrare con nuove tecniche di drafting le forme e le modalità classiche della tutela delle pubbliche risorse, costruite sui paradigmi della responsabilità amministrativo-contabile [26].
E’ il caso , p. es., delle ipotesi di ‘responsabilità erariale’ nelle quali il legislatore interviene sia con una misura invalidante sugli atti, sia - previa tipizzazione di elementi normativi e/o descrittivi del fatto dannoso per il pubblico erario - con la previsione di sanzioni per i comportamenti trasgressivi.
Un esempio di tale indirizzo, in materia di gestione del personale alle dipendenze della pubblica amministrazione è rappresentato dall’art. 36, comma 2, D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 [27].
La disposizione richiamata, infatti, in caso di violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte delle pubbliche amministrazioni, sul piano dell’atto impedisce la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni; sul piano della sanzione dei comportamenti, sancisce l’obbligo per la P.a. di recuperare nei confronti dei dirigenti responsabili le somme pagate a titolo di risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative, qualora la violazione sia dovuta a dolo o colpa grave.
Analoga ipotesi, sempre in materia di gestione del personale, è rappresentata dall’art. 56, comma 6, del D.lgs. 165 del 2001 e s.m.i., in materia di responsabilità del dirigente che ha disposto l’assegnazione di un dipendente a mansioni superiori.
Altra ipotesi può rinvenirsi nell’ambito della disciplina dell’attività negoziale della p.a., e segnatamente nell’art. 24, comma 4, l. 27 dicembre 2002, n. 289.
In questo caso la norma dispone(va) espressamente, quanto agli atti, la nullità dei contratti stipulati in violazione dell’obbligo del ricorso alle procedure aperte o ristrette per l’aggiudicazione di contratti di importo anche superiore ai €50.000,00 la gara pubblica o di quello di utilizzare le convenzioni quadro definite dalla CONSIP S.p.a.
Quanto ai comportamenti, la disposizione prevede(va) che il dipendente che avesse sottoscritto il contratto avrebbe risposto, a titolo personale, delle obbligazioni eventualmente derivanti dai predetti contratti.
Inoltre, la stipula degli stessi era causa di responsabilità amministrativa e ai fini della determinazione del danno erariale, si sarebbe tenuto anche conto della differenza tra il prezzo previsto nelle convenzioni anzidette e quello indicato nel contratto.
Tale disciplina, oggetto di abrogazione da parte dell’art.3, comma 166 del 24 dicembre 2003, n. 350, è stata successivamente reintrodotta dall’art. 1, comma 4, 9, 10, l. 30 luglio 2004, n. 191 ha sostanzialmente riprodotto la disciplina abrogata con la legge n. 350 del 2003, reintroducendo analoghe ipotesi di responsabilità erariale nell’ambito della gestione contrattuale, del conferimento di incarichi di studio o di ricerca, ovvero di consulenze, per missioni all'estero e spese di rappresentanza, relazioni pubbliche e convegni [28].
Da ultimo in ordine temporale, di nuovo in materia di gestione del personale, si segnala l’art. 1, comma 187, della l. 23.12.2005, n. 266 secondo il quale a decorrere dall'anno 2006 le amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, le agenzie, incluse le Agenzie fiscali di cui agli articoli 62, 63 e 64 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, e successive modificazioni, gli enti pubblici non economici, gli enti di ricerca, le università e gli enti pubblici di cui all'articolo 70, comma 4, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, possono avvalersi di personale a tempo determinato o con convenzioni ovvero con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, nel limite del 60 per cento della spesa sostenuta per le stesse finalità nell'anno 2003. Per il comparto scuola e per quello delle istituzioni di alta formazione e specializzazione artistica e musicale trovano applicazione le specifiche disposizioni di settore. Il mancato rispetto dei limiti di spesa fissati dalla norma in esame costituisce illecito disciplinare e determina responsabilità erariale.
Così come nelle ipotesi sopra ricordate, anche nel caso rappresentato dall’art. 30, comma 15, l. 27 dicembre 2002, n. 289 [29], la tecnica di tutela degli interessi erariali lesi dalla violazione della golden rule è quella della “tipizzazione” delle forme d’aggressione degli interessi erariali. In particolare, qui il legislatore ha creato una particolare fattispecie di ‘responsabilità finanziaria’ [30] nella quale, diversamente da quanto accade nelle ipotesi di responsabilità sopra richiamate, sono previsti - nel medesimo contesto normativo - la regola giuscontabile e la conseguenza sanzionatoria in caso di trasgressione della medesima.
La fattispecie in esame differisce dalle altre in quanto la trasgressione della regola contabile in questo caso viene stigmatizzata dal legislatore direttamente con l’irrogazione di una sanzione pecuniaria [31], senza far ricorso all’elemento del danno erariale, requisito ancora presente quale elemento di struttura delle fattispecie di responsabilità sopra richiamate.
Quanto alla natura giuridica del tipo di responsabilità finanziaria introdotta dall’art. 30 comma 15 della l. n. 289 del 2002, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha chiarito che “la previsione… di una possibile condanna, da parte della Corte dei conti, ad una sanzione pecuniaria (rapportata all’indennità di carica) per gli amministratori degli enti territoriali…trova il proprio fondamento nella potestà legislativa dello Stato di dare attuazione al sesto comma dell’art. 119 Cost., dal momento che configura esclusivamente alcune sanzioni per comportamenti confliggenti con il divieto affermato nella disposizione costituzionale” [32].
Per quanto precede, può ritenersi inattuabile quindi qualsiasi confronto tra l’art. 30, comma 15, l.n. 289 del 2002 e gli artt. 252, 253 e 256 del T.U.L.C.P., disposizioni che rappresentano un esempio paradigmatico di responsabilità formale, ma nella struttura delle quali una valutazione legale tipica di adeguatezza della risposta sanzionatoria al fatto commesso mancava in toto.
Proprio la mancanza di tale elemento venne sottolineata dalla dottrina avversa alla responsabilità formale, precisando che in situazioni del genere (gli artt. 252, 253 e 256 del T.U.L.C.P.: n.d.r.) dovrebbe essere tutt’al più prevista una sanzione pecuniaria (posizione richiamata da C.cost., sent. 8 marzo 1983, n. 72): è evidente che tale suggerimento è stato poi recepito dal legislatore nella stesura della norma dell’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002.
Alla stregua della indicata qualificazione normativa il legislatore costruisce quindi il meccanismo affittivo della sanzione pecuniaria, che anch’essa rappresenta una valutazione legale tipica di adeguatezza della risposta sanzionatoria al fatto commesso, che per tal ragione assorbe il requisito dell’esistenza di un danno patrimoniale, o patrimonialmente valutabile [33].
7.1.- La struttura della fattispecie sanzionatoria: i soggettivi responsabili.
L’art. 30, comma 15, l.n. 289 del 2002 configura una fattispecie d’illecito erariale tipizzato in tutti i suoi elementi costitutivi (soggetto agente, condotta, nesso di causalità, evento).
Quanto ai soggetti responsabili, rispetto all’ampia platea degli enti tenuti al rispetto della golden rule, l’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002, sanziona le violazioni della regola commesse dagli amministratori dei soli enti territoriali [34].
Ciò posto, occorre precisare che non tutti gli amministratori territoriali che partecipano alla formazione della scelta di ricorrere all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle d’investimento risponderanno ai sensi dell’art. 30 comma 15, l. n. 289 del 2002..
Il ricorso all’indebitamento, infatti, è uno degli atti ‘a competenza riservata’ [35] degli organi d’indirizzo e di controllo politico-amministrativo dell’ente; pertanto solo gli amministratori che sono anche componenti dei predetti organi potranno esser chiamati dinanzi alla Sezione giurisdizionale della Corte dei conti.
La progressiva estensione del principio contabile espresso nella golden rule a quasi tutto il Settore pubblico pone la necessità di verificare l’applicabilità della disciplina sanzionatoria prevista dall’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002, agli amministratori degli enti locali ricadenti nella sfera d’influenza degli enti territoriali, ai sensi dell’art. 3, comma 16 e 21, l. 27 dicembre 2003, n. 350.
Al riguardo, la mancanza di un’espressa previsione normativa in tal senso dovrebbe portare, almeno in prima battuta, ad escludere l’applicabilità diretta della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 30, comma 15, oltre i limiti soggettivi ed oggettivi previsti espressamente dalla disposizione stessa. Ciò soprattutto in ragione dei principi di tassatività e determinatezza, che devono presiedere – a rigore – all’interpretazione di ogni norma sanzionatoria.
Così, nel caso di enti locali ricadenti nella sfera d’influenza degli enti territoriali (ossia di alcuni tipi di consorzi, delle aziende speciali, delle istituzioni, delle aziende sanitarie locali ed ospedaliere, nonchè gli enti e organismi in qualunque forma costituiti, dipendenti dalla regione), l’assunzione della delibera con cui si dà copertura a spese diverse da quelle d’investimento, attraverso il ricorso all’indebitamento, rappresenterà per gli amministratori una condotta sintomatica che, unitamente agli altri presupposti, potrà integrare gli estremi di un’ipotesi di responsabilità amministrativo-patrimoniale classica.
7.2. – I lineamenti della condotta sanzionata.
Come ricordato in precedenza, prima dell’entrata in vigore della l. n. 289 del 2002, il diritto positivo non aveva previsto né conseguenze di natura invalidante sugli atti [36], né comminato sanzioni per condotte poste in essere in violazione della golden rule.
Il ricorso all’indebitamento per finanziare spese diverse da quelle d’investimento era considerato unicamente alla stregua di una ‘condotta sintomatica’, che insieme alla sussistenza degli altri elementi oggettivi e soggettivi, avrebbe potuto portare in ultima analisi all’affermazione della responsabilità erariale degli amministratori che avevano disposto il pagamento di spese di parte corrente, finanziandole con il ricorso all’indebitamento [37]. In tale prospettiva, affinché si determinasse un danno erariale, certo, concreto ed attuale, non era sufficiente che il ricorso all’indebitamento fosse stato deliberato, ma era necessario che la spesa diversa da quella d’investimento fosse stata effettivamente erogata, utilizzando la provvista derivante dall’indebitamento.
L’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002 ha realizzato, invece, un’anticipazione della soglia di rilevanza giuridica delle condotte violative, sanzionando l’assunzione della deliberazione, il cui contenuto di lesività per l’erario – come detto – è oggetto di un’autonoma prequalificazione normativa in termini d’offensività.
La scelta di un meccanismo anticipato di tutela si giustifica in ragione della natura del contesto operativo della norma in esame. Qui, infatti, la dimensione temporale della reazione giuridica sanzionatoria avverso le condotte poste in violazione dell’art. 119, comma 6, Cost. si rivela particolarmente significativa, specialmente per la prospettiva diacronica dei profili operativi che comporta il ricorso all’indebitamento che, per sua natura, tende a far gravare gli oneri delle scelte del presente sulle generazioni future.
Le considerazioni che precedono consentono, allora, di chiarire meglio l’essenza di quel sistema d’integrazione tra nuove tecniche e forme classiche di tutela dell’erario cui si è fatto cenno all’inizio del presente lavoro.
Nella descrizione legale del fatto, le modalità della condotta sono state rappresentate utilizzando i paradigmi dell’attività collegiale deliberativa, nell’ambito della quale, è appena il caso di ricordare, si risponde solo in ragione dell’espressione di un voto favorevole all’assunzione della delibera.
Nel caso in esame, il legislatore del 2002, attraverso la tipizzazione dei comportamenti configgenti con l’art. 119, comma 6, Cost. ha individuato quale momento in cui si perfeziona la condotta sanzionata, quello in cui si è verificata l’assunzione da parte degli amministratori locali della delibera di ricorso all’indebitamento (“…possono irrogare agli amministratori, che hanno assunto la relativa delibera, la condanna ad una sanzione pecuniaria…”).
Rimangono, così, sempre secondo la descrizione normativa del fatto, del tutto irrilevanti i profili esecutivi della stessa, ai fini dell’irrogazione della sanzione.
La responsabilità amministrativa (classica) opererà – ricorrendone tutti i presupposti – in caso di concreto utilizzo della provvista derivante dall’indebitamento per pagare spese diverse da quelle d’investimento[38].
La Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Lazio, con la sentenza n. 3001 del 20 dicembre 2005 ha formulato una prima (e unica) ricostruzione del meccanismo operativo della sanzione prevista dall’art. 30 comma 15 della l. n. 289 del 2002 [39].
In particolare, quanto al momento di consumazione della condotta illecita, la riferita giurisprudenza della Corte dei conti ha ritenuto indispensabile chiarire che – anche a prescindere dalle considerazioni esposte sulla maturazione dei debiti fuori bilancio, secondo le quali la domanda è stata rigettata [40]- per il perfezionarsi dell’ipotesi di responsabilità in esame è necessaria l’effettiva erogazione del mutuo da parte dell’ente finanziatore, rappresentando questo l’atto con il quale viene data esecuzione alla delibera dell’ente locale di ricorso all’indebitamento.
In realtà, a voler portare alle sue estreme conseguenze logiche la posizione espressa i sentenza dal Collegio, ritenere che l’esecuzione della delibera si realizzi con l’erogazione del mutuo significa riconnettere al potere deliberativo del Comune anche la decisione in ordine alla effettiva erogazione del mutuo, quest’ultima competendo invece evidentemente solo all’ente finanziatore.
Inoltre, è chiaro che a seguire la linea interpretativa inaugurata dalla sentenza in parola si farebbe dipendere, in modo non conforme al principio di personalità della responsabilità (art. 27, Cost.; art. 3, l.n. 689 del 1981), la concreta punibilità delle condotte previste dall’art. 30, comma 15, della l. 27 dicembre 2002, n. 289, non dalla responsabilità personale di chi ha assunto la delibera come previsto dalla legge, ma – secondo l’interpretazione integrativa della fattispecie operata in sentenza - dall’autonoma scelta di un terzo, ossia di chi ha il potere di disporre l’erogazione del finanziamento: quest’ultimo, infatti, seguendo la impostazione della decisione, sarebbe l’unico che potrebbe decidere sulla punibilità degli amministratori. Si introdurrebbe in tal modo, in via interpretativa, un’autentica condizione obiettiva di punibilità (art. 44, c.p.), in violazione del principio di legalità, che impone la loro espressa previsione da parte della legge ordinaria.
7.3. – segue: l’evento giuridico.
L’evento giuridico pregiudizievole, che deriva dalla violazione della golden rule, si realizza – si ribadisce, secondo la descrizione normativa - con l’assunzione della deliberazione, così che si potrebbe ritenere che il momento in cui si perfeziona la fattispecie in esame sia quello della dichiarazione degli esiti della votazione.
Una tale impostazione, tuttavia, comporterebbe l’ulteriore anticipazione della soglia di rilevanza delle condotte sanzionate, configurando conseguentemente l’art. 30, comma 15 della l. 289 del 2002 come una fattispecie incentrata sulla sanzione di un pericolo presunto.
In realtà, appare preferibile ritenere che la fattispecie sanzionatoria in esame si consumi allorché la condotta abbia raggiunto un concreto grado d’offensività per l’oggetto giuridico sostanziale generico [41] della tutela offerta dall’art. 30, comma 15 della legge 27 dicembre 2002, n. 289, ossia l’equilibrio del bilancio dell’ente, e la sua stabilità finanziaria[42], lesione che si realizza quando la delibera di ricorso all’indebitamento è divenuta esecutiva (e non quando le è data esecuzione o, ancor peggio, quando il finanziamento è erogato da un soggetto terzo).
Questo è il momento in cui la deliberazione entra a far parte, anche giuridicamente, della “decisione sulla manovra di bilancio”[43], assumendo una materiale idoneità a modificare, sul piano finanziario ed economico, gli equilibri del bilancio dell’ente.
La dimensione dell’offensività per l’erario dell’ente degli effetti della condotta sanzionata si coglie anche dal lato degli effetti che essa produce sulle comunità di riferimento dell’ente.
E’ con l’adozione della delibera, infatti, che si determina l’effetto di vincolo sulle risorse autonome dell’ente per coprire il servizio del debito contratto. Tali risorse si dovranno considerare, per l’effetto, sottratte al finanziamento delle funzioni pubbliche assegnate agli enti, con conseguente (pericolo concreto di una) mancata resa del servizio per le comunità amministrate.In tale prospettiva si coglie la lesione dell’oggetto giuridico sostanziale specifico tutelato dall’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2003, nonché le ragioni dell’intestazione alla giurisdizione della Corte dei conti, che “E’ quella giurisdizione in materia di contabilità pubblica di cui all’art. 103, comma 2, della Costituzione che, facendo riferimento alla tutela del bene strumentale, certamente ha come terminale di tutela gli interessi dei cittadini, in definitiva, il loro diritto ai servizi pubblici nello “standard compatibile”” [44].
Emerge in tal modo chiara una tra le più significative differenze tra le forme di tutela degli interessi finanziari pubblici assicurata dalla fattispecie sanzionatoria di cui all’art. 30, comma, 15, l. n. 289 del 2002 e quella garantita dalla responsabilità amministrativa classica.
Nel caso della ‘responsabilità amministrativa’, il danno – certo, attuale e concreto – è, da un lato, elemento costitutivo della responsabilità e, dall’altro lato, parametro della dosimetria della conseguenza patrimoniale affittiva.
Nell’ipotesi prevista dall’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002, la duplice funzione del danno è svolta essenzialmente, da una valutazione legale tipica d’offensività del fatto [45] descritto dalla norma.
Il legislatore ha ritenuto le violazioni sanzionate come pregiudizievoli per il conseguimento degli obiettivi complessivi di finanza pubblica, connessi ai vincoli europei (C. cost. sent. 416 del 1995; sent. 421 del 1998), e al c.d. patto di stabilità interno (C. cost. sent. 36 del 2004; sul punto v. da ultima C. cost. sent. 425 del 29 dicembre 2004).
In tale contesto, il meccanismo afflittivo della sanzione pecuniaria, rappresenta anch’esso una valutazione legale tipica di adeguatezza della risposta sanzionatoria al fatto commesso.
Si può cogliere, in tale prospettiva, allora, almeno sul piano descrittivo, un elemento di continuità normativa tra la struttura dell’ipotesi sanzionatoria in esame e quella delle c.d. ‘misure dissuasive’ previste dal diritto comunitario in caso di superamento dei limiti previsti dai parametri di Maastricht.
Com’è noto, queste forme di sanzione sono previste dalle fonti del “Patto di stabilità e crescita” (artt. 104 (ex art. 104 C) e 121 (ex 109 J) del Trattato istitutivo della Comunità europea), approvato nel vertice di Dublino nel 1996, ossia dalla Risoluzione del Consiglio europeo, adottata al vertice di Amsterdam il 17 giugno 1997, e da due Regolamenti, adottati il 7 luglio 1997: il Regolamento per il rafforzamento delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche (Reg. CE n. 1466/97), ed il Regolamento per l’accelerazione ed il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi (Reg. CE n. 1467/97).
Così, in caso di violazione dei limiti previsti dai parametri di Maastricht, la sanzione prende forma di un deposito infruttifero da versare all’Unione europea. La misura della sanzione è calcolata in base ad una quota fissa (0,2% del P.I.L. in caso di sfondamento) cui si aggiunge una quota variabile (0,1% del P.I.L. per ogni punto o frazione superiore al 3% del P.I.L.). Tale deposito si trasforma in multa, e quindi viene definitivamente acquisito, se nell’arco di due anni lo Stato non riallinea i propri conti [46].
7.4.- il titolo soggettivo della responsabilità colpevole.
In tale contesto, i titoli soggettivi della responsabilità colpevole (dolo e colpa), da cui non è possibile prescindere per l’affermazione di una qualsiasi forma di responsabilità, svolgono una duplice funzione.
Da un lato, infatti, dolo e colpa sono tra le condizioni che giustificano l’irrogazione della sanzione pecuniaria (Strafbegründungsschuld), poiché completano, sul piano della tipicità, il giudizio di disvalore normativo sulle condotte sanzionate dall’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002.
Dall’altro lato, l’intensità del dolo ed il grado della colpa rappresentano parametri fondamentali ai fini del giudizio sulla dosimetria della sanzione pecuniaria stessa (Strafzumessungsschuld) [47].
Anche sul punto la richiamata decisione della Corte dei conti ha applicato un principio precedentemente espresso dalla Corte costituzionale, in materia di responsabilità finanziarie, la quale aveva chiarito che il legislatore è “arbitro di stabilire non solo quali comportamenti possano costituire titolo di responsabilità, ma anche quale grado di colpa sia richiesto ed a quali soggetti la responsabilità sia ascrivibile…senza limiti o condizionamenti che non siano quelli della irragionevolezza e non arbitrarietà” [48].
A tale stregua, pertanto, poiché l’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002 non prevede alcuna limitazione in ordine al grado di colpa richiesto, è corretto ritenere che la norma consenta di irrogare la sanzione a titolo di dolo o di colpa, senza ulteriori qualificazioni di quest’ultima.
Al riguardo la Corte dei conti richiama espressamente i principi posti dall'art. 3 della l. n. 689 del 1981, pur non seguendo appieno nella soluzione del caso concreto i principi al riguardo elaborati dalla giurisprudenza. A tale stregua [49], il fatto che per le violazioni colpite da sanzione amministrativa è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva o omissiva sia essa dolosa o colposa, deve essere inteso nel senso della sufficienza dei suddetti estremi, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, atteso che la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, riservando poi a questi l’onere di provare di aver agito senza colpa.
In tale contesto, l’errore può rilevare come causa di esclusione della responsabilità - al pari di quanto avviene per la responsabilità penale in materia di contravvenzioni - solo quando risulti incolpevole e cioè non superabile con l'uso dell'ordinaria diligenza. Il relativo accertamento, peraltro, comporta la necessità di un'attenta valutazione delle ragioni per le quali tali elementi positivi abbiano - tenuto conto delle conoscenze effettive o potenziali dell'interessato - rivestito in concreto un'efficacia tale da eliminare ogni incertezza in ordine alla liceità del comportamento posto in essere [50].
7. 5.- La dosimetria della sanzione.
L’art. 30, comma 15, l.n. 289 del 2002 ha previsto che la sanzione pecuniaria sia pari ad un minimo di 5, fino ad un massimo di 20 volte l’indennità di carica [51] percepita al momento della violazione.
Non esiste, pertanto, un minimo ed un massimo edittale espresso in numerario (p. es. da 10 a 100 euro, ovvero 100 euro per ogni violazione) [52]; il suo ammontare viene stabilito in ragione dell’utilizzo di moltiplicatori di un dato base - l’indennità di carica -, il cui importo è fissato in base alla (e non dalla) legge (cfr., p. es., art. 82, comma 11, T.U.E.L.).
A rigore, poiché il legislatore fa riferimento all’indennità percepita, e non a quella stabilita normativamente, o con deliberazione dell’ente, può ritenersi che la base di calcolo della sanzione sia rappresentata dall’ammontare complessivo delle somme già percepite a tale titolo dall’amministratore, dal momento della nomina, fino a quello dell’assunzione della delibera [53].
Il dies a quo dal quale cominciare il calcolo sommatorio, infatti, potrebbe individuarsi nel giorno in cui è stata convalidata la deliberazione con cui si sono proclamati gli eletti della consiliatura nel corso della quale si è adottata la delibera in violazione dell’art. 119, comma 6, Cost. In tal modo sarà agevole tener conto della possibile inesperienza dei consiglieri comunali che, se da poco eletti, potrebbero dimostrare un grado di colpevolezza minore.
La previsione di un limite minimo e di uno massimo per la sanzione pecuniaria potrebbe consentire, da un lato, di ritenere assorbito in tale previsione il potere riduttivo della Sezione; dall’altro lato, di risolvere il problema della dosimetria anche facendo ricorso ai necessari presupposti d’imputazione soggettiva della condotta e dell’evento giuridico. In tale contesto, l’intensità del dolo ed il grado della colpa rappresenteranno dei parametri in base ai quali valutare il corretto moltiplicatore per il calcolo della sanzione pecuniaria.
Con riferimento ai parametri di calcolo della sanzione, la Sezione territoriale della Corte dei conti ha ritenuto, infine, di “non potersi esimere” (sent., pag. 32: sic!) dall’indicare il proprio meccanismo di calcolo della sanzione.
A tal fine la sentenza afferma che è chiaro che la sanzione non può essere commisurata in base ad “un parametro di riferimento variabile a seconda del tempo in cui la violazione venga commessa”, ma anche che “E’ evidente che la misura della sanzione deve adeguarsi anche all’esperienza acquisita nel corso del mandato”, facendo di nuovo riferimento ad un parametro temporale della gravità della condotta.
Sembra che nel meccanismo di calcolo proposto si prescinda allora dalla (si ritiene essenziale) distinzione che sul piano tecnico-giuridico esiste tra gravità del comportamento e grado della colpa, parametri entrambi rilevanti per il legislatore: il primo, nel caso in esame, incide sulla determinazione della sanzione in relazione al quantum percepito, stabilendone la base di calcolo; il secondo influenza, in relazione al grado di colpa di ciascuno dei convenuti, l’indice moltiplicatore dell’entità della sanzione base, come noto da cinque volte e fino ad un massimo di venti volte l’indennità di carica percepita al momento di commissione della violazione.
Un’ulteriore questione, alla quale la giurisprudenza dovrà dare soluzione per l’applicazione della norma, concerne l’identificazione del soggetto a favore del quale la Sezione dovrà pronunciare la condanna al pagamento della sanzione pecuniaria.
In realtà, le opzioni possono essere almeno due: o il beneficiario sarà considerato lo Stato [54]; ovvero, com’è preferibile, attesa la struttura della norma – che individua il soggetto responsabile in base al suo status di rappresentante della comunità territoriale di riferimento – la condanna dovrà pronunciarsi a favore delle casse dell’ente del quale il soggetto è amministratore.
Un’ultima notazione sulla tutela in executivis delle ragioni dell’erario.
La definitiva stabilizzazione degli effetti della condanna al pagamento della sanzione pecuniaria, nel caso d’amministratore locale, costituirà un’ipotesi d’incompatibilità (art. 63, comma 1, n. 5, T.U.E.L.), con conseguente possibile decadenza nel caso in cui il condannato non abbia ancora estinto il debito e fino a quando non l’abbia estinto completamente.
*Il presente studio, per la parte riguardante l’art. 30, comma 15, l. 27 dicembre 2002, n. 289, integra con la recente giurisprudenza costituzionale e contabile un precedente scritto del medesimo autore dal titolo “Nuove tecniche di tutela degli interessi erariali: brevi osservazioni su alcuni profili sostanziali e processuali riguardanti l’applicazione dell’art. 30, comma 15, della l. 27 dicembre 2002, n. 289”, presentato l’11 dicembre 2004 nell’ambito della Giornata di studio in memoria di Franco Rapisarda sui Profili d’attualità nelle attribuzioni della Corte dei conti.
[1] Per gli enti locali v., da ultimo, l’art. 202, comma 1, del D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267; per l’indebitamento tramite l’emissione di obbligazioni, v. art. 32, comma 2, l. n. 142 del 1990, l. 23 dicembre 1994, n. 724 e D.M.T. 5 luglio 1996, n. 420. Per le regioni, v. l. n. 281 del 1970, art. 10 e succ. mod. ed integr..
[2] V. in tal senso, Corte dei conti, sez. delle Autonomie, Relazione sulla gestione finanziaria delle Regioni, esercizi 2002 – 2003, pag. 34.
[3] Così, GIARDA P., Le regole del federalismo fiscale nell’art. 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione, in Le Regioni, 2001, p. 1448.
[4] Sull’applicazione di tale regola v. Corte dei conti, Sez. delle Autonomie, del. n. 10 del 12 luglio 2004, pag. 211 e 215. Sul punto, NARDUCCI. F. Il finanziamento dei debiti fuori bilancio e le limitazioni all'indebitamento degli Enti locali, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2002, fasc. 7, pagg. 794-796. sui deibiti fuori bilancio in generale, v. PILATO S., La responsabilità nei debiti fuori bilancio, in Rivista della Corte dei conti, n. 1/2003, pag. 390 e ss.
[5] DELLA CANANEA G., I limiti della finanza locale, in Giornale di diritto amministrativo, 2002, fasc. 2, pagg. 215-217; BRANCASI A., L'autonomia finanziaria degli enti territoriali: note esegetiche sul nuovo art. 119 Cost., in Le regioni, 2003, fasc. 1, pagg. 41-115.Sull’importanza che il fenomeno dell’indebitamento oramai detiene per gli equilibri di finanza pubblica e per il rispetto delle prescrizioni comunitarie v. Corte dei conti, Indagine conoscitiva sugli effetti e le tecniche di controllo dei flussi di finanza pubblica in ordine all’andamento del debito, con particolare riferimento alla componente non statale, audizione del 25 marzo 2004 presso il Senato della Repubblica, commissione Programmazione economica, Bilancio, nonché Corte dei conti, Sez. delle Autonomie, del. n. 10 del 12 luglio 2004.
[6] SILIPO A., I vincoli del patto di stabilità interno alle spese in conto capitale degli Enti locali, in Rivista dei tributi locali, 2002, fasc. 3, pagg. 233-245.
[7] Com’è noto sono territoriali quegli enti che hanno il territorio come elemento costitutivo della loro soggettività, e come elemento che delimita la loro sfera d’azione. E’ appena il caso di accennare al fatto che lo Stato, pur essendo l’ente territoriale per antonomasia, non è soggetto alla disciplina in esame, ma a quella per disavanzi eccessivi prevista a livello comunitario.
[8] BASILE, GUAGLIANO, Prime riflessioni sulla Legge n. 289 del 27.12.2002 "Finanziaria 2003", in Nuove Autonomie, 2002, fasc. 6 (dicembre), pag. 993-1003.
[9] Sul concetto di “nozione presupposta” quale canone ermeneutico per l’interpretazione delle norme costituzionali, S. MANGIAMELI, Le materie di competenza regionale, Milano, 1992, pag. 103 e ss.
[10] Cfr., Relazione al Parlamento sui risultati dell’esame della gestione finanziaria e sull’attività degli enti locali per l’esercizio 2001, nonché sugli andamenti di cassa e sul patto di stabilità interno per l’esercizio 2002, Corte dei conti, Roma 2003, 60.
[11] Sul punto, v. M. BARBERO, Il federalismo fiscale silenzioso: la legge finanziaria 2004 attua di soppiatto la golden rule di cui all’art. 119, comma 6, Costituzione, in Diritto e diritti, rivista giuridica on line, Febbraio 2004.
[12] Oltre alle nozioni di investimento diretto, fisso, in scorte, di portafoglio, indicate nel testo, queste possono lorde o nette a seconda che si consideri il valore economico depurato dell’ammortamento, ossia del costo necessario a mantenere ed eventualmente a rimpiazzare i beni d’investimento non più utilizzabili.
[13] SAMUELSON – NORDHAUS, Economia, Zanichelli, 1992, pag. 127, nota 4.
[14] V., Ragioneria Generale dello Stato, La nuova struttura del bilancio dello stato in applicazione della legge 1 marzo 1964, n. 62, Roma, 1964, pagg. 28 e ss.). Sul punto v. anche A.BENNATI, Manuale di contabilità di Stato, ed. VII, Napoli 1973, pag. 218.
[15] Così, P.GIARDA, Le regole del federalismo fiscale nell’art. 119: un economista di fronte alla nuova Costituzione, in Le Regioni, 2001, p. 1447. La realtà evocata nel testo è stata, peraltro, rilevata quale parametro d’incostituzionalità della normativa in esame in quanto, l'art. 119, ultimo comma, Cost., nel porre l'obbligo di ricorrere all'indebitamento solo per finanziare spese di investimento, si riferirebbe al concetto generale di spese di investimento presente nell'ordinamento della contabilità dello Stato, intendendo tali le spese in conto capitale, con la conseguenza dell'illegittimità costituzionale della denunciata normativa statale, che utilizza una diversa nozione di spese di investimento. In realtà, le ricorrenti hanno successivamente omeso di svolgere i motivi a sostegno dell’eccezione d’incostituzionalità, che è stata pertanto ritenuta inammissibile. cfr. C. cost. 9 – 14 febbraio 2005, n. 417
[16] V. Circolare Cassa DD.PP. del 27 luglio 2003, n. 1253, con cui si dettavano “Linee guida sugli investimenti finanziabili” dall’istituzione. Sul punto, PICA F., La circolare 27 maggio 2003, n. 1251, della Cassa depositi e prestiti e l'interpretazione dell'art. 119, comma 6, della Costituzione, in Rivista dei tributi locali, 2003, fasc. 4 (agosto), pag. 339-345
[17] Il legislatore ha qui utilizzato un’ipostazione patrimoniale per l’individuazione delle spese d’investimento. Ciò è un’ulteriore riprova della volontà di uniformare le nostre regole contabili a quelle europee, ed in particolare di omologare le categorizzazioni nazionali a quelle elaborate dal S.E.C. 95, per far scomparire valutazioni difformi e conseguenti contabilizzazioni diversificate.
[18] ZAMBRANO V. Divieto di indebitamento e norme di dissuasione, in Rassegna amministrativa della sanità, 2002, fasc. 4 (dicembre), pag. 381-388.
[19] Così, G.P. MAZZELLA, L'indebitamento degli enti territoriali: disciplina e assetti [Commento alla L. 24 dicembre 2003 n. 350], in Giornale di Diritto amministrativo, n. 5/2004, pag. 516.
[20] In generale, il legislatore ha previsto (art. 154 T.U.E.L.) l’istituzione, presso il Ministero dell’Interno, dell’Osservatorio sulla finanza e la contabilità degli enti locali, con compiti di promozione delle best pratices in materia di finanza e contabilità locali.
[21] Su tale funzione del Ministero, Corte cost., sent. 18 dicembre 2003, n. 376. Sul tema, MANZELLA G.P., Funzione di coordinamento e debito degli enti territoriali, in Giornale di diritto amministrativo, 2004, fasc. 4, pagg. 441-449.
[22] CANALE A., Società per azioni a capitale pubblico: riflessioni in merito alla sentenza n. 13702/04 del 22 luglio 2004 delle Sezioni Unite Civili della Cassazione, in rivista giuridica on line Diritto.it.
[23] v. Corte dei conti, Indagine conoscitiva sugli effetti e le tecniche di controllo dei flussi di finanza pubblica in ordine all’andamento del debito, con particolare riferimento alla componente non statale, audizione del 25 marzo 2004 presso il Senato della Repubblica, commissione Programmazione economica, Bilancio; nonché, Corte dei conti, Sez. delle Autonomie, del. n. 10 del 12 luglio 2004.
[24] In tal modo, e per la prima volta nell’ambito degli strumenti di tutela delle risorse pubbliche, si è utilizzata “una particolare tecnica normativa, il cui scopo o funzione è quello di rafforzare o potenziare i precetti giuridici e ciò attraverso la previsione di mezzi o di strumenti il cui fine è, da un canto, prevenire le violazioni, dall’altro canto, una volta queste verificate, di reprimere in vario modo il comportamento del soggetto per mezzo di conseguenze afflittive” Così A. di MAJO, La tutela civile dei diritti, IV ed., Milano, 2003, pag. 66.
[25]Segnala tale tendenza STADERINI F., Intervento al convegno di studi sul tema: "la tutela delle risorse collettive aspetti problematici", con commento di Schlitzer E. F. in Il foro amministrativo C.d.S, 2002, fasc. 7-8, pagg. 1927-1932.
[26] Sulla natura della responsabilità amministrativa, GARRI F., voce La responsabilità amministrativa, in Enc. Giur. Treccani, XXVI, Roma, 1991; STADERINI F. – SILVERI A., La responsabilità nella pubblica amministrazione, Padova, 1998, p. 142 e ss.; SCHIAVELLO L., La nuova conformazione della responsabilità amministrativa, Milano, 2001, p. 6 e ss.; MADDALENA P., La sistemazione dogmatica della responsabilità amministrativa nell’evoluzione attuale del diritto amministrativo, in Il Consiglio di Stato, fasc. 9/2001, II, p. 1559, e ss; PASQUALUCCI F., Introduzione, in PASQUALUCCI – SCHLITZER, l’evoluzione della responsabilità amministrativa, Milano, 2002, pag. 3 e ss.
[27] Disposizione che sostanzialmente riproduce l’art. 3, comma 6, del d.P.R. n. 3 del 1957.
[28] Dalla applicazione di tali regole la Corte costituzionale ha escluso le Regioni e gli enti locali: v. C.cost., sent. 9 – 14 novembre 2005, n. 417.
[29] Un altro esempio può essere costituito dalle misure interdittive previste dall’art. 248, comma 5, T.U.E.L.
[30] Si mutua qui l’espressione del GARRI F., I giudizi innanzi alla Corte dei conti, Milano, 2000, p. 6.
[31]Sulla natura sanzionatoria della norma in esame, APICELLA V., Inaugurazione dell’anno giudiziario 2003 della Corte dei conti, in Giust.it, n. 1-2003, pag. 7; C. ASTRALDI DE ZORZI, Responsabilità sanzionatoria e risarcitoria dei pubblici dipendenti, in Rivista della Corte dei conti, 2003, n. 6, pag. 327; M. VARI, La responsabilità amministrativo-contabile tra risarcimento e sanzione, in Rivista della Corte dei conti, 2004, in Collana di studi di diritto pubblico economico, Lesione delle situazioni giuridicamente protette e tutela giurisdizionale, pag. 143; PERIN M., Alcune osservazioni in merito alla responsabilità per danno erariale e alle funzioni di controllo della corte dei conti previste nello schema di disegno di legge della finanziaria per il 2003, in giust.it, n. 10 del 2002.
[32] Così, C. cost., sent. 28 ottobre – 5 novembre 2004, n. 320, che ha ritenuto compatibile con la Costituzione l’ipotesi di responsabilità prevista dall’art. 30, comma 15, l.n. 289 del 2002. Si adegua a tale impostazione anche Corte conti, Sez. giurisd. Lazio, sent. n. 3001 del 20 dicembre 2005.
[33] Così, anche tenendo conto di C. cost. , sent. N. 72 del 1983, “può ritenersi superato l’ostacolo che era stato fatale alla c.d. responsabilità formale”. In tal senso, APICELLA V., l’evoluzione più recente della giurisdizione di responsabilità della Corte dei conti, in “La Corte dei conti e il federalismo: un organo a tutela dell’erario e a servizio della comunità”. EDK Editore, 2004, pag. 64 – 65, e dottrina ivi richiamata; nonché, GRECO S., Responsabilità per violazione del divieto costituzionale di indebitamento per finanziare spese correnti, sul sito Corteconti.it. Sembra propendere per una ricostruzione che inquadra la disposizione in esame nell’ambito della responsabilità formale REBECCHI P., Riconoscimento di debito, debito fuori bilancio e responsabilità amministrativa, in Panorama giuridico, n.3/2004, p. 27; al riguardo, v. anche, PILATO S. Trasparenza amministrativa e devianza finanziaria negli enti locali, in Rivista della Corte dei conti, n. 2/2005, p. 308, nota 17, secondo il quale la norma in esame è espressione della concezione etica e sanzionatoria della responsabilità amministrativa.
[34] VALENTINI A., Lo status degli amministratori degli Enti locali, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2001, fasc. 23 (1 dicembre), pag. 2369-2480.
[35] Tale circostanza porta a escludere nel caso in esame l’applicabilità agli amministratori della scusante della buona fede prevista per i componenti degli organi collegiali.
[36] Secondo la norma in esame “Qualora gli enti territoriali ricorrano all'indebitamento per finanziare spese diverse da quelle di investimento, in violazione dell'articolo 119 della Costituzione i relativi atti e contratti sono nulli”.
[37] v. ex plurimis, Corte dei Conti, Sez. giuris. Calabria, sent. n. 862 del 23 ottobre 2003, Pres./rel. Buscema, secondo cui “è in ogni caso espressamente vietato il pagamento di spese correnti con somme prese a mutuo, cioè non si possono pagare spese correnti facendo ricorso all’indebitamento e tale divieto costituisce uno dei punti salienti per la corretta gestione delle amministrazioni locali; tale divieto, già presente nella normativa riguardante l’ordinamento contabile degli enti locali (art. 44 D.Lgs. n. 77 del 1995) è stato anche recepito nell’art. 119 novellato della Costituzione”.
[38] Si pone, al riguardo, il problema relativo al possibile concorso tra la responsabilità prevista dall’art. 30, comma 15, l. n. 298 del 2002 e la responsabilità amministrativa classica derivante dalle spese erogate con fondi derivanti dall’indebitamento e dirette a pagare spese di parte corrente. Sul punto, in realtà, potrebbe realizzarsi un concorso materiale di condotte violative di diversi interessi erariali (l’equilibrio del bilancio, da un lato, e la lesione delle casse per l’erogazione di una spesa vietata), evidentemente legate da un vincolo di continuazione i cui effetti quod poenam potrebbero essere disciplinati dal giudice contabile attraverso il ricorso al potere riduttivo. Sul tema del concorso di norme e di condotte sanzionate nel diritto penale, v. MORO A., Unità e pluralità di reati, 2^ ed., Padova, 1954; MANTOVANI F., Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966; MANTOVANI F., Diritto penale, Padova, 1992, pag. 461; FIANDACA – MUSCO, Diritto penale, parte generale, 3^ ed., Bologna, pag. 593.
[39] Per un commento alla decisione si rinvia a, ALBO G., Self - restraint della Corte dei conti al primo vaglio della fattispecie sanzionatoria prevista dall’ art. 30, comma 15, legge 27 dicembre 2002 n. 289, consultabile sul sito www.Lexitalia.it.
[40] La Procura regionale aveva contestato la violazione dell’art. 30, comma 15, della l. 27 dicembre 2002, n. 289 ad amministratori comunali che con una delibera del 2003, avevano violato i limiti posti dall’art. 119, comma 6, Cost., e deciso il ricorso all’indebitamento per il finanziamento di debiti fuori bilancio, rappresentati da spese di parte corrente, tutti maturati negli anni 2002-2003, come risultava dalla data dei documenti contabili, ossia dopo l’8 novembre 2001, termine ultimo, ai sensi dell’art. 41, comma 4, della l. 28 dicembre 2001, n. 448, per finanziare spese di parte corrente col ricorso all’indebitamento.
La sentenza, pur riconoscendo che i convenuti avevano deliberato il ricorso all’indebitamento per finanziare spese di parte corrente, ha rigettato la domanda della Procura, ritenendo “In definitiva” che “la quasi generalità” dei debiti contestati fossero “insorti – e quindi maturati -” antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001, “trattandosi di prestazioni o di servizi forniti all’ente locale prima dell’8 novembre 2001”.
A fondamento della decisione sul punto il collegio pone un concetto di maturazione dei debiti legato una nozione originale ed innovativa di ‘debito maturato’, utilizzando, riferito al debito, un aggettivo (“insorto” o “nato”) e sostituendolo all’altro (“maturato”), senza riuscire a chiarire il significato tecnico giuridico del nuovo concetto di ‘debito insorto o nato”.
In realtà, il significato tecnico giuridico del sintagma “debito maturato” è chiarito da un consolidato ed unanime indirizzo giurisprudenziale, secondo il quale il debito può considerarsi maturato quando il corrispettivo credito è certo, liquido ed esigibile (v. giurisprudenza richiamata sul punto nella memoria del 4 febbraio 2005, nonché ex plurimis, e limitandosi alle più recenti v.: Cass. civ., sez. III, 15 febbraio 2005, n. 2976; Consiglio di Stato, sez. V, 28 giugno 2004, n. 4748; Corte cost., 1 aprile 2004, n. 103; in particolare, con riferimento alla maturazione dei debiti che derivano dall’accertamento del diritto controverso, v. , ex plurimis, v.: SS.RR. 3/QM del 15.01.2003; quanto ai debiti derivanti da parcelle e fatture. v. SS.RR., sent. 15 gennaio 2003, n. 2/QM; Cass., Sez. I, 24 settembre 2002, n. 13859; Cons. St., sez. VI, 6 febbraio 2002, n. 665; Cons. St., A.G., 5 giugno 1997, n. 86; in termini sostanzialmente identici, C. conti, Sez. contr., 26 maggio 1993, n. 87; C. conti, Sez. contr., 20 gennaio 1992, n. 5.
In particolare, la riferita linea interpretativa è stata seguita anche dalla Corte dei conti che, intervenuta per delineare la portata applicativa proprio della norma contenuta nell’art. 41, comma 4, della Legge finanziaria 2002, ha appunto qualificato come maturati quei debiti “resi, cioè, in termini civilistici certi liquidi ed esigibili” (v. Corte dei conti, Sez. Autonomie, Deliberazione del 12 luglio 2004, n. 10, pag. 215).
Sul punto, di particolare e fondamentale rilevanza si dimostra, infine, anche l’espressa previsione normativa dell’art. 4, lett. d) del D. lgs. 9 ottobre 2002, n. 231, la quale conferma che, in mancanza di un termine di pagamento stabilito contrattualmente, la data a cui far riferimento per verificare la maturazione del debito, e quindi la decorrenza di interessi, è quella d’emissione del certificato di regolare esecuzione.
La richiamata normativa, dando attuazione alla Direttiva 2000/35/CE, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, ha stabilito infatti che anche per le pubbliche amministrazioni (art. 2, lett. b), in caso di ritardato pagamento, gli interessi moratori decorrono, automaticamente, a partire da “trenta giorni dalla data dell’accettazione o della verifica eventualmente previste dalla legge o dal contratto ai fini dell’accertamento della conformità della merce o dei servizi alle previsioni contrattuali, qualora il debitore riceva la fattura o la richiesta equivalente di pagamento in epoca non successiva a tale data” (art. 4, lett.d). Infine, sempre con riferimento ai debiti derivanti da parcelle e fatture, occorre soggiungere che al criterio legale precedente può affiancarsi quello relativo alla data dell’atto da cui proviene il debito. Infatti, anche in questo caso la legge prevede che la fattura sia emessa al momento dell’effettuazione dell’operazione (art. 21, comma 4, D.P.R. n. 633/1972), e solo in alcuni casi (forniture) comunque non oltre il 15° giorno dalla predetta data. Pertanto, la data della fattura deve essere almeno prossima a quella di effettuazione della prestazione o del servizio, che non può risalire nel tempo addirittura ad anni precedenti.
[41] La categoria è del ROCCO, L’oggetto del reato e della tutela giuridica penale. Contributo alle teorie generali del reato e della pena, Torino, 1913, utilizzata dall’Autore nell’ambito della funzione dogmatico ricostruttiva della categoria del ben giuridico sul terreno del diritto vigente.
[42] Per tale conformazione del danno erariale nella giurisprudenza della corte dei conti, v. in generale MIRABELLA M., La responsabilità nella pubblica amministrazione e la giurisdizione contabile, Milano, 2003, pag. 59 e giurisprudenza ivi richiamata.
[43] V., Servizio Studi del Senato, Le politiche di indebitamento delle autonomie territoriali, Roma, 2004.
[44] RAPISARDA, Relazione d’apertura dell’Anno giudiziario 2003, pag. 5, pubbl. sul sito istituzionale della Corte dei conti
[45] In tal senso, l’intervento del legislatore nel sistema di tutela delle risorse collettive risponderebbe ad un principio di frammentarietà. Anche in tale ambito il legislatore “tra le onde della vita quotidiana lascia giocare davanti ai suoi piedi le azione, che dopo raccoglie con mano pigna, per sanzionarle a causa della loro intollerabilità”, BINDING K., Lehrbuch des Gemeinen Deutschen Strafrechts, B.T. 1, ed. 2, Leipzig, 1902, pag. 20.
[46]Sul punto, OREFICE M. Manuale di contabilità pubblica, Roma, 2003, pag. 195 e ss.
[47] In tale prospettiva, si potrebbe considerare superata l’obiezione di ‘ritorno alla responsabilità formale’ sollevata nei confronti della norma in esame. Sul punto, GRECO S., Responsabilità per violazione del divieto costituzionale di indebitamento per finanziare spese correnti, sul sito Corteconti.it.
[48] In tal senso v., C.cost., sent. 20 novembre 1998, n. 371 (Vassalli – Vari), e C.cost., sent. 30 dicembre 1998, n. 453 (Granata – Vari).
[49] Sul punto v. ex plurimis, Cass., SS.UU., sent. n. 10508 del 06-10-1995; Cass., Sez. I, sent. n. 1142 del 11-02-1999; Cass., Sez. V, sent. n. 10607 del 04-07-2003; Cass., Cass. Sez. Lav., sent. n. 12391 del 23-08-2003
[50] V., Cass., Sez. I, sent. n. 8180 del 04-07-1992; Cass., Sez. I, sent. n. 20776 del 26-10-2004
[51] SUSANNA M., Il nuovo calcolo delle indennità di funzione e dei gettoni di presenza per gli amministratori locali, in Rivista del personale dell’ente locale, 2000, fasc. 2 (aprile), pag. 225-228; DI PALMA E., Trattamento economico degli amministratori dei Comuni, in Nuova rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 2002, fasc. 6 (16 marzo), pag. 662-663
[52] Tale realtà impedirebbe, a rigore, di qualificare la sanzione in parola come amministrativa.
La legge n. 689 del 1981, infatti, estende il principio di legalità anche alle sanzioni dalla medesima prevista, tipizzando la nozione di “sanzione amministrativa pecuniaria” (art. 10), come pagamento di una somma di denaro non inferiore a sei euro e non superiore a diecimilatrecentoventinove euro, salvo si tratti di sanzione proporzionale (comminata, cioè, con riferimento all’entità della violazione: es. un euro per ogni giorno di omessa registrazione), nel qual caso non esiste un limite massimo. Evidenti sono, al riguardo, le differenze della riferita disciplina con quella della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 30, comma 15, l. n. 289 del 2002.
Peraltro, applicando al caso di specie la legge 689 del 1981 si rischierebbe di trasformare – ineditamente - l’attività delle Sezioni giurisdizionali in un’attività amministrativa, nell’ambito della quale la Sezione avrebbe al tempo stesso la funzione di organo accertatore dell’infrazione (come organizzare, però, gli uffici d’istruzione) e di organo irrogatore della sanzione. Con la conseguenza, sul piano della tutela avverso il provvedimento sanzionatorio, che il giudizio di opposizione avverso la decisione della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti si potrebbe anche celebrare dinanzi al giudice di pace (sic!).
Inoltre, la funzione sanzionatoria delle Sezioni non potrebbe a rigore paragonarsi neanche alla potestà ‘sanzionatoria’ prevista nel Codice di procedura civile, con riferimento alle numerose norme che sanciscono il potere del giudice ordinario di comminare il pagamento di una pena pecuniaria (p. es. art. 54, comma 2; art. 67, comma 1; art. 118; art. 220, comma 2; art. 226; art. 255; art. 408; art. 476, comma 4.). Ciò perchè in quei casi il giudizio è già pendente, mentre nell’ipotesi in esame la Sezione dovrebbe poter proporre la ‘domanda sanzionatoria’ dinnanzi a se stessa, e quindi introdurre autonomamente il giudizio.
In tal caso, però, l’aporia sistematica cui darebbe luogo la scelta di configurare la sanzione in parola come amministrativa sarebbe macroscopica: in ipotesi, infatti, si configurerebbe un giudice, che invece che mantenere la propria terzietà, riassumerebbe in sé le funzioni requirenti e giudicanti, con evidente rischio di esiti scontati del giudizio.
[53] Sulle modalità di calcolo della sanzione in esame, si segnala la ricostruzione alternativa a quella qui proposta, lucidamente sostenuta da ALBO G., Self - restraint della Corte dei conti al primo vaglio della fattispecie sanzionatoria prevista dall’ art. 30, comma 15, legge 27 dicembre 2002 n. 289, consultabile sul sito www.Lexitalia.it.
[54] In relazione alla devoluzione della sanzione per il contabile renitente, v. Corte cost. 25 maggio 1999, n. 187.